Deinòn, la percezione originaria del sacro

Pollà tà deinà

Molte sono le cose tremende1

1. Introduzione

Che cosa accade all’uomo quando vede e incontra le cose? Cosa è accaduto quando questo incontro si è verificato per la prima volta? Qualsiasi forma di cultura originale espressa dall’uomo, dai livelli più arcaici della sua evoluzione a quelli più recenti e complessi, esprime più o meno esplicitamente la prima esperienza di impatto e di incontro che l’essere umano ha vissuto e vive nel suo rapporto con il mondo. Grazie ad essa diviene consapevole della realtà circostante, di sé all’interno di essa, e può giungere ad intuire e percepire il significato profondo di tutte le cose. In forza di essa l’uomo ha cominciato a trovare una risposta alle domande emergenti dal colpo che è per lui la realtà. Il cominciamento, il grande inizio, è dato infatti dall’incontro tra le cose e l’io.

Tra tutti i fenomeni […] il phainesthai (l’apparire) è quello che desta più meraviglia (admirabilissimum) […] sì che, se è vero che i fenomeni sono il principio della conoscenza di tutto il resto, bisogna dire che la sensazione sia il principio per conoscere gli stessi principi […].2

Ci sono le cose, ed è questo il nodo di fondo, il grande mistero che mai può essere dato per scontato. È evidente come il cominciamento sia la presenza di qualcosa nel campo dei miei occhi, l’esistenza di qualcosa che inevitabilmente e irresistibilmente mi colpisce. In questo senso possiamo affermare che la cosa è un fenomeno nel senso che si realizza sempre come «ciò che fáinetai, che appare» e in ciò si rende manifesto come «qualcosa che possiede un’essenza».3 Di conseguenza, il primum, l’esperienza pura,4 è la sensazione, non tanto da un punto di vista semplicemente soggettivo, ma come manifestazione più elevata dell’unità dell’esperienza intesa come l’insieme di ciò che si pone: le cose in cui mi imbatto e me stesso tra di esse. Non appena l’uomo ne prende in qualche maniera coscienza, ciò genera una profonda e inestricabile compenetrazione tra le cose e l’io.

Così il primo atto della conoscenza del fenomeno, quello che regge tutti i successivi e diviene sempre più profondo, è un guardare e un vedere. Il mio sguardo vede l’essenza, ed è così che essa attesta se stessa. L’essenza è «evidente» (evident), guarda verso l’esterno: guarda, ed è solo il suo guardare che rende possibile il mio stesso guardare, anzi lo sollecita. Con la sua peculiarità, con il fatto che è ciò che è, colpisce la ricettività del mio occhio. Con la forza del suo significato condiziona i miei sensi, mi si affida. Guardando io mi rapporto a questa auto-comunicazione in modo ricettivo; obbedisco a questo comando della sensibilità. Ma questo significa, infine, che il processo del vedere non è meccanico, non è un semplice rispecchiare e riprodurre fotograficamente la realtà. Significa piuttosto che l’apparire dell’essenza e la comprensione di ciò che appare, il guardare verso l’esterno e il guardare verso l’interno, devono pervenire ad un’intesa.5

Per esprimere l’effetto di tale impatto e compenetrazione sull’uomo, la tradizione filosofica occidentale, da Platone e Aristotele in poi, ha utilizzato il termine ed il concetto di meraviglia.6 Ciò che però si poteva intendere con questo termine nell’epoca classica della filosofia greca è già il frutto di un secolare cammino culturale che attraverso il sorgere e l’affermarsi dell’esperienza del filosofare, attraverso l’esperienza del mito con il suo fondo neolitico e prima ancora paleolitico, trova le proprie radici nel primo sorgere della coscienza umana di cui rinveniamo le tracce più antiche nell’Homo habilis.7 Il tentativo che si vuole fare in questa sede, pur nella consapevolezza della vastità smisurata dell’argomento, è quello di gettare su questa esperienza primordiale uno sguardo che ne possa illuminare almeno in parte la dimensione fondamentale per permetterci di cogliere la totalità originaria – oggi spesso dimenticata – dell’esperienza umana in quanto tale.

2. Phainesthai, l’apparire delle cose e l’emergere del sacro

Il nodo primordiale e primario dell’esperienza elementare dell’essere sta nel fatto che la realtà appare – phainesthai – e appare per noi che, ente tra gli enti, siamo, però, anche l’ente che pensa e che, accorgendosi dell’apparire delle cose è in grado di recepire tutta la loro potenza. Ma, potenza vuol dire anche e soprattutto percezione della sacralità del reale: «La realtà si manifesta, per la mentalità arcaica, come forza, efficacia e durata. In questo modo, il reale per eccellenza è il sacro; poiché solo il sacro è assoluto, agisce efficacemente, crea e fa durare le cose».8

Da dove è partito il cammino della coscienza, del pensiero, dell’immaginario, della riflessione sul sacro? La risposta a questa domanda è chiara. Sono le manifestazioni del cosmo che hanno permesso e stimolato quel cammino. […] Da quando è un uomo erectus, ha contemplato la volta celeste, il sole, la luna, gli astri. Ha ammirato il fenomeno misterioso della vegetazione, degli alberi, delle foreste, della primavera, dell’estate, dell’autunno, la crescita, la maturazione, i frutti. Vede che il cosmo comporta un eterno ritorno. Ha potuto osservare per tutta la giornata i paesaggi, le montagne e i laghi, le pianure e i fiumi. Ogni giorno assiste al sorgere, alla corsa e al tramonto del sole. È testimone della crescita e della decrescenza della luna. Approfittando di questa moltitudine di manifestazioni dell’ambiente, l’uomo ha cercato e cerca sempre di capire le strutture del reale e la propria condizione umana nel cosmo.9

In questo modo veniamo a scoprire una dinamica umana e culturale che ci chiede innanzitutto di essere accettata per poter essere compresa adeguatamente: il primo impatto iniziale con la realtà cosmica, questa prima esperienza che ha suscitato la coscienza e l’ha risvegliata facendo emergere la capacità di cultura dell’uomo, la sua creatività e la sua immaginazione, assumono immediatamente la tonalità dell’esperienza religiosa e lo stupore di cui è piena si dimostra essere lo stupore di fronte al sacro. Secondo lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade10 la fondamentale esperienza dell’incontro con la presenza che la realtà è trova una sintesi nell’immagine, divenuta per il suo valore immediatamente simbolica, della volta celeste in cui si compendia in tutta la sua potenza l’esperienza del phainesthai. La prima grande scoperta che l’essere umano ha fatto, a partire da quando possiamo a tutti gli effetti definirlo homo, è derivata dalla visione della volta celeste.11 Non appena l’uomo ha potuto sollevare il capo e alzare gli occhi verso l’alto ha fatto la sua più grande scoperta, ha visto il cielo e si è accorto della sua grande potenza. Il senso di realtà, di datità e di alterità emergenti già dal rapporto con l’ambiente orizzontale e terrestre si ritrovavano esaltati e potenziati nella verticalità del cielo che avvolge e abbraccia ciò che l’uomo percepisce come il proprio ambiente. È la visione del cielo che dà una profondità incalcolata e incalcolabile a tutto il phainesthai, e lo stupore provato di fronte alla sua potenza mutevole e cangiante ha davvero tolto il fiato a chi lo ha ammirato per la prima volta. In forza di questo sguardo e di questa visione l’uomo si è scoperto uomo e ha preso il via ogni esperienza che possa dirsi realmente umana, ogni cultura.

[…] ritto in piedi, infatti, l’uomo è stato capace di contemplare la volta celeste e vi ha scoperto il movimento astrale.

Si tratta di un’esperienza fondamentale, attraverso la quale l’uomo ha percepito la differenza tra il cielo e lo spazio terrestre nel quale si svolge la sua vita quotidiana. La contemplazione della volta celeste ha prodotto nella coscienza dell’uomo arcaico il simbolismo della Trascendenza e della Sacralità, per mezzo del quale egli ha scoperto una Realtà che oltrepassa il mondo in cui vive.12

L’esperienza umana e, di conseguenza, la concezione che l’uomo si fa del mondo, della vita, e del suo posto nel cosmo, le molteplici espressioni della cultura, tutte le domande a cui l’uomo da sempre cerca con tenacia di trovare risposta, partono dalle manifestazioni dell’essere nel cosmo. Ed è evidentemente superfluo sottolineare che il phainesthai non è un concetto astratto, un’astrazione della mente o una sua proiezione, perché ha, al contrario, tutte le caratteristiche di una esperienza concreta, anzi, dell’esperienza per eccellenza.13

Supponiamo che sia notte. Qualcuno osserva la campagna silenziosa. Sopra di lui la vòlta immensa dello spazio. Da tutte le parti brillano le stelle e le costellazioni. Forse il cielo è così luminoso che costui ha la sensazione di percepire corpi astrali reali […]. Che cosa «vede» allora? Può darsi che gli vengano in mente fatti astronomici […]. Può darsi, invece, che sia toccato il suo senso della storia […]. Può darsi che egli percepisca la bellezza che regna in tutto ciò e pronuncerà una parola poetica […]. Forse al cospetto di quelle potenze silenziose, pronuncerà anche il nome di una persona che gli è cara […] ma si sarebbe forse esaurito con tutto ciò quello che affiora alla sua coscienza?

Non ancora. Di fronte alle immagini luminose […] nel silenzio e nell’immensità dello spazio può crescere qualcosa di diverso da tutto quello che è dicibile a partire dalle cose. Qualcosa che ammutolisce colui che ne fa esperienza. Se egli ne deve parlare, allora deve cercare le parole, e questa ricerca tradisce già la particolarità del suo oggetto. Dirà: è solenne, è misterioso, è eterno, è – ed ora egli arriva al punto essenziale – sacro. Dalla grandezza, dallo scintillio luminoso e dal silenzio verrà, in modo particolarmente toccante, il «sacro».14

3. Deinòn, lo stupore e la natura inquietante del sacro

La parola che per prima possiamo individuare nell’ambito della cultura greca al fine di descrivere nella sua radice più profonda l’essenza di ciò che provoca lo stupore primordiale e il pàthos attraverso cui l’uomo ha cominciato a partecipare alla potenza del phainesthai è la parola deinòn.

L’esistenza è grandiosa, stupenda, terribile, enigmatica e molte altre cose ancora: ma è anche piena di contraddizioni e persino strana. E non solo suscita il grande stupore, la meraviglia delle altezze e delle profondità, l’essere colpiti dalle essenze, ma anche il sentimento affine, cioè la sensazione dello strano, dell’inadeguato, del complicato. E l’uno sta nell’altro, il grande si intreccia col piccolo, il grandioso col meschino.15

La percezione e l’esperienza del deinòn, del tremendo, della violenza dell’essere, è qualcosa di complesso e sfaccettato che appartiene ormai agli strati più profondi dell’essere dell’uomo e di cui è sempre più difficile prendere coscienza. Questo spiega la grande difficoltà per l’uomo di oggi, lontano da un rapporto diretto con le potenze della natura, ad averne una idea adeguata per come, ad esempio, traspare attraverso i racconti e le storie del mito che, per noi, hanno perso la loro potenza e verità originarie. Nonostante questo,

in momenti particolari succede anche a noi che di fronte ai fenomeni di ciò che ci circonda, siano essi alberi, animali, monti, acque, avvenimenti celesti, o le condizioni e gli eventi della vita umana, ci troviamo come afferrati e proviamo un brivido, come se dal suo abisso volesse rivelarsi qualcosa che oltrepassa ogni nostra conoscenza e comprensione. Ancora oggi forme della natura come gli alberi, gli animali, e altre ancora, ci servono come simboli per tutto ciò che è grande e sacro, e sono così pur sempre una testimonianza della verità del mito.16

Per questo motivo il mito continua ad affascinarci e a parlarci, evocando in noi qualcosa che, però, non riusciamo più a comprendere. In conseguenza di questa difficoltà, si riduce molto facilmente l’impatto primordiale con la realtà che appare riconducendolo ad una esperienza di terrore, quasi come se la reazione naturale dell’uomo che per la prima volta si imbatte nel mondo e nelle cose fosse la paura, e come se la negatività fosse la tonalità propria di questa esperienza. Le molteplici espressioni culturali dell’uomo che nascono da questo impatto, tra cui il mito e le diverse forme di religiosità, non sarebbero altro che il tentativo, più o meno cosciente, di esorcizzare e sublimare la paura originaria, «quel profondo orrore che noi troppo unilateralmente designiamo con paura, mentre è ad un tempo la più solenne e sublime disposizione d’animo».17 Certamente è innegabile che la paura e l’orrore facciano parte dello stupore primordiale di fronte alla potenza del phainesthai. Ciò che si manifesta all’uomo apparendo è tale nelle sue dimensioni e nella sua portata ontologica che non permette di ipotizzare nessun tipo di confidenza con l’essere umano. È però altrettanto certo che paura e terrore non sono le uniche sensazioni di cui esso si compone o, comunque, non vanno intese in maniera unilaterale dal momento che un’altra sua componente fondamentale è il fascino da cui l’uomo si sente immancabilmente afferrato. Per cui nello stesso tempo si è attratti e impauriti.

La parola deinòn è ambigua, di quella inquietante ambiguità del dire dei Greci che pervade le contrastanti contrapposizioni dell’essere.

Da un lato deinòn designa il terribile, lo spaventoso, ma ciò che appare tale non nei confronti di una meschina pusillanimità […]. Il deinòn è il terribile nel senso dell’imporsi predominante (Überwaltigende) che provoca ugualmente il timor panico, la vera angoscia, così come il timore discreto, meditato, raccolto. La violenza, la prepotenza, rappresentano il carattere costitutivo, essenziale dell’imporsi stesso. […] L’essente nella sua totalità, in quanto si impone, è il predominante […].18

Queste parole di Heidegger richiamano altrettanto celebri parole di Rudolf Otto che nel suo Il Sacro19 ha individuato come termine di riferimento per connettere tra loro i molteplici aspetti del sacro proprio la parola greca deinòs, tentando poi di renderla in tedesco con Ungeheure.

Con il vocabolo «Ungeheure» oggi noi intendiamo semplicemente null’altro che qualcosa di eccezionalmente grande per natura e proporzioni. […] Ungehere è propriamente e inizialmente l’inquietante (das Unheimliche), vale a dire appunto una realtà numinosa […] e può essere adoperato per esprimere il numinoso nei momenti del mistero, del tremendum, della majestas, dell’augustum e dell’energicum (anche il fascinans vi è compreso).20

Con deinòn, che raccoglie quindi tutti i diversi aspetti del sacro, si esprime una manifestazione di forza e potenza tale per cui ciò che appare viene temuto e nello stesso tempo contemplato con venerazione e ammirazione cioè viene, in questa duplicità di significato, rispettato.

