1. I termini del problema: Heidegger teologo?
Ancora con Heidegger e la teologia?1 Sì, ancora. E non per rilevare ancora una volta il debito contratto dal filosofo di Meßkirch nei confronti della teologia cristiana;2 né per indagare i presupposti, sottaciuti o espliciti, del suo Denkweg assunti dalla parabola teologica del Novecento.3 Si tratta qui di scorgere nell’Herkunft4della riflessione di Heidegger quei prodromi teorici che non solo lo avrebbero portato al cuore del suo pensiero, l’Ereignis, ma che ne avrebbero contrassegnato i contraccolpi interni, gli Hollzwege, le ritrosie. «Heidegger e la teologia» non è quindi il topos di uno sforzo erudito — teso magari a comparare le diverse interpretazioni di questo rapporto succedutesi nel corso degli anni; né di un eclettismo sterile, fomentato della fobia di non poter offrire un’esposizione organica del suo pensiero. L’endiadi suggerisce piuttosto la messa al bando di ogni «illusione storicista», così come di ogni interpretazione «apologetica», preda esangue di teologi particolarmente zelanti nel voler cogliere il filosofo in flagranza di reato.5 Il compito che allora si propone il volume di «Humanitas» è particolarmente ambizioso: congedare l’impostazione genetico-concettuale, sinora dominante nell’indagine sulla quaestio Heidegger e la teologia, in favore di quella teorico-sistematica. Un cambio di paradigma, dunque — punctum dolens.
Infatti, non è forse l’intento di Heidegger quello di eludere l’ambito della cristianità — e non certo nel senso di voler ripristinare un Urchristentum, à la Overbeck, quanto di prenderne definitivamente congedo, dal momento che il letzte Gott è «del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano»?6 E non è forse un gesto di violenza il suo, il prototipo perfetto dell’inquisitore preda del vittimismo simbolico che espelle la «montagna giudeo-cristiana» dall’altare della Neuzeit, e sotto il cui «manto immacolato dell’agnello sacrificale si intravede una zampa nera»?7 Oppure il suo gesto nega questa negazione per pensare in essa e per essa la necessità del necessario? Così i teologi di Derrida hanno esposto la questione. Il Versprechen della religione cristiana accenna — «winkt» — all’alba aurorale della Frühe; non c’è rimozione, congedo o dipartita, se non nel senso di una «preclusione» che apre al pensiero ciò che nega nell’attribuzione: la tensione soteriologica del cristianesimo va ricondotta al limes inaggirabile dell’archi-originario, a quell’«a partire da» entro cui una possibilità «storica» indica verso ciò che rimane eterogeneo all’origine, il Deus ormai affrancato dalla scure dell’onto-teo-logia.8
D’altra parte che si parli di neutralità, opposizione o conciliazione riguardo al rapporto di Heidegger con la teologia,9 rimangono pur sempre le sentinelle dei Lehrjahre del giovane filosofo a rigenerare ad ogni piè sospinto la vexata quaestio.10 Innumerevoli le testimonianze a favore della sua tempra teologica: e non si tratta solo della celebre autodefinizione di «christlicher Theologe» nella lettera a Löwith;11 o del palese riconoscimento di una «theologische Herkunft»;12 oppure delle scosse telluriche sotterranee di matrice cattolica13che ne hanno forgiato il domandare — e si sa che per Heidegger se la filosofia avesse per ventura l’idea di reclamare un «compimento», questo non si darebbe in altro modo che nel sondare l’abisso della domanda: «La filosofia è sempre compiuta quando la sua fine è e rimane ciò che costituisce il suo inizio: domanda»,14 domanda in quanto pietas del pensiero.15 Si narra invero di un teologo senza Dio, ma per quanto gottloser pur sempre di un teologo: dedito a sgranare il rosario, a leggere avidamente Kierkegaard,16 irretito da un atteggiamento semiclaustrale,17 nonché solito nel dispensare testi «edificanti» ad allievi e amici — tipo il De imitatione Christi o le Confessiones — e ancora… ligio alle celebrazioni della «sua» Ekklesia, almeno in terra natìa, e soggiogato da vertiginosi spasmi di compunzione spirituale.18 Insomma, un Lutero redivivus, uno che al posto della theologia crucis innesta il calvario della Faktizität,19 e con essa porta acqua al mulino di teologi arditi, Bultmann e Rahner su tutti. Ma non è questa la posta in gioco; o per lo meno, ne è solo il sintomo. È la struttura stessa della filosofia quale intesa da Heidegger a manifestare il luogo originario di una radice teologica. E questo al di là delle varie tendenze — «apologetiche», «concordiste» o «oltranziste» — che hanno caratterizzato le varie declinazioni del rapporto Heidegger/teologia.20 In sostanza: c’è una lente privilegiata con la quale cogliere il Denken heideggeriano — ce n’è una che ne rappresenterebbe l’origine, la porta d’accesso, il limes essenziale; una entro cui stanno e cadono le questioni affrontate dal «mago di Messkirch», ed è quella teologica (H, 578).
2. Philosophia crucis o «ferro ligneo»? Tra filosofia e teologia
Il titolo del volume di «Humanitas», però, è Heidegger tra filosofia e teologia — come dire che vi sarebbe uno Zwischen a cui entrambe possono prestare ascolto: una cerniera che apre e chiude il passaggio dall’una all’altra; dall’una nell’altra. Anche qui i riferimenti non aiutano. Il diniego di Heidegger è noto,21 ed è sancito dalla famosa conferenza Phänomenologie und Theologie: la filosofia si attua per mezzo di un radicale domandare, è una «libera problematizzazione dell’esserci dipendente puramente da sé»; la teologia, invece, si riferisce a un positum, un dato, svelato nella fede e per la fede, vale a dire in e per un modus existendi. E «dal momento che esistere è agire, cioè πϱᾶξις, la teologia ha per essenza il carattere di una scienza pratica».22 D’altra parte il «giù le mani», l’ingiunzione rivolta all’onto-teo-logia da parte della filosofia — «non è in gioco la conoscenza di una filosofia, ma il saper filosofare»23- il giovane Heidegger la applica alla stessa esperienza protocristiana della vita.24 La radicalità dell’esercizio fenomenologico viene così trasposta al commento di testi canonici per la traditio christiana. Proprio qui si rivela quella dicotomia che Heidegger non avrebbe più abbandonato — esposta nel «manifesto» di una philosophia crucis25 e aggiornata nella versione della Grundstimmung di un pensiero altro, incline alla Verhaltenheit, «ritegno», al passo indietro, all’Andenken dell’«altro inizio» — quella tra conversio e metánoia, l’inquietum cor e l’assiologizzazione di valori per mezzo di categorie greche. Riferimenti che permettono ad Heidegger, sedotto da Lutero, di contrapporre al Theologus gloriae il Theologus crucis,26 e che già nel semestre precedente (1920/1921) lo avevano portato — sulla scia di un’esplicazione fenomenologica delle lettere paoline (1 e 2 Ts) —, ad esporre la tensione oppositiva fra i «chiamati», i κλῆτοι, e i «reietti», gli ἀπολλύμενοι. Nel cogliere il senso della parusía i primi si lasciano affascinare da sterili elucubrazioni, concepiscono l’attesa in modo conforme al Vorstellen, al rap-presentare, discettano sul «quando» inserendo l’evento in una linea obiettiva del tempo. Questi non assumono l’insecuritas della effettività cristiana a cui li rinvia Paolo — si lasciano assorbire dalle significatività. I secondi, invece, assumono la necessità della tribolazione (ϑλῖψις), concepiscono il Vollzugssinn del Selbstwelt di Paolo — il kérigma è allora attuato in termini «propri», secondo la direzione del fenomeno originario: non c’è sicurezza o sollievo, «Per la vita cristiana non c’è alcuna sicurezza; e la costante insicurezza è anche il tratto caratteristico di tutte le «cose aventi un significato fondamentale» della vita effettiva».27 Qui l’escatologico non è un «Vor-stellen», ma si attua nell’esser-desti, nel come dei riferimenti alle significatività mondane. Questi vengono in-franti nel δουλεύειν, nel servire Dio, in un’angustia sempre più accresciuta — «Decisivo diventa non lo sprofondamento mistico, lo sforzo particolare, bensì sopportare le debolezze della vita»,28 e ancora: «qualcosa rimane invariato, eppure viene radicalmente trasformato».29
Non sfugge come qui sia presente una costellazione di riferimenti che Heidegger riprenderà in seguito. Così per designare i Zukünftigen («venturi»),30 gli Abgeschiedenen («dipartiti») ,31 coloro che si arrischiano verso l’Erörterung, che si «mettono in cammino» poiché invitati, chiamati32 a «cor-rispondere» alla loro essenza; coloro che «domandano», quindi, che esperiscono e sopportano la fuga degli dèi, che permangono nell’insecuritas portando a compimento l’Untergang e si espongono al pericolo,33 Heidegger utilizza le stesse categorie essenziali che aveva adoperato per l’esegesi delle lettere paoline negli anni ’20 (i «chiamati», che rifuggono da ogni atteggiamento teoretico-obiettivante). Allo stesso modo, anche qui gli altri rimangono irretiti nel percorso della re-praesentatio, nella massa degli sforzi tesi a contrapporsi al vessillo della Tecnica: sono quelli che non percepiscono l’intima essenza del nichilismo34 — si pongono anti-, nell’illusoria pretesa di «superare» la metafisica, non di rimetterla alla sua «propria» radice attraverso la Verwindung (accettazione, approfondimento, remissione, affrancamento) ,35 salvaguardando l’Ausbleiben («rimanere assente») che permane nella s-velatezza.36
Al di là del suo ateismo metodologico, più volte ricordato da Heidegger nei primi anni della sua formazione — «la filosofia deve essere atea in senso di principio»37 — e che tuttavia, non senza un malcelato scherno, lo espone a un certo autocompiacimento nella misura in cui prende le distanze dal Dio ontico dei «teologi», il summum ens,38 rovesciando così l’accusa di «ateismo» ai suoi detrattori —, il tenore delle manifestazioni d’insofferenza del teutonico verso la possibilità di una «filosofia cristiana» aumentano negli anni Trenta e Quaranta. Anche qui i luoghi sono noti: si va dalla ripresa della definizione di «ferro ligneo» del semestre estivo del 1935,39 espressione già battezzata nella conferenza Phänomenologie und Theologie, a quella di «cerchio quadrato» del Nietzsche;40 dall’affermazione, icastica, in un dibattito del 1953 presso l’Accademia evangelica di Hofgeismar, secondo cui nella fede «il pensiero come tale non ha più un compito»,41 alla derubricazione del cristianesimo quale Weltanschauung nei Beiträge, familiare tanto al bolscevismo quanto al nazismo nella loro volontà di potenza totale — dominio della Machenschaft, della «macchinazione», ovvero: determinazione dell’ente quale ens creatum, quindi disponibile, modificabile, impiegabile, sul fondamento di un Dio decaduto al livello della causa efficiens,42 oppure degradato a «valore».43
Prima ancora dei corsi su Nietzsche, che radicano il senso della «storia» della metafisica occidentale nel nichilismo, è senz’altro il corso sulla Freiheitsschrift di Schelling a decretare il de profundis per ogni prolegomena fidei nell’alveo della filosofia. E questo per una ragione essenziale. Infatti qualsiasi riflessione sul Deus-Trinitas sorta nel seno dell’incarnazione, della Christlichkeit — quale «evento storico» del crocifisso ricompreso dalla fede e per la fede —, è già da sempre animata dal destino onto-teo-logico della metafisica. Contro la communis opinio, Heidegger afferma che non è tanto la filosofia ad essere una secolarizzazione della teologia cristiana, quanto quest’ultima a cristianizzare una teologia extracristiana — una ϑεολογία che pone al suo fondamento la questione dell’ ὂνᾗὅν, del fondamento dell’Essere (Seyn), chiamato dio. Questa Teo-logia, un tale λόγοϛ del ϑεόϛ, in quanto pone la questione dell’ente nella sua totalità, è originaria alla filosofia, gli appartiene. È quindi solo sul presupposto di questo fondamento teologico originario della filosofia, di questa origine essenziale, che la teologia cristiana ha potuto essere secolarizzata dalla filosofia:
«Ogni teologia della fede è possibile solo sulla base della filosofia, anche allorquando essa rifiuti la filosofia come opera demoniaca. […] L’interrogazione filosofica è sempre e in sé duplice, onto-logica e teo-logica, nel senso più lato. La filosofia è ontoteologia. Quanto più originariamente essa riunisce questa dualità, tanto più autenticamente è filosofia.»44
Siamo agli antipodi dalla conferenza Phänomenologie und Theologie. Se lì il positum della teologia veniva svelato solo nella fede, «dalla quale essa nasce e a cui ritorna» — fede in quanto conversio esistenziale, «rigenerazione» (Wiedergeburt), fondata nell’evento storico del Verbum Crucis; e se la teologia, per quanto «nemico mortale» (Todfeind) della filosofia, era comunque orientata da un «proprio» statuto epistemologico, conforme all’interpretazione concettuale dell’esistenza cristiana,45 qui l’intima essenza della teologia è già in sé filosofica, onto-logica. E se la filosofia, certo per sua intima necessità (Not), è già da sempre abitata dalla Seinsvergessenheit, che considera solo l’ens qua ens dimenticando l’essere — restandone però irretita fino al compimento della sua essenza nichilistica che costituisce il mondo als Bild, «immagine»46-, e se pertanto essa, in quanto metafisica, è «il nichilismo autentico»47 — allora il cristianesimo, e con esso la teologia, rientrano a pieno titolo in questa Geschichte.48
Certo, stiamo un po’ semplificando; la questione va senz’altro intesa nella ricusa di Heidegger per il Deus causa sui,49 il summum ens qua summum bonum,50 quello ontoteologico appunto, che porta in sé i prodromi della sua dissoluzione, sancita dall’ardua sentenza: Dio è morto. E questo è un dio che per Heidegger non ha nulla di divino — niente a che vedere con il göttliche Gott.51 Tuttavia le osservazioni qui esposte ci danno la possibilità di introdurre alcuni degli interventi del numero di «Humanitas».
3. Capelle-Dumont, Albarello, Sheehan
Il Capelle si sofferma su questo snodo fondamentale.52 Fedele a un approccio topologico, egli indaga la riflessione heideggeriana sul teologico per mezzo di quella tensione soteriologica che l’ha sempre accompagnata, animata, «redenta». Richiama così il verbo dell’intervista allo Spiegel, Nur noch ein Gott kann uns retten, e quello altrettanto suggestivo della «provenienza teologica» negli Unterwegs zur Sprache. Accenna poi ad aneddoti, testimonianze, che disegnano il locus manifestus di quella «spina» nel fianco — il conflitto con la fede — che ha sempre sedotto il Denkweg heideggeriano: Dio (H, 531). Il saggio segue allora questa traccia per mezzo di quattro scene principali: la scena fenomenologica, la scena teologica, quella metafisica e la scena poetica. Il responso è appunto lapidario — il Deus revelatus non ha più posto nella riflessione di Heidegger. È scalzato, ridotto a mantra onto-teo-logico. Il delitto è preparato dalla «scena» teologica, approfondito in quella metafisica e definitivamente consumato nell’ultima, la poetica. Ciò che qui fa problema è il senso dell’«attesa» dell’«ultimo Dio», la quale destina l’uomo al cono d’ombra di un «Dio sconosciuto». La sua Offenbarkeit è relegata a un «disvelamento che lascia vedere quello che si nasconde», e che in tanto si dà a vedere solo in quanto «custodisce il nascosto nel suo nascondersi».53 Ma questa attesa è vuota; non c’è posto per il calvario di un’esistenza che reclama qui e ora una liberazione:
«In modo ancor più serio, ci si domanderà se il tragico dell’esistenza può, presso il dio salvifico di Heidegger, trovare qualcosa di meglio di una risposta il cui compito sia semplicemente quello di interpretare l’evento, cioè: una risposta performativa che lo stravolga (H, 543).»
