1. Il campo di indagine
Il presente intervento tenta di riflettere sull’essere nel suo movimento fondamentale e, quindi, di riattingere al dato fondamentale per cui qualcosa esiste. Per questo si muoverà all’interno dell’ineludibile contributo della riflessione severiniana, specie a partire dalle opere La struttura originaria ed Essenza del nichilismo, in cui, com’è noto, il filosofo mostra come la cifra essenziale della filosofia occidentale, fin dalle origini, sia la determinazione dell’essere come possibilità e non in quanto evidenza. Questa osservazione ha imposto un ripensamento della scacchiera, per così dire, speculativa e dell’evento di quel to on che, inevitabilmente e in quanto tale, è. Il campo di indagine, pertanto, del presente contributo è l’osservazione e l’analisi di quel to on, non più sospeso all’ipotesi dell’esserci possibile, ma inteso come libertà, alla luce della filosofia pareysoniana, la quale, a sua volta, è pensata e rischiarata dalla riflessione trinitaria. In altri termini proveremo ad abbozzare un pensiero sull’essere non nichilista, nel senso severiniano di comprensione inautentica di un essere che è fintantoché è, ovvero sospeso e minacciato dal nulla. Questo tentativo proverà a riattingere all’originario, all’essere in quanto tale, perché, come già insegnava Aristotele, il reale, per esistere, deve implicare un ineludibile riferimento ad una qualche forma di inizio. La mutevolezza o la finitezza del reale obbligano a riconoscere la sua provenienza, la sua condizione di possibilità in un “primo” di cui esso stesso possa essere testimonianza. Sarà proprio tale provenienza l’oggetto materiale dell’intervento, pensata alla luce delle conquiste dell’ontologia della libertà di Pareyson, e dell’evento trinitario. Il tema della libertà, peraltro, nel mondo moderno ha assunto un ruolo sempre più decisivo e ineludibile, sia in campo culturale, politico, sociale, economico sia in campo filosofico, tanto da esserne definito, a partire da Cartesio e, in modo più esplicito, nell’Ottocento, come la «vocazione segreta». Allo stesso tempo esso presenta sempre di più non solo il volto della plurivocità ma anche un contenuto che sfugge alla presa, rischia di diventare pericolosamente vuoto e pertanto necessita di una riflessione teoretica solida.
2. Dell’inizio: oltre l’ontologia pareysoniana verso l’inabitazione di essere e libertà
Luigi Pareyson è stato uno dei grandi protagonisti della filosofia del Novecento. Il suo tentativo di ripensare l’essere come libertà e, quindi, il male come potenza ben più radicale della mera privazione d’essere entro cui la metafisica occidentale lo aveva costretto, ha rappresentato una stagione fondamentale del pensiero. Della prospettiva chiamata ontologia della libertà, elaborata prima da Schelling e successivamente ripresa e ampliata da Pareyson evidenzierei quattro meriti: a) ri-centra il discorso filosofico sulla verità e sull’essere andando oltre le derive soggettivistiche e storicistiche di quel pensiero che Pareyson ha definito “espressivo”;1 comprendendo, inoltre, l’istanza fondamentale della contemporaneità, frutto della rivelazione cristiana: ripensare la relazione come ontologicamente originaria2 b) cerca di uscire dalle “strette” di una metafisica sostanzialistico-necessitante e, quindi, dall’«ipoteca del principio di necessità», il quale ha impedito di pensare in modo autentico la categoria della relazione poiché incline a vedere le singolarità e le differenze come mere tappe di un processo culminante in una sintesi fagocitante; c) concepisce come principio quello della libertà inteso come scelta, non-fondamento e, in ultima analisi, come abisso, pur con conseguenze che agli occhi della mia ricerca appariranno non sempre condivisibili e con cui mi metterò in dialogo. Tra di esse il rapporto essere – libertà, antinomicamente “sospeso” tra l’inseparabilità e il primato della libertà; d) ripropone, attraverso un’ermeneutica del mito e dei simboli, una rigorosa relazione tra discorso