Cosa significa to deinòn? Il vocabolario ci dice: deinòn significa «ciò che incute timore» (das Furchtbare) e pertanto «ciò che fa paura». Ma il timore (Furcht) non è necessariamente quello di cui si parla abitualmente, cioè l’essere spaventati (Furchtsamekeit), dove lo spavento diventa facilmente un fuggire o un semplice tremare di paura. Il timore risvegliato dal deinòn può anche essere il rispettoso farsi indietro (Ehrfurcht) o il pudore (Scheu): […] dono di attenzione e di cura, capacità di stupirsi ed intrattenersi presso ciò che risveglia il timore stesso. E comunque il deinòn, sia esso ciò che fa paura, sia esso ciò che è degno di rispetto, in ogni caso è qualcosa dalle mille risorse, enormemente «potente» (Gewaltige). Ma «potente» può essere ciò che è grande ed importante e che perciò è accostabile a ciò che incute rispetto; e può essere invece ciò che è violento, e allora si avvicina allo spaventoso. D’altra parte «potente» è ciò che è al di là delle forze comuni (gewöhnlichen), delle possibilità a cui siamo abituati. Perciò l’insolito (Ungewöhnliche), […] o anche il prodigioso (Ungeheure).21

È in questa percezione complessa, ambigua e sfaccettata che va individuato il primo impulso dell’esperienza del sacro più che esclusivamente nel tremendo, nel terrore se non addirittura nel repellente e in una sensazione di orrido.22 È una ambivalenza che più che riguardare principalmente la sfera del soggetto, le sue reazioni psicologiche di fronte a ciò che si manifesta, riguarda la struttura ontologica stessa di ciò che appare. È l’ambivalenza dell’essere stesso, che, per la sua immensità, attira e respinge contemporaneamente. «L’ambivalenza del sacro non è esclusivamente di carattere psicologico (nella misura in cui attira o respinge), ha anche carattere assiologico; il sacro è, nello stesso tempo «sacro» e «contaminato».23

Tale e tanto grande è la potenza dalla quale l’uomo, pur ricevendone la vita, si sente soverchiato. Quindi, il predominante (Überwaltigende) è l’elemento fondamentale in cui si trova immersa l’esistenza umana, e se da un lato costituisce la normalità della situazione in cui l’uomo vive ed il fondamento del suo posto nel mondo, dall’altro, per la potenza che manifesta e per le sensazioni che suscita non gli permette di raggiungere uno stato di quiete e di pace. «Noi concepiamo l’in-quietante come quello che estromette dalla tranquillità, ovverosia dal nostro elemento, dall’abituale, dal familiare, dalla sicurezza inconcussa. Ciò che è insolito, non familiare, non ci permette di rimanere nel nostro elemento. Ed è in ciò che consiste il predominante».24

Il deinòn si realizza, quindi, come la principale e fondamentale caratteristica del phainesthai: le cose si fanno presenti innanzi all’uomo dotate di una potenza incommensurabile. Una manifestazione dell’essere «legata all’elemento e alla materia» che provoca nell’uomo «sensazioni sconfinate e mostruose suscitate dal contatto con essa».25 Per l’uomo si tratta essenzialmente di un patire, di un subire: un pàthos. Non è qualcosa su cui l’uomo può esercitare un potere; non possiamo decidere quando, come e con quale intensità far accadere questa esperienza. È qualcosa che si riceve e si accetta perché nel suo essere un fenomeno naturale va decisamente al di là della nostra capacità decisionale e, semplicemente, ci accade in maniera imprevedibile e incalcolabile.26 Per questo motivo W.F. Otto parlava di sublime disposizione. All’uomo, strutturalmente esposto alla potenza delle cose, è implicitamente chiesto dallo stupore che prova, dal profondo brivido di fronte all’inaudito, di essere disposto ad accettare il colpo subito per collocarsi apertamente nel phainesthai. L’uomo attua se stesso esponendosi al deinòn.

Nel provare stupore noi subiamo un arresto. Arretriamo, per così dire, davanti all’essente, davanti al fatto che esso è ed è così e non altrimenti. Tuttavia il provare stupore non si esaurisce in questo arretrare davanti all’essere dell’essente. Lo stupore, nel suo arretrare e nel suo arrestarsi in sé, è, al tempo stesso, rapito verso e, per così dire, incatenato, da ciò davanti a cui arretra. In tal modo lo stupore è la dis-posizione all’interno della quale il corrispondere all’essere dell’essente fu assegnato ai filosofi greci.27

Prima che al filosofo, che – per come tale concetto è stato sempre più inteso nella storia della cultura occidentale e lungo la modernità – continuerà a viverla con alcune fondamentali differenze, questa esperienza dello stupore appartiene innanzitutto all’uomo primitivo, all’uomo arcaico che vive nel mito, a diretto contatto con il deinòn che mostra tutta la sua potente ambiguità. Lo stupore è la fiammata viva e improvvisa che ci sorprende e ci avvolge per la sua potenza, caratterizzata com’è dalla reazione immediata e naturale di fronte all’apparire delle cose. È una forma di sbalordimento, turbamento e confusione che lascia attonito, sbigottito, chi la subisce, e che può portare fino ad un arresto improvviso della propria capacità volontaria di movimento pietrificando l’uomo, fino a instupidirlo rallentando la sua attività psichica. Tutto ciò è racchiuso nel verbo dèido a cui si connette l’aggettivo deinòs e a cui possiamo far corrispondere il verbo latino stupeo o obstupesco e il sostantivo stupor. Ma ancora più espliciti sono i verbi greci àzesthai e thambèo. «All’epoca di Omero il verbo àzesthai esprime il timore religioso, il sentimento di paura in presenza della divinità: è questo il senso della parola arcaica thàmbos che designa lo stupore da cui l’uomo è preso nel momento in cui entra in contatto con il soprannaturale».28

Il deinòn è dunque «la potenza dell’apparenza».29 Fin dalle origini più arcaiche della sua esperienza religiosa l’uomo ha percepito in ciò che appare come particolarmente stupefacente – thàmbos – la presenza del divino: il krèitton30 cioè la forza divina, e insieme un’intenzione di questa forza percepita dall’uomo di fronte al deinòn che appare, percepito presente nelle realtà investite da esso. Tutto ciò che circonda l’uomo e in cui l’uomo si imbatte con una sensibilità vergine, non ancora alterata da millenni di evoluzione culturale e quindi solo in questo senso primitiva, è dotato di tale potenza. Tutti i fenomeni naturali appaiono innanzitutto nella loro smisurata potenza e grandezza rispetto all’uomo che si trova a vivere in mezzo ad essi. L’esperienza della percezione del sacro in quanto forza divina – krèitton – è la prima esperienza religiosa.31 Questa potenza percepita non è altro che il manifestarsi della presenza del divino per come è percepito dall’uomo.

4. La physis come luogo del deinòn

In tal senso la physis, l’insieme di ciò che appare, può essere intesa come «lo schiudersi imponentesi»,32 una epifania che si impone per la sua forza, che provoca nell’uomo, colpito da profondo stupore, un senso di smisurata sproporzione. «L’essere domina per quello che è, come physis, come schiudentesi imporsi».33

Rispetto a questo senso dato alla physis è significativo notare come il testo commentato da Heidegger per esprimere e trasmettere questo senso del deinòn – il primo coro dell’Antigone di Sofocle – faccia riferimento a quei fenomeni naturali come il mare con la sua immensa potenza, la terra dotata della miracolosa capacità di generare e nutrire, e gli animali – gli uccelli, il cavallo, il toro – il cui incontro per i primi uomini portava con sé un innato senso di mistero e di forza.34 Con tutta facilità si potrebbe aggiungere un lungo elenco di fenomeni naturali in grado di suscitare nell’essere umano, se dotato dell’adeguata sensibilità, questa percezione: basti pensare al cielo stellato e all’insieme dei fenomeni celesti quale effetto dovevano avere sull’uomo che li osservava per la prima volta. Abbiamo già visto, infatti, come M. Eliade abbia individuato nel Cielo e nella Terra le immagini simboliche primordiali in cui si compendiano tutti gli elementi strutturali di questa esperienza originaria. È, infatti, la potenza tremenda dei fenomeni naturali ciò in cui si esprime il deinòn, ma non nel senso prettamente naturalistico e materialistico che ancora oggi, sulla scorta di una atteggiamento determinato dallo scientismo, siamo abituati a dare al fenomeno naturale.

La prima strofe nomina il mare e la terra, ognuno come predominante (deinòn) a sua guisa. Il fatto di nominare il mare e la terra non implica naturalmente che essi siano assunti nel senso semplicemente geografico e geologico secondo cui si presentano a noi moderni come fenomeni naturali. Mare è detto qui come per la prima volta […].35

Un senso di terribile bellezza deve aver pervaso l’uomo quando per la prima volta ha posto i suoi occhi su tutti i fenomeni della natura e su ciascuno di essi: sono belli in maniera terribile, tanto potentemente belli da incutere timore e tremore, tanto belli da essere inquietanti, tanto affascinanti quanto tremendi. E lo stesso senso di fascino carico di timore certamente pervade il bambino proprio nelle sue prime esperienze di incontro con le cose, o l’uomo adulto che, come un bambino, riesce a ravvivare la sua sensibilità tanto da tornare a vedere le cose, le solite cose, come per la prima volta. Le cose, infatti, per quanto possiamo assuefarci alla loro vista, continuano a conservare ed esprimere la loro potenza, per chi ha occhi per vederla.

Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi sommuove nel profondo. Deve pensare che immagini primordiali, come a dire l’albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera, il pane, la frutta, ecc. mi sono dischiuse in questi luoghi, anzi in questo luogo, a un certo bivio dove c’è una gran casa, con un cancello rosso che stride, con un terrazzo dove ricadeva il verderame che si dava alla pergola e io ne avevo sempre le ginocchia sporche; e rivedere perciò questi alberi, case, viti, sentieri, ecc. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica, come se mi nascesse ora, dentro, l’immagine assoluta di queste cose, come se fossi bambino, ma un bambino che porta in questa sua scoperta, una ricchezza di echi, di stati, di parole, di ritorni, di fantasia insomma che è davvero smisurata. […]

Ora, questo stato di aurorale verginità che mi godo, ha l’effetto di farmi soffrire perché so che il mio mestiere è di trasformare tutto in poesia. Il che non è facile. […] Andando per la strada del salto nel vuoto capivo appunto che ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti universali, fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo. […] meglio che i luoghi, cioè l’albero, la casa, la vite, il sentiero, il burrone, ecc. vivano come persone […] e cioè siano mitici. […]

Ma ho capito le Georgiche.

Le quali non sono belle perché descrivono con sentimento la vita dei campi […] ma bensì perché intridono tutta la campagna in segrete realtà mitiche, vanno al di là della parvenza, mostrando anche nel gesto di studiare il tempo o affilare una falce, la dileguata presenza di un dio, che l’ha fatto o insegnato.36

Queste parole di Cesare Pavese, profondamente piene dell’essenza del mito come esperienza, ci sono di aiuto perché manifestano chiaramente il deinòn proprio di ogni cosa che, sorgendo, urta la sensibilità umana. L’albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera, il pane, la frutta di cui parla Pavese sono come il mare, la terra, gli uccelli, il cavallo e il toro di cui parla Sofocle, e sono esattamente come ogni cosa che nella natura viene all’essere: il predominante che schiude.

Ora, tentando di andare ancora più in profondità nella comprensione del deinòn, ancora una volta ci viene in soccorso Heidegger.

Così il deinòn considerato come il predominante è reso dal termine greco dìke. Noi traduciamo questo termine con Fug, diritto, ragione, autorità, intendendolo anzitutto nel senso di connessione e ordinamento, e poi come disposizione, come mandato conferito dal predominante al suo dominio; e, infine, come l’ordinamento che dispone, che forza ad adeguarsi e sottomettersi.

Se si traduce dìke con giustizia, intendendola in senso giuridico-morale, la parola perde il suo contenuto metafisico essenziale. […] L’essere, la physis, in quanto imporsi è raccolta originaria, lògos, è l’ordine che dispone: dìke.37

Non siamo evidentemente lontani dal concetto di kòsmos inteso come ordine e divina armonia che tutto pervade e da cui tutto deriva per come verrà poi inteso e sviluppato dalla riflessione filosofica. Tutto ciò, sebbene con una tonalità differente, è già contenuto nell’esperienza mitica primordiale. Per l’uomo che vive esposto al deinòn e disposto ad accoglierlo, diviene fondamentale inserirsi in esso secondo il suo ordine e ritmo per poter dare senso e realtà alla propria esistenza. Il concetto di dìke, approfondendo il senso del deinòn, ci permette anche di capire meglio il significato prettamente greco della natura, della physis.

È proprio del carattere fondamentale di quella [la religione] greca unire alla più acuta osservazione della realtà il più riverente riconoscimento di questa. Quel che essa ritiene divino non è una spiegazione giustificatrice, e neppure una interruzione e un annullamento del corso naturale degli eventi: è il corso naturale degli eventi medesimo.38

E poche pagine prima W. Otto sottolineava come sia degno dell’uomo greco «il fatto che esso, nel suo momento di genialità religiosa, abbia scelto di riconoscere e di adorare il divino non nell’assolutezza di potenza, saggezza o volontà, bensì nelle forme originarie della realtà […]».39

Il concetto di natura e di naturale che possiamo rintracciare presso i Greci nella loro religione e mitologia appare, così, profondamente diverso dal nostro. Per noi oggi la sfera del naturale si restringe a quella del misurabile e del quantificabile. Ciò che stiamo cercando di comprendere attraverso l’idea del phainesthai e del deinòn si riduce nella nostra mentalità, educata positivisticamente, ad un materiale a disposizione del potere umano di utilizzarlo, modificarlo e controllarlo. La sfera del naturale è ridotta a quella del materiale o al massimo a quella della vita biologica intesa però come una semplice conseguenza della materialità stessa. In una prospettiva differente, se si ammette un livello diverso e altro rispetto a quello semplicemente materiale, alla natura viene contrapposta una dimensione soprannaturale, superiore, da cui la dimensione semplicemente naturale dipende. La natura è allora il luogo in cui il soprannaturale si rivela e si manifesta, ma sempre come una potenza esterna rispetto alla natura. Il mondo diventa, allora, un effetto di questa causa superiore e divina. L’idea di divinità a cui siamo abituati – che la si ammetta come ragionevole o meno qui non fa alcuna differenza – è quella di una potenza soprasensibile che, dall’esterno e dal nulla, crea il mondo, producendo così, come conseguenza, una fondamentale differenza ontologica tra ciò che è naturale e ciò che supera la natura fondandola. Automaticamente siamo portati quindi a collegare il deinòn a qualcosa di divino inteso come esterno e superiore alla natura e al mondo, e ad intendere la dìke come l’ordine che per volontà divina viene imposto alla natura dall’esterno per regolarla. Niente di più lontano, invece, dalla concezione greca è il concepire qualcosa che possa trascendere la sfera del mondo. Anche solo l’ipotesi o la domanda circa qualcosa che trascenda il cosmo è inconcepibile nella mentalità greca.40 E quando, con Platone, si giungerà a distinguere una sfera materiale da quella spirituale concependo così la realtà come strutturalmente duale, comunque non si uscirà dalla sfera chiusa del cosmo perché il mondo delle idee o la suprema idea del Bene, lungi dall’essere il divino o Dio che dall’esterno crea e governa il mondo, è semplicemente l’essenza intima interna al cosmo stesso.

Per noi le cose stanno diversamente:

[…] la lotta di Zeus con Uranos e Cronos è una lotta alle «origini» del cosmo, ma entro il cosmo, e si risolve con la vittoria del Dio della luce e dell’ordine sulle Divinità della notte e del caos, sì che la rivelazione originaria è l’autorivelarsi del cosmo, […] il Divino […] con cui si incontra l’uomo contemporaneo si colloca in uno spazio che trascende il cosmo e problematizza ogni possibile cosmo.41

Nonostante questa differenza capitale, frutto della rivoluzione di pensiero dovuta all’innesto, gravido di enormi conseguenze per la cultura occidentale, del concetto di creazione dal nulla sul logos greco, l’idea greca di physis, per come possiamo riceverla dalla filosofia e dal mito, conserva per noi un immenso valore. Recuperare l’occhio greco sul reale ci sarebbe di fondamentale aiuto nella cura di tante malattie che affliggono oggi la nostra cultura. E primo beneficio fra tutti sarebbe proprio il recupero dell’idea di natura come apertura, rivelazione, ciò che implica sempre un oltre, un livello ulteriore, sia esso il cuore più profondo del cosmo stesso che si manifesta in superficie o la causa suprema trascendente. Per il momento questo problema – che, ripeto, ha un’importanza capitale – deve rimanere sullo sfondo anche perché non riguarda direttamente la riflessione sul mito. Aggiungo soltanto, al riguardo, che recuperare uno sguardo ammirato di fronte alla physis e al suo stupefacente phainesthai carico di deinòn sarebbe il primo fondamentale passo per cominciare poi a risolvere anche questo problema di natura ontologica e teologica.42

La physis è intesa dai Greci non tanto come luogo della rivelazione del divino quanto come il divino stesso che si apre e si mostra prendendo forma.

