Matteo Losapio, Gregorio Palamas, Crocevia d’Oriente, prefazione di Jean Paul Lieggi, Aracne (Collana Paideia), Roma 2020, pp. 210.
Tra i tesori preziosi della cultura bizantina, conservati e tramandati attraverso i secoli, il pensiero filosofico e teologico di Gregorio Palamas rappresenta certamente uno dei diamanti più splendenti. Ad esso è dedicato l’ultimo lavoro di Matteo Losapio, Gregorio Palamas, crocevia d’Oriente, che contribuisce a divulgare la conoscenza di un pensiero che, al di là degli studi specialistici e delle ricerche volte ad approfondire la conoscenza della cultura ortodossa bizantina e russa, è ancora poco conosciuto e considerato nell’ambito della cultura filosofica e teologica occidentale. Infatti ancora oggi, dopo più di settecento anni, la dottrina palamita può risultare per noi sorprendentemente nuova, e può quindi produrre effetti inaspettati se fatta interagire con il pensiero occidentale. Una prospettiva nuova che potrebbe in tal senso portare molto frutto, se appunto non la si abbandona agli studi specialistici.
Supportato da un ottimo apparato bibliografico, con il quale si fa continuamente riferimento sia agli autori presi via via in considerazione che alla letteratura secondaria, il volume di Losapio non ha «l’intenzione di essere un lavoro filologico sugli scritti di Gregorio Palamas», né vuole essere soltanto uno studio di tipo storiografico o tantomeno manualistico. Come sottolinea lo stesso autore nella conclusione, lo scopo è piuttosto «di tipo ermeneutico», ovvero cercare di «interpretare la teologia orientale attraverso lo sguardo di uno dei più grandi pensatori del Medioevo Bizantino» (p. 201). Losapio invita quindi il lettore ad una riflessione sull’esperienza religiosa che sta alla radice del contributo filosofico-teologico del pensatore e del santo greco. Ciò che si vuole mettere in atto «non è tanto un approccio pedissequo alle questioni dottrinali di Palamas, quanto uno scendere dentro la sua esperienza di fede, e provare a metterla in dialogo con le esperienze a lui precedenti e successive». Da qui deriva l’idea, che dà l’impronta a tutto il libro, di Palamas come «crocevia di strade e storie» (p. 20), perché egli è effettivamente il punto d’arrivo di una tradizione e di un’esperienza ripetuta e prolungatasi nel tempo, ma anche, allo stesso tempo, un punto di partenza originale per il sorgere di nuove forme della medesima esperienza e di nuove riflessioni su di essa. Il suo pensiero è dunque un luogo di sintesi di quanto proveniente dal passato, da cui poi si dipanano vie originali e innovative del pensiero che leggono il presente e si slanciano verso il futuro. Crocevia, quindi, tra il passato e il futuro della tradizione ortodossa, ma anche crocevia del possibile dialogo e incontro tra Oriente e Occidente.
Nell’introduzione l’autore mette subito in evidenza il cuore dell’insegnamento teologico di Palamas, cioè la distinzione tra l’essenza di Dio e le sue energie increate, ovvero «ciò che la Trinità comunica di sé e a cui ogni essere umano può partecipare» (p. 17), una distinzione su cui Palamas continuò a riflettere lungo tutta la sua vita in relazione alle diverse dispute teologiche che lo videro coinvolto. Dai suoi scritti emerge infatti come l’esperienza religiosa che l’uomo può vivere sia un incontro reale con Dio, certamente non nella sua Essenza, che rimane sempre oltre la nostra capacità di visione e di nominazione, ma nella sperimentazione concreta della sua presenza e dell’agire vivificante delle sue energie. Senza mai esaurirne la Sostanza, esse sono Dio stesso, da cui si distinguono senza mai separarsene, così come dei raggi solari possiamo dire che sono il sole e del calore possiamo dire che è il fuoco da cui promana.