teoretico ed esperienza religiosa,3 cristiana in particolare,4 avvertendo in quest’ultima l’inesauribile e insostituibile sorgente di ogni speculazione filosofica sulla libertà.5 Ciò che manca è l’approfondimento della dimensione trinitaria, considerata da Pareyson come dogma che poco o nulla ha da dire sull’ontologia. Scrive Pareyson in una lettera a Tilliette: «Se non parlo della Trinità o del Diavolo, non è perché io sostenga un’eccessiva e superata separatezza fra teologia e filosofia; ma perché mentre la teologia deve parlare della Trinità e dell’Angelo, la filosofia, più libera, può non parlarne, né è tenuta a farlo, né può essere biasimata perché non lo fa, soprattutto se si propone – com’è il mio caso – d’essere un ermeneuta dell’esperienza religiosa»,6. Tuttavia non si tratta di essere obbligati o tenuti a parlare della Trinità, o biasimati perché non lo si fa. Si tratta invece di capire se questo dogma abbia qualcosa da offrire al pensiero, allo stesso modo con cui Pareyson riconosce che il Figlio, rispetto al quale il filosofo ha la stessa libertà di astenersi dal parlarne, ha qualcosa da offrire.
Ora l’intuizione di Pareyson fu molto profonda poiché pensare l’essere come libertà implica la non banale affermazione che l’essere, prima di tutto, è, e quindi salvando, per così dire, la sua filosofia dall’analisi severiniana sul nichilismo. Ma l’esito di questo tentativo portò verso un sentiero interrotto, in quanto il filosofo non riuscì a districare tutte le conseguenze a cui la sua straordinaria intuizione può portare. Mi sembra, infatti, che l’ontologia della libertà approdi ad un’aporia fondamentale: la contraddittorietà del rapporto essere/libertà. È l’essere che fonda la libertà o viceversa? Senza un pensare trinitario, che guardi all’originarietà della relazione intesa come inabitazione reciproca, la matassa non può sciogliersi perché o si antepone la libertà trasformando il principio in un arbitrio necessitante o, viceversa, si svuota la libertà del suo afflato verso la relazione riducendola a funzione dell’essere. Mi sembra che l’ontologia della libertà sia stata più sensibile al secondo rischio e abbia scelto, quindi, la prima strada. Infatti essa, volendo concepire il principio originario come libertà, finisce per descriverlo, in realtà, come mera arbitrarietà che porta ad una nuova e più radicale necessità. Tale aspetto muove dal concepire l’antitesi in Dio in senso non trinitario, la quale, a sua volta, porta a concepire la differenza tra fondamento come abisso oscuro ed esistenza come scelta di bene ma, allo stesso tempo, istituzione della possibilità del male. Mi sembra che il nodo centrale sia, da un lato il non pensare autenticamente la libertà come inizio, poiché la si fa derivare dal nulla e, dall’altro, il mancato approfondimento della libertà come scelta, la quale dovrebbe portare a scorgere due dimensioni ancora più originarie, l’appello e l’ascolto, poiché il fatto stesso di scegliere richiama sia qualcosa da scegliere sia qualcuno che chiama alla scelta. Se, invece, l’assoluto viene inteso trinitariamente, come relazione in sé per l’altro, se la misura dell’assoluto è l’alterità pericoretica intesa come inabitazione reciproca nella distinzione, allora la libertà non si dispiega più come mera arbitrarietà ma come scelta da sempre fedele di sé e, in quanto tale, per l’altro. Nella medesima direzione mi pare fecondo ripensare il rapporto non essere/essere (inteso come nulla/libertà), in cui Pareyson esprime, riprendendo l’ultimo Schelling, il «Dio prima di Dio» come vittoria sul nulla che in quanto tale conosce e istituisce il nulla nell’atto di debellarlo.7 Se tale intuizione si rivela illuminante nel cogliere il versante meontologico essenziale all’ontologia, sembra però contraddire l’altra grande intuizione di Pareyson, quella della libertà come inizio. Il filosofo così non spinge fino in fondo le conseguenze di una filosofia della libertà quando delinea quest’ultima come emergente dal nulla, aspetto, questo, che