Perciò è qui possibile al naturale medesimo presentarsi nella gloria del sublime e del divino. Certamente anche l’intervento degli dei greci suscita avvenimenti straordinari e travolgenti. Ciò però non vuol significare la manifestazione di una forza che può l’illimitato, bensì la rivelazione di un essere che si esprime vivo intorno a noi migliaia di volte come una forma essenziale del nostro mondo. […] E i brividi più sacri […] provengono dalle profondità dell’esperienza naturale.43

Questo atteggiamento viene interpretato come una sorta di «fedeltà alla natura»44 che riconosce in essa una sacralità e maestà che avvolgono la vita umana. Il mito conserva così l’interpretazione più vera e profonda dell’accadere dell’universo perché in esso il prodigioso e il miracoloso non sono niente di diverso dal naturale: «[…] ciò che noi vediamo e cerchiamo di comprendere come naturale è il divino».45

Tutto ciò ci autorizza a parlare di naturalismo e di religione naturalistica, per cui tutte le divinità che vengono adorate e il divino stesso nella sua visione unitaria non stanno di fronte o sopra il mondo ma ne costituiscono l’ordine supremo.

Questi non sono […] allegorie della realtà, ma sono la realtà stessa diventata religiosamente trasparente. Zeus è la potenza dominante nella vastità del cielo che s’inarca, del cielo in cui si compie il moto ordinatore degli astri e donde scendono sulla terra le energie che fecondano la vita. Egli non è soltanto un simbolo di queste cose, ma è queste cose stesse, allo stesso modo che Gea non solo significa ma è la terra, la sua profondità feconda e ad un tempo divorante, grembo e tomba di tutta la vita.46

Il vero miracolo è la comparsa delle cose, l’apparire dell’essere, il phainesthai. Tra naturale e divino si innesca una connessione tale che, senza alterare il valore dei due elementi, ne esprime un significato unitario profondo. «Il prodigioso non è un’intromissione estranea nella natura, ma un farsi avanti momentaneo del suo fondo, che può d’un tratto scuotere l’anima dell’eletto destando in questi un presentimento e, in particolari circostanze, persino una chiara conoscenza del divino».47

Dobbiamo rintracciare in ciò l’esperienza vitale del Greco, la verità decisiva che si esprime attraverso tutte le sue più alte espressioni culturali. Il suo è un occhio in grado di cogliere il prodigio del mondo nella sua profondità senza fine e proprio in questo vedere si concretizza la sua attività vitale da cui nasce una fede nel divino fondata sull’esperienza secondo cui il confine tra umano e divino, naturale e divino, è sottile al punto che l’uno risulta ricompreso nell’altro fino a confondersi.

5. L’intuizione della trascendenza e la dimensione della totalità

Tuttavia, nonostante l’evidente naturalismo della concezione greca del mondo e del divino per cui questo altro non è che l’essenza intima del mondo stesso, senza mai venir concepito come un punto esterno ad esso, è altrettanto evidente nella percezione e nell’esperienza del sacro l’intuizione – più o meno coscientemente esplicitata – della sua trascendenza.48 Questa intuizione originaria e primordiale propria dell’esperienza del sacro sarà, nel corso dei secoli, sempre più chiara, fino a trovare la sua esplicitazione definitiva con l’innesto del concetto di creazione, di origine ebraico-cristiana, sul ceppo della riflessione filosofica ellenica. Ma questo innesto sarà, in un certo senso, solo una conferma di quanto nei miti naturalistici e nella religione ad essi connessa era, in un modo o nell’altro, presentito e preannunciato. Questa intuizione, infatti, si colloca al cuore dell’esperienza vitale originaria dell’uomo che vive nel mito al punto che possiamo dire che l’essenza di ogni naturalismo religioso è sempre e comunque l’intuizione di una dimensione metafisica trascendente.49 Il deinòn è la caratteristica fondamentale del phainesthai, della physis nel suo apparire, e ne esprime la profondità sacra e divina. Ma questa profondità è di una natura particolare perché non può mai essere ridotta ad una dimensione puramente fisica. È l’indicazione esplicita di un di più che trascende la situazione e l’elemento naturale. Chiaramente compreso o meno, esplicitamente affermato o meno, questo non conta più nel momento in cui ci accorgiamo che, al di là di tutto, è sempre e comunque di questa profondità che l’uomo fa esperienza nell’incontro con il divino.

Si apre, in questo modo, una distanza, tra il divino e le sue manifestazioni dal momento che queste non sono la stessa cosa di quello. Si apre uno spazio che è proprio lo spazio della rivelazione del divino stesso che si rivela apparendo – phainesthai – dalla profondità di una dimensione altra rispetto alla physis in cui si rivela. È importante a questo punto sottolineare che in questo modo non si sminuisce affatto il valore della natura (sembra essere questo il timore di W. Otto quando sottolinea il significato di natura presso i Greci portandola a coincidere con il divino stesso e negando ogni differenza tra essi) sottoponendola ad un potere divino ad essa superiore da cui dipende. Non si cade nel magico e nel prodigioso nel senso più deleterio di questi termini che riduce la natura all’effetto del gesto magico di una potenza superiore. Anzi, al contrario, si colloca la natura nella sua giusta dimensione, non appiattendo il divino sulla natura stessa ma ponendolo nella giusta distanza che, all’interno della rivelazione divina, salva la sacralità della natura e il divino stesso da cui essa deriva.

La dimensione propria di questa esperienza vitale originaria a cui chi la vive viene introdotto è la totalità. Nel suo stupore di fronte al deinòn che appare l’uomo si trova esposto all’essere inquietante non già semplicemente di questa o di quella cosa, ma della totalità dell’essere. In questo possiamo e dobbiamo «riconoscere l’esperienza religiosa qual è: esperienza dell’esistenza totale, che rivela all’uomo la sua modalità d’essere nel mondo».50 Il mito è l’esperienza dell’essere che si rivela nella sua totalità. Questo non fa che accrescere il senso del terrificante proprio del deinòn dal momento che ogni singolo ente è inserito in uno spazio, una dimensione più ampia, quella propria di una totalità omniabbracciante. E se già enorme era l’effetto provocato nell’uomo dalle singole cose, tanto più grande e tremendo sarà lo stupore per l’uomo che giunge, per mezzo delle cose viste, all’intuizione della totalità. Il mito riguarda sempre la totalità.51 Anche quando, come vedremo, la storia raccontata dal mito riguarda l’origine di una singola istituzione o di una singola attività umana o di un luogo o anche di una malattia e del suo medicamento, questo singolo fatto viene sempre inserito nella dimensione più ampia dell’origine del cosmo nella sua totalità. A conferma di questo, nella religione omerica ogni singola divinità è legata innanzitutto ad un singolo aspetto del mondo e della natura; ogni divinità ha il suo campo di azione, la sua funzione e i suoi simboli insieme alle sue particolari modalità di manifestazione. Eppure, contemporaneamente, insieme a tutto questo ogni divinità significa e compendia in sé la totalità del mondo.

La divinità è sempre una totalità, tutto un mondo chiuso nella sua perfezione. […] Nessuno di essi [gli dei] rappresenta ai nostri occhi una singola virtù, nessuno di essi ci si fa incontro in una sola direzione della molteplicità vitale, ciascuno vuole riempire, plasmare, illuminare tutta la sfera dell’esistenza umana con quello spirito che gli è proprio.52

Totalità significa quindi l’essere che, nella sua stupefacente magnificenza, si rivela in una serie molteplice e sfaccettata di manifestazione e nello stesso tempo in una ben chiara unità.53 Le varie figure in cui si suddividono gli dei altro non sono che i vari aspetti che solo insieme compongono l’unità del divino. L’uomo, nel mito, fa contemporaneamente esperienza di entrambi questi aspetti del deinòn che si implicano reciprocamente. Ciò non vuol dire che i vari aspetti e domini del reale a cui sono connesse le singole divinità siano semplicemente l’uno al fianco dell’altro e sommabili. I vari dei, ognuno dotato del proprio carattere ben identificabile, non sono semplicemente compresenti nella realtà. Il divino è ontologicamente una unità e dunque si realizza nella totalità al di là di ogni differenziazione.

Essi sono e restano Dei nel senso pieno della parola: nella loro eternità si riflette l’universo multiforme ed uno. Essi sono e rimangono i rappresentanti sublimi delle sfere della realtà e dell’esistenza, la rivelazione della dimensione ultima di tali sfere, per cui ciascuna di queste è infinita e, nel suo specificarsi, è sempre la totalità dell’essere e del Divino.54

Non è facile giungere alla consapevolezza di tutto ciò per via di ragionamento e speculazione. È sicuramente una forma di conoscenza, anzi, è sicuramente la conoscenza più alta. Ma a questo genere di conoscenza si può giungere solo per via di esperienza, l’esperienza del tutto in cui ogni cosa è presente trovando il proprio posto originario secondo una verità divina ordinatrice – dìke – che offre ad ogni cosa il proprio significato. Sono quei momenti, quegli attimi, carichi di attonito stupore in cui, grazie ad una percezione sinfonica e ad uno sguardo sinottico,

L’uomo si raccoglie in unità con la totalità delle cose e porta a compimento l’idea di un rapporto complessivo, vale a dire della totalità nel vero senso del termine. Esse hanno inizio dalla semplice sensazione, dall’impressione esercitata dall’universo; ciò avviene di fronte ad uno spettacolo maestoso: il cielo stellato, la vetta di una montagna, il mare o la pianura sconfinata. Questi momenti contengono un di più della situazione concreta, per quanto ampia essa sia, anzi in essi la situazione viene permeata da una sensazione complessa, quella di una realtà che si estende da ogni lato, è incommensurabile nella sua grandezza e inesauribile nella sua profondità […].55

Questo di più, che riempie della sua incommensurabile grandezza e inesauribile profondità determinate situazioni, è esattamente il divino originario in cui le singole divinità si risolvono. Esso trova la sua simbologia più elevata nella luce e nella luminosità che tutto abbraccia e governa rivolgendosi innanzitutto all’uomo:

Gli si fa incontro come totalità, come splendore e serenità, come immensità illimitata, in cui successivamente ogni ente troverà la propria collocazione.56

Come non sentire un’eco di tutto questo negli attributi che Anassimandro, al sorgere del pensiero filosofico che si distacca dal mito, riconosce all’archè? Perièkein, l’abbracciare, e kybernàn, il governare, sono per il filosofo la principale tra le funzioni del principio primo da cui tutto si genera e in cui rintracciamo l’evoluzione filosofica del divino originario manifestato dal mito.

Non sono forse tutte quelle Divinità figure originarie dell’infinita vita del mondo, degli aspetti fascinosi e degli oscuri misteri di tale vita? I diversi momenti in cui si articola l’unitaria vita del mondo altro non sono se non Dei: in ciascuno di essi è e si rivela un Dio. Il Divino si testimonia nella sfera dell’inanimato, del vegetale, dell’animale, e si rivela, al vertice, nel volto dell’uomo. Ma ciascun Dio, nell’atto che rivela un momento del mondo, rivela in realtà sempre il mondo nella sua totalità.57

6. L’uomo come tò deinòtaton

L’ultimo passo citato permette di lanciare uno sguardo più in profondità sull’uomo e sul suo essere. Al centro del deinòn che tutto regge e governa troviamo proprio l’uomo. La physis, nel suo phainesthai, appare per qualcuno che possa guardarla e stupirsene. Non è un vuoto e insensato apparire, quasi fosse un freddo meccanismo. È invece l’inizio di una comunicazione, di un dialogo, e in quanto tale ha bisogno che qualcuno riceva il messaggio; è finalizzato alla ricezione. Il prodigio del mondo è per qualcuno che possa vederlo.

Ci è possibile allora capire l’importanza del vedere nella cultura greca, testimoniata in moltissimi modi a svariati livelli. L’amore per la visione58 si colloca davvero al cuore della cultura greca, e la possiamo rintracciare in tutte le sue più alte espressioni. L’importanza di un verbo come theorein in questa cultura è innegabile, così come l’importanza del verbo orào. Ma può essere interessante notare come, risalendo lungo la linea dell’evoluzione culturale ellenica, i termini per indicare l’esperienza del vedere fossero molteplici, in un numero per noi moderni sbalorditivo. Questo perché mentre noi oggi indichiamo la semplice funzione organica del vedere, il greco primitivo sentiva il bisogno di esprimere la modalità particolare del vedere legata ad ogni specifica esperienza. Ciò che contava davvero era l’esperienza che si stava compiendo e il modo in cui l’uomo vi partecipava tramite la vista.59 Questo ci fa ricordare ancora una volta il ruolo particolare che la sensibilità ricopre nelle culture primitive a differenza delle culture più, per così dire, evolute, in cui l’astrazione concettuale ha significato anche un inevitabile allontanamento dall’esperienza concreta. Tra i vari modi che possiamo rintracciare in Omero per indicare il vedere, è importante sottolinearne uno in particolare: theasthài cioè vedere spalancando la bocca. Nella freschezza e plasticità di un linguaggio giovane troviamo una precisa descrizione dello stupore di fronte al deinòn di cui si è detto finora. E quale può essere la reazione dell’uomo di fronte alla totalità che lo abbraccia quasi come un suo centro se non il rimanere a bocca aperta pervaso da un senso di fascino e divino terrore? L’uomo, infatti, è colui che si trova per natura «senza scampo frammezzo all’essente nella sua totalità».60

Tornando al coro dell’Antigone, da cui siamo partiti per una riflessione sul deinòn, troviamo al secondo verso una descrizione dell’uomo che lo individua come tò deinòtaton, il più tremendo tre le cose tremende, il più inquietante tra l’inquietante.61 Cosa si vuole intendere con ciò? Finora abbiamo visto nell’uomo quell’ente particolare, unico tra tutti gli altri, in quanto esposto al predominante che si manifesta nella totalità del mondo e a cui questa manifestazione è esplicitamente rivolta con una sorta di preciso messaggio. Ma il divino che appare manifestandosi tutt’intorno all’uomo, abbracciandolo, non si rivela in misura minore nell’uomo stesso. L’uomo non è un semplice spettatore che, dall’esterno, osserva qualcosa che, essendo fuori di lui, può essere guardata anche con distacco e sufficienza. Il mondo, la natura, non sono qualcosa da cui l’uomo, come semplice spettatore, può decidere di ritrarsi; non sono qualcosa da cui può impedire di lasciarsi toccare. Non può scegliere se guardarli o meno. Ente tra gli enti, cosa tra le cose, l’uomo stesso con tutto il suo essere appartiene al phainesthai. Se proprio vogliamo pensarlo come uno spettatore, può essere solo uno spettatore che assiste ad uno spettacolo in cui è il protagonista e, paradossalmente, il palcoscenico stesso su cui lo spettacolo si realizza. Per cui, l’uomo incontra il deinòn, da cui è profondamente turbato, non solo fuori di sé ma anche, e in misura non minore, dentro di sé. Egli stesso è il deinòn che si manifesta e per questo può essere visto come il deinòtaton, perché la forma umana è la forma più alta in cui il divino appare.62 Terribile e affascinante non è solo ciò che mi si presenta davanti provocando il mio stupore. Altrettanto potente stupore desta in me tutto ciò che mi agita dal di dentro, che mi muove, e che spesso è fonte di gioia o di rovina. Tutto ciò che noi siamo abituati a collocare nella sfera astratta dello psicologico non si distingue, in origine, dal mondo che mi appare. Le potenze che vivono nel mondo rendendolo un prodigio, vivono anche dentro di me rendendo altrettanto prodigioso tutto ciò che in me e attraverso me accade. La sfera dello psicologico non è altro che una parte del phainesthai e del deinòn.