In questa prospettiva, il Capelle registra comunque una certa originalità nel sentiero aperto da Heidegger nella «scena fenomenologica». La polemica condotta dal giovane filosofo negli anni iniziali della sua docenza friburghese (1919-1923) — mutuata dai precedenti stimoli che gli provenivano all’insegnamento del teologo Carl Braig54- contro l’ontologia classica, il neokantismo, la filosofia dei valori e il «sistema del cattolicesimo», apre il suo pensiero a una serie di spunti rilevanti per la determinazione e il senso del divino. Qui entra in gioco il distacco del giovane Heidegger dalla metafisica tradizionale: l’oggetto del contendere è la questione della trascendenza di Dio. Il Capelle circoscrive allora i temi e gli autori che ne avrebbero orientato il successivo filosofare: Hegel e Duns Scoto (Tommaso di Erfurt). Dal primo Heidegger assume il concetto di Korrelativität tra Dio e la storia;55 dal secondo, invece, il carattere univoco dell’analogia. Ma è appunto il periodo successivo, quello della docenza friburghese, ad articolare meglio i presupposti presenti nell’Habilitationsschrift, limati e approfonditi dalla conversio al metodo husserliano e al mondo protestante.
Il Capelle si sofferma in particolare sugli appunti preparatori del corso su I fondamenti filosofici della mistica medievale, che Heidegger stese nell’estate del 1919 in preparazione al corso del WS 1919/20, poi non più tenuto.56 Viene quindi considerato l’esercizio fenomenologico del giovane Heidegger: questi cerca di rinvenire nel «mistico» i caratteri di quella faktische Lebenserfahrug che costituiranno poi il laboratorio privilegiato per la formulazione dell’analitica esistenziale di Sein und Zeit.57 In primo luogo, allora, un Gegenbewegung («contro-movimento»). A cosa? A ogni forma regionale, sistematica e teoretica di articolazione del fenomeno del religioso — «nessuna pretenziosa filosofia della religione», né alcuna sottomissione dell’esperienza originaria alla struttura del sistema ovvero a una qualche idea elaborata da una critica della cultura. Questi sono tutti coprimenti, contraffazioni che impediscono l’accesso allo storico, al fenomeno originario del religioso. Per esso ne va, invece, delle forme espressive e dei momenti costitutivi per cui si dà una mistica e si può quindi parlare di un esperire Dio (H, 533) .58 Nessuna oggettivazione deve imbrigliare nella gabbia del teoretico questo Erfahren; ad esso è «sufficiente» lo stesso esperire, concepito sul piano della Urwissenschaft,59 vale a dire dell’indicazione formale del fenomeno religioso, della sua donazione originaria. In questa direzione, l’originario, l’Assoluto, il senza determinazione, si costituisce nell’esperienza originaria dei vissuti religiosi; ma se l’anima, il soggetto, non ha un’oggettualità già determinata a cui contrapporsi, e se la direzione del comprendere fenomenologico non considera altro che la datità originaria dei fenomeni esperiti — allora, sarà il fondo dell’anima, nella sua Absolutheit, a dover corrispondere all’oggetto «Dio», l’Assoluto. Ciò implica un homoíosis, «secondo cui il simile è conosciuto solo dal simile» — qui Heidegger incontra Eckhart: «Assolutezza di oggetto e soggetto nel senso dell’unità radicale di entrambi: io sono esso ed esso è me» (H, 534) .60 Prima di ogni antitesi — fede/sapere, razionale/irrazionale, soggetto/oggetto — è la motilità effettiva dell’esperienza religiosa a decretare l’istituzione dell’oggettuale in quanto oggettuale: «soltanto così diventa chiaro il senso mistico-teoretico del concetto centrale di distacco».61 L’Abgeschiedenheit eckhartiana assume allora il carattere dell’interdizione heideggeriana ad ogni forma del quarere Deum che non sia attinta dalla coscienza storica dei vissuti originari. «Il fenomeno del processo di costituzione della presenza di Dio è un fenomeno originario. Dio non potrebbe essere considerato come un oggetto costituito esteriormente, egli è presente alla disposizione che cerca di comprendere il mondo, di analizzarlo e di interpretarlo. Descrivere fenomenologicamente significa dunque raggiungere il soggetto storico che esiste interpretando il suo mondo il quale è dopo tutto la dimora di Dio» (H, 534-535).
Questo progetto teorico viene poi trasferito nei corsi successivi tenuti dal giovane Privatdozent, quelli dedicati a un’esplicazione fenomenologica della religiosità protocristiana. Il Capelle si sofferma brevemente su quello del SS 1921, Augustinus und der Neuplatonismus.62 Al di là del «gesto di interruzione» che connota l’indagine heideggeriana nei riguardi della confessio di Agostino, il tenore della parte introduttiva del corso è chiaro: Heidegger chiude i conti con quello che definisce un atteggiamento storico obbiettivo; che si tratti di Troeltsch (storia della civiltà), di Harnack (storia dei dogmi) o di Dilthey (storia della scienza), l’impostazione e il senso d’accesso alla figura di Agostino è sempre la stessa: determinazione come mero Objekt all’interno di un contesto obiettivo, regionale, tendente alla «rassicurazione», a un sistema di connessioni che assecondi «l’esigenza unificatrice della ragione» (H, 535). Tuttavia proprio la determinazione della vita effettiva scoperta in Agostino, la sua Bekümmerung, «cura», la molestia, che connota la direzione del suo comee il Vollzugssinn («contesto d’attuazione») in base all’esperire storico dell’io sono- non inficiata, quindi, da categorie regionali entro cui collocare gli oggetti considerati solo in base al loro «che cosa» («La molestia non è un elemento obiettivo — un ambito dell’ente, lì presente in qualche senso dell’obiettivazione teoretica della natura —, bensì contrassegna un come dell’esperire») ;63 questa acquisizione, secondo Heidegger, viene poi persa da Agostino: essa è ricondotta all’assiologizzazione di una gerarchia di valori — ci si orienta su un Dio che dispensa dall’inquieta motilità della vita effettiva. Così il Capelle: «Questo scarto riguarda la maniera attraverso la quale Agostino intese la fruitio Dei: contemplando la permanenza di un riposo in Dio, il Summum bonum, egli avrebbe strappato la vita fattuale alla sua inquietudine ontologico-temporale» (H, 536). Da qui si dipana per il Capelle quella china che avrebbe poi portato Heidegger a negare qualsiasi statuto filosofico al gesto incarnatorio, così come ad escludere che nell’ambito dello schema della Korrelativität, Dio-mondo, si potesse ancora intendere il Dio che si fenomenalizza, che si rivela. È il tema dell’Ereignis, invece, ad esaurirne la dinamica (H, 543-544).
Proprio sull’Ereignis si sofferma il contributo di Duilio Albarello.64 L’intento è quello di rilevare il discrimine che la comprensione di questa nozione ha esercitato nella ricezione del pensiero di Heidegger da parte di alcuni autori della tradizione cattolica, e di provare poi ad articolare, partendo dai limiti di questi, una propria posizione speculativa teologico-filosofica che vada in una direzione altrimenti che metafisica. I referenti principali sono Johannes Baptist Lotz, Bernhard Welte e Max Müller.65 La determinazione del rapporto originario tra il darsi dell’essere e l’attuazione dell’esserci, della differenza/co-appartenenza tra essere ed esserci, quindi dell’evento che appropria l’esserci all’essere, viene declinata da questi autori in modo differente: in Lotz66 abbiamo l’esigenza un superamento metafisico dell’Ereignis; in Welte67 la via di un’integrazione fenomenologica; in Müller,68 invece, quella di una correzione ermeneutica a favore di un’attuazione libera dell’esistente (H, 605). Ognuna delle tre posizioni manifesta una qualche carenza, si mantiene estrinseca alla questione dell’Ereignis. Che si tratti dell’approccio trascendentale-metafisico (Lotz), di quello fenomenologico-teologico (Welte), o di quello ontologico-ermeneutico (Müller), la prospettiva che li accomuna è preda di un’unilateralità a favore del momento ontologico-strutturale: in Lotz verso l’ipsum esse subsistens, che mediante la deduzione esplicativa riconduce la storicità dell’uomo a un’eternità sovrastorica; in Welte verso un’accentuazione della dimensione apofatica, troppo evanescente per poter coinvolgere la libertà umana; in Müller, infine, mediante una determinazione troppo formale e indeterminata nell’attuazione storica del soggetto.69 Al Seyn/Dasein è interdetta così quella dinamica correlativa, con-costitutiva, che dovrebbe presiedere al loro rapporto; nei termini dell’autore, quella tra verità e libertà, Dio e uomo (H, 624). Si instaura in questo modo il nesso teo-antropo-logico, la coappartenenza tra donazione e condeterminazione: «La dinamica di reciprocità, che qui viene posta a tema, richiede d’altro canto di essere precisata teologicamente attraverso una formula di questo genere: tanta condeterminazione da parte della libertà finita dell’uomo quanta donazione da parte della libertà infinita di Dio» (ibi.) .70 Qui la direzione è quella della determinazione cairologico-simbolica, esposta all’indeducibile rapporto con la verità, il Dio incarnato: questa si compie e realizza nella tensione descritta da Müller attraverso il Gott-Symbol: né riduzione, né assolutizzazione, quindi, ma una co-appartenenza che si consolida nel σύμβολον . Il primato dell’iniziativa teo-logica, insomma, è con-costitutivo, si costituisce «con» l’attuazione antropo-logica. Questa correlatività deve però essere preservata da una radicale asimmetria — l’indisponibilità dell’agápe non è mai «misurata» dall’agire umano. Questa eccedenza, d’altra parte, non compromette la logica del symbállein, «che intende privilegiare la prospettiva della originaria corrispondenza, senza per questo attenuare in alcun modo il momento della differenza» (H, 625-626). L’Assoluto, pertanto, l’eterno, non si pone come altro dal tempo, bensì del tempo: la narrazione dell’umano lo configura, ne costituisce il drâma che lo rende determinante per la sua stessa donazione. «La teologia non può muovere se non dall’aposteriorità — dunque dalla gratuità — dell’evento, il quale d’altra parte si mostra capace di inverare la struttura della soggettività quale forma della libertà storica».71
Il contributo di Thomas Sheehan,72 a sua volta, cerca di articolare una proposta heideggeriana per la fede cristiana. Quest’ultima decide di sé nella misura in cui è posta tra due alternative: l’ὁμοíωσις ϑεῷ e la μετάνοια, l’assimilatio Dei e la conversio. Nel primo caso non c’è posto per Heidegger; nel secondo, forse. Ma è un forse che dapprima viene limitato dallo Sheehan, poi amplificato — con alcune preclusioni, però. La prima è che qualsiasi preparatio evangelii del pensiero di Heidegger venga confinata all’interno del suo πέρας ermeneutico, quindi finito; la seconda, a questa connessa, e che ci si soffermi sul Gesù storico, senza ricorso a cristologie o teologie post-mortem. In entrambi i casi le preclusioni sembrano tuttavia costituire dei punti di forza per la stessa doctrina christiana. Così riguardo alla radicale finitudine, lo Sheehan afferma che il confinamento dell’uomo a ciò che è a lui proprio, invece di aprire uno iato con la trascendenza, «è anzi la condizione di possibilità di un dono della grazia divina» (H, 526). D’altro canto, riguardo al secondo punto, ci si rifà all’esinanizione, alla kénosi agapica che istituisce una communio tra i fedeli che vi corrispondono, consolidata soprattutto dall’epistola giovannea73 e dalla sentenza indiretta riportata da Tertulliano.74 Celebre il prologo di Giovanni: Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio ce lo ha rivelato (ἐξηγήσατο) —, narrato, spiegato.75 E questa narrazione è stata per l’appunto sancita dalla caritas, e quindi dal comandamento della conversio ad essa. Lo Sheehan, allora, racchiude la dinamica di questi due aspetti nel kérygma escatologico, un éschaton che però è ricondotto «all’urgenza dell’azione esistenziale in relazione al kérigma, a differenza degli scenari apocalittici della fine-del-mondo, popolari al tempo di Gesù» (H, 527). Qui si potrebbe situare un possibile incontro tra il messaggio del Gesù storico e il progetto filosofico di Heidegger. La «predicazione» viene pertanto ad assumere il vestibolo cairologico — il tempo opportuno — dell’azione stringente; — una conversione che indica anche l’unico modo con cui il regno di Dio arriva (ibi.).76
Questa lettura dello Sheehan — la determinazione escatologica del regno ricondotta al come del suo riferimento/attuazione, e non a un’attesa oggettiva degli éschata —, dipende chiaramente dall’interpretazione heideggeriana delle epistole paoline ai Tessalonicesi nelle prime lezioni friburghesi (WS 1920/21)^[77] — un corso che lo Sheehan conosce molto bene.77 Tuttavia, qui l’autore cerca piuttosto di testare il Denkweg heideggeriano alla luce del senso del kérygma protocristiano, storico. Effettua così una suggestiva analogia tra il Dio che respinge di Rahner78 e la Lichtung, la «radura», il «luco» di Heidegger — lucus a non lucendo.79 Come quello, anche la radura si dà in una lontananza respingente, in un rifiuto, in una radicale improprietà: subiamo così il contraccolpo che l’Offenheitci ri-vela; quello della gettatezza, del niente, dell’Abweisung, «rigetto», che ci riporta al mondo delle persone e delle cose. Sappiamo come per Heidegger questo significhi l’assunzione di questa fatticità, l’ek-sistere nel Geviert, nell’Aperto, che sopporta (aussteht) questa espropriazione del fondamento e così abita l’In-der-Welt-sein nella radicale finitezza della sua radura. In questa gettatezza l’uomo è condannato alla sua natura ermeneutica: «Essere umani significa fondamentalmente essere gettati e aperti in quanto radura, cioè come la possibilità e anzi la necessità di rendere le cose discorsivamente intelligibili» (H, 524). Di conseguenza, se Dio si dovesse comunicare, non potrebbe farlo in altro modo che all’interno di questa dimensione finita, mortale ed ermeneutica dell’uomo. Tuttavia, ed è comunque una precisazione essenziale, lo Sheehan rileva come l’infinita possibilità ermeneutica dell’uomo abiti anche l’eccedenza, senza che questa debordi dalla correlazione alla sua stessa humanitasfinita-temporale. In termini heideggeriani la si potrebbe determinare come l’apertura per il mistero (die Offenheit für das Geheimnis). Sia come sia, l’intonazione della lettura dello Sheehan sembra rivolgersi al noto passo del Brief über den Humanismus, che tuttavia egli non riporta.80 Partire però dalla Wahrheit des Seins implica il seguire la sua determinazione, quella pensata da Heidegger, della custodia (Wahrnis) a cui l’esser-ci è chiamato. Ma intanto vi è chiamato solo perché, piuttosto che In-der-Welt-Sein, egli è In-der-Bedeutsamkeit-sein, che ha da essere i suoi modi, ek-sistere il suo Wesen, assumendo la sua gettatezza (Geworfenheit)^[82]: «La vera e propria struttura dell’uomo consiste nel suo coinvolgimento a priori con il significato. Senza questo coinvolgimento l’uomo cessa di esistere. Quando non siamo più in rapporto con il significato, siamo morti» (H, 513).