L’architettura dei tre capitoli che seguono, e in cui il libro è suddiviso, cerca di rendere plasticamente l’immagine del crocevia e del pensiero palamita quale «teologia d’incrocio» attraverso uno sguardo «retrospettico» prima, volto ad individuare le principali fonti di Palamas, e «prospettico» (p. 19) poi, per cogliere il modo con cui il suo pensiero viene assorbito e rielaborato nel pensiero contemporaneo. Ma prima di seguire questi due sentieri, il primo capitolo si sofferma a riflettere sul “centro” di questo crocevia, ovvero sullo stesso Palamas quale «uomo, monaco, teologo, vescovo» (p. 60). L’analisi si snoda attorno a tre luoghi che esprimono in maniera emblematica la vita, il pensiero ed anche il ministero di Palamas: Bisanzio, il Monte Athos e Tessalonica. Il primo rappresenta il luogo delle dispute teologiche, che spinsero Palamas a precisare sempre meglio il suo pensiero sulla natura delle energie divine. Rispondendo alle accuse che Barlaam rivolgeva ai monaci esicasti e alla pratica della “preghiera del cuore”, Palamas mise in risalto come Dio rivelandosi renda possibile all’uomo di partecipare alla sua deità, cioè non all’essenza della Trinità ma alla sua vita divina che si rivolge al mondo vivificandolo. «Il punto di partenza di Palamas e di tutta la tradizione monastica ed esicasta è proprio quello di poter fare esperienza di Dio, in quanto Dio stesso si è rivelato. E per spiegare la differenza fra l’essenza di Dio e la sua rivelazione, Palamas utilizza il termine θεότης, deità» (p. 29). Ciò che in questo processo partecipativo rimane sconosciuto all’uomo è l’essenza di Dio, mentre la deità è propriamente un nome dell’energia increata che proviene dall’essenza, vivifica il mondo e permette la deificazione dell’uomo. Ciò non toglie che «l’impianto teologico di Palamas si fonda sulla consapevolezza dell’apofatismo di Dio. Nella sua natura Dio è inconoscibile, inaccessibile, incomprensibile, e noi non potremmo avere nessuna conoscenza di Dio se non per rivelazione» (p. 35). Esempio supremo di questa esperienza di partecipazione alla divinità, nella polarità tra conoscibile e inconoscibile, partecipabile e impartecipabile, rimane l’episodio evangelico della Trasfigurazione, durante il quale i tre apostoli presenti poterono essere riempiti delle energie increate promananti quale luce dal corpo di Cristo. La luce è infatti la più eloquente manifestazione delle energie.
Il secondo luogo, il Monte Athos, è il simbolo dell’esperienza religiosa sottesa alla dottrina palamita e suo fondamento, in particolare dell’esperienza monastica e della spiritualità esicasta. La teologia palamita costituisce infatti una integrazione dogmatica della tradizione esicasta, dal momento che «l’esperienza si collega alla conoscenza teologica, per cui non si può dire nulla su Dio se non ciò di cui abbiamo fatto noi stessi esperienza, in prima persona» (p. 47). Infatti Palamas non ha fatto altro che riflettere sistematicamente sulla conoscenza spirituale di Dio che egli stesso aveva sperimentato sull’Athos.
Il terzo luogo, la città di Tessalonica, rappresenta il ministero episcopale a cui Palamas fu chiamato e che svolse tramite il servizio pastorale, di cui sono segno eloquente le tante omelie conservate, ma anche tramite il «servizio alla cultura e al pensiero della sua epoca chiarificando e spiegando sempre più sia la sua teologia sia il metodo esicasta» (p. 50). Di ciò resta testimonianza anche nelle lettere che scrisse a monaci e filosofi del suo tempo. Questo dimostra come l’elaborazione teologica di Palamas non sia astratta apologetica, né abbia soltanto bisogno di confrontarsi con la vita monastica, ma è rivolta anche alla vita di tutti i giorni, alla vita di «coloro che non sono monaci» e che costituiscono «il popolo che gli è stato affidato» (56). Tutti gli uomini sono infatti chiamati a realizzare la somiglianza a Dio nella divinizzazione.