Il mondo viene sentito come divino. Procede da una arché, da una sorgente interiore e percorre la strada che la legge e il destino gli tracciano; ma anche quell’origine e quel destino gli appartengono in proprio, poiché esso è la pienezza dell’essere e del tutto, la realtà assoluta; realtà non solo empirica o storica, ma anche, e soprattutto, numinosa. Il divino è l’elemento primo e misterioso del mondo. L’uomo vive nel mondo, ma il mondo vive in lui: e il fondamento del rapporto religioso consiste nello sperimentare e nell’accettare tale rapporto.

Divine sono anche le entità e le potenze diverse del mondo. Il mito nasce da questa esperienza, i miti sono forme e avvenimenti che interpretano il mondo e i suoi elementi e anche l’uomo che, per potere del suo spirito, si pone di fronte al mondo pur appartenendo ad esso.63

L’uomo appartiene all’apparire della natura, è una cosa tra le cose. Eppure, tra tutte le cose, è l’unica in grado di porsi di fronte al mondo. È soltanto a lui, allora, che si rivolge il messaggio che è l’essere che si rivela. L’eccezionalità dell’uomo fa di lui tò deinòtaton, l’unico in grado di porsi in rapporto consapevole con l’essere.64

Il Divino splende da ogni attimo vivente: nella gloria ineffabile della sua luce anche il destino più triste è sublimato. Esso trascende sempre le cose, gli eventi, gli attimi nei quali si rivela la sua presenza. È la figura di tutte le figure, sostanza vivente, che mai nega all’uomo, che sa e voglia essere tale, l’incontro e la parola. Fra tutti gli esseri viventi l’uomo è il solo per natura capace di percepire «figure», il solo destinato a questo. Di qui, da tale sua specifica natura e destinazione, il rapporto che lo lega alle figure dell’essere, alla loro gerarchia fino alla figura del Divino.65

Ma questo rapporto dialogico assume quasi l’aspetto di una polarità. Da un lato l’uomo, più di tutte le altre cose, per la dimensione spirituale che gli è propria, è il varco principale attraverso cui l’essere si manifesta. E sempre per la sua spiritualità è anche l’unico tra gli enti in grado di agire sull’essere, in un certo senso manipolandolo e fronteggiandolo. Dall’altro lato, però, la natura a cui l’uomo appartiene rimane il predominante che se può essere fronteggiato dall’uomo non può mai venirne soggiogato.

Esistenza dell’uomo storico significa essere posto come il varco in cui la strapotenza dell’essere apparendo irrompe, affinché questo medesimo varco s’infranga alla fine sull’essere.

[…] Quale varco per cui l’essere, messo in opera, si apre nell’essente, l’esserci dell’uomo storico è un in-cidente, è l’incidente in cui, d’un tratto, le forze della strapotenza scatenata dell’essere si liberano ponendosi in opera come storia.66

L’uomo permette l’irrompere del deinòn e in quanto deinòtaton vi si pone in rapporto operando al suo interno. Il coro dell’Antigone, dopo aver preso le mosse dalla potenza divina del mare, della terra e del mondo animale, passando a parlare dell’uomo, descrive la sua intelligenza che signoreggia su tutto ed escogita ogni tipo di risorsa, la sua capacità di parola e di pensiero profondo, il suo essere un animale politico capace del vivere civile e il suo saper affrontare i pericoli che vengono dal mondo.67 Questi sono i mezzi eccezionali che l’uomo ha per entrare a viso scoperto nel predominante, per percorrerne tutte le sue vie arrischiando il suo stesso esistere.68 Ma tutto ciò non gli appartiene, perché tutto ciò che l’uomo è, il suo corpo e la sua anima originariamente e strutturalmente congiunti, e tutto ciò che fa, è fondamentalmente una manifestazione del predominante stesso. Per noi, figli della modernità, educati da un soggettivismo radicale che ci fa sentire padroni assoluti di tutti i nostri atti e tende ad impadronirsi anche del mondo esterno, è una concezione difficile da capire e da accettare e per questo tendiamo a sottovalutarla come prodotto di una mentalità primitiva e non evoluta. E invece

la parola, l’intelletto, il sentimento, la passione, l’attività costruttiva, non appartengono meno alla potenza del predominante che il mare, la terra, l’animale. Unica differenza, è che questo domina tutt’intorno l’uomo, lo trascina, l’opprime, lo stimola, mentre quello domina per entro a lui, in quanto si tratta di ciò che egli, da quell’essente che è, deve assumere in proprio. Quello che domina attraverso di lui non perde nulla del suo predominio per il fatto che l’uomo lo assuma direttamente in suo potere […]. Ciò serve solo a celare il carattere inquietante del linguaggio, delle passioni, in cui l’uomo si trova storicamente disposto mentre ritiene di essere lui a disporne. L’inquietante di queste potenze sta proprio nella loro apparente familiarità e usualità. […] In tal modo, ciò che in fondo è ancor più distante e predominante del mare e della terra gli appare falsamente quanto mai vicino.69

Pur rimanendo noi la causa dei nostri atti, rispondendo in prima persona per essi, li vediamo però emergere da una profondità tale – la profondità dell’anima – che rimane, anche per noi, un grande mistero e un grande prodigio. Le nostre indecisioni e decisioni, i nostri pensieri, i nostri desideri, l’intelligenza con cui comprendiamo le situazioni e ci muoviamo in esse compiendo le nostre scelte spesso difficili e ricche di conseguenze pericolose, i moti della nostra volontà, lungi dall’essere un mero prodotto della nostra soggettività, emergono – cioè appaiono, phainesthai – da una dimensione che è quella del deinòn, che costituisce il nostro essere e che in esso si manifesta. Quante volte, nelle svariate circostanze della nostra esistenza, abbiamo la netta e pur misteriosa percezione che quella determinata scelta o quel determinato pensiero, che poi magari si rivelerà determinante, è sì la nostra scelta, il nostro pensiero, ma si è imposto con una forza superiore? E non si fa qui riferimento al fatto che spesso siamo vincolati dalle circostanze stesse che ci impongono determinate soluzioni al di là della nostra volontà, ma alla verità evidente che a volte, come proveniente da altrove, si illumina nel nostro spirito e nella nostra intelligenza illuminando nello stesso tempo la strada da percorrere. Come a dire che il nostro individuale e personalissimo essere non è completamente nostro, o che il nostro essere è sempre accompagnato da qualcosa che lo sorregge e lo abbraccia guidandolo, questa volta però non dall’esterno ma dalla sua più interna profondità. Ciò che a noi può sembrare molto strano e magari poco razionale era per gli antichi e per la loro visione del mondo fondata sull’esperienza mitica, quanto vi era di più normale. Tutto è pieno di dei, e tutto rimanda alle loro azioni primordiali, non solo l’insieme di ciò che ci circonda ma anche tutto ciò di cui siamo fatti, tanto la nostra sfera fisica, prodigiosa al pari di tutti gli altri fenomeni del mondo naturale, quanto e ancor di più la nostra sfera psicologica e spirituale.

Rispetto a quanto detto risulta illuminante la concezione omerica dell’uomo. Ciò che in Omero, e quindi in una concezione mitica sebbene già molto evoluta ed elaborata, si intende per corpo e per anima è completamente diverso da ciò che intendiamo noi oggi con gli stessi termini. Profondamente differente dalla nostra è anche la percezione dell’unità di corpo e anima.70 In questa concezione la demarcazione tra lo psichico e il corporeo è molto meno netta che per noi, al punto che l’attività che ai nostri occhi è prettamente psichica può essere attribuita in realtà alle varie singole membra del corpo. Anche una visione del genere può venire facilmente etichettata come una visione primitiva. In realtà, sebbene noi siamo oggi in grado di comprendere molto meglio il funzionamento di determinati fenomeni psicofisici, immedesimarsi nell’uomo omerico, per quanto possibile, può esserci di aiuto nel recuperare un senso più profondo dell’unità della nostra natura di uomini e per renderci nuovamente conto di quanto la sfera fisica e quella psichica siano molto più connesse e interagenti di quanto siamo soliti pensare. «La natura dell’uomo omerico si manifesta mediante ciascuno e in tutti i suoi organi, e mediante tutte le attività di tali organi, sia fisiche che psichiche, come in un gioco caleidoscopico ben articolato».71

«Ogni singolo organo dell’uomo omerico può dispiegare una propria energia, ma ciascuno di essi rappresenta nello stesso tempo l’insieme della persona. Gli organi fisici e psichici risultano posti uno accanto all’altro sul medesimo piano e risultano riferiti all’Io allo stesso titolo».72

Ma l’idea più importante per il percorso che si sta tracciando è che nei due grandi poemi tutto ciò che accade all’uomo è da lui percepito come qualcosa di dato che, quindi, non può appartenergli in misura totale. Il deinòn, il divino che si manifesta, è la condizione fondamentale del realizzarsi della vita dell’uomo in tutte le sue forme. La presenza delle forze divine è costante e predominante al punto tale che il divino non ispira semplicemente le varie azioni ma ne è l’autore insieme all’uomo. Innanzitutto, sono gli dei che imprimono forza e vigore nelle membra e nel corpo degli eroi. Già quindi l’insieme delle forze e capacità fisiche viene percepito da questi uomini come un dono e non certo come una sorta di dote naturale o di merito personale. La dipendenza umana dal divino che appare e si manifesta viene affermata in maniera radicale già in riferimento alle capacità fisiche. Ma ciò vale in pari misura anche per le capacità intellettive e per la sfera morale dell’essere umano. Gli uomini non sono semplicemente provocati e inspirati dagli dei a pensare ed agire in un determinato modo. Il vero agente non è l’uomo ma il dio. È ciò che, per citare solo uno dei numerosissimi esempi, afferma con forza Achille nell’ultimo scontro con Ettore: «All’istante Pallade Atena ti soggiogherà con la mia asta!»73

La decisione e l’azione che noi siamo soliti attribuire senza alcuna ombra di dubbio alle nostre capacità individuali e al nostro indisturbato libero arbitrio sono invece l’effetto dell’apparire – phainesthai – di una divinità. Per esprimere tutto questo W. Otto ha parlato di onnipresenza degli dei, definendoli anche come gli onnioperanti.74 La percezione greca dell’esistenza è pervasa dalla viva consapevolezza che non c’è nessun gesto, fatto o subito, nessun evento riguardante l’uomo che non sia frutto di un intervento divino.

Gli Dei sono dunque presenti ovunque accada, si faccia o patisca, qualcosa di decisivo. […] niente accade, niente riesce o fallisce, nessun pensiero importante viene concepito, nessuna decisione presa, senza che intervengano gli Dei. Nella maggior parte dei casi quel che l’interessato sa è solo che un Dio (o la potenza divina) è intervenuta […].75

Ciò che avviene nell’uomo ha una profondità misteriosa e divina. E da questa profondità, in cui l’uomo incontra non se stesso ma altro da sé, provengono le decisioni umane. I pensieri umani sono voci divine. I movimenti che accadono nell’interiorità umana sono tanto importanti che il Greco non vi percepisce un insieme di conflitti interiori ma la vicinanza di un dio. La decisione stessa, che si pone nel momento cruciale di una determinata situazione, è la divinità che interviene. Questo è il senso dell’attimo propizio, del decisivo.

L’esempio sicuramente più bello può essere rintracciato nell’Iliade76 dove si narra della reazione furiosa di Achille di fronte all’offesa subita da parte di Agamennone. L’eroe è colto in un momento di titubanza ed indecisione: non sa se dare sfogo alla sua ira e uccidere Agamennone con la spada che ha già stretto nel suo pugno o, controllando la sua rabbia e facendo vincere la ragionevolezza, placare il suo impeto.

[…] il Pelide provò dolore, il cuore a lui Nel petto villoso ondeggiò tra due idee, se, sfoderando dal fianco la spada affilata, gli altri scansare e scannare l’Atride, oppure bloccare la bile e trattenere il suo animo.» A questo punto noi ci aspetteremmo la soluzione del dilemma morale attraverso una decisione consapevole e volontaria, attraverso un moto interiore di cui l’eroe sarebbe pienamente padrone.77 Invece, proprio in questo momento avviene un incontro straordinario. Mentre questo agitava nella mente e nell’animo, e andava sguainando la grande spada, sopraggiunse Atena giù dal cielo […]. Gli stette alle spalle, afferrò il Pelide per la chioma bionda, a lui solo mostrandosi; degli altri, nessuno vedeva. Trasalì Achille, si volse, e subito riconobbe Pallade Atena: terribili gli apparvero gli occhi di lei;

Non conosco una descrizione più accurata e profonda di questa della fenomenologia dell’incontro con il divino. Il tocco delicato di Atena sui biondi capelli di Achille è una delicata immagine poetica del tremendo che in realtà sta accadendo. Una divinità aleggia sulle spalle dell’eroe e noi, che vediamo la scena dall’esterno, lo anticipiamo nel rabbrividire. Achille trasalìthàmbesen. Il pugno allo stomaco, lo spavento frammisto a curiosità, il fascino terrificante che nasce nell’uomo a cui qualcosa o qualcuno ha sfiorato la spalla con tocco lieve, in una parola lo stupore di fronte al divino, è tutto in questo verbo: trasalì. Questo tocco sarebbe pietrificante e mortale, perché chi potrebbe resistere al tocco del divino? Ma l’uomo, tò deinòtaton, è tale perché è colui che non soccombe nel dialogo con Dio. E infatti Achille ha il coraggio e le forze per voltarsi e riconoscere. Come non vedere sintetizzato in questi versi il processo della conoscenza espresso miticamente per immagini poetiche? Ma cosa riconosce Achille? Ancora una volta, come sempre, il manifestarsi del deinòn: gli occhi della dea, questa fonte luminosa di luce e di essere, che la tradizione sempre affiancherà all’immagine del sole, sono terribili. Però l’uomo non solo non soccombe ma è addirittura capace di sostenere un dialogo rivolgendo la parola al divino.

e articolando la voce, le rivolgeva parole che volano: «Perché mai sei venuta, figlia di Zeus portatore dell’egida? Forse per assistere al sopruso di Agamennone Atride? Ma io te lo dico, e credo proprio che questo avverrà: per le sue prepotenze presto perderà la vita!» A lui disse di rimando la dea dagli occhi azzurri, Atena: «Io sono venuta a frenare il tuo slancio, se mi obbedisci, […]. Ma tu, metti fine alla lite, non estrarre la spada con la tua mano; ingiurialo invece a parole, digli come andranno le cose; infatti così ti predico, e questo avrà compimento: ci saranno un giorno per te splendidi doni, tre volte più numerosi, a causa di questo sopruso; ma tu frenati, prestaci ascolto». A lei di rimando diceva Achille dal piede veloce: «Rispettare la vostra parola è necessario, o dea, anche se uno è molto adirato nell’animo; infatti è meglio così: chi obbedisce agli dei, questi molto lo ascoltano». Disse, e trattenne la mano possente sull’elsa d’argento, non negò obbedienza all’ordine di Atena; […].

Questa è la descrizione poetica, per immagini, di ciò che accade nell’intimo dell’eroe di fronte al dilemma posto dalla situazione. Non si tratta semplicemente di una descrizione artistica nel senso basso del termine. È la reale e profonda percezione che ciò che accade nell’animo umano ha una radice che non è l’uomo stesso e che il Greco identifica realmente nel divino. Dal nostro punto di vista, evidentemente riduttivo, l’intervento della dea è completamente inutile e al massimo giustificabile, appunto, come un piglio artistico. Invece qui si palesa come l’interiorità umana altro non sia che il divino colto nell’uomo stesso, analogo al divino colto nel mondo esterno. «Ciò che l’uomo onora come Dio, è l’espressione della sua vita interna».78 Il mistero reale che qui si manifesta è proprio quello della sfera spirituale umana in cui si realizzano tutti i moti della volizione. Si riconosce in questa sfera qualcosa di imperscrutabile – deinòn – che viene compreso appunto come l’intervento del divino.