definisce lui stesso “inquietante”: «Ciò che caratterizza la libertà è dunque l’istantaneità del suo inizio. È a questa istantaneità che si allude quando si parla, come spesso accade, del “nulla della libertà”. Se la libertà è puro inizio, prima di essa non c’è nulla: essa sorge improvvisa senza riattaccarsi a nulla che la preceda. Dire ch’essa comincia da sé non è niente di diverso dal dire ch’essa comincia dal nulla».8 È proprio quest’ultima tesi che va rivista, anche all’interno di una filosofia della libertà; intesa in senso profondo, essa deve affermare che la libertà inizia da sé, non proceduta dal alcunché, nemmeno dal nulla. La libertà come appello fonda la libertà come scelta. Si tratta di sondare le virtualità ontologiche della libertà come appello. L’appello può essere negato; ma la negazione dell’appello, in quanto tale, è un chiudersi, un rifiutare. Certo esso, coinvolgendo e donando libertà, si abbassa al punto dal poter-essere-negato. Ma questo poter-essere-negato non è, di per sé, una sua istituzione, un suo frutto. È piuttosto un aborto. La possibilità dell’aborto è dovuta alla manifestazione piena della possibilità della libertà, la quale è un corrispondere all’appello, una manifestazione di esso, ovvero la voce dell’essere. Questo perché, propriamente, l’aborto non è possibilità di libertà, ma sua negazione. L’appello ha come frutto la libertà, come aborto la negazione di essa. Si tratta, quindi, non solo di mettere insieme inizio e scelta nella libertà, ma sottolineare la natura dell’inizio come appello. La libertà è inizio in quanto appello e scelta in quanto riconoscimento dell’appello come inizio. Questo inizio, proprio perché è appello, non è un nulla, un baratro, un non-fondamento. Certo, può rimanere sempre la domanda “da dove viene l’appello, cosa c’è prima di esso?”, ma essa si potrebbe porre anche per il nulla del non fondamento. Quello che occorre mettere in evidenza è che l’abissalità del fondamento originario è la scelta di privilegiare il nulla come origine di tutte le cose, il quale non può che portare al dominio dell’arbitrario, vero e proprio trionfo della necessità. Se si vuole davvero sfuggire ad essa, si può pensare all’inizio come appello, il quale non costringe alla corrispondenza bensì pone la scelta tra essere risposta e manifestazione nell’apertura oppure non risposta e negazione nella chiusura. La libertà così si dispiega pienamente con la risposta e in ciò manifesta l’essere come pienezza che si fa non essere per far-essere-l’altro.
3. La realtà a fondamento della necessità
Se volessimo, allora, ripensare la libertà come inizio, sempre, tuttavia consapevoli che ogni costruzione teorica non possa imbrigliare la stupefacente complessità del reale e, ancora di più che il dato di fede non si lascia dire se non nel vivere, dovremmo ripartire dall’assunto di fondo dell’ontologia della libertà: la realtà è. Sembra banale a dirsi, ma dopo secoli in cui il reale è stato subordinato alle istanze della necessità, questo è un vero e proprio ribaltamento. Non è, come vuole una solida tradizione che possiamo definire, per brevità, idealista, il reale un predicato della necessità, ma il contrario. La necessità esiste in quanto storia o, potremmo dire, racconto del reale. Occorre osservare come l’assunto fu colto da Pareyson a partire dalla riflessione sulla teologia biblica che lo portò a pensare la filosofia come ermeneutica dell’esperienza di fede e della tradizione religiosa. Significative, in questo senso, le pagine dello scritto L’esperienza religiosa e la filosofia: «Per il Dio vivente, e massimamente per lui, vale ciò che vige per ogni reale in genere: non è perché dev’essere, ma dev’essere perché è; egli è perché è, e se non può più non essere, ciò è perché ormai è. La necessità che Dio ha di essere è posteriore alla sua realtà: in lui l’irreversibilità dell’essere non è che l’irrevocabilità dell’atto di libertà».9