La tesi dello Sheehan, esposta già in altri luoghi,81 è che il linguaggio del Sein abbia ormai fatto il suo tempo per la comprensione del pensiero di Heidegger. A supporto di essa, egli riporta l’evidenza testuale — in particolare i Seminari (la Thor e Zurigo) e le conferenze contenute in Zur Sache des Denkens, indicando nell’ultima parola del pensiero heideggeriano, l’Ereignis, il terminus a quo per una sua eventuale apertura teologica. Che l’ad quem dell’«evento» ne possa poi diventare l’esito, è negato; che lo possa in qualche misura suggerire, no. Soprattutto se la determinazione ermeneutica e finita a cui l’uomo è assegnato, lo espone a quel contraccolpo, a quell’Abweisung, che ne rileva il tratto pratico e lo mantiene in esso. Sarebbe pertanto un Deus absconditus, un Revelatum, che non potrebbe essere esibito in altro modo se non mediante un ἑρμηνεύειν:
«Una volta Heidegger ha detto che se avesse scritto una teologia, in essa non sarebbe apparsa la parola «essere». Ma tale teologia non potrebbe in ogni caso fare a meno dell’ermeneutica e — se non della parola — del fenomeno del «significato». Per quanto riguarda Heidegger e il problema di Dio, è tutta una questione di ermeneutica, e dunque di finitezza.» (H, 529)^[84]
4. Kleffmann, Anelli
Tom Kleffmann82 prende invece spunto dalla conferenza del 1927, Phänomenologie und Theologie, per delineare un approccio sistematico alla determinazione del rapporto tra le due ennemies irréductibles.83 Ciò che per i teologi risulta inaccettabile nella proposta heideggeriana è «che alla struttura dell’auto-relazione, a cui corrisponde originariamente l’esistenza «autonoma», [venga] concesso un primato ontologico che permane» (H, 602). Questo primato ontologico è da Heidegger definito dal noto passo in cui viene sancita la determinazione dell’ontologia fondamentale nei confronti del carattere ontico dell’esistenza cristiana: nell’«evento cristiano», in esso, in quanto «rigenerazione» (Wiedergeburt) dell’esistenza del credente che si svela nella fede e per la fede, il contenuto ontologico è precristiano, e quindi determinante per la stessa esplicazione/chiarificazione dei concetti teologici fondamentali. L’esplicazione deve però tener conto del carattere indeducibile dei concetti teologici da quelli esistenziali; non v’è qui deduzione razionale: la filosofia non tiene in scacco la fede. Ma i teologi lo negano, appunto. Il Kleffmann riprende a questo punto la critica del Löwith alla posizione di Heidegger. L’autonomia dell’esistenza credente, già pregiudicata dalla terminologia aristotelico-scolastica, verrebbe così nuovamente compromessa dall’indipendenza ontologica dell’esserci, dalla pretesa della filosofia di legarlo alla sua signoria — la «libera autoassunzione di tutto l’Esserci». Libera a tal punto da essere «superata» solo onticamente dall’esistenza cristiana — da un Aufheben, quindi, che hegelianamente conserva ciò che viene tolto e lo conserva in modo tale da elevarlo a nuova creazione, mantenendolo e inverandolo.84 Da qui la tesi (decisamente problematica) del correttivo che la filosofia esercita sulla teologia: la sua è un’opera distruttiva dei comprimenti concettuali a cui la teologia si è prestata nel corso dei secoli, smarrendo così quel punto nodale in grado di predisporre una sua chiarificazione categoriale. Opera di chiarificazione che la filosofia può invece assumere, non tanto per una sua intrinseca necessità, quanto perché richiesto dalla stessa teologia in vista di una sua scientificità. E ciò che è scientifico deve essere per sua natura comunicabile, universalizzabile. Com’è possibile, però, che l’inesplicabile, ciò che per sua essenza è l’inconcepibile («Unbegreifliche») — l’evento del Dio crocifisso che si disvela all’esistenza storica dell’esserci umano dalla fede, per la fede e nella fede —, possa essere concettualizzabile, scientificamente fondato? La risposta di Heidegger è nota: «proprio per scoprire nel modo giusto l’inconcepibilità in quanto tale, è necessario passare per un’interpretazione concettuale adeguata, cioè che, ad un tempo, arrivi sino ai suoi limiti».85 Kleffmann cerca allora di dispiegare meglio il senso di questo limite; lo fa riportando il tentativo di Heidegger, almeno in parte, a quello della demitizzazione di Bultmann86 e a quello precedente della determinazione storico-pratica della fede in Schleiermacher.87 Tutto ciò è poi orientato dall’appropriazione di Lutero e dall’indicazione che Heidegger ne desume fino, e non solo, a Sein und Zeit:
«Coerentemente con questo, la teologia riscoprirebbe alla fine “di nuovo l’idea di Lutero, secondo cui la sistematica dogmatica riposa su un ‘fondamento’che non è scaturito da una ricerca in cui la fede è primaria, e il cui apparato concettuale” nasconde e storce la problematica teologica.» (H, 597)88
Questa disamina porta il Kleffmann a negare che la determinazione delle strutture ontologiche dell’esserci possano in qualche modo inficiare l’indipendenza della teologia. L’idea heideggeriana non è quella di un superamento nel senso di un oltrepassamento-compimento dei contenuti precristiani nella koinonía con Dio; né quello di una contraddizione, nel caso in cui il punto di vista ontico assumesse questo compimento, nella fede, come un’assurdità: ciò che qui conta è la determinazione e il senso del distacco non da un esser per sé autonomo presupposto, a cui in seconda battuta verrebbe a sovrapporsi l’ens creatum coram Deo, ma da una riflessività, un’auto-relazione che entra in tensione, in contraddizione, con una rigenerazione. Ma questa contraddizione non è forse anche quella che l’esserci umano si trova a patire nella smentita che attraversa il suo «poter-essere», l’autonomia, e che lo assegna alla colpa ontologica, «condizione di possibilità» di ogni colpa? Il Kleffman sembra così suggerire un contraccolpo all’autonomia della filosofia. Non è invece la teologia, nonostante Heidegger, ma proprio in virtù delle sue pro-vocazioni, a dover definire meglio il rapporto tra i presupposti e la contraddizione di una «rigenerazione», in modo tale che il punto di fuga, il distacco coram Deo, non sia semplicemente inteso come una sovrapposizione esterna, ma come una tras-formazione, un mantenersi nell’esser-per-sé che si pone in relazione al Dio-crocifisso? In sostanza il Kleffmann esclude che il concetto di colpa heideggeriano, sviluppato nei paragrafi 54-60 di Essere e tempo, possa indicare verso una risoluzione esclusiva di un’auto-relazione dell’esserci che non sia con ciò già posta dinanzi a Dio. Semplicemente Heidegger cerca di sbarrare la strada a qualsiasi concetto «ontologico» che possa coprire il luogo originario per la determinazione dell’esistenza cristiana — la fede in quanto «quell’esistere che comprende credendo e, ponendosi nella storia, si manifesta, cioè accade, col crocifisso».89 Questo accadere, però, non si dà nella forma dell’assenso a un nucleo di proposizioni teoretiche, ma è un ek-sistere donato (geschenkte Existenzweise), vale a dire in termini luterani, fondato nella e attraverso la χάρις. L’esserci dipendente puramente da sé manca la sua totalità, è colpevole appunto. La sua Selbstübernahme, libera «autoassunzione», poiché è già da sempre esposta, in quanto In-der-Welt-sein, all’«improprietà», all’Uneigentlichkeit, deve continuamente riprendersi. E in quanto è determinazione previa a qualsiasi contenuto ontico, anche a quello della fede, Kleffmann parla di una trasformazione — non già quindi di un qualcosa estraneo all’esistenza umana tout court — a cui l’esserci perviene nel momento della sua adesione alla venuta del Dio-crocifisso:
«Si può dunque dire: il contenuto della fede è il venire di Dio all’auto-relazione umana. I modi di questa auto-relazione possono includere per esempio la coscienza o l’essere per la morte heideggeriano. In tutto ciò però è l’auto-relazione stessa a venire trasformata, dal momento che l’uomo viene a trovarsi separato proprio dal suo esser-per-sé in quanto esser-solo-con-sé: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.»(Gal 2, 20) (H, 601-602)
L’ultimo contributo che prenderemo in considerazione è quello di Alberto Anelli.90 La prospettiva che lo guida è topologico-cronologica, almeno per la prima parte del suo lavoro. In una seconda fase, l’autore assume invece una prospettiva sistematica, volta ad enucleare le questioni dirimenti del Denkweg heideggeriano, quelle del «soggetto» e del «fondamento»: solo così sarà poi possibile affrontare la quaestio «Heidegger e la teologia». Anelli sviluppa pertanto una seria e rigorosa ricostruzione concettuale delle scorribande teologiche di Heidegger, rilevando nei vari tópoi del suo pensiero i riflessi e le tracce di un discorso, mai definitivamente consumato, sul divino: dalle origini cattoliche all’ermeneutica della fatticità, dall’ontologia fondamentale al problema dell’ontoteologia, fino ad arrivare alla questione del sacro e dell’ultimo dio. Questo percorso è però accennato solo come exemplum ex negativo, di ciò che in pratica non farebbe altro che regionalizzare il problema «Heidegger e la teologia»,91 rendendolo così parallelo ad altre istanze, più o meno legittime, più o meno eterogenee, ma pur sempre incapaci di conferire una visione unitaria al pensiero di Heidegger: «Ciò che in questo quadro alla fine si ha a disposizione è un complesso eterogeneo di questioni in cui emergono diverse tematiche, delle quali nessuna sembra poter assurgere a un ruolo privilegiato e rispetto alle quali sembra interdetta ogni possibilità di ottenere una visione unitaria» (H,562). Il punto è invece rappresentato dall’esigenza di mutare paradigma: l’«appropriazione» heideggeriana del discorso teologico non ha solo a che vedere con una semplice sovrapposizione di concetti, messi lì come gettoni, ma riguarda lo statuto epistemologico originario della stessa teologia. Uno statuto che Heidegger decostruisce dal suo interno, in modo da ricollocare la riflessione teologica in una problematica più ampia, quella onto-teo-logica.
Su questo aspetto ci siamo già soffermati in sede introduttiva, e tuttavia conviene insistervi. Infatti nella misura in cui questo processo esautora le convenzioni programmatiche di un discorso teologico, così sine cura dei suoi presupposti — alterità del fondamento e stabilizzazione egoica del «soggetto», nonché oggettivazione del primo e misconoscimento del legame con questo da parte del secondo —, esso articola il sentiero principale della riflessione heideggeriana, fatta sì di ripensamenti, contraccolpi e dislocazioni, ma pur tuttavia ben salda nell’enucleare lo schema del rapporto soggetto/fondamento sin dalla sua origine.92 Ecco perché, secondo Anelli, la parabola speculativa di Heidegger si articola sullo sfondo di un legame a doppio filo con la teologia: in primo luogo, essa ne assume e ne decostruisce lo schema epistemologico, permeando il leit motiv del suo Denkweg, la sua ratio formalis; in secondo luogo, lo stesso corpo a corpo che impegna Heidegger in un estenuante confronto con la tradizione metafisica nel corso degli anni, in quanto preliminarmente orientato da quella cifra iniziale di uno schema desunto dalla sua theologische Herkunft, rinvia ad un’implosione della stessa problematica teologica. Il pensiero di Heidegger arriva così a confrontarsi «con le stesse questioni che la teologia contemporanea si trova impegnata ad affrontare nell’attuale Zeitgeist e dalle quali appare sempre più problematicamente irretita».93 Non si tratta quindi di scovare dei teologumeni nella filosofia heideggeriana, per poi derubricarli alla voce «secolarizzazione» della fede cristiana, né di riprendere ancora una volta in considerazione il debito di Heidegger nei confronti della teologia giudeo-cristiana — si tratta semmai di capovolgere questo orientamento: cominciare così a pensare al peso e alla portata di un contributo di Heidegger alla teologia. Con ciò non bisogna nemmeno andare a catalogare con acribia documentaria i vari autori, testi e correnti della teologia che hanno attinto materiale dalla filosofia heideggeriana; il discorso è invece rivolto ad una questione più essenziale, ovvero fenomenologicamente orientata da uno sguardo «trascendentale»: cogliere quelle condizioni di possibilità, quei presupposti, che hanno reso possibile un interesse teologico così continuo, viscerale e problematico nei confronti del pensiero di Heidegger.
Come già detto, questi presupposti speculativi sono da Anelli ricondotti alla questione del «soggetto» e del «fondamento». Il Subjektum in Heidegger assume i tratti ermeneutici della correlazione, che cerca di affrancarsi da quel processo della modernità votato alla fondazione dell’ens qua ens nella sua totalità. Il corifeo di questa parabola è Cartesio; il suo verbo, la cogitatio dell’ego. Questo è d’altronde anche il presupposto con cui Heidegger designa la Modernità:
«Si può vedere l’essenza del Mondo Moderno nel fatto che l’uomo si affranca dai legami medioevali, rendendosi disponibile per se stesso. Ma questa giusta caratterizzazione resta in superficie (…) Il decisivo non è che l’uomo si è emancipato dai ceppi precedenti, ma che l’essenza stessa dell’uomo subisce una trasformazione col costituirsi dell’uomo a soggetto.»94
La prospettiva che qui sorregge Heidegger si direbbe posteriore alla Kehre, da cui discenderebbe il progetto di un’ontologia fondamentale. In verità quest’ultimo non è appunto slegato da una profonda e incessante rivisitazione della questione del soggetto; assistiamo senz’altro ad uno spostamento di accento nella riflessione di Heidegger, non tuttavia tale da pregiudicare una certa unitarietà nella sua articolazione. Pertanto alla correlazione ermeneutica del’io, all’idea che l’io sia già da sempre intessuto in un mondo con cui la sua esistenza si articola, e per cui ne va della comprensione di sé, degli altri e degli enti che lo circondano (Selbstwelt, Mitwelt e Umwelt) — a questa prospettiva, maturata in Heidegger dai suoi primi corsi friburghesi sino a Sein und Zeit,95 si aggiunge, come incessante complemento, quella del fondamento, del Grund, il principium rationis. Anche questo, però, viene sottoposto da Heidegger ad un profondo e radicale ripensamento. Anelli considera così il senso e la direzione di questa rielaborazione. E in conformità al suo procedimento questa disamina è di nuovo inserita nel contesto di una correlazione (ontologica). Se qui l’essere designa l’apertura originaria, l’orizzonte in cui il Dasein si trova, mediante la quale solo è possibile per lui avere mondo, senso, e che non è mai possibile oggettivare, ridurre ad ente96 — operazione alla quale si vengono ad aggiungere tutti i vari filosofemi heideggeriani, primo fra tutti: l’ontologische Differenz97 —, certamente esso non si dà che per il Dasein e attraverso il Dasein. Se il «senso dell’essere» in Sein und Zeit veniva compreso in quanto costituzione temporale dell’esserci, ora è ricompreso come «radura», «verità dell’essere», in cui l’uomo in quanto «e-sistente» (Ek-sistierende) dimora, né è il «ci».98 Questo implica però la relazione originaria tra l’essere e l’uomo, relazione che tuttavia rimane asimmetrica — «L’essere si dirada all’uomo nel progetto estatico. Ma questo progetto non crea l’essere».99 Pertanto «la riformulazione heideggeriana del fondamento, come quella del soggetto, non è a sua volta un elemento semplice, ma complesso, cioè è una relazione: la correlazione ontologica appunto» (H, 568). La questione heideggeriana deve quindi essere intesa come una «intersezione di correlazioni»: dalla correlazione ermeneutica a quella ontologica; dalla correlazione ontologica a quella ermeneutica. In Sein und Zeit l’ermeneutica della fatticità subisce una dislocazione verso la questione metafisica del fondamento. La direzione del problema assume allora una lettura ontologico-esistenziale — il «senso» dell’essere, il «rispetto-a-che» una comprensione e un progetto divengono possibili — per passare poi, a partire dal 1928 e fino alla Kehre, ad intersecare l’ambito e il rapporto tra la trascendenza e la comprensione dell’essere, dinamica della libertà e «il fenomeno originario del fondamento» (H, 569) .100 Dopo la Kehre, invece, situata dallo stesso Heidegger intorno agli anni ’30,101 la differenza ontologica viene definita come Wahrheit des Seins. L’essere è la stessa apertura, non più «comprensione dell’essere». L’essenza dell’uomo resta però il correlato della correlazione ontologica, e soprattutto si radica pur sempre nell’e-sistenza, come già in Sein und Zeit;102 in questo modo Heidegger è continuamente risospinto ad occuparsi della correlazione ermeneutica (H, 571). L’uomo è costantemente sollecitato a farsi «pastore», «custode», dell’apertura originaria nella quale dimora — ciò lo richiama ad un compito, che evidentemente esclude l’ipostasi di un «soggetto» chiuso e contratto in sé.