Lo sguardo retrospettivo che si sviluppa lungo tutto il secondo capitolo individua quattro fonti principali della riflessione palamita in Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore, Simeone il Nuovo Teologo e Gregorio il Sinaita. L’apofatismo del primo rappresenta la fonte principale del palamismo. Infatti la distinzione che Dionigi opera tra la trascendenza di Dio e la sua rivelazione, tra l’inconoscibilità dell’essenza di Dio e i suoi nomi, «farà da intelaiatura filosofica a tutto il pensiero di Palamas» (p. 69) sulla distinzione senza separazione fra la sovraessenzialità divina e le divine energie increate. Ciò rende esplicita anche la vera natura dell’apofasi, che non può mai ridursi a mera negazione della conoscenza di Dio, dal momento che nella polarità tra conoscibile e inconoscibile la teologia apofatica non può che essere al tempo stesso «anche una teologia catafatica, dove la vera conoscenza scaturisce da un incontro con la Trinità» (p. 70). Losapio sottolinea infatti come nessuna nostra affermazione sia in grado di comprendere e spiegare totalmente il mistero di Dio, per cui il procedimento dell’esperienza non è quello affermativo ma appunto quello apofatico, dove però «l’apofatismo non è solo un dire ciò che Dio non è, ma è soprattutto uno spogliarsi di tutte le precomprensioni di Dio, entrare nella nube oscura della non conoscenza», perché è proprio tale non-conoscenza che «ci permette di entrare nella luce divina e contemplare la sua bellezza» (p. 80), permettendoci altresì di poter sempre parlare di ciò che esperiamo.
Massimo il Confessore rappresenta invece una fonte spirituale di Palamas, soprattutto per essere riuscito ad unire «la contemplazione alla riflessione, la vita spirituale con il pensiero», offrendo così un «approccio spirituale» (p. 80) alla teologia di Palamas, ma anche un’adeguata base teologica. Per Massimo «l’Incarnazione è la chiave della divinizzazione dell’essere umano» (p. 82), tema centrale anche per Palamas, divinizzazione che avviene per somiglianza a Dio e unione con Lui. Quest’ultima, però, «non è una conquista umana ma è una grazia, un dono divino. Il Confessore chiama questa grazia teologia mistica» (p. 86), ovvero non solo la conoscenza delle dottrine, ma una relazione personale con la Trinità, riletta da Palamas attraverso la distinzione tra essenza ed energie. Ancora una volta, dunque, il punto è fare esperienza di Dio più che averne una comprensione astratta. Un vissuto che, come afferma Palamas, diventa «godimento sconfinato dell’esperienza di Dio» (p. 89), nell’incontro con Lui reso appunto possibile dalla mossa della libertà umana all’interno della teologia mistica.
Anche il contributo di Simeone il Nuovo Teologo trova il suo perno nell’esperienza mistica come unione con Dio, sebbene egli non ponga una distinzione tra essenza ed energie come invece fa Palamas. Eppure il nesso tra i due è ben evidente. Infatti, il palamismo è una chiara assimilazione teologica della mistica di Simeone, dove ancora una volta dobbiamo prendere atto del primato della contemplazione sulla conoscenza, quella contemplazione che permette di cogliere la luce delle energie divine. Infatti, «proprio il tema della luce è centrale nella riflessione di Simeone» (p. 98) così come lo ritroviamo poi presente in Palamas. La luce, infatti, è manifestazione oggettiva di Dio, è il mezzo della deificazione dell’uomo per opera delle energie divine increate.