A bene vedere, già nel pensiero greco la necessità ha un “limite” nel senso che la catena di causalità di cui è costituito il mondo, per quanto determinista possa essere il quadro che ne risulta, non può andare all’infinito. Ci sono un principio e una causa ultima. È così in Platone con l’idea del Sommo Bene, epékeina tês ousías; è così in Aristotele con il primo motore immobile; è così in Plotino, il quale si concentrerà sul pensiero di un ultimo causante incausato, l’Uno, radicalizzandone lo stacco e la trascendenza rispetto alle ipostasi. Ecco allora lo “spazio” della libertà nel pensiero greco: è quello dell’uno, il causante non causato, l’immemorabile, l’abisso che influenzerà la filosofia positiva di Schelling e l’ontologia della libertà di Pareyson. Si tratta ora di provare mettere insieme questa grande intuizione del pensiero greco, quella della non infinità della determinazione e della libertà dell’originario, con la rivelazione cristiana del principio originario come relazione pericoretica, di inabitazione reciproca, rischio ontologico da sempre vinto nella reciprocità. Perché far questo? Non è forse un salto indebito? Occorre rimarcare qui un punto essenziale: senza questa rivelazione trinitaria il pensiero greco della libertà dell’Uno si infrange su stesso e introduce una nuova, ancor più radicale (e pericolosa), necessità: quella dell’arbitrarietà del principio originario, dell’onni-compossibilità dell’Inizio. La necessità che si voleva buttar via dalla porta, rientra dalla finestra. Non rimane che una via: l’intuizione umana deve lasciarsi ferire dalla rivelazione del Tu, del di-fronte, dell’Esperienza, e la ragione deve farsi coinvolgere nello stupore,10 deve insistere nell’abbandono.11. Ma questo stupore e questa insistenza, per essere fecondi, devono aprirsi al contenuto di senso offerto dall’esperienza religiosa e trasmesso dal traditum. Quando quest’incontro accade, occorre provare a svilupparne le conseguenze teoretiche. Occorre, per così dire, tentare di dire il tragico nella tradizione dell’esperienza.
4. Per una ricategorizzazione della negatività
Da questo ripensamento del rapporto reale/necessità, possiamo pervenire ad un altro tema, quello del rapporto assoluto/arbitrario e, ancora più profondamente, essere/non essere. Questo tema, tra l’altro, è ancora più cogente all’interno del convegno: proprio il non dell’essere, infatti, è il vero bersaglio della filosofia severiniana. In particolare potremmo chiederci: è davvero assoluto ciò che è arbitrario, ed è arbitrario ciò che è assoluto? Il riferimento è ancora una volta lo scritto L’esperienza religiosa e la filosofia, laddove Pareyson afferma: «Ma l’ego sum qui sum vuol dire anche “io sono chi mi pare”. Alla domanda “Qual è il tuo nome?” che significa fondamentalmente: “Qual è la tua essenza? Insomma: chi sei tu?”, la risposta è: “Io sono chi mi pare e tanto basti. Io sono chi voglio; io sono chi voglio essere. Io sono quel che voglio essere e voglio essere quel che sono, e, in generale, voglio essere. Tanto basti per la mia essenza e per la mia esistenza: il mio essere me lo do io come voglio”. Ciò mostra un senso ulteriore e più profondo della libertà originaria: dalla libertà di Dio dipende l’essere stesso di Dio, nel duplice significato della sua esistenza e della sua essenza. La libertà assoluta e arbitraria di Dio viene confermata, e anzi intensificata, da queste parole divine che sembrano dire: “Io sono libero al punto d’esser libero anche dal mio essere, giacché il mio essere me lo do come voglio”. Usualmente si considera come la suprema manifestazione della libertà divina la creazione del mondo; ma la libertà di Dio compare già a un livello anteriore e assai più profondo: alla radice stessa del suo essere».12 Se, invece, l’assoluto viene inteso trinitariamente come relazione in sé e per l’altro, se la misura dell’assoluto è l’alterità pericoretica, intesa come inabitazione reciproca, allora la libertà non si dispiega più come mera arbitrarietà ma come scelta da sempre fedele di sé e, in quanto tale, per l’altro. Nella medesima direzione pare fecondo