A questo punto l’Anelli passa a considerare l’intersecarsi di queste due correlazioni, la correlazione stessa, attraverso il nome che Heidegger le ha dato, l’Ereignis. Quest’ultimo viene poi esposto nelle due diverse accentuazioni che il filosofo di Meßkirch gli ha conferito: quella presente sin dai Beiträge (1936); e l’altra, comparsa dalla meta degli anni ’50 in poi, che trova la sua completa manifestazione nella conferenza Zeit und Sein (1962). Nel primo caso l’attenzione verte sulla correlazione ontologica, espressione delle diverse figure epocali con cui l’essere si destina nelle sue aperture di senso. L’evento nomina qui ancora la differenza ontologica in quanto rapporto — coappartenenza di evento e uomo, correlazione inscindibile dei due relata,103 nel quale «uno dei due poli (l’essere) conserva una prerogativa di priorità sull’altro» (H,574). Nel secondo caso, invece, l’evento assume i tratti dell’identità della differenza, del rapporto stesso — con ciò viene rimarcata la necessità che l’evento non venga ad essere inteso come uno dei nomi dell’essere. Non si dà in ogni caso una concezione metafisica dell’evento, magari nei termini di un’improbabile riconduzione della sua determinazione a un fondamento più originario; sia che questo possa essere inteso come l’esito di un rapporto tra i due relata, sia che lo si veda come un principio trascendente ogni determinazione finita. La rilettura heideggeriana dell’Ereignis, continua Anelli, si pone così nella dimensione di una ricalibratura del suo significato: ciò a partire da cui (Es) si dà sia l’essere che il tempo. Viene meno, quindi, anche l’accento posto sulla Zusammengehörigkeit («coappartenenza»), la quale potrebbe indicare un’interpretazione della consistenza dell’essere e dell’uomo che prescinde dal rapporto stesso.
Il confronto tra Heidegger e la teologia può quindi essere intrapreso solo ponendo a tema questi aspetti decisivi del pensiero del filosofo tedesco. Si rileva così una profonda omologia con l’ambito problematico dischiuso dalla stessa teologia nell’ambito del pensiero moderno, quello del rapporto tra soggetto e fondamento. Le stesse aporie con le quali sia Heidegger che la teologia si trovano a dover fare i conti, segnalano la consistenza di questo legame a doppio filo. D’altra parte, con ciò ci si avvicina in modo anche più ampio e strutturale alla «cosa stessa» della riflessione heideggeriana. È tuttavia l’andare oltre la modernità — in forza delle aporie dischiuse sia da parte di Heidegger che da parte della teologia nei confronti del pensiero moderno —, ciò che denota questa stretta affinità, riguarda un obiettivo comune che circoscrive la questione «Heidegger e la teologia» a ben più che ad un semplice sfoggio di erudizione o di storia delle idee. Certamente l’Anelli è ben attento nel non sovrapporre alla struttura del rapporto teologico soggetto/Dio, quella heideggeriana soggetto/essere: «l’essere di Heidegger non è Dio»; qui si dà una convergenza di progetti. Tuttavia la teologia sembra oggi richiamarsi al medesimo procedimento heideggeriano, nella misura in cui, abbandonando l’oggettivismo metafisico di stampo tradizionale, avrebbe assunto la centralità del soggetto, invischiando però il perimetro delle sue riflessioni nella morsa di due alternative incompatibili: da una parte, l’onnipotenza di un principio divino estrinseco, nei confronti del quale la libertà non può che ridursi ad essere un mero strumento passivo; dall’altra, l’affermazione di una struttura autosufficiente della liberta, in cui il divino ha ormai assunto una rilevanza superflua. È necessario invece mantenere la tensione, abitarla:
«La pietra filosofale della teologia contemporanea è una struttura del rapporto tra la libertà del soggetto e Dio tale per cui tra i due non viga alcuna relazione concorrenziale: si tratta di emanciparsi dallo schema consueto — nel quale quanto più c’è spazio per l’uno, tanto meno ve n’è per l’altro —, e di pensare al contrario una relazione nella quale la libertà e la vicenda temporale dell’esistenza umana rimandino a un principio divino che, lungi dal comportare per l’uomo l’impossibilità di decidere da sé e di sé, costituisca anzi la condizione di possibilità della libertà personale, della sua unicità e creatività.»(H, 583)
Se la determinazione del rapporto di familiarità tra Heidegger e la teologia converge verso l’esigenza di articolare una dipartita dalla modernità, dalle sue sirene oggettivistiche — riferite, nell’uno, all’ente inteso come «immagine», disponibile nell’esproprio, nell’«imposizione», Ge-stell, della sua insondabile Vergessenheit; nell’altra, al principio metafisico di un fondamento divino irrelato ed estrinseco alla vicenda umana — si può affermare che entrambi rimangono in realtà irretiti nell’orizzonte della modernità. Non riescono, infatti, a deporre la premessa decisiva che destina la Neuzeit alla sua parabola decadente: la conferma all’irrinunciabilità del ruolo e della mediazione della soggettività, condizioni che traspongono su un orizzonte storico-pratico il principio metafisico moderno battezzato da Cartesio. La determinazione del Dasein come unico detentore del «senso» — ed è questa a ben vedere la trasformazione dell’ontologia che Heidegger ha impresso alla modernità; essa non indica più ciò che ha a che vedere con l’essere come tale, bensì con quella dimensione di senso considerata «come il livello più originario e strutturante dell’esistenza umana e della realtà in cui essa vive» (H, 585) —, si articola sullo sfondo di un’evanescenza della determinazione oggettuale, a cui la teologia che vi si ispira sembra conferire nuova linfa. Il problema che qui si affaccia è quello del «correlazionismo». Decretata la banca rotta di ogni tentativo di accedere a un pensiero dell’essere che sia indipendente dalla sfera dell’umano, l’oggettivismo viene abbandonato, salvo rifugiarsi in tentativi improbabili quali quelli dell’ontological turn di tradizione analitica. Tentativi che per quanto mossi da questa esigenza, non fanno altro che ripristinare una condizione di asservimento del soggetto, rendendo pertanto la sua dimensione di senso secondaria e derivata. A ciò bisogna poi aggiungere che la costituzione del senso heideggeriana, fenomenologicamente intesa, non ha nulla a che vedere con un improbabile atto creativo o di costituzione dell’essere. Si tratta, pertanto, continua l’Anelli, di non «rinunciare al soggetto che vive di senso — certo spodestato dal suo assoluto potere feudale sulla realtà intera —, ma nello stesso tempo di farsi carico e di riconoscere i «diritti dell’oggetto»» (H, 587).
5. Conclusioni
Non si può certo negare che l’Andenken heideggeriano abbia inferto delle scosse telluriche alla teologia contemporanea; così come immaginare che non ne produrrà di ulteriori. I contributi sopra trattati gettano un ulteriore tassello su questa parabola. La loro articolazione rimane tuttavia incompleta se non viene riferita in modo radicale alla questione dell’Oggi, a quella Geschichtlichkeit sulla quale Heidegger si è soffermato nel corso del suo itinerario di pensiero: l’Überwindung della metafisica, l’oblio dell’essere, la costellazione dell’Impianto, del Gestell, come uni-formazione planetaria all’«assenza di scopo» del pensiero calcolante. Come pochi, Heidegger è riuscito a diagnosticare la deriva «usurante» della nostra epoca; come pochissimi, a raccordare il senso e la direzione di questa Welternacht nel lugubre riflesso della «globalizzazione» europea — e all’«europeizzazione è legato il fatto che si ritiene che la logistica sia la filosofia, che si pensi di poter dire con formule qualcosa di anche minimo sull’essenza di una cosa».104 Già, «Heidegger continua a renderci inquieti».105 Di un’inquietudine che accorda la sua Stimmung al «tempo della povertà»; di un’angoscia che non cerca di stornare l’Unheimlichkeit dell’«esser-mortali» dinanzi al pensiero. E la povertà è tanto più povera quanto più non riconosce «la mancanza di Dio come mancanza»;106 l’angoscia è tanto più angosciosa quanto più resta irretita nel Vorstellen, aggrappata all’illusione tenace che l’autoimposizione del volere, che livella ogni ordo nella consunzione-usura dell’essente, possa almeno salvaguardare lo spazio per una qualche fede. «Il tempo è povero perché privo del non-nascondimento [Unverborgenheit] dell’essenza del dolore, della morte e dell’amore. Povera è questa povertà stessa, perché dilegua la regione essenziale in cui dolore, morte e amore si raccolgono».107
In questo dispiegamento usurante dell’essente, in quanto riduzione dell’Anwesen alla «presenza» dominata dal computo dell’utile agente su scala politico-economica globale,108 che occulta, illuminandolo, l’ente nel disvelamento — un dis-velare che si spaccia come illimitato nell’attività dell’impiego — e induce l’uomo nella regione dell’erranza, il distoglimento dal mistero: «l’irrequietezza dell’uomo, che lo spinge ad allontanarsi dal mistero [Geheimnis] per volgersi alla realtà praticabile, e che lo fa passare via via da un oggetto all’altro della realtà corrente, senza accorgersi del mistero, è l’errare [Irren]»^[112] -; in questa dinamica, l’esser-ci dell’uomo è sottratto alla sua essenza, sbaglia la misura, tanto più che essa ha ormai assunto la soggettiva-oggettiva come instrumentum regni del suo dominio: «Dell’essere della soggettività del subjectum, e dell’uomo come soggetto, fa parte l’illimitatezza incondizionata del dominio di possibili oggettivazioni rappresentative e del diritto di decidere intorno ad esse (…) Nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo raggiunge quel culmine da cui l’uomo non scenderà che per adagiarsi sul piano della uniformità organizzata e per installarsi in essa. Questa uniformità è infatti lo strumento più sicuro del dominio completo, cioè tecnico, della Terra».109 Questa sfera illimitata del subiectum destina l’humanum al «subumano» e al «superumano»: entrambi sono l’espressione dell’abbandono dell’essere ridotto a «non-mondo» — vuota uni-formità che continua ad assicurare la sua sopravvivenza nell’inquieto agire senza scopo — e che ha ormai livellato l’uomo alla scorta di una provvista da laboratorio, materiale da produrre secondo il bisogno.110 Il post-umano, l’eugenetica, le nanotecnologie, la distinzione tra naturale e artificiale — questi ed altri aspetti, che oggi assumono il discorso cardine dell’informazione usurante, votata all’esproprio dell’uomo dalla sua essenza; la riduzione di ogni sapere, di ogni «cultura» all’ambito indifferenziato del metodo e alle possibilità ad esso intrinseche — «Nel metodo è tutta la potenza del sapere. Il tema rientra nel metodo»111 -; tutto questo, questo scenario, che oggi ci suona nella sordida luce del familiare, Heidegger lo aveva visto bene.