Tutto questo non sminuisce, come potrebbe a noi apparire, l’importanza e la figura dell’essere umano. Lungi dal ridurlo ad una sorta di burattino nelle mani della divinità che agisce per lui, ci aiuta a collocare la sua figura in una giusta prospettiva, in cui ciò che appare in superficie, realizzandosi nel concreto, è l’effetto di una profondità a cui non siamo più abituati a guardare.

E allora ci accorgiamo con stupore che un tempo fu possibile interpretare ciò che noi vogliamo capire immergendoci nel nostro io interiore partendo dal mondo circostante concepito in tutta la sua ampiezza e profondità; e ci accorgiamo con ammirazione che con ciò nulla andò perduto del suo contenuto. Anzi esso è stato piuttosto elevato a sublimità […].79

E come possiamo definire questa profondità che l’uomo condivide con tutto ciò che appare nel mondo e la cui comprensione non riduce la statura propria della natura umana, se non divina? La dimensione teologica in cui il mito pone l’uomo e il mondo non li annichilisce ma li potenzia esprimendo fino in fondo tutto il loro essere.

Gli Dei si rivelano dunque non solo nei fenomeni della natura e negli avvenimenti in cui si concreta l’umano destino, bensì anche nei moti interiori dell’uomo, in ciò che ne determina il comportamento e l’azione. Nel mondo popolato di Dei l’uomo greco, per trovare l’origine dei propri impulsi e delle proprie responsabilità, non guarda all’interno di se stesso, ma guarda all’essere nella sua vastità e, là dove noi parliamo di disposizione interiore e di volontà, sempre incontra la realtà vivente di un Dio. Gli psicologi, prigionieri dell’angustia della loro concezione dell’esistenza, ne traggono la stolida conclusione che l’uomo di allora non aveva ancora scoperto le profondità della sua vita interiore. Ma la verità è che l’esperienza viva dell’oggettività, degli Dei che portano in sé la totalità dell’essere, lo salvaguardava da quel narcisismo pericoloso e infausto che nel nostro tempo si è persino oggettivato in scienza.

[…] Nel mondo proprio dell’uomo greco le forze che dominano la vita umana e che noi conosciamo come disposizioni dell’animo, inclinazioni, entusiasmi, sono figure dell’essere, di natura divina, che, come tali, non hanno da fare solo con l’uomo, ma, infinite ed eterne, dominano la terra e il cosmo […]. Anche le disposizioni e i comportamenti morali sono qui «realtà», vale a dire qualcosa che ha da fare non con la soggettività del sentire e del volere, ma con l’oggettività del comprendere e del sapere. […] Giustizia, rettitudine, moralità ecc. possono perciò sempre apparire con lo splendore di figure reali divine. Quantunque ci sia impossibile consentire con tale modo di vedere, esso non è in fondo estraneo neppure a noi. […] anche nella nostra esperienza c’è ben di più di quello di cui siamo soliti prender coscienza. Nel mondo religioso della grecità antica l’esperienza dell’essere nella sua oggettività e nella sua essenzialità era ancora così potente che all’illusoria autonomia dell’animo umano restava ancora preclusa la parola.80

Proprio l’elementare esperienza dell’essere nella sua oggettività è ciò che ha trovato voce ed espressione nelle storie del mito che rendono conoscibili figure dell’essere. È dentro questa esperienza dell’essere che si attualizzano, compenetrandosi e fronteggiandosi, il deinòn e il tò deinòtaton in una profonda unità originaria. Lo ripetiamo, nel mito l’uomo esperisce il mondo in un’unica forma conchiusa e divina di cui è parte integrante. Finanche ciò che a noi potrebbe apparire come un prodotto della nostra individualità è in realtà un pezzo di mondo, la cui esistenza si radica nell’essere di cui il mito narra l’accadere. L’uomo, così, si sa e si sente circondato dalle forme e dalla potenza dell’essere. Conoscendo questa potenza e le sue forme giunge a conoscere anche se stesso e senza cadere nei labirinti moderni dell’interiorità «spazia nell’oggettivo ed essenziale, nell’essere del mondo e quindi nel divino».81

Ecco, allora, ciò che possiamo rintracciare nella mentalità mitica come insegnamento del mito genuino: tutto ciò che esiste ed accade è espressione del divino, l’insieme unitario delle potenze superiori che regolano il mondo e in esso l’uomo. Fino a quando l’uomo ha radicato la propria esistenza nel rapporto solidale con questa unità originaria non ha sentito il bisogno di andare in profondità nell’analisi del proprio intimo e della propria interiorità soggettiva. Egli stesso – tò deinòtaton – era inserito nel mezzo del mondo, dell’essere – deinòn – che appare ricco di forme divine, connesso cioè con tutto se stesso al predominante omniabbracciante in cui tutto trova senso.

7. Ambiguità e ambivalenza del deinòn

Proviamo ora a tornare di nuovo su alcuni concetti fondamentali per tentare di andare ancora più in profondità nella comprensione del deinòn e della relativa esperienza. Infatti si impongono alcune sue caratteristiche fondamentali che conducono inevitabilmente anche al di là – nello spazio e nel tempo – della cultura greca, fino ai tempi più oscuri della preistoria. Si è detto a sufficienza della totalità e dell’unità come dimensione propria del deinòn. Si tratta però di un’idea e di una percezione dell’esperienza molto più complessa di quanto possa apparire e la cui nota dominante è una tutt’altro che pacificante idea di ambivalenza e ambiguità. Totalità e unità percepite dall’uomo primitivo di fronte al mondo che appare per la prima volta vuol dire che non c’è davvero nulla che possa rimanere escluso o tagliato fuori, per cui nel deinòn è davvero contenuto tutto, sia ciò che può avere un aspetto e un effetto positivo che ciò che viene vissuto o addirittura subito come male. Il divino è al tempo stesso sublime e demoniaco. Tremendum et fascinans sono davvero in grado di spiazzare l’uomo che vive il deinòn mettendolo di fronte ad una ambiguità di tutto il reale che si fa fatica a comprendere e che può essere solo accettata. Il divino si dimostra così polare, ambiguo e ambivalente e queste caratteristiche si rivelano si rivelano sempre più drammatiche man mano che si risale la linea del tempo verso la preistoria. «L’“intuizione primordiale” dell’ambiguità presente nella divinità, tradotta nell’immagine della polarità divina, ci rivela tutta la complessità dell’universo mentale arcaico».^[82] e infatti si tratta di una intuizione e di una visione che possiamo rintracciare presso tutte le culture arcaiche ad ogni latitudine.

M. Eliade ha sempre sottolineato che la dimensione di totalità del divino significa la sua strutturale bi-unità cioè la coincidenza nella divinità degli estremi e la totalizzazione di tutti gli attributi. La conseguenza della bi-unità divina sul piano esistenziale umano è la strutturale «compresenza di bene e di male, di precarietà e di conquista, di frammentazione e di lotta, di insensata corsa all’annullamento [e di] anelito alla pienezza spirituale, al superamento dei contrari»82 che determinano la condizione dell’uomo. Deinòn vuol dire, allora, che l’uomo è consapevole del fatto che nella divinità si realizza la totalizzazione del reale in quella che Eliade ha sempre definito coincidentia oppositorum, ma questo si riverbera sull’esistenza come inquietante ambiguità di fondo perché gli elementi più luminosi sono sempre accompagnati da elementi oscuri e tenebrosi. Ciò che nel divino può essere letto come simmetria e ordine polare ha per l’uomo un fondamentale aspetto di ambiguità e ambivalenza, e questo sottolinea ancora una volta la strutturale sproporzione tra l’umano e il divino e l’infinita piccolezza dell’uomo di fronte al Dio che gli si manifesta. Ad esempio,

questa ambivalenza si incontra ovunque in India. Agni è allo stesso tempo un dio buono e cattivo, amico e nemico degli uomini. In un luogo si dice che «mangia gli uomini» e che ci si deve guardare da lui; in un altro, che egli è l’araldo degli dei e l’amico e l’ospite degli uomini. (Sia detto tra parentesi, la divinità è sempre concepita sotto due aspetti coesistenti: minacciosa e mansueta, spietata e facilmente indulgente, terrificante e ristoratrice, […]).83

L’«ecumenicità dell’idea di polarità e di ambivalenza divina»,84 testimoniata dal grande numero di documenti raccolti dallo studioso dimostra a sufficienza «la presenza più o meno decisa dell’idea di «bi-unità» divina e di totalizzazione degli attributi e degli estremi entro lo stesso essere divino nelle religioni e nelle mitologie arcaiche, come anche nelle credenze popolari da esse derivate».85

Gli elementi negativi e paurosi dell’esistenza, il male, la sofferenza, la morte, fanno comunque e sempre parte del divino nella sua bi-unità e totali che viene esperita dall’uomo proprio nel mistero del deinòn: «Dio […] è tremendo e mite. L’avvicinamento alla divinità può uccidere o salvare».86

La divinità è stata concepita da tutti i popoli come una Potenza e una Realtà assoluta. Nella divinità tutti gli attributi coesistono. […] nella divinità coesistono il bene e il male, l’essere con il non essere, ecc. è facile comprendere perché il pensiero mitico e religioso, prima appunto di formulare questo concetto della bi-unità divina in termini di metafisica (essere-non essere) o di teologia (manifestato-non manifestato), lo abbia espresso in termini biologici (bi-sessualità). La vita era, per gli antichi, il più preciso simbolo della potenza, della realtà assoluta.87

Tutto ciò doveva sicuramente essere presente più o meno consapevolmente nella visione e percezione originaria e primordiale dell’uomo paleolitico di fronte alla Terra e al Cielo. Infatti è nelle lontananze del paleolitico che trovano le proprie radici tutte le mitologie, tanto che la presenza costante dei segni di questa esperienza hanno fatto parlare di «tracce di una metafisica tradizionale arcaica, extra-storica».88 Il paleolitico segna il momento in cui l’uomo diviene cosciente della Realtà Suprema e Divina – deinòn – simboleggiata dalla Terra e dal Cielo ma il sentimento che si lega a questa esperienza non ha abbandonato più l’essere umano anzi si è, in un certo senso, accresciuto trovando espressioni anche maggiormente drammatiche e patetiche a seguito della scoperta dell’agricoltura nel fondamentale passaggio dal paleolitico al neolitico. La scoperta dell’agricoltura «ha reso possibile una nuova intuizione del Cosmo»89 che ha modificato approfondendola l’originaria esperienza dell’essere e «nella quale le virtù femminili, la fertilità e la nascita, acquistano funzione di principi».90 L’esperienza del deinòn di fronte alla Terra e al Cielo con tutto ciò che questo impatto comportava si modifica ed evolve legandosi maggiormente ai vari livelli biologici ed acquistando una maggiore drammaticità dal punto di vista umano. In questo passaggio – che è poi il passaggio dal Paleolitico al Neolitico – si inserisce la trasformazione dell’Essere Supremo uranico nel Dio Fecondatore,91 e la trasformazione della Terra-Madre nelle Grandi Dee della vegetazione.92 M. Eliade ha parlato a tal proposito di «scoperta dell’uomo neolitico»93 e di una forma di religiosità che, a differenza di quella dell’uomo paleolitico, si fonda sul mistero dell’agricoltura. Lo studioso rumeno ha ravvisato in questo quello cha ha definito il «fondo neolitico»,94 una sorta di matrice comune di tutte le civiltà urbane che si sarebbero sviluppate in seguito in epoca storica.95 Tralasciando l’analisi approfondita di questo fondamentale passaggio, è necessario per la presente ricerca cercare di cogliere le modalità nuove con cui si presenta la percezione del deinòn.

Per mezzo dell’agricoltura l’uomo vive in maniera diretta e più esplicita la propria compenetrazione con la natura. Oltre ad essere parte integrante del mondo che appare comincia anche ad intervenire direttamente su di esso; può in un certo senso manipolare il sacro proprio del mondo vegetale e biologico. In conseguenza di ciò l’agricoltura per l’uomo del neolitico non è semplicemente una tecnica lavorativa profana ma un vero e proprio complesso cerimoniale che «rivela in modo più drammatico il mistero della rigenerazione vegetale».96 Il gesto con cui l’agricoltore compie il suo lavoro è esso stesso inquietante e carico di deinòn perché penetra direttamente nel mistero del sacro terrestre dal quale risorge la vita di ogni seme che muore marcendo nel terreno e implora la propria efficacia dal cielo piovoso e fecondatore. Lo spettacolo della rinascita continua della vita è denso di un significato che non manca di far sentire il proprio effetto anche sugli uomini, in forza di una sorta di «solidarietà fra l’uomo e il seme»97 che li accomuna nella «speranza di una rigenerazione ottenuta dopo la morte e attraverso la morte».98

Ora i ritmi cosmici precisano la loro coerenza e accrescono la loro efficacia. Una certa concezione ottimistica dell’esistenza comincia a farsi strada in seguito al lungo commercio con la gleba e le stagioni; la morte si dimostra null’altro che un mutamento provvisorio del modo di essere; l’inverno non è mai definitivo, perché è seguito da una rigenerazione totale della Natura, da una manifestazione di forme nuove e infinite della vita; nulla muore realmente, tutto si rigenera nella materia primordiale e riposa aspettando una nuova primavera. Tuttavia, questa concezione serena e consolante non esclude il dramma. Qualsiasi valorizzazione del mondo basata sul ritmo, sull’eterno ritorno, non può evitare i momenti drammatici; vivere ritualmente nei ritmi cosmici significa anzitutto vivere in mezzo a tensioni molteplici e contraddittorie.99

Ecco riemergere ancora e sempre, anche al cuore della mistica agraria che si afferma nel neolitico, l’essenza del deinòn che mai potrà abbandonare lo sguardo sincero dell’uomo sul reale. Quel continuo rituale che è il lavoro nei campi e la vita agricola è denso di pericoli che incombono in maniera grave sull’uomo che entra in contatto quasi diretto con il sacro. Il contadino sa che con i suoi gesti entra in un dominio, in una dimensione, che non gli appartiene perché appartiene al divino e per questo sente che il suo agire è pericoloso e va costantemente giustificato per non risultare offensivo. Più in generale, con l’esperienza agraria l’uomo si trova di fronte ad una realtà in cui vita, morte e rinascita si coappartengono reciprocamente manifestandosi come «momenti distinti della stessa realtà transumana»100 che avvolge con le sue diverse e contrastanti tonalità, luminose ed oscure, tutti i momenti dell’esistenza.

Il legame tra l’agricoltura, la vita agricola, e una particolare e potente visione del tempo risulta evidente e permette di aggiungere ancora qualcosa circa l’esperienza del deinòn. Lo spazio e il tempo sono le due coordinate fondamentali del lavoro agricolo ed entrambi sono segnati dalla forte percezione del sacro divino e della sua terribilità. I gesti del lavoro agricolo «sono responsabili di conseguenze importantissime, perché si compiono entro un ciclo cosmico»101 determinato dai ritmi misteriosi dell’anno al punto che tutto è «integrato e comandato da un complesso temporale, il volgere delle stagioni».102 Questa evidente «solidarietà delle società agrarie con cicli temporali chiusi»103 sembra sia qualcosa di presente ancora oggi sebbene la vita nei campi non abbia più quella centralità che poteva avere fino anche ad un passato non molto lontano e non rappresenti più l’orizzonte totale dell’esistenza. Sarebbe facile pensare che in fondo i cicli temporali e stagionali sono sempre gli stessi. In realtà la percezione che ne possiamo avere noi oggi è completamente diversa da quella che ne aveva un agricoltore arcaico e a far la differenza è proprio il fatto che l’uomo moderno e postmoderno ha completamente smarrito il senso del deinòn. Il primitivo percepisce la fecondità della terra e la forza sacra che opera nei raccolti stagionali generandoli come un miracolo che, proprio per la sua eccezionalità, non può mai essere dato per scontato. E lo stesso discorso vale per la percezione del tempo che accompagna governandolo il ritmo delle coltivazioni. L’agricoltore sa che il proprio lavoro va ad interagire con questa forza eccezionale e sacra ma sa anche che il sacro in quanto tale è intoccabile, cioè pregno di pericoli per l’uomo. Il primo e il più angosciante di questi pericoli è proprio che il sacro, mai scontato o governabile, esaurisca, anche a causa dell’uomo, la sua forza e la sua fecondità; vorrebbe dire la fine di ogni esistenza.