Con Gregorio il Sinaita, contemporaneo di Palamas, «il metodo esicasta è diventato la sintesi e la rinascita spirituale del monachesimo bizantino» (p. 109), di cui Palamas rappresenta a sua volta la massima espressione teologica. Espressione della tradizione neptica, ovvero dell’attenzione alla vigilanza del cuore come punto focale della preghiera esicasta, il suo pensiero si pone al tempo stesso in stretta connessione con la riflessione dogmatica quale «elemento di verifica della propria esperienza spirituale» (p. 110). Partendo dal dogma cristologico e trinitario, vissuto personalmente e dunque accettato confessionalmente, è possibile partecipare alla vita divina attraverso le energie divine che ci giungono per mezzo dello Spirito Santo. Rispetto a questo la pratica esicasta, a cui Palamas fornisce la strutturazione teologica, è l’esercizio che prepara il cuore dell’uomo a ricevere la luce della divinizzazione.
Prima di parlare dell’eco che il contributo di Palamas ha avuto per la teologia orientale, Losapio ricorda come tutto ciò non significhi rifarsi soltanto «ad un sistema filosofico o ideologico», quanto piuttosto «incontrare volti, nomi e storie di persone che hanno vissuto la loro santità accompagnati dal pensiero palamita» e dall’esperienza esicasta. Perciò nel terzo capitolo, prima di individuare quattro possibili snodi del palamismo in altrettanti pensatori della rinascita religiosa russa, l’autore delinea brevemente tre figure della tradizione ortodossa «che ci permettono di conoscere la teoria elaborata da Palamas a partire dalla prassi»: lo starec, lo jurodivije e lo strannik (p. 123). Di seguito, come ulteriore gradino utile ad introdurre la riflessione successiva, l’autore inserisce un breve ritratto di Serafino di Sarov e Vladimir Solov’ëv, due figure di prima grandezza che a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo hanno fortemente stimolato la rinascita dell’esperienza contemplativa da un lato, e della riflessione filosofica e teologica dall’altro, unendo in tal modo il vissuto mistico al pensiero filosofico. Losapio individua infatti una vicinanza tra l’esperienza e la riflessione di Serafino di Sarov e Solov’ëv con il pensiero di Palamas e la sua descrizione della divinizzazione per mezzo della partecipazione alle energie increate di Dio, sottolineando così una continuità, pur nelle differenze, all’interno della tradizione russa, che porterà alla rinascita del pensiero filosofico e teologico con l’avvento del XX secolo.
A questo punto viene individuato il primo vero e proprio snodo filosofico del pensiero di Palamas nel pensiero e nelle opere di Pavel Florenskij, nelle quali abbiamo una prima reinterpretazione del palamismo nel Novecento. L’autore de La colonna e il fondamento della verità torna a porre al centro della sua riflessione il tema della luce, quella stessa luce trasfigurante che, tenendo insieme «Verità e Bellezza», risplendette sul Tabor permettendo ancora oggi che la nostra conoscenza sia «allo stesso tempo estatica ed estetica» (p. 142). Ma Florenskij continuerà ad utilizzare la distinzione palamita tra essenza ed energie anche negli scritti posteriori, utilizzandola come chiave ermeneutica non solo in ambito teologico ma, ad esempio, anche in quello estetico. Infatti, «la luce che Palamas attribuiva all’energia increata di Dio» diviene per Florenskij «l’elemento che caratterizza, principalmente, l’opera d’arte iconica», motivo per cui al tempo stesso l’arte «diviene ermeneutica della teologia» (pp. 144-145). Ma anche negli scritti dedicati alla riflessione sul linguaggio, il filosofo russo torna a distinguere tra la lingua come érgon, prodotto finito, e la lingua come attività o energèia, il che ci riconduce immediatamente al pensiero palamita. La concezione florenskijana del linguaggio si intreccia direttamente con la polemica sull’esicasmo, esplosa nuovamente in Russia all’inizio del Novecento dopo che era stata al centro della disputa che aveva visto Palamas fronteggiare Barlaam. La necessità di cogliere a pieno il valore ontologico del Nome di Dio spingerà dunque Florenskij «ad approfondire il significato simbolico del linguaggio in un campo più specificatamente teologico» (p. 149), tornando così a riflettere ulteriormente sulla concezione palamita delle energie. Ma l’esito più bello del riverberarsi del palamismo nella speculazione di Florenskij è certamente la sua concezione del simbolo. Losapio infatti sottolinea come «nella prospettiva florenskijana possiamo riconoscere come la teologia palamita abbia avuto senso e significato in una rielaborazione filosofico-simbolica in grado di dialogare con la cultura del Novecento e oltre» (p. 151). Agli occhi del filosofo russo «tutto il mondo è tenuto in essere dall’energia divina a cui l’essere umano offre la propria attività, una sinergia», ed è esattamente questa dinamica che ci fa comprendere come la nostra conoscenza non possa essere altro che «simbolica, dove il simbolo fenomenizza il noumeno e noumenizza il fenomeno» (p. 148). Ne sorge «una visione integrale della realtà che ha come suo fondamento epistemologico Cristo stesso», punto di massima sinergia tra l’umano e il divino. «Non si tratta, dunque, di giustificare teologicamente la realtà o affermare una visione dottrinale a partire dai dogmi della fede, ma di fare esperienza dello spessore vivente del mondo, senza appiattirlo sul visibile o solo sull’utile. La visione del mondo simbolica, dunque, è una visione cristiana del mondo non come assunto di fede, ma come esperienza concreta del reale» (p. 151).