ripensare il rapporto non essere/essere (inteso come nulla/libertà), in cui Pareyson esprime, riprendendo l’ultimo Schelling, il «Dio prima di Dio» come vittoria dell’essere che in quanto tale conosce e istituisce il nulla nell’atto di debellarlo.13 Se tale affermazione si rivela illuminante nel cogliere il versante meontologico essenziale all’ontologia, sembra però contraddire l’altra grande intuizione di Pareyson, quella della libertà come inizio. Il filosofo non spinge fino in fondo le conseguenze di una filosofia della libertà quando delinea quest’ultima come emergente dal nulla.14 Da qui si può sviluppare quella «ricategorizzazione» della negatività di cui scrive Donà,15 in cui il non dell’essere non è il mero nulla che si dischiude nell’atto della scelta di essere da parte della libertà originaria, ma è l’atto di far-essere l’altro. Il non è così in-vista del per, la negazione in-vista del dono. Laddove questo in-vista non può essere inteso come momento possibile ma superfluo dell’ontologia, bensì come movimento intrinseco, dinamica inerente all’Essere, come λόγος del tό ὄν.
5. L’essere come dinamica di reciprocità reciprocante
In se stessa allora la libertà è in rapporto originario con l’Essere inteso come agapè,16, e si può estendere, così, quella coincidenza di auto ed etero relazione di cui aveva parlato Pareyson per la libertà creata17 al principio originario. In questo senso la libertà non va anteposta all’essere ma piuttosto va colta come sua espressione essenziale, come sua voce. Se l’Essere è amore, pertanto definito originariamente da una molteplice unità pericoretica, la libertà viene definita come atto di dedizione piena di sé e, in questo, di relazione in atto.18 È nella direzione dell’essere/amore (e quindi agapè/relazione pericoretica) come appello alla libertà che va sciolto, e allo stesso tempo stretto, il nodo del rapporto libertà-essere. Da qui si può uscire dall’assunto pareysoniano secondo cui solo la libertà può precedere la libertà per dare un nuovo significato alla scelta. La dimensione trinitaria mi sembra trascendere anche la classica formulazione della libertas maior, libertà per il bene, per far emergere una libertà nel bene. Qui la libertà è co-originaria ad una chiamata che è tale da mantenerla autonoma. Una chiamata che nell’evento del far-essere/agapè-la-libertà si manifesta nella latenza.
Da qui la visione, allora, della libertà come una grandezza ontologicamente relazionale,19 costitutivamente definita da una relazione di alterità. La riflessione di Ciancio in questo senso è particolarmente significativa laddove scrive che l’essere va pensato come un’alterità costitutiva della libertà;20 oppure quando afferma che la libertà è «posizione del sé come altro attraverso la posizione dell’altro da sé».21 Ma il pensare trinitario porta al ripensamento dell’affermazione: «Che cos’è l’essere in un’ontologia della libertà? È il fenomeno della libertà, il suo accadere, presentarsi, determinarsi, imporsi, persistere e produrre effetti».22 Occorre rovesciare tale assunto e provare a pensare, invece, che in un’ontologia trinitaria della libertà, la libertà è risposta che si accorda all’appello dell’essere diventandone manifestazione. Ne scaturisce un’unità che non elimina ma è distinzione nella relazione. Nel circolo ermeneutico di libertà-alterità-riconoscimento si dispiega la reciprocità agapica in cui l’apertura all’ A/altro è costitutiva dell’ Io/io, ovvero, ontologicamente, la relazione di reciprocità è costitutiva dell’identità; inoltre la stessa reciprocità non viene declinata in una logica binaria ma, proprio perché essa è reciprocità, risulta costitutivamente essere agapica e trinitaria, ovvero coinvolgente il tertium come orizzonte intenzionale della dinamica relazionale, la quale diviene, in questo senso, effusivamente reciprocante.23
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Cfr. L. Pareyson, Filosofia e ideologia, in Id., Verità e Interpretazione, Mursia, Milano 1971, pp. 93 – 126. ↩︎