L’uomo «primitivo» vive nel timore incessante di vedere esaurite le forze utili che lo circondano. La paura che il sole si spenga definitivamente nel solstizio invernale, che la luna non sorga più, che la vegetazione scompaia ecc., ecco il suo tormento per migliaia di anni. Di fronte a qualsiasi manifestazione della «potenza», la medesima inquietudine lo stringe: questa potenza è precaria, rischia di esaurirsi. Il timore è particolarmente angoscioso nei riguardi delle manifestazioni periodiche della «potenza», come la vegetazione che, nel suo ritmo, ha momenti di apparente estinzione. E l’angoscia è più acuta ancora quando il dissolversi della «forza» sembra dovuto all’intervento dell’uomo: il raccolto delle primizie, la mietitura ecc.104

La vita dell’uomo arcaico e il suo lavoro sono strettamente dipendenti dai ritmi cosmici105 i quali, secondo la mentalità mitica, sono determinati da due gruppi contrapposti di forze, uno solare e luminoso l’altro lunare e oscuro. Ora, il sole e la luna non sono altro che due simboli che esprimono chiaramente i due poli della strutturale ambiguità, ambivalenza e simmetria della potenza che governa tutte le cose, in una parola della bi-unità divina. L’uomo sa che la sua vita è posta e radicata in questa bi-unità e ciò è inquietante e terribile quanto affascinante e pregno di significato sacro. L’uomo sa che potrà tendere alla propria soddisfazione e realizzazione solo «tenendo conto di tutte le forze cosmiche e di tutti i principi che governano queste forme»,106 adeguandovi la propria esperienza. Ma proprio in questo sta tutta la drammaticità dell’esistenza perché l’equilibrio all’interno di questa polarità è realizzabile solo nel Divino mentre nella vita quotidiana umana si ha il continuo scorrere da un estremo all’altro senza la sicurezza che ciò possa durare, anzi, con la continua angoscia che il flusso fecondo e vitale si rompa definitivamente.107

Per loro [i primitivi], il Tempo circolare è il Tempo cosmico, vale a dire l’Anno. L’Eterno ritorno è l’eterno ritorno del giorno dopo la notte e della primavera dopo l’inverno. Ciò che un «primitivo» esprime con il suo ideale religioso e metafisico della ripetizione, è il desiderio che l’Anno si ripeta indefinitamente, con le sue quattro stagioni, le sue lunazioni e i suoi giorni e le sue notti. Il «primitivo» non è troppo sicuro che questo ciclo perfetto del Tempo circolare ricomincerà sempre con ogni nuovo Anno. Egli ha paura di una distruzione apocalittica delle stagioni e di una regressione catastrofica al Caos primordiale.108

8. I sacrifici umani e la Grande Dea Madre

Quanto detto permette di comprendere il ruolo e il significato presso molte società primitive dei sacrifici umani che, di per sé, sembrano incarnare tutta la terrificante inquietudine che l’esperienza del deinòn stende sull’esistenza dell’uomo. Siamo posti di fronte a visioni religiose e a «concezioni tragiche dell’esistenza, già abbozzate presso i paleocoltivatori».109 In questo caso con concezione tragica dell’esistenza si intende proprio l’esperienza e l’dea della necessità di riattualizzare e rigenerare annualmente l’apparire dell’essere, di tentare di partecipare con le proprie umili forze al rinnovarsi del phainesthai originario soggetto a deperirsi nel corso dell’anno profano anche a causa dei gesti dell’uomo. Per tentare di garantirsi il risorgere del Tempo in occasione del Nuovo Anno sono necessarie tutta una serie di purificazioni individuali e collettive che immergono l’uomo nella drammaticità del deinòn. Così l’uomo tenta, anche tragicamente, di partecipare al farsi e ri-farsi sacro del mondo, tenta di partecipare alla rigenerazione della vita donando anche la propria energia vitale per impedire che il flusso cosmico si interrompa. Però, «questa continua creazione del Mondo implica talvolta – soprattutto a partire da un certo momento della storia – un sacrificio sanguinoso»110 il quale, al massimo della propria tensione «tende a trasformarsi in sacrificio di ciò che l’uomo ha di più caro: la propria vita».111 Sacrifici umani sono attestati presso molte società e presso molte altre sono rintracciabili segni di evidenti reminiscenze di rituali che implicavano tali sacrifici.112 All’origine della pratica di ogni sacrificio umano presso le varie società c’è una visione comune secondo la quale l’intenzione dei rituali è quella di dare forza e accrescere il raccolto senza distruggere la fecondità della Terra e senza interrompere il rigenerarsi dell’Eterno ritorno. Il fine è la rigenerazione della forza sacra attiva nella vita vegetale secondo una sorta di principio della solidarietà delle forme naturali per cui l’uomo può partecipare con la propria energia a quella della terra e dei campi e viceversa.113 Il tutto, fondato nel tentativo di non recidere mai il cordone ombelicale con l’apparire primordiale e divino di tutte le cose.

Il significato di questi sacrifici umani dev’essere ricercato nella teoria arcaica della rigenerazione periodica delle forze sacre. Evidentemente ogni rito o complesso drammatico che tende alla rigenerazione di una «forza» è esso stesso la ripetizione di un atto primordiale, di tipo cosmogonico, avvenuto ab initio. Il sacrificio di rigenerazione è una «ripetizione» rituale della creazione. […] Soprattutto l’origine delle piante e dei cereali è posta in relazione con un tale sacrificio; […] le erbe, il grano, la vite ecc. sono germinati dal sangue e dalla carne di una creatura mitica, sacrificata ritualmente «in principio», «in quel tempo». Infatti il sacrificio di una vittima umana, per la rigenerazione della forza manifestata nel raccolto, tende alla ripetizione dell’atto creativo che diede vita ai semi. […] Il corpo della vittima ridotto in pezzi coincide con il corpo dell’essere mitico primordiale che diede vita ai semi con il suo smembramento rituale.114

Nonostante questa spiegazione che, in un certo qual modo ne permette la comprensione, rimane tutta la tragicità dei sacrifici umani e la terribile inquietudine ed angoscia che nascono da una esperienza religiosa che chiede all’uomo di versare il proprio sangue o di smembrare periodicamente il proprio corpo realizzare il rapporto con il divino. È ancora più evidente, allora, che avvicinarsi a Dio può illuminare come può letteralmente uccidere e non si può non vedere in questo il riflesso e il tragico effetto del deinòn sulla vita umana.

Ma ciò in cui, al livello simbolico, maggiormente si condensa l’esperienza del deinòn nel contesto della rivoluzione agraria del neolitico e della cultura che ne nasce è sicuramente l’immagine della Dea Madre. Quale sia il significato di questa suprema figura divina, della Magna Mater è risaputo e in effetti si tratta di una divinità conosciuta presso tutte le società arcaiche afroasiatiche a e dell’Asia minore.115 La Grande Dea è la madre, generatrice e custode della totalità, del tutto, e nel contempo generatrice e custode della vita umana e della società. La diffusione così capillare del suo culto è una conseguenza del diffondersi dell’agricoltura, però «essa non organizza soltanto i ritmi agricoli, ma è anche Dea delle acque, dei fiumi in Iran, dei mari presso i pre-ellenici e i Greci».116 L’imponente simbolo della Grande Dea si incontra dappertutto venerata con gli stessi attributi e simboli divini perché «tutte le culture arcaiche – sia agricole che marittime – hanno venerato il principio femminile sotto la forma di una Madre, di una Grande Madre, creatrice e conservatrice del Cosmo».117 Nella Magna Mater è così rintracciabile il simbolo dell’unità del tutto perché in lei, in forza appunto della sua fondamentale funzione unificatrice,118 si unifica il cosmo. Ciò si realizza concretamente perché si riconosce nella Dea la «fonte inesauribile della fertilità cosmica»119 e per questo motivo la sua rappresentazione è sempre accompagnata da simboli vegetali come l’albero della vita proprio perché «la pianta […] esprime la manifestazione del Cosmo, la comparsa delle forme»120 e, contemporaneamente, è in grado anche di indicare un punto, un luogo sacro sorgivo in cui l’albero si radica, cioè un centro, luogo sacro per antonomasia. «La Grande Dea è la personificazione della sorgente inesauribile della creazione, di quest’ultimo fondamento della realtà; vale a dire l’espressione mitica dell’intuizione primordiale che la sacralità, la vita e l’immortalità si trovano in “un centro”».121

Però, in questo tutto che si realizza grazie alla capacità di totalizzazione della Magna Mater non possono assolutamente mancare anche elementi negativi e drammatici: non può esserci fertilità e nascita senza dolore e morte e questo l’essere umano lo sa benissimo perché lo vive quotidianamente in prima persona. Di conseguenza tutte le Grandi Dee delle culture europee, asiatiche e africane sono nella loro stessa struttura ambigue e svolgono una funzione ambivalente, sono cioè una chiara ed evidente espressione del deinòn che l’uomo percepisce come impregnante di sé tutto il cosmo. Anzi, sono il deinòn stesso, consustanziali ad esso. «Queste “Madri” del tutto sono, allo stesso tempo e con eguale fervore, divinità della vita e della morte».122 Così, anche nelle Grandi Dee Madri si realizza ciò che prima si è definito coincidentia oppositorum intendendo con ciò il mistero della superiorità del Divino in cui tutti gli attributi e tutti gli opposti sono compresi scardinando, in un certo senso, ad ogni livello dell’esistenza, ogni possibile tranquilla certezza nell’uomo.123

Questa coincidenza dei contrari, si verifica proprio al livello, potremmo dire «biologico», del culto delle Grandi Dee. In effetti, sebbene le dee della terra siano considerate dappertutto come una fonte di beatitudine e di opulenza – il loro culto comprende pratiche sanguinose e rituali selvaggi. Sebbene la dea asiatica sia chiamata Ardvi, «la mansueta e dolce», il suo culto comportava il frustarsi con un fascio di verghe, il frustarsi a sangue, per promuovere la fertilità della terra.124

Gli esempi del genere si potrebbero moltiplicare perché simili rituali si incontrano un po’ dovunque nel mondo euroasiatico e sempre in rapporto con il culto delle Grandi Dee. Lo stesso discorso, infatti, vale per Kali, importante dea indiana il cui culto è tra i più popolari in Asia: manifesta mansuetudine e benevolenza sebbene sia decorata da una collana di teschi umani, abbia gli occhi iniettati di sangue e stringa in mano un calice ricavato da un cranio umano. La più importante tra le divinità indiane, Aditi, ripresenta la stessa dinamica polare e la stessa ambivalenza totalizzante. Un altro simbolo con cui queste divinità vengono spesso raffigurate è il fuso perché sono le divinità che tessono il filo della vita. Nella loro ambivalenza e ambiguità drammatica non solo regolano i ritmi del cosmo ma dominano e determinano anche i ritmi della vita e del destino dell’uomo: sono loro, secondo la loro volontà e arbitrio, a decidere quale debba essere il filo più lungo o il filo più corto. Decidono della vita e decidono della morte, procurando gioia e dolore all’uomo che non può che subire con il timore e il tremore dovuto al deinòn. Ciò che vale per il singolo individuo vale, ovviamente, anche per intere comunità perché è sempre la Grande Dea che elargisce la vita o decide la morte regolando, ad esempio, i cicli della fertilità dei campi o i cicli delle acque dando piogge abbondanti o siccità. Come colei che ha in pugno il filo della vita, la Grande Dea è anche la divinità del tempo.

È indubbio che, in certe culture, la Grande Dea ha svolto anche il ruolo di divinità del tempo e del destino. Ad esempio, in India, il «tempo» si chiama kala, parola molto vicina a Kali, il nome della Grande Dea. […] il termine kala, «tempo», significa anche «sacro», «oscuro», «macchiato». […] Il tempo è «nero», poiché è irrazionale, è duro, è implacabile. Colui che vive nel tempo, sotto il dominio del tempo, è un uomo sottoposto a tutta una serie di sofferenze.125

E infine, non sembrerà a questo punto strano che le Grandi Dee, generatrici della fertilità della terra e di ogni potenza biologica, siano contemporaneamente divinità della guerra apportatrice di morte. Anche nella guerra, e dunque in un ambito prettamente maschile, queste divinità non mancano di imporre i propri attributi che si mostrano «implacabili come un destino»126 e che non sono altro che «la lotta e la morte».127 La Magna Mater realizza il tutto e dunque in essa coesistono tutti gli estremi e tutte le coppie polari, prima fra tutte la coppia vita-morte.

Per questo le Grandi Dee asiatiche, divinità della feracità e dei germi, «proteggono» la guerra; poiché la guerra è il più preciso e il più frequente strumento della morte; essa è, in una parola, una forma della morte. E non è affatto casuale che nella Magna Mater la fonte della vita coincida con la vittoria della morte, le latenze di tutte le forme viventi con la grande larva amorfa, la morte.128

È evidente che l’esperienza che l’uomo primitivo faceva del deinòn che si manifesta attraverso l’immagine della Grade Madre e per mezzo di tutti i suoi simboli gli permetteva, attraverso i miti che su ciò si fondavano, di percepire ed esprimere il grande mistero dell’universo e della vita e soprattutto l’evidenza – drammatica se non proprio tragica – che non può esserci vita senza un ineliminabile alone di morte. È la prima grande sapienza che l’uomo ha potuto raggiungere per mezzo della sua esperienza.

Tuttavia comprendere queste dee, è ricevere al tempo stesso una rivelazione di ordine filosofico. Si capisce che questa unione di virtù e di peccati, di crimini e di generosità, di creatività e di distruzione, è il grande enigma della vita. Se si tratta di vivere un’esperienza d’uomo e non di automa o di animale e neppure quella di un angelo, ci si trova a confronto con questa realtà. […] La vita in sé è questa «Gran Madre terribile» che taglia le teste e che partorisce; che garantisce al tempo stesso la fertilità e il delitto, e ancora: l’ispirazione, la generosità, la ricchezza. […] E ci si chiede come sia possibile che un Dio si comporti così. Tuttavia la lezione impartita da questi miti e questi riti di dee terribili […] è che la realtà, la vita, il cosmo, è così.129

9. Aidòs, la contemplazione come espressione di amore

Quale potrà mai essere la risposta dell’uomo, di quest’ente che è metaxù,130 a metà tra il mondo animale e il mondo spirituale, tra l’essere e il nulla, al terribile che si manifesta? Se ne è visto un accenno nel riferimento ai sacrifici umani e al tentativo di partecipazione che implicano. Ma qual è il sentimento o, meglio, l’atteggiamento che l’uomo assume di fronte al deinòn che si manifesta?

Trasalì Achille, si volse, e subito riconobbe Pallade Atena: terribili gli apparvero gli occhi di lei.

Endimione – Non diciamo il suo nome. Non diciamolo. Non ha nome. O ne ha molti, lo so. Compagno uomo, tu sai cos’è l’orrore del bosco quando vi si apre una radura notturna? O no. Quando ripensi nottetempo alla radura cha hai veduto e traversato di giorno, e là c’è un fiore, una bacca che sai, che oscilla al vento, e questa bacca, questo fiore, è una cosa selvaggia, intoccabile, mortale, fra tutte le cose selvagge? Capisci questo? Un fiore che è come una belva? Compagno, hai mai guardato con spavento e con voglia la natura di una lupa, di una daina, di una serpe?