Amico di Florenskij, Sergej Bulgakov rappresenta invece uno snodo sofiologico di Palamas. In Luce senza tramonto egli affronta, tra le altre cose, anche il pensiero palamita in relazione alla riflessione sull’esperienza apofatica di Dio. Losapio fa notare come la riflessione sulla differenza fra essenza ed energia, centrale in Palamas, è utile a Bulgakov «come base strutturale per la sua elaborazione della Sapienza divina» (p. 155). Ciò che Bulgakov chiama Santa Sofia è Dio che, pur rimanendo inaccessibile nella sua sostanza, si rivela all’uomo uscendo da sé nell’esteriorità di una «vita sofianica che permette all’essere umano di partecipare alla vita divina» (p. 156). Mediatrice e spartiacque tra l’umano e il divino, la Sofia è appunto l’energia divina trinitaria che si rivela all’esterno della Trinità, nel mondo, sicché è evidente come «Bulgakov utilizzi l’idea di energia di Palamas per intessere una complessa sofiologia che guarda la Sofia da diverse angolazioni, ri-centrandola sempre fra il mondo finito e l’umano» (p. 157). Questo complesso lavoro ermeneutico compiuto da Bulgakov ci mostra come la differenza posta da Palamas tra l’essenza e le energie abbia «bisogno continuamente di essere rimessa in gioco», continuando così a portare frutti nuovi, ma sempre tenendo ferma l’idea della «medianità delle energie divine» (p. 158).
Tra i maggiori interpreti e divulgatori del pensiero di Palamas incontriamo poi Vladimir N. Losskij. Punto d’avvio della sua riflessione è ancora una volta l’apofasi. Tuttavia, come fu già per l’Areopagita, anche per Losskij «l’apofatismo non è solo un modo di fare teologia, un modo per pensare Dio, ma è la teologia stessa», ovvero è «la via per arrivare a Dio, l’unione stessa con Dio» (p. 168), che nella sua essenza rimane inconoscibile e al di là di ogni nome possibile, se non nella misura di ciò che Egli stesso rivela. In linea quindi con l’insegnamento di Palamas, anche per Losskij la teologia negativa è la via autentica per giungere a Dio, ma sempre tenendo conto del legame decisivo che la teologia stringe con l’esperienza mistica, ricongiungendo ancora una volta la riflessione con l’esperienza nella forma della teologia mistica, che permette di giungere alla contemplazione della Trinità. La teologia apofatica diviene infatti catafatica nel momento in cui l’esperienza mistica ci permette di cogliere non l’essenza sovrasostanziale della Triunità divina, ma la sua deità rivelata nelle energie. Pertanto, «il merito di Losskij consiste nell’aver risistematizzato la dottrina dell’essenza e delle energie» in modo da esplicitare al meglio che «ogni esperienza divina ha come suo fondamento la distinzione, senza separazione, dell’essenza dalle energie divine», comunicando così con il «mistero di un Dio Uno e Trino» (pp. 174-175). A partire da questa esperienza, come già affermato nella tradizione, anche in Losskij si gioca la possibilità per l’essere umano di comprendere adeguatamente il rapporto tra l’immagine di Dio inscritta in lui e la somiglianza che egli è chiamato a realizzare nella propria libertà, nel duplice rapporto con l’economia del Figlio e con l’economia dello Spirito.