A questo punto rimane da chiedersi se non sia già compromesso ogni discorso teologico che in qualche modo voglia eludere questo erramento, dandolo per un «errore» — semmai passeggero, o comunque emendabile -; che non consideri come nel post-umano la distruzione dell’esperienza,112 l’oblio della morte, e il dissolvimento del pensiero (Andenken: «rammemorazione» dell’abitare poetico), riguardino una rimozione dell’humanum in quanto capax Dei; che non veda come a questi fenomeni non appartenga, stricto sensu, solo il carattere ormai «antiquato» dell’uomo, ma la sua stessa possibilità di evadere dal mero dato della manipolazione nichilistica — possibilità intesa come mera potenzialità: soggettivismo acuto nella riduzione di ogni im-possibile, di ogni «evento», all’illimitatamente possibile dell’ego subiectum certo di sé e della sua autofondazione — volto a decretare la bancarotta di qualsiasi eccedenza — di qualsiasi Abgrund ovvero Seyn: ««Essere: l’Ab-grund, il fondo abissale, l’abisso senza fondo»» — che lo possa trascendere.113
Accanto a questa pars destruens, ci sarebbe quella di una possibile risalita al divino, il «diritto dell’oggetto». Non sfugge qui come l’espressione utilizzata dal curatore dei contributi sopra discussi, abbia una netta divaricazione dall’«ontologia» heideggeriana. L’«oggetto» per Heidegger, il Gegen-stand, l’ob-iectum, è solo il portato im-positivo — tendente all’assicurazione — del soggettivismo sfrenato del Gestell, dell’Impianto, che mette al riparo, sine cura, l’ente nel suo esser-rappresentato. La «soggettività», in quanto rappresentare che si rappresenta, ha la sua essenza nell’oggettivismo, «in quanto per il soggetto tutto diventa oggetto».114 In quanto già oggettivatosi nel Vor-stellen, l’uomo coarta la sua libertà al dispiegamento progressivo e annichilente della pro-vocazione planetaria della Tecnica: «Nella nuova libertà l’umanità dell’incondizionato autosviluppo di tutte le facoltà fino al dominio illimitato vuole essere sicura sulla terra intera».115 Questo aspetto rimane pertanto estremamente problematico in Heidegger. D’altra parte il riduzionismo della riflessione protocristiana e tomista alla damnatio memoriae dell’onto-teo-logia, continua a suscitare, non a torto, un certo fastidio.116 E la prospettiva aperta da Anelli nel volume di «Humanitas», è del resto connessa ad altre aurore che hanno celebrato il pensiero del teutonico come linfa vitale per la teologia:
«L’eredità che Heidegger lascia alla cultura del nostro tempo non investe soltanto l’ambito strettamente filosofico, ma pure quello della letteratura, della storia, della scienza e in modo particolare quello della teologia (…) Analizzare questo possibile risvolto «teologico» del pensiero di Heidegger non vuol dire fare della teologia, ma significa soltanto chiarire ulteriormente il pensiero stesso di Heidegger».117
Essa ha tuttavia il merito, per nulla marginale, di ribadire un aspetto essenziale: non si comprende Heidegger senza ricondurlo alle sue «origini» teologiche; e soprattutto, di mostrare come il suo Denkweg sia subissato dall’implosione a cui la stessa teologia è oggi chiamata a «rispondere»: crisi dell’oscillazione nel rapporto tra il soggetto e l’assoluto, priorità dell’uno a discapito dell’altro e viceversa (questione ontologica); crisi della determinazione storico-ermeneutica del soggetto in rapporto all’alterità (questione antropologica); crisi dell’alternativa tra voluntas e ratio nella determinazione dell’atto di fede, l’analysis fidei (questione epistemologica).118 Questa crisi può senz’altro manifestare il punto di fuga sul quale Heidegger ha sempre cercato di richiamare l’attenzione — l’uomo traspropriato (vereignet) all’Ereignis, il «Donante» (Gewährende) che ri-tiene l’esser-nascosto; il fuoco che avanza nell’estremo «pericolo» del Gestell, il «passaggio» di ciò che salva —, a patto che si riesca a «tenere» (halten) — «hüten», custodire — ciò che a sua volta reclama l’uomo nella sua essenza: «Ciò che ci tiene nella nostra essenza, ci tiene in essa tuttavia solo fino a che noi, a nostra volta riteniamo ciò che ci tiene».119 E se l’essenza dell’uomo è quella di essere un segno, colui che indica il sottrarsi, il «sacrificio» del Seyn — ciò non può avvenire se non attraverso il pericolo, il «dolore», la gravezza («Schwermut») dell’animo, che «accorda» l’intimità della dif-ferenza (ontologica), mantenendo i mortali nella «quiete del loro esser vero». Cambiando paradigma, così si esprimeva Walter Benjamin nel Leskov: «Il pensiero dell’eternità ha sempre avuto la sua fonte essenziale nella morte. Se quell’idea sparisce, possiamo inferirne una trasformazione nell’aspetto della morte».120 Così se la morte sparisce, se essa non intona più il Wohnen dell’esserci umano, se ne può inferire anche il dramma e la difficoltà nella proposta «attuale» del kérygma evangelico.121 D’altra parte, qui si può anche dischiudere il sigillo del lutto con cui Heidegger pensa l’essere, il rapporto con la sua fine, con gli éschata — la sua radicale finitudine. Che questa fine rimanga consumata nella sua intrascendibilità, è un aspetto indubbio in Heidegger; ma che essa significhi l’abdicare a ogni pensiero sull’infinito — per quanto egli ne prenda risolutamente le distanze —, no. Infatti è proprio nella radicale finitezza che si origina l’esigenza infinita del suo differenziarsi da altro — «Così il finito non è mai chiuso e il limite non ridefinisce il confine, l’oltre non trascende il finito per il finito stesso. Piuttosto l’oltre va di là da sé verso altro. È allora l’oltre ad essere letto in modo nuovo come una ulteriorità che è insieme anche una alterità».122
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Prenderemo le mosse dal numero di «Humanitas» uscito due anni fa (Heidegger tra filosofia e teologia, a cura di A. Anelli, Morcelliana, Brescia 2013, in «Humanitas», 68, n. 4, le cui pagine verranno citate con l’abbreviazione H, a cui farà seguito il numero di pagina) per cercare di definire lo stato dell’arte attuale in relazione alla «questione» Heidegger e la teologia. Se e in quale misura essa possa «ancora» illustrare la portata e la direzione del dibattito teologico odierno; e se — almeno a partire da un certo momento, da una certa vulgata — essa non sia stata invece occultata, non tanto nei suoi sforzi eruditi, quanto nella sua dinamica strutturale — una dinamica che forse più di tante altre illustra bene il livello di disorientamento, il deserto in cui oggi abita l’esserci dell’uomo. ↩︎
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Cfr. G. Kuhlmann, Zum theologischen Problem der Existenz. Fragen an Rudolf Bultmann (1929), in G. Noller (hrsg. von), Heidegger und die Theologie, Kaiser, München 1967, pp. 33-58; J. Wahl, Heidegger et Kierkegaard. Recherche des elements originaux de la philosophie de Heidegger, in «Recherches philosophiques», 6 (1936-1937), poi in: J. Wahl, Etudes kierkegaardiennes, Aubier, Paris 1938; K. Löwith, Wissen, Glaube und Skepsis. Zur Kritik von Religion und Theologie, in Id., Sämtliche Schriften, 9 voll., hrsg. von K. Stichweh-M.B. De Launay, Metzler, Stuttgart 1985, vol. III, pp. 1-96 (trad. it. Ontologia fenomenologica e teologia protestante. Due studi, a cura di U. Ugazio, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001); Id., Heidegger — Denker in dürftiger Zeit (1953), in Id., Sämtliche Schriften, cit., vol. VIII, pp. 124-163 (trad. it. Saggi su Heidegger, a cura di C. Cases-A. Mazzone, Einaudi, Torino 1966, pp. 3-48); O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1963 (trad. it. Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, a cura di G. Varnier, Guida, Napoli 1991, pp. 40-51); H. Jonas, Heidegger und die Theologie, in «Evangelische Theologie», 24 (1964), pp. 621-642 (trad. it. Heidegger e la teologia, a cura di R.F. Tibaldeo, Medusa, Milano 2004); R. Schaeffler, Frömmigkeit des Denkens? Martin Heidegger und die Katholische Theologie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstad 1978; M. Jung, Das Denken des Seins und der Glaube an Gott. Zum Verhältnis von Philosophie und Theologie bei Martin Heidegger, Königshausen & Neumann, Würzburg 1990; M. Zarader, La dette impensée. Heidegger et l’héritage hébraïque, Seuil, Paris 1990 (trad. it. Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, a cura di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995); H. Ott/G. Penzo (a cura di), Heidegger e la teologia, Morcelliana, Brescia 1995; D. Franck, Heidegger et le christianisme. L’explication silencieuse, PUF, Paris 2004; N. Fischer/F.W. von Herrmann (hrsg. von), Heidegger und die christliche Tradition, Meiner, Hamburg 2007. ↩︎
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H.-H. Schrey, Die Bedeutung der Philosophie M. Heideggers für die Theologie, in C. Astrada (hrsg. von), Martin Heideggers Einfluss auf die Wissenschaften, Francke, Bern 1949, pp. 9-21; H. Franz, Das Denken Heideggers und die Theologie (1961), in Heidegger und die Theologie, cit., pp. 249-289; H. Ott, Die Bedeutung M. Heideggers Denken für die Methode der Theologie, in Aa.Vv., Durchblicke. Martin Heidegger zum 80.Geburstag, Klostermann, Frankfurt a.M. 1970, pp. 27-38; A. Jäger, Gott. Nochmals Martin Heidegger, Mohr, Tübingen 1978; J. Greisch, L’appel de l’être et le parole de Dieu. Cinquante ans de réception théologique de la pensée de Heidegger, in «Études», 361 (1984), pp. 675-688; E. Brito, La réception de la pensée de Heidegger dans la théologie catholique, in «Nouvelle Revue Théologique», 119 (1997), pp. 352-372; A. Raffelt, Martin Heidegger und die christliche Theologie. Eine Orientierung mit Blick auf die katholische Rezeption, in N. Fischer/F.W. von Herrmann (hrsg. von), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers, Mainer, Hamburg 2011, pp. 195-221. ↩︎
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Cfr. H. Ott, Alle radici cattoliche del pensiero di Heidegger. Il filosofo teologico, in F. Bianco (a cura di), Heidegger in discussione, FrancoAngeli, Milano 1992, pp. 313-330; Id., «Herkunft aber bleibt stets Zukunft». Zum katholischen Kontinuum im Leben und Denken Martin Heideggers, in F.W. Veauthier (hrsg. von), Martin Heidegger. Denker der Post-Metaphysik, Winter, Heidelberg 1992, pp. 87-115; P.-L. Coriando (hrsg. von), «Herkunft aber bleibt stets Zukunft».Martin Heidegger und die Gottesfrage, Klostermann, Frankfurt a.M. 1998. ↩︎
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A. Anelli, Heidegger e la teologia, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 7-9. ↩︎
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Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), GA 65, 403/395, 411/403 (trad. it. Contributi alla filosofia. Dall’evento, a cura di F. Volpi-A. Iadicicco Adelphi, Milano 2007). Le opere di Martin Heidegger vengono citate dalla Gesamtausgabe (= GA),Klostermann, Frankfurt a.M. 1975-, ad eccezione di Essere e tempo (= SZ): Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tübingen 1927 (trad. it. di P. Chiodi, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2001 [19711]). Al titolo dell’opera segue il numero del volume della Gesamtausgabe, il numero di pagina originale e, dopo la barratura, quello della traduzione italiana. ↩︎
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R. Girard, La route antique des hommes pervers, Grasset, Paris 1985 (trad. it. L’antica via degli empi, a cura di C. Giardino, Adelphi, Milano 1994, p. 185); Id., Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978 (trad. it. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, a cura di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983, pp. 328-340); P. Ricœur, Note introductive, in R. Kearney/J.S. O’Leary (S. la direction de), Heidegger et la question de Dieu, PUF, Paris 20092 (19801), p. 37; P. Ricœur/G. Marcel, Entretiens, Aubier-Montaigne, Paris 1968 (trad. it. Per un’etica dell’alterità. Sei colloqui, a cura di F. Riva, Edizioni Lavoro, Roma 1998, pp. 56-58); P. Ricœur/A. LaCocque, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998 (trad. it. Come pensa la Bibbia. Studi esegetici ed ermeneutici, a cura di F. Bassani, Paideia, Brescia 2002, pp. 342-348); E. Levinas, Préface, in M. Zarader, Les paroles de l’origine, Vrin, Paris 1986 (trad. it. Prefazione, in M. Zarader, Le parole dell’origine, a cura di S. Delfino, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp. 3-11). ↩︎
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J. Derrida, De l’esprit. Heidegger et la question, Galilée, Paris 1987 (trad. it. Dello spirito. Heidegger e la questione, a cura di G. Zaccaria, SE, Milano 20102 [19891], pp. 105-119). Sulla «posizione» di Derrida si è espressa criticamente la Zarader, Heidegger e l’eredità ebraica, cit., pp. 209-215, secondo la quale il filosofo francese prenderebbe partito per il rifiuto heideggeriano della ruah ebraica rispetto al Geist tedesco. Una discussione pubblica sul testo De l’esprit è stata poi ripresa nel 1991 dallo stesso Derrida in un confronto a più voci (Vitiello, Ferraris, Ruggenini…), Conversazione con Jacques Derrida, in «aut aut», 248-249 (1992), pp. 3-16. Più equilibrato il giudizio del Capelle, sia riguardo alla posizione della Zarader che a quella di Derrida, in P. Capelle-Dumont, Philosophie et théologie dans la pensée de Martin Heidegger, Cerf, Paris 2001 (trad. it. Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, a cura di L. Gianfelici, Queriniana, Brescia 2011, pp. 210-215). ↩︎
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E. Brito, Heidegger et le christianisme, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 83 (1999), pp. 241-272. ↩︎
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B. Casper, Martin Heidegger und die theologische Fakultät Freiburg 1909-1923, in «Freiburger Diözesan-Archiv», 100 (1980), pp. 534-541; T. Sheehan, Heideggers Lehrjahre, in J.C. Sallis/G. Moneta/J. Taminiaux (ed. by), The Collegium Phaenomenologicum. The First Ten Years, Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1988, pp. 77-137; H. Zaborowoski, «Herkunft aber bleibt stets Zukunft». Anmerkungen zur religiösen und theologischen Dimension des Denkweges Martin Heideggers bis 1919, in A. Denker/H.-H. Gander/H. Zaborowski (hrsg. von), Heidegger und die Anfänge seines Denkens, Alber, Freiburg-München 2004, «Heidegger-Jahrbuch», 1, pp. 123-158. ↩︎
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K. Löwith, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, Metzler, Stuttgart 1986 (trad. it. La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, a cura di E. Grillo, Il Saggiatore, Milano 1988, pp. 53 sgg.); D. Papenfuss/O. Pöggeler (hrsg. von), Zur philosophischen Aktualität Heideggers, 3 voll., Klostermann, Frankfurt a.M. 1990, vol. II, p. 29; T. Kisiel, War der frühe Heidegger tatsächlich ein «christlicher Theologe»?, in A. Gethmann-Siefert/K.R. Meist (hrsg. von), Philosophie und Poesie. Otto Pöggeler zum 60. Geburstag, 2 voll., Frommann-Holzboog, Stuttgart 1988, vol. II, p. 59; M. Jung, Das Denken des Seins und der Glaube an Gott. Zum Verhältinis von Philosophie und Theologie bei Martin Heidegger, Königshausen & Neumann, Würzburg 1990, p. 34. ↩︎
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Aus einem Gespräch von der Sprache, in Unterwegs zur Sprache (d’ora in poi UzS), GA 12, 91/90 (trad. it. In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973). ↩︎
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Besinnung, GA 66, 415. ↩︎
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Schelling: vom Wesen der menschlichen Freiheit (1809), GA 42, 169/165 (trad. it. di C. Tatasciore, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1998 [19941]). Cfr. anche Einführung in die Metaphysik, GA 40, 10/24 (trad. it. Introduzione alla metafisica, a cura di G. Masi, Mursia, Milano 1968). ↩︎
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Die Frage nach der Technik, in Vorträge und Aufsätze (d’ora in poi VA), GA 7, 36/27 (trad. it. Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976); Das Wesen der Sprache, in UzS, GA 12, 165/139. ↩︎