[…]

Straniero – Ho sentito parlare di questo.

Endimione – o straniero, e se questa persona è la belva, la cosa selvaggia, la natura intoccabile, che non ha nome?

Straniero – Tu parli di cose terribili

Endimione – Ma non basta. Tu mi ascolti, com’è giusto. E se vai per le strade, sai che la terra è tutta piena di divino e di terribile.

[…]

Endimione – Straniero, tu sai cose terribili, e non sai che il selvaggio e il divino cancellano l’uomo?

[…]

Straniero – Il divino e il terribile corron la terra, e noi andiamo sulle strade. L’hai detto tu stesso.131

Come può l’uomo non soccombere sotto l’effetto di tale immensa potenza? E se, invece di essere cancellato dal divino, ardisse rispondere ad un siffatto incontro, come potrebbe farlo? Eppure sappiamo che se l’uomo è tale – deinòtaton – lo è perché si realizza arrischiando se stesso in incontri del genere. Ma l’atteggiamento che all’uomo è permesso assumere di fronte a questa realtà incontrata non è sicuramente quello a cui sei secoli di modernità ci hanno abituato e che ormai diamo per scontato. Non può pensare, l’uomo, di porsi alla pari di fronte al divino manifestantesi, né può credere di poterlo afferrare, dominare, controllare o capire nel senso razionalistico che questo termine ha assunto nella nostra visione del mondo. Il dominio è l’essenza dell’atteggiamento moderno dell’uomo di fronte al mondo.132 L’uomo moderno ha perduto e dimenticato la capacità di vedere il divino che si manifesta nella realtà e si è ridotto a pensare ad essa come al campo d’azione delle sue forze che si tendono per dominare il mondo. Ma se davvero tornassimo a fare nostro l’occhio greco e, prima ancora, l’occhio primitivo sul mondo allora il deinòn che si paleserebbe ci farebbe in un attimo atterriti e sbigottiti.

La vidi [si tratta della dea Artemide cha appare ad Endimione] che mi guardava, con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro. Io non lo seppi allora, non lo sapevo l’indomani, ma ero già cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava, della radura, del monte. Mi salutò con un sorriso chiuso; io le dissi: «Signora»; e aggrottava le ciglia, come ragazza un po’ selvatica, come avesse capito che mi stupivo, e quasi dentro sbigottivo a chiamarla signora. Sempre rimase poi fra noi quello sgomento.

O straniero, lei mi disse il mio nome e mi venne vicino – la tunica non le dava al ginocchio – e stendendo la mano mi toccò sui capelli. Mi toccò quasi esitando, e le venne un sorriso, un sorriso incredibile, mortale. Io fui per cadere prosternato […].133

Non dobbiamo vedere in questa prosternazione qualcosa di negativo. Non è una forma di umiliazione, di pura sottomissione e svalutazione dell’essere umano e delle sue capacità. Più su si faceva riferimento alla «più solenne e sublime disposizione d’animo» e in effetti, lungi dall’essere qualcosa in cui perde se stesso snaturandosi, in essa l’uomo trova la sua giusta dimensione, che gli permette un rapporto sano e corretto con il mondo circostante e con se stesso. Per indicare questa disposizione e questo atteggiamento i Greci usavano il termine aidòs. In tal modo si esprimeva pudore, modestia, timidità, ma anche venerazione, timore reverenziale, rispetto.134 E come non vedere in tutto ciò – per quanto drammatico e difficile da attuare – l’unico atteggiamento possibile per l’uomo di fronte al divino? Ma il livello più alto dell’esperienza indicato con questo termine descrive una forma di amore. Al cuore dell’aidòs c’è l’amore che l’uomo prova per ciò che ha saputo generarlo per poi incontrarlo e colpirlo. Endimione (per rimanere solo all’esempio che abbiamo già citato) è completamente preso e rapito dall’amore per Artemide. Certo, questo amore non è pari a quello tra due esseri umani, è sbilanciato, sproporzionato, pericolosamente squilibrato perché qui l’oggetto proprio dell’amore dell’uomo è il divino. Da qui deriva il senso di stupore e sbigottimento che atterrisce e prosterna. Eppure si tratta sempre e veramente di amore.

Ma se in tale amore l’uomo nulla attende e chiede, non per questo quell’amore è meno autentico. È l’amore dell’uomo toccato nel suo essere dall’essenza dell’essere. E la commozione e il rapimento dello spirito, al quale si è dischiusa la profondità in cui si radica ciò che è, e il quale da questa profondità riattinge, come da mani divine, la propria esistenza.135

Non potrà mai essere però un amore che pacifica, rasserena e compie in una perfezione di quiete; sarà, paradossalmente, un amore che conserva la dimensione dell’inquietante. Aidòs è il sacro rispetto, la venerazione, di fronte all’intoccabile e all’inviolabile, ed è pertanto l’esatto polo complementare, dal punto di vista dell’uomo, del deinòn, conservando come questo una strutturale ambiguità. Da un lato c’è l’aspetto della paura e del sacro terrore, dall’altro c’è il livello del fascino e della suprema bellezza. Ciò produce nell’uomo la «gentilezza del cuore e dello spirito».136 Aidòs è «il riserbo che china lo sguardo»;137 non è lo sguardo arrogante e prepotente che pretende di dominare con esattezza il mondo e il suo segreto. «Lo sguardo di Aidòs è chino e tranquillo, non sfacciato e provocante; ma è uno sguardo libero, limpido, sicuro».138 Libertà e sicurezza che possono venire solo da una vera esperienza dell’essere, per quanto forte e stupefacente questa possa essere, che crea la giusta distanza tra l’ente e l’essere da cui deriva. Solo in questa distanza, indice dell’infinita differenza e inferiorità dell’uomo rispetto all’essere, si genera lo spazio per la vera adorazione in cui l’uomo, prosternato, riceve il tocco stupefacente del divino realizzando al contempo se stesso.

Ma se tutto è davvero in profonda unità nella totalità dell’essere, allora l’aidòs non è l’atteggiamento esclusivo dell’uomo. In un certo qual modo tutta la physis è permeata dal medesimo atteggiamento. Lo stesso pudore da cui è preso l’uomo pervade tutti gli immensi spettacoli naturali in cui il deinòn si manifesta. Lo rintracciamo nel mare, nella terra, nell’albero, nel cielo, perché ognuno dei fenomeni naturali è ciò in cui il divino si manifesta senza però mai esaurirlo. Questo apre, anche per ognuno di essi, quella distanza e differenza tra ente ed essere per la quale l’ente, nonostante e attraverso tutta la sua magnificenza, è subordinato all’essere.

A te, o Signora, io porto questa corona intrecciata, di fiori raccolti dove il pastore non si azzarda a pascolare le greggi, né giunge mai la falce, in un prato puro, attraversato dalle api in primavera, e che Pudore [Aidòs] rinfresca con la rugiada del fiume.139

Il pudore, la religiosa riverenza carica di timore, è anche la caratteristica del prato inviolato e selvaggio da cui Ippolito prende i suoi fiori da regalare ad Artemide. Tutta la physis freme e vibra di questo divino pudore. Tanto divino da essere contemporaneamente reazione e contraltare al deinòn e nello stesso tempo sua particolare manifestazione. In altre parole, questo senso di rispetto del sacro che l’uomo percepisce è esso stesso una presa di coscienza del sacro al quale si è di fronte e contemporaneamente una manifestazione del sacro stesso. Ecco perché lo stesso pudore viene elevato a figura divina: Aidòs. Tutto quanto si è detto sul sacro pudore si raccoglie, quindi, in una figura divina che compendia in sé il sacro rispetto e la venerazione del divino e, nello stesso tempo, ciò che è degno e meritevole di tale rispetto in quanto divino.

Aidós è dunque un intero mondo, in cui, penetrati di Divino, entrano del pari uomo e natura. È la «purezza sorgiva»; è il Sacro e, insieme, il religioso rispetto del Sacro; è pertanto l’essere nella sua vivente totalità.140

Siamo così ricondotti a quella idea di totalità che si colloca al cuore della verità fondamentale insegnata dal mito; «una meravigliosa conoscenza, che si può pure chiamare esperienza vitale»141 e che ha come oggetto proprio «la totalità essenziale, la molteplicità che irradia spiritualmente da un centro».142 In fondo,

è una conoscenza che neppure ha bisogno di un nome […]. Linguaggio suo proprio è la creatività immaginale del poeta e dell’artista, il che però non ci è d’ostacolo nel riconoscere l’eminente significato religioso. Che cosa potrebbe infatti dirsi religioso, se non quell’essere afferrato che l’uomo sperimenta allorché con uno sguardo giunge a scrutare gli abissi dell’essere?143

Note


  1. Sofocle, Antigone, v. 332. M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (SS 1935), M. Niemeyer Verlag, Tübingen 1966 (HGA XL), trad. it. di G. Masi, Introduzione alla filosofia, Mursia, Milano 1990, p. 154 traduce: «Di molte specie è l’inquietante». ↩︎

  2. T. Hobbes, De corpore, IV, 25, 1. ↩︎

  3. Cfr. R. Guardini, Religion und Offenbarung. Erster Band, Werkbund-Verlag, Würzburg 1958, trad. it. di A. Aguti, Religione e rivelazione, in Filosofia della religione, Opera Omnia vol. II/2, Morcelliana, Brescia 2010, p. 150. ↩︎

  4. Cfr. S. Vanni Rovighi, Filosofia della conoscenza, ESD, Bologna 2007, p. 412. ↩︎

  5. R. Guardini, Religione e rivelazione, cit., pp. 150-151. ↩︎

  6. Cfr. Platone, Teeteto, 155 d; Aristotele, Metafisica, A 2, 982 a 13. ↩︎

  7. Cfr. J. Ries, Simbolo. Le costanti del sacro, Opera Omnia vol. IV/I, Jaca Book, Milano 2008, passim↩︎

  8. M. Eliade, Le mythe de l’eternel retour – Archétipes et rèpetition, Gallimard, Paris 1949, trad. it. Di G. Cantoni, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizione, Borla, Bologna 1968, p. 25. Cfr. R. Guardini, Religione e rivelazione, cit., p. 151ss. ↩︎

  9. J. Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, Opera Omnia vol. II, Jaca Book, Milano 2007, pp. 385-386. ↩︎

  10. M. Eliade, Traité d’histoire des religions, Payot & Rivages, Paris 1948, trad. it. di V. Vacca e G. Riccardo, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 37-39. ↩︎

  11. J. Ries, L’uomo è il sacro, cit., p. 331. ↩︎

  12. Ivi, p. 368. ↩︎

  13. Cfr. M. Eliade, Trattato, cit., p. 219: «Una cosa sola possiamo affermare con certezza circa queste intuizioni primarie (la cui struttura religiosa sarebbe inutile dimostrare ancora una volta): che esse si manifestano come forme, rivelano delle realtà, si sono imposte come necessità, “colpendo” la coscienza dell’uomo». Per comprendere la portata della dimensione ontologica autentica del phainesthai, irriducibile per sua natura ad ogni forma di presentificazione o oggettivizzazione, è utile fare riferimento a M. Heidegger, Aus einem Gespräch von der Sprache (1953-1954), in Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959 (HGA XII), trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 111-113. ↩︎

  14. R. Guardini, Religione e rivelazione, cit., pp. 151-152. ↩︎

  15. Id., Der Todd es Sokrates. Eine Interpreetation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, M. Grünewald, Mainz 1987, trad. it. di E. Pocar, La morte di Socrate, Morcelliana, Brescia 1998, pp. 28-29. ↩︎

  16. W.F. Otto, Gesetz, Urbild und Mythos, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1955, trad. it. di A. Stavru, Il volto degli dei. Legge, archetipo e mito, Fazi, Roma 1996, p. 76. Cfr. ivi, p. 72: «Anche il solenne silenzio della natura è una forma che non solo può acquietare e far dimenticare per qualche istante la confusione dell’esistenza, ma può condurre fino alle soglie dell’inaudito, in modo da divenir preda di un presentimento del profondo brivido che la forma del silenzio ha suscitato nell’uomo preistorico». ↩︎

  17. Id., Die Götter Griechenlands. Das Bild des Göttlichen im Spiegel des griechischen Geistes, Klostermann, Frankfurt 1987, trad.it. di G. Federici Airoldi, Gli dèi della Grecia. L’immagine del divino nello specchio dello spirito greco, Adelphi, Milano 2016, p. 148. ↩︎

  18. M. Heidegger, Introduzione, cit., pp. 157-158. ↩︎

  19. R. Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Breslau 1917, trad. It. Di E. Buonaiuti, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione con il razionale, Feltrinelli, Milano 1984. Per un’analisi del concetto di deinòs nel pensiero di Heidegger in relazione alla concezione di R. Otto cfr. A. Caputo, La filosofia e il sacro. Martin Heidegger lettore di Rudolf Otto, Stilo, Bari 2002, pp. 106-110; 126-127. ↩︎

  20. Ivi, p. 52. ↩︎

  21. M. Heidegger, Hölderlins Hymne «Der Ister», (HGA LIII), pp. 76-77. Qui Heidegger rilegge e commenta il primo coro dell’Antigone di Sofocle, vv. 332-375. ↩︎

  22. Cfr. R. Otto, Il Sacro, cit., p. 44: «È infatti perfettamente possibile, anzi probabile che il sentimento religioso nel primo stadio del suo sviluppo erompa unicamente con uno dei suoi poli, vale a dire con l’aspetto “repellente” e appaia unicamente nella foggia di terrore demonico». Individuando il primo impulso nel deinòn più che unicamente nel tremendum a cui solo in un secondo momento si aggiungerebbe la positività del fascinans ci allontaniamo evidentemente dalla posizione di R. Otto. Il deinòn comprende entrambi i momenti ma in una strutturale coappartenenza ontologica e non in seguito ad una successione cronologica. Cfr. A. Caputo, La filosofia e il sacro, cit., pp. 82-91. ↩︎

  23. M. Eliade, Trattato, cit., p. 17: «Le cose “contaminate”, e di conseguenza “consacrate”, si distinguono, a livello ontologico, da tutto quel che appartiene alla sfera profana. […] Non si può avvicinare senza pericolo un oggetto impuro o consacrato […].» Cfr. Ivi, p. 20. ↩︎

  24. M. Heidegger, Introduzione, cit., p. 159. ↩︎

  25. W.F. Otto, Gli dèi della Grecia, cit., p. 170. ↩︎

  26. Cfr. C. Pavese, Il campo di granturco, in Feria d’agosto, Mondadori, Milano 1985, p. 48: «Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscio dei lunghi steli secchi mossi nell’aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c’era il cielo vuoto. […] Quel giorno fu un campo; avrebbe potuto essere una roccia impendente sopra una strada, un albero isolato alla svolta di un colle, una vite sul ciglio di un balzo. Certi colloqui remoti si rapprendono e concretano nel tempo in figure naturali. Queste figure io non le scelgo: sanno esse sorgere, trovarsi sulla mia strada al momento giusto, quando meno ci penso». ↩︎

  27. M. Heidegger, Was ist das – die Philosophie?, Verlag G. Neske, Pfüllingen 1956 (HGA XI), trad. it. di C. Angelino, Che cos’è la filosofia?, Il Melangolo, Genova 1981, p. 43. ↩︎