Il quarto ed ultimo snodo del pensiero di Palamas è individuato nella riflessione di Pavel N. Evdokimov, di cui l’autore sottolinea l’importanza tanto nello sviluppo della teologia ortodossa quanto nel dialogo ecumenico fra Oriente e Occidente. Anche per Evdokimov la vita spirituale «è la vita mossa dallo Spirito», ovvero «la relazione libera dell’essere umano con le energie deificanti dello Spirito» (p. 188), libertà che realizza la somiglianza o la dissomiglianza con Dio prendendosi cura o meno dell’immagine divina inscritta nel cuore dell’uomo. È a questo livello che, riprendendo il pensiero palamita, si torna ad evidenziare come l’uomo possa non solo riflettere la luce divina delle energie, ma divenire quella stessa luce. Tutto ciò per Evdokimov si collega all’«urgenza del dialogo ecumenico fra Oriente e Occidente, perché la comunione ecclesiale», nella quale si realizza la deificazione dell’uomo, «è visibile nell’unità della Chiesa» (p. 194). Perciò, più e oltre che desiderio di concordia, l’autore sottolinea che «il vero ecumenismo, il vero cammino dell’unità delle chiese, è un cammino di unificazione dell’essere umano con Dio, un tentativo costante di intrecciare la libertà umana con la grazia divina, nella pluralità delle forme storiche e teologiche» (p. 195). Infatti, «il vero ecumenismo, il vero cammino di unità delle chiese, è un cammino di unificazione dell’essere umano con Dio, un tentativo costante di intrecciare la libertà umana con la grazia divina, nella pluralità delle forme storiche e teologiche» (p. 195). Perciò, questa «chiamata alla santità» è sempre «la chiamata alla deificazione», intesa come «riscoperta dentro di sé dell’immagine/icona che viene illuminata dalle energie divine, che si lascia trasfigurare dalla luce» (p. 198). Santità è dunque irraggiamento luminoso delle energie divine nell’uomo, «in attesa di quella che Evdokimov chiama epiclesi ecumenica che spinge verso una ri-conciliazione e un dialogo, fatto di storie e di vissuti». Attraverso questa ermeneutica della riflessione palamita Evdokimov non cerca più «gli spunti di divergenza fra il pensiero orientale e quello occidentale», ma punta invece «sulla preziosità delle intuizioni delle differenti tradizioni, alla riscoperta di un cammino dialogante, verso l’unità» (pp. 199-200).