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Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), GA 63, 5/14 (trad. it. di G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica della effettività, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1998 [19921]); K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, Piper, München-Zürich 1977, p. 96; R. Bultmann/M. Heidegger, Briefwechsel 1925-1975, hrsg. von A. Großmann-C. Landmesser, Klostermann, Frankfurt a.M. 2009; H.-G. Gadamer, Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, Mohr, Tübingen 1983 (trad. it. I sentieri di Heidegger, a cura di R. Cristin, Marietti, Genova 1987); Id., Philosophische Lehrjahre. Eine Rückschau, Klostermann, Frankfurt a.M. 1977 (trad. it. Maestri e compagni nel cammino del pensiero. Uno sguardo retrospettivo, a cura di G. Moretto, Queriniana, Brescia 1980). ↩︎
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Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, cit., pp. 53-54; H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, Campus, Frankfurt a.M. 1988 (trad. it. Martin Heidegger: sentieri biografici, a cura di F. Cassinari, SugarCo, Milano 1989, pp. 44 sgg.); R. Safranski, Ein Meister aus Deutschland. Heidegger und seine Zeit, Hanser, München 1994 (trad. it. di N. Curcio, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, a cura di M. Bonola, Longanesi, Milano 1996, pp. 14 sgg.); O. Pöggeler, Heidegger in seiner Zeit, Fink, München 1999, pp. 249-276; P. Stagi, L’essere o la sua nudità (Cristo). Il cristianesimo marginale di Martin Heidegger, in H. Heidegger, Martin Heidegger. Mio zio, a cura di P. Stagi, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 5-38. ↩︎
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M. Heidegger/E. Blochmann, Briefwechsel 1918-1969, hrsg. von J.W. Storck, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach a.N. 1989 (trad. it. Carteggio 1918-1969, a cura di R. Brusotti, Il Melangolo, Genova 1991, pp. 57-60). ↩︎
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Cfr. Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, cit., pp. 45 sgg; T. Kisiel, Das Entstehen des Begriffsfeldes Faktizität, in «Dilthey-Jahrbuch», 4 (1986/1987), pp. 91-120; U. Regina, Noi eredi dei cristiani e dei greci. Destruktion e Faktizität nel cammino di Heidegger, in E. Mazzarella (a cura di), Heidegger oggi, Mulino, Bologna 1988, pp. 195-219; D.F. Krell, The «Factical Life» of Dasein: From the Early Freiburg Courses to Being and Time, in T. Kisiel/J. van Buren (ed. by), Reading Heidegger from the Start. Essays in His Earliest Thought, New York Press, Albany 1994, pp. 361-379; J. Greisch, La facticité chrétienne: Heidegger, lecteur de saint Paul, in «Transversalités», 60 (1996), pp. 85-101; L. Samonà, Implicazioni etico-religiose della fatticità, in A. Ardovino (a cura di), Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica, Guerini, Milano 2003, pp. 189-208; G. Agamben, La passion de la facticité, in Aa.Vv., Heidegger: questions ouvertes, Osiris, Paris 1988, «Cahiers du collège international de Philosophie», 6, pp. 63-84 (trad. it. La passione della fatticità. Heidegger e l’amore, in G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 289-319); A. Ardovino, Dal vivere all’essere. Heidegger e il problema della fatticità tra λόγος τῆς ζωῆς e λόγος τοῦ ὄντος, in «Fieri. Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi», 3 (2005), pp. 85-111; C. Esposito, Heidegger, von der Faktizität der Religion zur Religion der Faktizität, in Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers, cit., pp. 47-68. ↩︎
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Secondo il curatore del volume, Alberto Anelli, la prima tendenza è quella che sovrastima il debito di Heidegger nei confronti del cristianesimo; la seconda ne addomestica le critiche, trasformandole in vessilli programmatici per l’inoggettivabilità di Dio; la terza, infine, assume il dogma della radicale estraneità di Heidegger alla teologia (Anelli, Heidegger e la teologia, cit., pp. 8-9). ↩︎
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A. Jäger, Il duro «no» di Heidegger, in «Rassegna di teologia», 19 (1978), pp. 282-291; M. Cacciari, Filosofia e teologia, in P. Rossi (a cura di), La filosofia, 4 voll., UTET, Torino 1995, vol. II, pp. 365-421. ↩︎
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Phänomenologie und Theologie, in Wegmarken (d’ora in poi Wm), GA 9, 45-78/3-34 (trad. it. Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987). ↩︎
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Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA 24, 1/1 (trad. it. I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1999). ↩︎
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Die philosophischen Grundlagen der mittelalterlichen Mystik, in Phänomenologie des religiösen Lebens (d’ora in poi PhrL), GA 60, 305/385 (trad. it. di G. Gurisatti, Fenomenologia della vita religiosa, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003). ↩︎
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G. Lafont, Mystique de la Croix et question de l’être, in «Revue theologique de Louvain», 10 (1979), pp. 259-304; H. Crétella, Staurologie, in «Heidegger Studies», 9 (1993), pp. 63-75; J. Brejdak, Philosophia Crucis: Heideggers Beschäftigung mit dem Apostel Paulus, Lang, Frankfurt a.M.-Bern-New York 1996; Id., Philosophia Crucis: Heideggers Beschäftigung mit dem Apostel Paulus, in «Philosophisches Jahrbuch», 105 (1998), pp. 21-44; P. De Vitiis, Heidegger e la philosophia crucis, in «Archivio di filosofia», 76 (2008), pp. 359-367 (poi anche in: Id., Filosofia della religione fra ermeneutica e postmodernità, Morcelliana, Brescia 2010, pp. 83-95). ↩︎
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Cfr. Augustinus und der Neuplatonismus, in PhrL, GA 60, 282/359, dove Heidegger cita le tesi luterane 19, 21 e 22 delle Disputazioni di Heidelberg. Al riguardo cfr. J. van Buren, The Young Heidegger. Rumor of the Hidden King, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1994, pp. 157 sgg.; Id., Martin Heidegger, Martin Luther, in Reading Heidegger from the Start. Essays in His Earliest Thought, cit., pp. 159-174. ↩︎
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Einleitung in die Phänomenologie der Religion, in PhrL, GA 60, 105/146. ↩︎
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Ivi, 100/140. ↩︎
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Ivi, 119/161. ↩︎
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Sui «Venturi» nei Beiträge (GA 65, 393-401/385-393), cfr. L. Samonà, L’«altro inizio» della filosofia. I Beiträge zur Philosophie di Heidegger, in «Giornale di Metafisica», 12 (1990), pp. 67-111: 102-106; Id., La «svolta» e i «Contributi alla filosofia»: l’essere come evento, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 20054 ed. riv. e aggiornata (19971), pp. 167-208: 192-202; G. Moretti, I «venturi» e «l’ultimo Dio». Poesia e sacro nei Beiträge di M. Heidegger, in Id., La segnatura romantica. Filosofia e sentimento da Novalis a Heidegger, Hestia, Como 1992, pp. 353-359; M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, pp. 161-176; G. Strummiello, L’altro inizio del pensiero. I «Beiträge zur Philosophie» di Martin Heidegger, Levante, Bari 1995, pp. 221-233. ↩︎
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Die Sprache im Gedicht, in UzS, GA 12, 47-48/55-56. ↩︎
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Sul senso dell’Heißen, del chiamare, appellare, in quanto ingiunzione-disposizione al lasciar-pervenire l’essenza dell’uomo nella dimora appropriata (eigentlich) della «presenza» (Anwesen), cfr. Was heisst Denken?, GA 8, 120-125/148-154 (trad. it. Che cosa significa pensare?, a cura di G. Vattimo, SugarCo, Varese 1978). ↩︎
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I più volte citati versi hölderliniani dell’inno Patmos — «Ma là dove c’è il pericolo, cresce/anche ciò che salva». ↩︎
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Beiträge zur Philosophie…, GA 65, 138-141/155-157. ↩︎
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Überwindung der Metaphysik, in VA, GA 7, 67-98/45-65; Zur Seinsfrage, in Wm, GA 9, 385-426/335-374; Die Kehre, in Bremer und Freiburger Vorträge, GA 79, 68-77/97-108 (trad. it. di G. Gurisatti, Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002); Zur Sache des Denkens, GA 14, 3-66/99-168 (trad. it. Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1988 [19801]). ↩︎
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Nietzsche, GA 6.2, 301-361/809-861 (trad. it. Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2005 [19941]). ↩︎
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Cfr. Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles, GA 61, 196-198/225-227 (trad. it. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 2001, [19901]); Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Anzeige der hermeneutischen Situation, in «Dilthey-Jahrbuch», 6 (1989), pp. 237-269: 246 (trad. it. Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica, a cura di V. Vitiello-G.P. Cammarota, in «Filosofia e Teologia», 4, 1990, pp. 489-532: 506-507); Ontologie. Hermeneutik der Faktizität, GA 63, 29/38; Prolegomena zur Geschichte der Zeitbegriffs, GA 20, 109-110/100-101 (trad. it. Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, a cura di R. Cristin-A. Marini, Il Melangolo, Genova 1991). Sul senso e la direzione dell’ateismo metodologico di Heidegger negli anni friburghesi (1919-1923), cfr. I.M. Fehér, Heidegger’s Understanding of the Atheism of Philosophy: Philosophy, Theology, and Religion in his Early Lecture Courses up to Being and Time, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 69 (1995), pp. 189-228; Id., Der gttliche Gott. Hermeneutik, Theologie und Philosophie im Denken Heideggers, in D. Barbariæ (hrsg. von), Das Spätwerk Heideggers. Ereignis-Sage-Geviert, Königshausen & Neumann, Würzburg 2007, pp. 163-190; G. Ruff, Am Ursprung der Zeit. Studie zu Martin Heideggers phänomenologischem Zugang zur christlichen Religion in den ersten «Freiburger Vorlesungen», Duncker & Humblot, Berlin 1997; K.M. Stünkel, Phänomenologische der Religion als Frage und Antwort. Heidegger und die urchristliche Lebenserfahrung, in «Jahrbuch für Religionsphilosophie», 5 (2006), pp. 151-174. ↩︎
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Così nel semestre estivo del ’28, alla sterile apparenza di un Tu assoluto, magari utilizzato come feticcio di un valore, Heidegger sostiene che «è preferibile la facile accusa di ateismo che, se presa in senso ontico, è persino perfettamente giustificabile. La presunta fede ontica in Dio non è in fondo una forma di ateismo? E l’autentico metafisico non è più religioso dei fedeli, dei membri abituali di una «chiesa» o addirittura dei «teologi» di ogni confessione?» (Metaphysische Anfangsgründe der Logik in Ausgang von Leibniz, GA 26, 211/262; trad. it. Principi metafisici della logica, a cura di G. Moretto, Il Melangolo, Genova 1990). ↩︎
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Einführung in die Metaphysik, GA 40, 9/19. ↩︎
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Nietzsche, GA 6.2, 116/644. ↩︎
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Il discorso di Heidegger, che si sofferma qui sul rapporto tra ragione e fede, è riportato in «Anstöße. Berichte aus der Arbeit der Evangelischen Akademie Hofgeismar», 1 (1954), pp. 30-37: 33. Questa parte del dialogo è poi ripresa anche in Heidegger et la question de Dieu, cit., pp. 366-368: 367. Cfr. anche Was heisst Denken?, GA 8, 103-104/180. ↩︎
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Die Frage nach der Technik, in VA, GA 7, 27/20. ↩︎
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Brief über den «Humanismus», in Wm, GA 9, 349/301; Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Holzwege (d’ora in poi Hw), GA 5, 259-260/238-239 (trad. it. Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968). ↩︎
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Schelling…, GA 42, 88/99. Cfr. anche Nietzsche, GA 6.2, 313-315/820-821. ↩︎
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Phänomenologie und Theologie, in Wm, GA 9, 57-66/14-22. ↩︎
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Die Zeit des Weltbildes, in Hw, GA 5, 75-113/71-101. ↩︎
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Nietzsche, GA 6.2, 309, 316/816, 822; Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Hw, GA 5, 264-265/243-244. ↩︎
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Beiträge zur Philosophie…, GA 65, 140/156. ↩︎
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Identität und Differenz, GA 11, 77/95 (trad. it. Identità e differenza, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009). ↩︎
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Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Hw, GA 5, 227/208. ↩︎
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Identität und Differenz, GA 11, 77/95. Cfr. H. Franz, Das Denken Heideggers und die Theologie, cit.; H. Danner, Das Göttliche und der Gott bei Heidegger, Hain, Meisenheim a.G. 1971; B. Welte, Religionsphilosophie, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1978; J.-L. Marion, La double idolatrie. Remarques sur la différence ontologique et le pensée de Dieu, in Heidegger et la question de Dieu, cit., pp. 67-94; Id., Dieu sans l’être, Fayard, Paris 1982 (trad. it. di A. Dall’Asta, Dio senza l’essere, a cura di C. Canullo, Jaca Book, Milano 1987); V. Melchiorre, Il linguaggio dell’essere tra filosofia e teologia, in M. Ruggenini (a cura di), Heidegger e la metafisica, Marietti, Genova 1991, pp. 191-222; P. De Vitiis, Il superamento heideggeriano dell’onto-teologia e l’esperienza religiosa, in Id., Il problema religioso in Heidegger, Bulzoni, Roma 1995, pp. 147-154; Fehér, Der göttliche Gott. Hermeneutik, Theologie und Philosophie im Denken Heideggers, cit. ↩︎
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P. Capelle-Dumont, Teologia e soteriologia in Martin Heidegger. Studio critico, trad. it. di A. Anelli, in H, pp. 530-544 (già pubblicato in lingua francese: Théologie et Sotériologie chez Martin Heidegger, in «Revue des sciences religieuses», 84, 2010, pp. 467-481). ↩︎
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«…dichterisch wohnet der Mensch…», in VA, GA 7, 201/132. Cfr. anche il testo dello stesso Capelle, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, cit., pp. 111-114. ↩︎
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Come noto, Heidegger ritorna più volte sull’importanza di Carl Braig per la sua formazione, cfr. Zur Sache des Denkens, GA 14, 93-94/189-190; Frühe Schriften, GA 1, 55-57; Schaeffler, Frömmigkeit des Denkens. Martin Heidegger und die Katholische Theologie, cit., pp. 1-10; F. Volpi, Alle origini della concezione heideggeriana dell’essere: il trattato Vom Sein di Carl Braig, in «Rivista critica di storia della filosofia», 35 (1980), pp. 183-194; Id., Heidegger e Aristotele, Laterza, Roma-Bari 20102 (19841), pp. 29-38; Id., Le fonti del problema dell’essere nel giovane Heidegger: Franz Brentano e Carl Braig, in C. Esposito/P. Porro (a cura di), Heidegger e i medievali. Atti del Colloquio Internazionale Cassino 10/13 maggio 2000, Brepols, Turnhout 2001, «Quaestio», 1, pp. 39-52; Ott, Alle radici cattoliche del pensiero di Heidegger. Il filosofo teologico, cit., pp. 317-319; Buren, The Young Heidegger. Rumor of the Hidden King, cit., pp. 53-60; J. Schaber, Der Theologiestudent Martin Heidegger und sein Dogmatikprofessor Carl Braig, in «Freiburger Diözesan-Archiv», 125 (2005), pp. 329-347; S. Poggi, La logica, la mistica, il nulla. Una interpretazione del giovane Heidegger, Edizioni Della Normale, Pisa 2005, pp. 64 sgg. ↩︎