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In particolare Schelling riflette sul rapporto fondamento-natura in Dio. Cfr. Schelling, Ricerche Filosofiche del 1809, Indifferenza originaria e dualità come non identità. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Libertà e situazione, in Id., Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 2000, pp. 22 - 23: «Attraverso la concezione che nella trattazione di certi problemi come per esempio il problema del male, e diciamo pure anche il problema della libertà (problemi in cui la filosofia almeno sinora si è dimostrata del tutto fallimentare) non ci si apre altra via se non la riflessione filosofica intesa come ermeneutica del mito. Ermeneutica del mito intesa come riflessione sull’esperienza religiosa […] Perché, interessano a tutti i dati come quelli a cui si riferisce l’esperienza religiosa: come il male, come la libertà, come la divinità, come la sofferenza, come il destino dell’universo, come il destino del mondo, come il senso ultimo delle cose». ↩︎
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Come scrive Pareyson «l’idea di appendere tutto alla libertà, di farne dipendere ogni cosa, di darle posizione di centro, di elevarla a origine e fonte, non può che essere cristiana». L. Pareyson, Il nulla e la libertà come inizio, in Id., Ontologia della libertà, cit., p. 460. ↩︎
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Cfr. P. Coda, Trinità come libertà, in Id., Il logos e il nulla. Trinità religioni mistica, Città Nuova, Roma 2004, pp. 316-331. ↩︎
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L. Pareyson–X. Tilliette, Una corrispondenza filosofica, in «Annuario filosofico», 9 [1993] 34. ↩︎
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Pareyson, L’esperienza religiosa e la filosofia, op. cit., p. 133. ↩︎
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Pareyson, Il male in Dio, in Id., Ontologia della libertà, op. cit., p. 255 ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 2015, pp. 85 – 149. ↩︎
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Con stupore intendo rifarmi all’esperienza della ragione di fronte al puro esistente, la pura realtà, termine della filosofia negativa, quella dei «puri concetti», e inizio della filosofia positiva che prende le mosse dall’esistente stesso, di cui parla Schelling. Ecco come Pareyson lo descrive: «lo stupore trova la sua incarnazione vivente nell’immagine fornita dal significato etimologico dell’estasi, come ɛ̓́́κ-στασις “esser fuori di sé”: è in preda allo stupore chi è “fuori di sé”, nella posizione di chi è stato colpito da qualcosa di così sorprendente da restarne fulminato e impietrito». L. Pareyson, Lo stupore della ragione e angoscia di fronte all’essere, in Id., Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 2000, p. 402. ↩︎
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Riprendo questa espressione da M. Heidegger, Per indicare il luogo dell’abbandono. Da un colloquio sul pensare lungo un sentiero tra i campi, in Id., L’abbandono, trad. it. A. Fabris, Il melangolo, Genova, pp. 49 – 83. Ecco come Fabris descrive la nozione di Gelassenheit (abbandono) in Heidegger: «Gelassenheit […] è il rapporto alla verità dell’Essere […] L’uomo può rapportarsi alla scaturigine del pensiero, a ciò che non può essere pensato perché è prima di ogni pensiero, solo se si mantiene disponibile, se si affida ad esso. L’uomo così si trova gelassen (affidato) alla contrada, disponibile al suo dispiegarsi». Cfr., Ivi, nota 3, p. 87. ↩︎
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Op. cit., p. 129 (corsivo mio). Si può notare, nel passo appena citato, un’interpretazione del testo Es 3,14, ancora legata alla metafisica greca, estranea al pensiero biblico. Per un’ermeneutica più cogente, con conseguenze non poco rilevanti a fini della presente ricerca, rifarsi a G. M. Porrino, Le tracce della Trinità nel Primo Testamento, in «Nuova Umanità», XXIV (2002/2-3), n. 140-141, 139-162, in cui si evidenzia l’intuizione della relazione espressa nel nome di Dio, non l’arbitrarietà della sua libertà. Cfr. anche P. Coda, L’avvento di Dio come libertà, in G. Cicchese, P. Coda, L. Zak (edd.), Dio e il suo avvento. Luoghi momenti figure, Città Nuova, Roma 2003 e P. Coda, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2012, pp 142 - 159. ↩︎