Giunti alla fine di questo complesso percorso, in cui abbiamo visto intrecciarsi una molteplicità di sentieri intorno al centro della dottrina palamita, ci sembra di poter cogliere il filo rosso che fa da tema di fondo del libro di Losapio nel ruolo fondamentale giocato dall’esperienza personale come unico punto di partenza della riflessione teologica, ma anche – e questo è peculiare della tradizione patristica e ortodossa – come essenza stessa della teologia. La teologia è infatti esperienza vissuta e non studio astratto o dogmatismo. È questo l’elemento di base che accomuna tutti gli autori chiamati in causa da Losapio e che trova un potente compendio e simbolo nell’esperienza esicasta e nella sua esplicazione teologica offertaci da Palamas. Non può quindi che essere un elemento che riemerge continuamente lungo tutto il libro, fin dall’introduzione: «La teologia, secondo l’idea dei Padri e di Palamas, non si collega ad una spiegazione sistematica di teorie, ma germoglia dall’esperienza stessa, tanto che non si può parlare di teologia senza tenere insieme esperienza di Dio e riflessione. Anzi, il primato fra le due spetta all’esperienza, tanto che la riflessione è, appunto, un rispecchiamento dell’esperienza» (p. 16). La spiritualità dell’esicasmo dei monaci dell’Athos ci mostra proprio la possibilità dell’unione tra esperienza di Dio e riflessione teologica, resa possibile dalla luce delle divine energie increate attraverso cui Dio si rivela e si fa conoscere nella nostra esperienza. Nel costante riferimento ai Padri e alla tradizione, la riflessione filosofico-teologica elaborata alla luce della Rivelazione punta infatti «verso una chiarificazione maggiore dell’economia trinitaria in riferimento all’esperienza», proprio in quanto tra le principali caratteristiche della teologia bizantina c’è la volontà «di unire l’esperienza con la riflessione, la speculazione con l’esercizio ascetico, la mistica con il pensiero. Ed è questa unione che determina propriamente la teologia» (p. 62). Le energie increate di Dio sono allora il punto di equilibrio tra i due poli, l’elemento che portando all’uomo la rivelazione di Dio, gli permette di farne esperienza senza che possa mai esserci autentica esperienza senza una sua adeguata comprensione ed esplicazione nel pensiero. «In questa prospettiva, dunque, ciò che maggiormente conta non è semplicemente l’insieme delle dottrine concernenti l’ortodossia in quanto tale, ma l’esperienza stessa di Dio, l’esperienza che diviene unione con il divino» (p. 88). Come ci mostra la figura stessa di Palamas, il teologo non è dunque «colui che scrive trattati o saggi, ma colui che vive alla luce dello spirito». Perciò, «se volessimo dare un’immagine del teologo, egli è colui che viene scolpito dallo Spirito, […] colui che nell’esperienza spirituale conosce Dio, entrando in dialogo con lui. La teologia, quindi, non è primariamente una materia accademica come la intendiamo oggi, quanto un’arte di vivere che unisce teoria e prassi, sotto la guida della luce, verso la bellezza» (pp. 100-101). Essa è «l’ingresso della luce divina nel cuore dell’uomo» (p. 115), ovvero la divinizzazione dell’essere umano. Occorre dunque concludere che non può esserci «separazione fra esperienza e riflessione come non c’è separazione fra mistica e teologia» (p. 169). In questa prospettiva si sviluppa la grande tradizione di pensiero filosofico e teologico dell’ortodossia, è questo in fin dei conti il suo grande insegnamento: nel dramma della sua libertà l’uomo è invitato a partecipare a Dio che si rivela per compiere il disegno inscritto nell’immagine divina posta nel cuore dell’uomo.
Il merito dello studio di Losapio è quello di invitarci a questa esperienza/conoscenza che per quanto sia antica, a noi oggi appare “nuova”. Infatti Palamas, e con lui tutti coloro il cui pensiero converge nella sua dottrina e tutti coloro che hanno trovato in lui un ricco punto di partenza, ci rivela uno sguardo contemplativo sul mondo che noi, dopo secoli di imperante razionalismo e a seguito dell’assuefazione al dominio della tecnica, abbiamo smarrito. Uno sguardo che per forza di cose ci apparirà nuovo, e forse anche strano, ostico per la nostra comprensione. L’invito è infatti a “provare” e vivere in prima persona quanto si afferma, e non ad una teoria o allo studio di una dottrina. In altri termini, è l’invito ad una comprensione che possa nascere da una esperienza, entrambe nuove e innovative, insolite rispetto ai modelli che diamo per scontati, ma non per questo meno vere. Come è stato per la rinascita della cultura russa di inizio Novecento, ed in particolare per la filosofia religiosa, reimparare a cogliere nel mondo le energie increate di Dio e contemplarle nella propria esperienza, aprirà di certo una prospettiva nuova sul reale, che non mancherà di dimostrare altresì la perenne attualità del pensiero di Gregorio Palamas, anche dinanzi ai gravi problemi del mondo presente.