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«Essa indica in realtà un distacco dalla scolastica per quanto riguarda la nozione stessa di «assoluto»: la trascendenza di Dio non può più essere considerata come un valore assoluto, dal momento che bisogna pensare fino in fondo la «correlatività»» (H, 532-533). Per una disamina delle pagine heideggeriane considerate dal Capelle, cfr. Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, in Frühe Schriften, GA 1, 405-411/249-254 (trad. it. La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di A. Babolin, Laterza, Roma-Bari 1974). ↩︎
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Die philosophischen Grundlagen der mittelalterlichen Mystik, in PhrL, GA 60, 301-337/381-421. Il Capelle ha più volte soffermato la sua attenzione su questo «corso». Oltre alle pagine del suo testo, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, cit., pp. 142-149, cfr. anche i seguenti saggi: P. Capelle-Dumont, Heidegger et la mystique médiévale, in «Transversalites», 60 (1996), pp. 73-84; Id., Le statut de la Phenomenologie de la Religion chez Martin Heidegger, in «Théophilyon», 5 (2000), pp. 261-285: 265-272; Id., Phenomenologies, Religion et Theologies chez Martin Heidegger, in «Studia Phænomenologica», 1 (2001), pp. 181-196: 182-187; Id., Filosofia e mistica in Martin Heidegger, in «Filosofia e teologia», 18 (2003), pp. 583-600: 589-594; Id., «Katholizismus», «Protestantismus», «Christentum» und «Religion» im Denken Martin Heideggers, in Heidegger und die Anfänge seines Denkens, cit., pp. 346-370: 354-358; Id., Le signification du christianisme chez Heidegger, in M. Caron (S. la direction de), Heidegger, Cerf, Paris 2006, pp. 295-328: 306-311. Sugli appunti preparatori al corso sulla mistica medievale del ’19, cfr. anche S. Sikka, Forms of Transcendence. Heidegger and Medieval Mystical Theology, State University of New York Press, Albany 1997; E. Wolz-Gottwald, Martin Heidegger und die philosophische Mystik, in «Philosophisches Jahrbuch», 104 (1997), pp. 73-84; J. Greisch, Le Buisson ardent et le lumières de la raison. L’invention de la philosophie de la religion, tome III: Vers un paradigme herméneutique, Cerf, Paris 2004; L. Gianfelici, Filosofia e mistica in Martin Heidegger, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006; S.J. McGrath, The early Heidegger and medieval philosophy. Phenomenology for the Godforsaken, Catholic University of America Press, Washington D.C. 2006; Poggi, La logica, la mistica e il nulla. Una interpretazione del giovane Heidegger, cit.; S. Camilleri, Phénoménologie de la religion et herméneutique théologique dans la pensée du jeune Heidegger. Commentaire analytique des «Fondements philosophiques de la mystique médiévale» (1916-1919), Springer, Dordrecht 2008; A. Molinaro, Heidegger sulla mistica. Osservazioni critiche e riflessioni, in Id., (a cura di), Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’epistolario paolino, Urbaniana University Press, Roma 2008, pp. 121-154. ↩︎
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Ci si riferisce qui soprattutto ai corsi successivi (1919-1923). Rimane ad ogni modo essenziale il contributo alla questione di T. Kisiel — The Genesis of Heidegger’s Being and Time, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1993 —, che dedica diverse pagine proprio agli autori e ai temi di riferimento trattati da Heidegger nel periodo degli appunti preparatori al corso sulla mistica medievale (cfr. ivi, pp. 69-115). ↩︎
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Cfr. Die philosophischen Grundlagen…, in PhrL, GA 60, 305-307/386-388. ↩︎
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Ivi, 304/384-385. ↩︎
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Ivi, 316/398. Quanto al rapporto tra Heidegger e Meister Eckhart, oltre ai testi già citati alla n. 59 e in riferimento soprattutto a dei termini chiave del Denkweg heideggeriano (Gelassenheit, Gottheit, Ereignis), cfr. J.D. Caputo, Meister Eckhart and the Later Heidegger. The Mystical Element in Heidegger’s Thought, in «Journal of the History of Philosophy», 12 (1974), pp. 474-494 e 13 (1975), pp. 61-80; Id., The Poverty of Thought: A Reflection on Heidegger and Eckhart, in T. Sheehan (ed. by), Heidegger. The Man and the Thinker, Transaction Publishers, New Brunswick 2010 (19811), pp. 209-216; Id., The Mystical Element in Heidegger’s Thought, Fordham U.P., Bronx 1986; J. Greisch, Le contrée de la sérénité et l’horizon de l’espérance, in Heidegger et la question de Dieu, cit., pp. 189-213; Id., «Warum denn das Warum?» Heidegger und Meister Eckhart: Von der Phänomenologie zum Ereignisdenken, in Heidegger und die christliche Tradition, cit., pp. 129-147; F.-W. von Herrmann, Gelassenheit und Ereignis. Zum Verhältnis von Heidegger und Meister Eckhart, in Id., Wege ins Ereignis. Zu Heideggers «Beiträge zur Philosophie», Klostermann, Frankfurt a.M. 1994, pp. 371-386; P. Capelle-Dumont, Heidegger et maître Eckhart, in «Revue des sciences religieuses», 70 (1996), pp. 113-124; H. Helting, Heidegger und Meister Eckehart. Vorbereitende berlegungen zu ihrem Gottesdenken, Duncker & Humblot, Berlin 1997; Id., Heidegger und Meister Eckhart, in «Herkunft aber bleibt stets Zukunft». Martin Heidegger und die Gottesfrage, cit., pp. 83-100; E. Brito, Heidegger et l’expérience mystique, in «Ephemerides Theologicae Lovanienses», 73 (1997), pp. 5-31; V. Vitiello, «Abgeschiedenheit», «Gelassenheit», «Angst». Tra Eckhart e Heidegger, in Heidegger e i medievali, cit., pp. 305-316; G. Strummiello, «Got(t)heit»: la Deità in Eckhart e Heidegger, in Heidegger e i medievali, cit., pp. 339-359; Id., «Alte Wörter»: Gelassenheit und Gottheit bei Heidegger und Eckhart, in «Heidegger Studies», 28 (2012), pp. 191-211; E. Cattin, Serenité. Eckhart, Schelling, Heidegger, Vrin, Paris 2012. ↩︎
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Ivi, 318/400. ↩︎
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Augustinus und der Neuplatonismus, in PhrL, GA 60, 157-299/169-379. La bibliografia su questo corso è ormai imponente, citiamo solo alcuni contributi. Dello stesso Capelle, Heidegger, lecteur de saint Augustin, in Id., Finitude et mystère, Cerf, Paris 2005, pp. 155-168. Cfr. poi C. Esposito, Quaestio mihi factus sum. Heidegger di fronte ad Agostino, in L. Alici/R. Piccolomini/A. Pierretti (a cura di), Ripensare Agostino: Interiorità e intenzionalità. Atti del IV Seminario internazionale del Centro di Studi Agostiniani di Perugia, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 1993, «Studia Ephemeridis Augustinianum», 41, pp. 229-260; Id., Heidegger und Augustinus, in H. Schäfer (hrsg. von), Annäherung an Martin Heidegger. Festschrift für Hugo Ott, Frankfurt a.M.-New York, Campus 1996, pp. 275-309; J.A. Barash, Le temps de la mémoire. À propos de la lecture heideggériennne de saint Augustin, in «Transversalités», 60 (1996), pp. 104-112; J. Greisch, Souci et tentation, in M.M. Olivetti (textes réunis par), Philosophie de la religion entre éthique et ontologie, Cedam, Padova 1996, pp. 307-325; F.-W. von Herrmann, Die Confessiones des Heiligen Augustinus im Denken Heideggers, in Heidegger e i medievali, cit., pp. 113-146; Id., Gottsuche und Selbstauslegung. Das 10. Buch der Confessiones des Heiligen Augustinus im Horizont von Heideggers Hermeneutischer Phänomenologie des faktischen Lebens, in «Studia Phænomenologica: Romanian journal for phenomenology», 1 (2001), pp. 201-219; N. Fischer, Selbstsein und Gottsuche. Zur Aufgabe des Denkens in Augustins «Confessiones» und Martin Heideggers «Sein und Zeit», in Heidegger und die christliche Tradition, cit., pp. 55-90. ↩︎
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Augustinus und der Neuplatonismus, in PhrL, GA 60, 231/295-296. ↩︎
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D. Albarello, Dalla metafisica alla verità come evento. La rilettura dell’Ereignis in J.B Lotz, B. Welte e M. Müller, in H, pp. 604-626. Il saggio di Albarello affronta in modo più conciso i capisaldi del suo testo, La libertà e l’evento. Percorsi di teologia filosofica dopo Heidegger, Glossa, Milano 2008. ↩︎
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Autori fondamentali per quella parabola storico-filosofica che considera la ricezione cattolica del pensiero di Heidegger, essi «si sono confrontati con la lezione heideggeriana non soltanto episodicamente, bensì assumendo tale confronto come momento strutturante del loro itinerario speculativo nel suo complesso» (H, 604). ↩︎
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Il Lotz si è più volte confrontato con il pensiero di Heidegger. In particolare: J.B. Lotz, Das Sein selbst und das subsistierende Sein nach Thomas von Aquin, in G. Neske (hrsg. von), Martin Heidegger zum siebzigsten Geburtstag. Festschrift, Neske, Pfullingen 1959; Id., Martin Heidegger und Thomas von Aquin. Mensch-Zeit-Mensch, Neske, Pfullingen 1975; Id., Identità e differenza in un confronto critico con Heidegger, trad. it. di M. Marassi, in V. Melchiorre (a cura di), La differenza e l’origine, Vita e Pensiero, Milano 1987, pp. 280-301; Id., Vom Sein zum Heiligen. Metaphysisches Denken nach Heidegger, Knecht, Frankfurt a.M. 1990 (trad. it. di F. Stelzer, Dall’essere al sacro. Il pensiero metafisico dopo Heidegger, a cura di G. Penzo, Queriniana, Brescia 1993). ↩︎
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Il teologo cattolico che più di ogni altro ha maturato una vicinanza speculativa, oltre che personale, nei confronti di Heidegger. Al riguardo, cfr. B. Welte, Die Lichtung des Seins. Bemerkungen zur Ontologie Martin Heideggers (1948), in Id., Gesammelte Schriften, 6 voll., hrsg. von H. Zaborowski, Alber, Freiburg 2007, vol. II/2, pp. 105-119; Id., Die Gottesfrage im Denken Heideggers (1964), in Id., Auf der Spur des Ewigen. Philosophische Abhandlungen über verschiedene Gegenstände der Religion und der Theologie, Herder, Freiburg 1965, pp. 262-276; Id., Gott im Denken Heideggers (1975), in Gesammelte Schriften, cit., vol. II/2, pp. 156-178 (trad. it. Dio nel pensiero di Heidegger, a cura di R. Garaventa, in «Archivio di filosofia», 55, 1987, pp. 446-465); Id., Denken und Sein. Gedanken zu Martin Heideggers Werk und Wirkung (1977), in Gesammelte Schriften, cit., vol. II/2, pp. 199-207. ↩︎
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Qui è preso in considerazione il testo di una lunga intervista raccolta dal discepolo di Müller, W. Vossenkuhl (M. Müller/W. Vossenkuhl, Auseinandersetzung als Versöhnung. Ein Gespräch über ein Leben mit der Philosophie, Akademie, Berlin 1994). Per una considerazione ulteriore della sua opera, soprattutto in relazione al confronto speculativo con Heidegger, vedi il testo dello stesso Albarello, La libertà e l’evento, cit., pp. 95-153. ↩︎
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Cfr. anche Albarello, La libertà e l’evento, cit., pp. 252-272. Oltre al libro-intervista citato, i testi di Müller presi maggiormente in considerazione dall’autore sono: M. Müller, Erfahrung und Geschichte, Alber, München 1971; Id., Philosophische Anthropologie, Alber, Freiburg-München 1974; Id., Der Kompromiß, Alber, Freiburg-München 1980; Id., Existenzphilosophie, Alber, München 1986. ↩︎
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Come precisa l’autore, la formula è volutamente ripresa da J.-L. Marion, Réduction et donation. Recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, PUF, Paris 20042 [19891]; trad. it. Riduzione e donazione. Ricerche su Husserl, Heidegger e la fenomenologia, a cura di S. Cazzanelli, Marcianum Press, Venezia 2010. Sostituendo la riduzione con la con-determinazione, l’Albarello vuole spostare l’accento sulla dinamica intenzionale del soggetto rispetto a un’assolutizzazione della donazione. Il discorso segue d’altronde una posizione critica nota nei confronti di Heidegger: quella di aver appunto lasciato all’uomo una semplice passività, ricettacolo dell’essere, e averlo così esposto al processo onnivoro e necessitante della storia. Su questo rilievo critico, oltre alle stesse considerazioni presenti nel testo di Müller, cfr. sempre J.-L. Marion, Étant donné. Essais d’une phénoménologie de la donation, PUF, Paris 1997 (trad. it. Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, a cura di R. Caldarone, SEI, Torino 2001); L. Pareyson, Il nulla e la libertà come inizio e La «domanda fondamentale»: «Perché l’essere piuttosto che il nulla»?, in Id., Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, pp. 439-462 e 353-384; J.-Y. Lacoste, Expérience et Absolu. Questions disputées sur l’humanité de l’homme, PUF, Paris 1994 (trad. it. Esperienza ed assoluto. Sull’umanità dell’uomo, Cittadella, Assisi 2004); Vaysse, Historialité et histoire de l’être, in Heidegger, cit., pp. 171-212. ↩︎
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Albarello, La libertà e l’evento, cit., p. 313. ↩︎
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T. Sheehan, Prolegomeni alla questione di Heidegger e Dio, trad. it. di A. Anelli, in H, pp. 509-529. ↩︎
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Sheehan cita qui 1Gv 4, 12. Da tenere presente tutto il tenore dell’epistola — Deus est caritas —, oltre al luogo del mandatum novum, il classico Gv, 13, 34-35. ↩︎
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Tertulliano, Apologia 39, 6, «Vide ut invicem se diligant». ↩︎
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Gv 1, 18. ↩︎
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Mc 1, 15 (μετανοεῖτε καὶ πιστεύετε ἐν τῷ εὐαγγελίῳ). Lo Sheehan riprende anche Mt 25, 37-40, e conclude: «Il messaggio del Gesù storico incontra gli esseri umani là dove essi vivono: sulla terra e non in cielo, dove ognuno vive faccia a faccia con gli altri, fianco a fianco nella società e non assorto nella splendida singolarità della visione beatifica» (H, 527). ↩︎
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Assieme a Pöggeler, Kisiel, Lehmann e Gethmann, lo Sheehan è stato tra i primi a riferire del corso invernale del 1920/21, Einleitung in die Phänomenologie der Religion, prima ancora che venisse pubblicato (1995). Cfr. a questo proposito, T. Sheehan, Heidegger’s «Introduction to the Phenomenology of religion», 1920-21, in «The Personalist», 55 (1979-1980), pp. 312-324, poi anche in: «Filosofia», 31 (1980), pp. 431-446, trad. it. Heidegger e il suo corso sulla «Fenomenologia della religione» (1920/21), a cura di A. Cazzullo, e in J.J. Kockelmans (ed. by.), A Companion to Martin Heidegger’s «Being and time», Rowman & Littlefield, Washington 1986, pp. 40-62. In generale sul corso in questione cfr. anche Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, cit., pp. 40-51; K. Lehmann, Christliche Lebenserfahrung und ontologische Frage beim jungen Heidegger, in «Philosophisches Jahrbuch», 74 (1966), pp. 126-153 (poi anche in: O. Pöggeler [hrsg. von], Heidegger. Perspektiven zur Deutung seines Werkes, Athenäum, Weinheim 19943 [19691], pp. 140-168); C.F. Gethmann, Philosophie als Vollzug und als Begriff. Heideggers Identitätsphilosophie des Lebens in der Vorlesung vom Wintersemester 1921/22 und ihr Verhältnis zu «Sein und Zeit», in «Dilthey-Jahrbuch», 4 (1986-87), pp. 27-53; D. Thomä, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach. Zur Kritik der Textgeschichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1990, pp. 146-161; Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, cit., pp. 149-191; U. Regina, Esperienza cristiana e nuova concettualità in Heidegger, in «Per la filosofia», 12 (1996), pp. 16-31; A. Ardovino, Heidegger interprete di Paolo. L’esperienza effettiva della vita e il senso della temporalità in quanto tale, in «Annali di Scienze Religiose», 3 (1998), pp. 305-335; Id., Heidegger, esistenza ed effettività. Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale, cit., pp. 85-112; J. Greisch, l’Arbre de vie et l’Arbre du savoir. Le chemin phénoménologique de l’herméneutique heideggérienne (1919-1923), Cerf, Paris 2000; L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo 1916-1927, Liguori, Napoli 2001, pp. 79-93; L. Samonà, Interpretazione e tempo di Dio. Riflessioni sulla lettura heideggeriana della religiosità protocristiana, in L. Perissinotto/M. Ruggenini (a cura di), Tempo e interpretazione. Esperienze di verità nel tempo dell’interpretazione, Guerini, Milano 2002, pp. 149-164; M. Zaccagnini, Christentum der Endlichkeit. Heideggers Vorlesungen: Einleitung in die Phänomenologie der Religion, LIT, Münster-Hamburg-London 2003; M. Jung/H. Zaborowski, Phänomenologie der Religion. Das frühe Christentum als Schlüssel zum faktischen Leben, in D. Thomä (hrsg. von), Heidegger Handbuch. Leben-Werk-Wirkung, Metzler, Stuttgart-Weimar 20132 [20031], pp. 8-13; F.-W. von Herrmann, Faktische Lebenserfahrung und urchristliche Religiosität. Heideggers Phänomenologische Auslegung Paulinischer Briefe, in Heidegger und die christliche Tradition, cit., pp. 21-31; P. Stagi, Der faktische Gott, Königshausen & Neumann, Würzburg 2007; Id., Il giovane Heidegger. Verità e rivelazione, Zikkurat, Teramo 2010, pp. 63-114; Molinaro (a cura di), Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’epistolario paolino, cit.; M. Fischer, Religiöse Erfahrung in der Phänomenologie des frühen Heidegger, Vadenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2013. ↩︎