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Pareyson, L’esperienza religiosa e la filosofia, op. cit., p. 133. ↩︎
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Cfr. Pareyson, Il male in Dio, in Id., Ontologia della libertà, op. cit., p. 255: «Ciò che caratterizza la libertà è dunque l’istantaneità del suo inizio. È a questa istantaneità che si allude quando si parla, come spesso accade, del “nulla della libertà”. Se la libertà è puro inizio, prima di essa non c’è nulla: essa sorge improvvisa senza riattaccarsi a nulla che la preceda. Dire ch’essa comincia da sé non è niente di diverso dal dire ch’essa comincia dal nulla» (corsivo mio). È proprio quest’ultima tesi che va rivista, anche all’interno di una filosofia della libertà; intesa in senso profondo, essa deve affermare che la libertà inizia da sé, non proceduta dal alcunché, nemmeno dal nulla. ↩︎
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Cfr. M. Donà, La libertà oltre il male. Discussione con Piero Coda ed Emanuele Severino, Città Nuova, Roma 2006, pp. 43: «Solo dagli esiti di tale ripensamento [della categoria di negazione] dipende infatti la possibilità di intendere con maggior precisione la potenza della dinamica trinitaria. Così come è solo a partire da un radicale ripensamento della dinamica trinitaria che possono essere guadagnati spunti decisivi per una proficua ricategorizzazione del “negativo”»; cfr. M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004. ↩︎
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Cfr. K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria, Città Nuova, Roma 1994; P. Coda, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2012; Id., Il logos e il nulla, cit.; G.M. Zanghì, Dio che è amore, Città Nuova, Roma 2004. ↩︎
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Cfr. in particolare L. Pareyson, Esistenza e Persona, Il melangolo, Genova 2002. ↩︎
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Illuminanti in questo senso le parole di Paris: «La primazia accordata da Pareyson alla libertà si sposterebbe verso il bene, inteso come forma relazionale di amore. Dio non è libero e perciò ama, ma ama e perciò – nell’incontro con l’altra ipostasi – è libero. Meglio ancora, Dio, ponendosi come Dio in modo originariamente plurale, può amarsi liberamente perché “è” in modo non univoco. Se l’origine è trinitaria il bene smette di essere l’arbitrario “segno più” scelto dalla libertà e diviene l’appello alla libertà in vista della relazione. I tre chiedono di essere per potersi amare, chiedono di essere liberi per potersi amare, chiedono che la relazione avvenga nel segno positivo per non inibirla. La libertà non diviene meno originaria o meno essenziale, soltanto si mostra ordinata all’amore». Paris, Il confronto filosofico fra la libertà umana e divina: L. Pareyson, in Id., Sulla libertà, cit., pp. 227 -228 (corsivo mio). ↩︎
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Cfr. Coda, Dalla Trinità, cit., p. 579: «Spingendo la nostra intelligenza di fede in questa direzione, nella fedeltà alla logica della rivelazione, si può intuire come, nella Trinità, la libertà non possa essere definita ontologicamente come una grandezza assoluta ma, come tutto in Dio, relazionale». ↩︎
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Ivi, p. 180. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 184. ↩︎
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Cfr. Coda, Dalla Trinità, cit., p. 567: «La reciprocità è vera quando è aperta ed effusiva. La reciprocità è tale quando è effusivamente reciprocante: e cioè indirizzata a moltiplicare all’infinito il dinamismo stesso per cui è reciprocità». ↩︎