  28. J. Ries, L’uomo e il sacro, cit., p. 4. È da notare come in questo passo Ries identifichi senza ombra di dubbio il divino con il soprannaturale andando al di là del naturalismo prettamente greco e individuando una esperienza originaria. Cfr. anche Ivi, pp. 120; 122; 614; 112-113: «Secondo Festugière, questo timore sacro è una realtà anteriore al linguaggio omerico, perché l’antica parola thàmbos designa lo stupore in cui si trova immerso l’uomo dopo essere entrato in contatto con il soprannaturale. […] di fronte a questa maestà, l’uomo prova un timore sacro, poiché è consapevole di trovarsi in presenza di esseri divini. Percepita dal fedele, la realtà divina provoca nell’uomo un comportamento di rispetto congiunto a timore religioso». ↩︎

  29. M. Heidegger, Introduzione, cit., p. 159. ↩︎

  30. Cfr. J. Ries, L’uomo e il sacro, cit., p. 120-121. ↩︎

  31. Ivi, p. 308: «[…] la conclusione di tutti gli storici della religione: il sacro si manifesta come una forza e una potenza che significano realtà, perennità ed efficacia». ↩︎

  32. M. Heidegger, Introduzione, cit., p. 167. ↩︎

  33. Ivi, p. 169. ↩︎

  34. Cfr. Sofocle, Antigone, vv. 332-375. Illuminante rispetto a tutta la tematica trattata è l’opera fondamentale di Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1997. ↩︎

  35. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 161. ↩︎

  36. C. Pavese, citato in D. Lajolo, Il vizio assurdo, Il Saggiatore, Milano 1974, pp. 271-272. ↩︎

  37. M. Heidegger, Introduzione, cit., pp. 167-168. ↩︎

  38. W.F. Otto, Gli dèi della Grecia, cit., p. 174. ↩︎

  39. Ivi, pp. 169-170. ↩︎

  40. Cfr. R. Guardini, Das Ende der Neuzeit. Ein Versuch zur Orientierung, Hess Verlag, Basel, 1950, trad. it. di M. Paronetto Valier, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1993 pp. 11-13: «L’uomo dell’antichità non oltrepassa i limiti del mondo. Il suo sentimento della vita, la sua immaginazione, il suo pensiero, si tengono entro questa struttura e non si preoccupano di chiedersi che cosa ci potrebbe essere al di fuori o al di sopra. […] gli manca, al di fuori del mondo, quel punto fermo di cui avrebbe bisogno per un simile tentativo. Su che cosa si potrebbe appoggiare tale superamento, se il mondo è per lui il tutto in assoluto? Si potrebbe rispondere: sull’esperienza di una realtà divina, che trascenda tutto questo e perciò sia al di fuori e offra a chi la riconosce un punto fisso di fronte al mondo. Ma l’uomo dell’antichità non conosce una simile realtà». ↩︎

  41. A. Caracciolo, prefazione a W.F. Otto, Theophania. Der Geist der altgriechischen Religion (1956), Klostermann, Frankfurt 1975, trad. it. di M. Perotti Caracciolo e A. Caracciolo, Theophania, Il Melangolo, Genova 1996, p. 11. ↩︎

  42. Per questo motivo la riflessione di W.F. Otto sul mito e la religione dei Greci risulta, a mio avviso, di notevole importanza anche per un fruttuoso approccio ai problemi relativi all’ontologia sviluppatisi lungo tutto il cammino della filosofia occidentale. Non per niente il legame tra Otto e Heidegger, pur nelle evidenti differenze, risulta a tal proposito illuminante. ↩︎

  43. W.F. Otto, Gli dèi della Grecia, cit. p. 21. ↩︎

  44. Ivi, p. 165. ↩︎

  45. Ivi, p. 196. ↩︎

  46. R. Guardini, La morte di Socrate, cit., p. 314. ↩︎

  47. W.F. Otto, Gli dèi della Grecia, cit., p. 212. ↩︎

  48. Cfr. l’imponente lavoro di J. Ries, in particolare i volumi II, III, IV della sua Opera Omnia: II, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità; III, L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro; IV, Simbolo, mito e rito, costanti del sacro, Jaca Book, Milano 2007. ↩︎

  49. Ciò lo si può notare anche nella riflessione filosofica presocratica. Sebbene anch’essa si muove nello stesso orizzonte naturalistico del mito greco, troviamo al suo fondamento la chiara intuizione di una dimensione metafisica del principio primo. Anzi, nella riflessione filosofica, a differenza che nel mito, questa intuizione produce una sempre più pressante esigenza di comprensione e di chiarificazione del problema supposto. Sarà questa esigenza che condurrà Platone a fondare la metafisica, esplicitando ciò che era sotteso nel pensiero dei suoi predecessori. ↩︎

  50. M. Eliade, Mythes, rêves et mystères, Gallimard, Paris 1957, trad. it., di G. Cantoni, Mito, sogni, misteri, Lindau, Torino 2007, p. 10. ↩︎

  51. Cfr. W.F. Otto, Der Mythos und das Wort, in Das Wort der Antike a cura di K. Von Fritz, Klett, Stoccarda 1962, trad. it. di G. Moretti, Il mito e la parola, in Il mito, Il Melangolo, Genova 2007, p. 35: «Esso [il mito genuino] non è però soltanto comprensivo, ma onnicomprensivo. Ogni mito genuino si dirige alla totalità del reale (proprio perciò non lo si può paragonare a nulla di razionale, ma avvicinarlo soltanto come sguardo complessivo sulla manifestazione originaria, o rivelazione). Dato che il mito comprende sempre la totalità del reale (dunque l’essere in opposizione alle cose essenti), esso si rivolge del pari alla totalità dell’uomo, all’essere dell’uomo». ↩︎

  52. Id., Gli dèi della Grecia, cit., p. 166. ↩︎

  53. A tal proposito M. Eliade parla, come si vedrà in seguito, di unità totalizzante e di coincidentia oppositorum. Da questa percezione dell’essere nascerà il problema filosofico fondamentale del rapporto tra l’uno e i molti. ↩︎

  54. W.F. Otto, Theophania, op. cit., p. 101. ↩︎

  55. R. Guardini, Der Mensch. Grundzüge einer christlichen Anthropologie, 1939, trad. it. di C. Brentari, L’uomo. Fondamenti di una antropologia Cristiana, Opera Omnia vol. III/2, Morcelliana, Brescia 2009, p. 203. Cfr. W.F. Otto, Il volto degli dei, cit., p. 68: «Cos’è allora a convincerci e ad afferrarci spesso sin nel profondo? È l’essenziale nella perfezione della sua manifestazione, la totalità e l’unità che si offrono ai sensi di un essere in sé in quiete. Per questo identifichiamo la forma anche con la bellezza […]». ↩︎

  56. W.F. Otto, Il volto degli dei, cit., p. 22. ↩︎

  57. Id., Theophania, cit., pp.105-106. ↩︎

  58. Cfr. Aristotele, Metafisica, I, 980 a. ↩︎

  59. Cfr. B. Snell, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen, Claassen, Hamburg 1963, trad. it. di V. Degli Aberti e A. Marietti Solmi, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 2002, pp. 20-24. ↩︎

  60. M, Heidegger, Introduzione, cit., pp. 160-161. ↩︎

  61. Sofocle, Antigone, vv. 332.333. ↩︎

  62. È da notare, a tal proposito, l’evoluzione interna al mito greco per cui si passa da una manifestazione del divino nelle forme naturali ad una manifestazione divina che predilige la forma umana. Cfr. W.F. Otto, Gli dèi della Grecia, cit., p. 170: «Ora però la forma umana diviene unica ed esclusiva; e con ciò la nuova fede si stacca decisamente dall’antica. La manifestazione in forma animale testimonia ancora di una divinità non spirituale, legata all’elemento e alla materia, e di sensazioni sconfinate e mostruose, suscitate dal contatto con essa. La forma umana annuncia invece una natura divina, che si compie nello spirito. […] questa spiritualità […] ritiene sacra la forma naturale; la chiara determinazione di quest’ultima ha valore di vera rivelazione del divino, e per questo la divinità medesima deve presentarsi nella più nobile di tutte le forme della natura: l’umana». ↩︎

  63. R. Guardini, La fine, cit., p. 14. ↩︎

  64. M. Heidegger, Introduzione, cit., p. 169: «Il più inquietante non costituisce il punto più alto dell’inquietante stesso, in senso graduale. Ma è, per sua natura, ciò che vi è di unico nel suo genere nell’inquietante». ↩︎

  65. W.F. Otto, Theophania, cit., p. 75. ↩︎

  66. M. Heidegger, Introduzione, cit., p. 170. ↩︎

  67. Sofocle, Antigone, vv. 333-369: «E apprese la parola / e il vento del pensiero / e l’impulso al vivere civile / e come fuggire i dardi a cielo aperto / del gelo inospitale, dei rovesci di pioggia, / moltiplicando le sue risorse. / Mai senza risorse / affronta il futuro, e soltanto dall’Ade / non avrà scampo; / ma ha inventato rimedi a malattie inguaribili. / Oltre ogni speranza / signoreggia l’intelligenza / che escogita risorse, / e inclina ora al male, ora al bene: / e si innalza nella città / quando serba rispetto per le leggi / e per la giustizia giurata nel nome degli dei». ↩︎

  68. Cfr. M Heidegger, Introduzione, op. cit., pp. 166-167. ↩︎

  69. Ivi, pp. 163-164.. ↩︎

  70. Cfr. G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Raffello Cortina Editore, Milano 1999, cap. 1-4; B. Snell, La cultura greca, cit., cap. 1. ↩︎

  71. Ivi, p. 93. ↩︎

  72. H. Frankel, cit. in G. Reale, cit., p. 95. ↩︎

  73. Omero, Iliade, 22, 270 ss. ↩︎

  74. W.F. Otto, Theophania, cit., p. 58. ↩︎

  75. Ivi, p. 59. ↩︎

  76. Omero, Iliade, 1, 188-222. ↩︎

  77. Cfr. B. Snell, La cultura greca, cit. pp. 56 ss. ↩︎

  78. W. Goethe, cit. in B. Snell, cit., p. 57. ↩︎

  79. W.F. Otto, Gli dèi della Grecia, cit., p. 182. ↩︎

  80. Id., Theophania, cit., pp. 62-63. ↩︎

  81. Id., Gli dèi della Grecia, cit., p 182. ↩︎

  82. Ibid. ↩︎

  83. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, cit., pp. 35-36. Cfr. ivi, p. 39. ↩︎

  84. Ivi, p. 51. ↩︎

  85. Ibid. A questa idea e visione arcaica delle cose va ricondotto anche il concetto di androginia che accompagna sempre le divinità arcaiche. Cfr. ivi, p. 85: «L’androginia divina si incontra ovunque nella storia delle religioni, ed è degno di nota sottolineare che sono androgini perfino gli dei per eccellenza maschili e le dee per eccellenza femminili. […] la divinità, in qualsiasi modo si manifesti, è una potenza assoluta, una realtà ultima – e questa realtà non può essere limitata da nessun tipo di attributi (buono, cattivo, donna, uomo, ecc». ↩︎

  86. Ivi, p. 54. ↩︎

  87. Ivi, p. 83. ↩︎

  88. Ivi, p. 7. ↩︎

  89. Ivi, p. 13. ↩︎

  90. Ibid. ↩︎

  91. Cfr. M. Eliade, Trattato, cit., cap. 2. ↩︎

  92. Cfr. Ivi, cap. 7 e 8. ↩︎

  93. M. Eliade, L’épreve du labyrinthe, Pierre Belfond, Paris 1978, trad. it. di M. Giacometti, La prova del labirinto. Intervista con C.H. Rocquet, Jaca Book, Milano 1990, p. 54. ↩︎

  94. Ivi, p. 26. ↩︎

  95. Cfr. ivi, p. 55: «Questa unità di cultura, per me, fu una rivelazione. Scoprivo che qui, nell’ambito stesso dell’Europa, le radici sono ben più profonde di quel che avremmo creduto, più profonde del mondo greco o romano o anche mediterraneo, più profonde del Vicino Oriente dell’antichità. E queste radici ci rivelano l’unità fondamentale non soltanto dell’Europa, ma anche di tutto l’oekumène che si stende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylon». ↩︎

  96. M. Eliade, Trattato, cit., p. 301. ↩︎

  97. Ivi, p. 331. ↩︎

  98. Ibid. ↩︎

  99. Ivi, p. 302. Per la «struttura soteriologica» della «mistica agraria» cfr. il passo fondamentale di Eliade in ivi, pp. 330-331. ↩︎

  100. Ivi, p. 324. ↩︎

  101. Ivi, p. 301. ↩︎

  102. Ibid. ↩︎

  103. Ibid. ↩︎

  104. Ivi, p. 317. ↩︎

  105. Cfr. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, cit., pp. 20-22. ↩︎

  106. Ivi, p. 20. ↩︎

  107. Come non riconoscere un’eco evidente di questo pensiero mitico nella riflessione razionale dei Presocratici? Basta pensare ad Anassimandro, Eraclito o alla lotta tra Amore e Odio nel pensiero di Empedocle. ↩︎

  108. M. Eliade, Briser le toit de la maison, Gallimard, Paris 1986, trad. it. di R. Stagno, Spezzare il tetto della casa. La creatività e i suoi simboli, Jaca Book, Milano 2016, p.63. ↩︎

  109. Ivi, p. 79. ↩︎

  110. Ivi, pp. 80-81. ↩︎

  111. Ibid. ↩︎

  112. Cfr. M. Eliade, Trattato, cit. p. 311 ss. ↩︎

  113. Si spiega in questo modo anche il nesso tra riti agrari, fecondità sessuale e riti funerari. ↩︎

  114. M. Eliade, Trattato, cit. p. 316. ↩︎

  115. Cfr. in particolare per il mondo ellenico M. Untersteiner, La fisiologia del mito, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 19 ss. ↩︎

  116. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, cit., p. 15. ↩︎

  117. Ibid. ↩︎

  118. Cfr. Ivi, p. 16. ↩︎

  119. M. Eliade, Trattato, cit., p. 255. ↩︎

  120. Ibid.: «La coesistenza dei motivi floreali-acquatici e dei motivi vegetali-femminili si spiega con l’idea centrale della creazione inesauribile, simboleggiata dall’Albero Cosmico e identificata con la Grande Dea». ↩︎

  121. Ivi, p. 261. ↩︎

  122. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, cit., p. 23. ↩︎

  123. Presso molte società arcaiche il culto della Grande Dea avveniva per mezzo di rituali che implicavano una sorta di rovesciamento di tutti i valori morali e sociali e anche attraverso la pratica di orge rituali o di sacrifici sanguinari. Tracce di culti del genere si trovano anche presso società più evolute e vicine a noi nel tempo. Cfr. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, cit., pp. 23-24. ↩︎

  124. Ivi, p. 24. ↩︎

  125. Ivi, p. 26. ↩︎

  126. Ivi, p. 18. ↩︎

  127. Ibid. ↩︎

  128. Ibid. ↩︎

  129. M. Eliade, La prova, cit., p. 116. ↩︎

  130. Cfr. Platone, Simposio, 203 a. ↩︎

  131. C. Pavese, La belva, in Dialoghi con Leucò, cit. pp. 40-42. ↩︎

  132. Esemplare di questo atteggiamento è il pensiero di Francesco Bacone. ↩︎

  133. C. Pavese, La belva, cit., p 41. ↩︎

  134. Al termine e al concetto di aidòs possiamo collegare sèbas nel senso di religioso timore e dunque pudore e rispettosa venerazione carica di stupore per ciò che è sebastòs, venerando, venerabile. ↩︎

  135. W.F. Otto, Theophania, cit., p. 91. ↩︎

  136. Ibid. ↩︎

  137. Eschilo, Prometeo, vv. 128 ss. ↩︎

  138. W.F. Otto, Theophania, cit., p. 92. ↩︎

  139. Euripide, Ippolito, vv. 73 ss. ↩︎

  140. W.F. Otto, Theophania, cit., p. 93. ↩︎

  141. Id., Gli dèi della Grecia, cit., p. 168. ↩︎

  142. Ibid. ↩︎

  143. Ivi, p. 169. ↩︎