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L’autore riprende qui K. Rahner, Grundkurs des Glaubens. Einführung in den Begriff des Christentums, Herder, Freiburg i.B. 1976 (trad. it. Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, a cura di C. Danna, Paoline, Roma 1984). ↩︎
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Brief über den «Humanismus», in Wm, GA 9, 345/298. ↩︎
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Cfr. ivi, 347-348/303: «Solo a partire dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo a partire dall’essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità. Solo alla luce dell’essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la parola «Dio»». ↩︎
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Cfr. T. Sheehan, A paradigm shift in Heidegger research, in «Continental Philosophy Review», 34 (2001), pp. 183-202; Id., Kehre and Ereignis: A Prolegomenon to Introduction to Metaphysics, in R. Polt/G. Fried (ed. by), A Companion to Heidegger’s Introduction to Metaphysics, Yale University Press, New Haven-London 2001, pp. 3-16; Id., Geschichtlichkeit/Ereignis/Kehre, in «Existentia», 9 (2001), pp. 241-251; Id., Nihilism and Its Discontents, in F. Raffoul/D. Pettigrew (ed. by), Heidegger and Practical Philosophy, State University of New York Press, 2002, pp. 275-300; Id., Heidegger, in R.L. Arrington (ed. by), The World’s Great Philosophers, Blackwell, Oxford 2003, pp. 105-117; Id., Dasein, in H.L. Dreyfus/M.A. Wrathall (ed. by), A Companion to Heidegger, Blackwell, Oxford 2005, pp. 193-213; Id., La Kehre a Marburgo, trad. it. di S. Venezia, in E. Mazzarella (a cura di), Heidegger a Marburgo (1923-1928), Il Melangolo, Genova 2006, pp. 155-187. ↩︎
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T. Kleffmann, Filosofia e teologia in Heidegger, trad. it. di A. Anelli, in H, 588-603. Il testo è una versione rielaborata, con ulteriori aggiunte, di un saggio già pubblicato dall’autore: Systematische Theologie — zwischen Philosophie und historischer Wissenschaft. Eine Auseinandersetzung mit M. Heidegger, in «Neue Zeitschrift für Systematische Theologie», 46 (2004), pp. 207-225. ↩︎
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Cfr. B. Schumacher, Deux ennemies irréductibles. La philosophie et la théologie selon Heidegger, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 44 (1997), pp. 279-296; V. Cesarone/F.P. Ciglia/O. Tolone, Filosofia e religione: nemiche mortali? Scritti in onore di Pietro De Vitiis, ETS, Pisa 2012. ↩︎
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Phänomenologie und Theologie, in Wm, GA 9, 63/19: «Überwinden besagt nicht abstoßen sondern in neue Verfügung nehmen. Hieraus ergibt sich: alle theologischen Grundbegriffe haben jeweils, nach ihrem vollen regionalen Zusammenhang genommen, in sich einer zwar existenziell ohnmächtigen, d. h. ontisch aufgehoben, aber gerade deshalb sie ontologisch bestimmenden vorchristlichen und daher rein rational faßbaren Gehalt» (ivi, 63/19-20). ↩︎
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Ivi, 62/18. ↩︎
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Per un confronto tra i due si veda, H. Mörchen, Zur Offenbarung der Kommunikation zwischen der Theologie Rudolf Bultmanns und dem Denken Martin Heideggers, in B. Jaspert (hrsg. von), Rudolf Bultmanns Werk und Wirkung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1984, pp. 234-252; V. Bernardi, Lo Heidegger-Streit teologico degli anni Trenta, in G. Semerari (a cura di), Confronti con Heidegger, Dedalo, Bari 1992, pp. 7-32; O. Pöggeler, Heidegger und Bultmann. Philosophie und Theologie, in M. Happel (hrsg. von), Heidegger — neu gelesen, Königshausen und Neumann, Würzburg 1997, pp. 41-53; Id., Philosophie und hermeneutische Theologie. Heidegger, Bultmann und die Folgen, Wilhelm Fink, München 2009, pp. 31-136; H. Hübner, «Existentiale» Interpretation bei Rudolf Bultmann und Martin Heidegger, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 103 (2006), pp. 533-567; T. Kleffmann, Philosophie und Theologie. Der Briefwechsel zwischen Bultmann und Heidegger 1925 — 1975, in «Theologische Rundschau», 74 (2009), pp. 249-262; A. Nitrola, Il tempo in Heidegger e Bultmann, in L. Dan (a cura di), Il tempo nella Bibbia, AdP, Roma 2009, 239-273; K. Hammann, Theologie und Philosophie — Martin Heidegger, in Id., Rudolf Bultmann. Eine Biographie, Mohr Siebeck, Tübingen 2009, pp. 192-2016. ↩︎
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Cfr. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, cit., pp. 89-94; E. Brito, Heidegger e il problema dell’esperienza religiosa in Friedrich Schleiermacher e Rudolf Otto, in «Annuario filosofico», 15 (1999), pp. 421-448. ↩︎
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SZ, 10/22. Sul significato di Lutero per Heidegger, oltre ai vari testi di lezioni del periodo friburghese (1919-1923), si possono consultare gli interventi che egli tenne nell’ambito di un seminario di Bultmann sull’etica di Paolo a Marburgo nel 1924: M. Heidegger, Das Problem der Sünde bei Luther, in B. Jaspert (hrsg. von), Sachgemässe Exegese. Die Protokolle aus Rudolf Bultmanns Neuetestamentarischen Seminare 1921-1951, Elwert, Marburg 1996, pp. 28-33, poi anche in: M. Heidegger/R. Bultmann, Briefwechsel 1925-1975, hrsg. von A. Großmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 2009, pp. 263-271. Per un confronto tra Heidegger e Lutero, si veda J.F. Courtine, Une difficile transaction: Heidegger, entre Aristote et Luther, in B. Cassin (textes réunis par), Nos Grecs et leurs Modernes. Les stratégies contemporaines d’appropriation de l’Antiquité, Le Seuil, Paris 1992, pp. 337-362; Buren, Martin Heidegger, Martin Luther, cit.; A. Großmann, Zwischen Phänomenologie und Theologie: Heidegger’s «Marburger Religionsgespräch mit Rudolf Bultmann», in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 1998, pp. 37-62; Id., Heidegger und Luther, in Heidegger e i medievali, cit., pp. 193-209; O. Pöggeler, Heideggers Luther-Lektüre im Freiburger Theologenkonvikt, in Heidegger und die Anfänge seines Denkens, cit., pp. 185-196; Id., Heideggers Weg von Luther zu Hölderlin, in Heidegger und die christliche Tradition, cit., pp. 167-187; C. Sommer, Heidegger, Aristote, Luther. Les sources aristotéliciennes et néotestamentaires d’Etre et temps, PUF, Paris 2005; R. Carbone, Temporalità, relazione e angustia nell’esperienza effettiva della vita: Heidegger a confronto con Paolo e Lutero, in «Protestantesimo», 61 (2006), pp. 123-152; K.K. Lehmann, «Sagen, was Sache ist»: der Blick auf die Wahrheit der Existenz. Heideggers Beziehung zu Luther, in Heidegger und die christliche Tradition, cit., pp. 149-166; P.R. Hinlicky, Luther and Heidegger, in «Lutheran quarterly», 22 (2008), pp. 78-86; A.P. Ruoppo, La vita come inquieto essere in cammino: Heidegger interprete di Aristotele in dialogo con Lutero, in «Il Pensiero», 1 (2010), pp. 105-125; Id., «Più essenziale di ogni fissazione di regole è che l’uomo trovi il soggiorno nella verità dell’essere». La risposta heideggeriana al disorientamento dell’uomo contemporaneo, in «Il cannocchiale», 38 (2013), pp. 149-158. ↩︎
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Phänomenologie und Theologie, in Wm, GA 9, 54/11. ↩︎
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A. Anelli, Heidegger e la teologia. Verso un nuovo paradigma, in H, 545-587. Dell’autore cfr. anche: Heidegger und die Theologie. Prolegomena zur zukünftigen theologischen Nutzung des Denkens Martin Heideggers, Ergon, Würzburg 2008, e il già citato Heidegger e la teologia. In realtà, oltre ai contributi già segnalati e discussi, vi è anche il bel saggio di G. Noberasco, L’evento escatologico e la ragione teologica, in H, pp. 627-651, il quale pur partendo da Heidegger, considerato sempre nel suo apporto strutturale dato alla teologia in riferimento alla nozione di evento, si sofferma sulla ricezione del filosofo tedesco da parte di Eberhard Jüngel e sul confronto/ripensamento di quest’ultimo — oltre che di altri teologi di area protestante quali Ingolf Dalferth, Philipp Stoellger, Johannes Fischer — con l’eredità teologica di Karl Barth. ↩︎
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Ciò non di meno, il periodo delle origini cattoliche di Heidegger (ivi, 546-550) è presentato con estrema attenzione e ricchezza filologico-documentarie, decisamente maggiori di quanto non sia sempre stato fatto in passato. L’autore prende in considerazione i vari documenti in nostro possesso della produzione heideggeriana di quegli anni, suddividendoli in due periodi: quello della stretta e convinta militanza cattolica (1909-1911) e quello di un’appartenenza al cattolicesimo via via più critica che si consumerà nella rottura definitiva da esso (1911-1919). Del primo periodo, Anelli riporta dei brevi articoli scritti dal giovane studente Heidegger in occasione della «controversia sul modernismo», nei quali, coriaceo e ortodosso, l’autore riprende «le argomentazioni antimoderniste messe in campo dai documenti magisteriali e dalla teologia neoscolastica» contro le avvisaglie minacciose della teologia liberale. Ad ogni articolo di Heidegger, scritto sulla rivista cattolica locale «Heuberger Volksblatt» dal 7 aprile al 31 maggio 1911, seguiva una risposta critica da parte di un autore anonimo sulla rivista liberale di Meâkirch, «Oberbadischer Grenzbote». Per i riferimenti della disputa, si può confrontare A. Denker/E. Büchin, Heidegger und seine Heimat, Klett-Cotta, Stuttgart 2005, pp. 38-115; trad. it Heidegger e il modernismo, a cura di A. Anelli, in «Humanitas», 62 (2007), pp. 93-110. Ulteriori approfondimenti su questo periodo — oltre ai lavori pionieristici di V. Farias, B. Casper, T. Sheehan e H. Ott — si possono trovare in A. Denker, Heideggers Lebens- und Denkweg 1909-1919, e in Id., Heideggers frühe Veröffentlichungen (1909-1919). Ein Forschungsbericht, in Heidegger und die Anfänge seines Denkens, cit., pp. 97-122 e 373-377; Id., Martin Heidegger: Zwischen Herkunft und Zukunft. Die Anfänge seines Denkweges, in «Studia Phaenomenologica», 1 (2001), pp. 275-322. Del secondo periodo (1911-1919) l’Anelli considera invece il progressivo distacco maturato da Heidegger nei confronti della teologia neoscolastica, per la quale sarebbe stato necessario un suo ripensamento attraverso l’accentuazione del divenire storico, e il coevo avvicinamento ad una rivalutazione del pensiero di Kant. Di questi aspetti sono testimonianza delle recensioni pubblicate da Heidegger su alcuni testi relativi al pensiero di Kant e la celebre tesi di abilitazione del 1915, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus (H, 549-550). Sulla questione cfr. inoltre lo stesso Anelli, Heidegger e la teologia, cit., pp. 15-33. ↩︎
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«Heidegger si appropria di questo schema, lo trasforma erigendolo a unico vero compito della filosofia e vi si dedica riconoscendolo come l’unico vero tema e problema del proprio itinerario di pensiero» (ivi, p. 13). ↩︎
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Ivi, p. 14. Per questo secondo aspetto, non trattato però dall’Anelli nel contributo per il numero di «Humanitas», cfr. ivi, pp. 57-107. ↩︎
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Die Zeit des Weltbildes, in Hw, GA 5, 87-88/85. ↩︎
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«Ciò che caratterizza il progetto teorico di Heidegger dal suo periodo giovanile fino alla Kehre è la rielaborazione della problematica nozione di «soggetto» ereditata dalla metafisica moderna con il suo carico di aporie gnoseologistiche» (H, 564). ↩︎
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Brief über den «Humanismus», in Wm, GA 9, 321-322/275-276. ↩︎
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Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA 24, 322/218; Metaphysiche Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, GA 26, 193/181; Vom Wesen des Grundes, in Wm, GA 9, 134/90. Sulla questione della differenza ontologica, cfr: M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in La differenza e l’origine, cit., pp. 302-351; Id., Ermeneutica della differenza. Saggio su Heidegger, Vita e Pensiero, Milano 1990; M. Ruggenini, L’uomo e la differenza, in M.M. Olivetti (a cura di), La recezione italiana di Heidegger, CEDAM, Padova 1989, pp. 337-362; Id., Il divino e la differenza, in Heidegger in discussione, cit., pp. 331-350; Id., Il discorso dell’altro. Ermeneutica della differenza, Il Saggiatore, Milano 1996; C. Esposito, Esserci e differenza ontologica, in Id., Storia e fenomenologia del possibile, Levante, Bari, 1992, pp. 13-58; Id., L’esserci come condizione di (im)possibilità dell’essere. Heidegger da Sein und Zeit ai Beiträge zur Philosophie, in M. Gardini (a cura di), Heidegger e la fenomenologia dell’esistenza, Quodlibet, Macerata 2000, «Discipline filosofiche», 9 (1999), pp. 285-296; A. Ardovino (a cura di), Sentieri della differenza. Per un’introduzione a Heidegger, NEU, Roma 2008. ↩︎
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H, 567; Brief über den «Humanismus», in Wm, GA 9, 337/290. ↩︎
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H, 568. ↩︎
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L’autore considera qui i vari passi heideggeriani in cui si snodano i riferimenti che articolano quel rapporto originario tra la trascendenza e il fondamento, già esposto da Heidegger in Sein und Zeit. Cfr. SZ, 201/244-245; Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, GA 26, 207-208/191-193; Kant und das Problem der Metaphysik, GA 3, 228/197 (trad. it. Kant e il problema della metafisica, a cura di M.E. Reina, riveduta da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 20044 [19811]); Was ist Metaphysik, in Wm, GA 9, 103-122/59-77; Das Wesen des Grundes, ivi, 123-175/79-131. ↩︎
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Ci riferiamo qui alla nota interpretazione retrospettiva di Heidegger contenuta nel Brief über den Humanismus (ivi, 327-328/281). ↩︎
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SZ, 42/60; Brief über den «Humanismus», in Wm, GA 9, 325/278 — ««E-sistenza» è, in una fondamentale differenza da ogni existentia ed existence, l’abitare e-statico nelle vicinanze dell’essere (das ek-statische Wohnen in der Nähe des Seins). Essa è la guardia, cioè la cura dell’essere» (ivi, 343/295); «Pensata estaticamente, l’e-sistenza non coincide con l’existentia né per il contenuto né per la forma. In ordine al contenuto, e-sistenza significa stare-fuori nella verità dell’essere (Hin-aus-stehen in die Wahrheit des Seins)» (ivi, 326/279-280). ↩︎
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Cfr. Beiträge zur Philosophie…, GA 65, 30-32/58-59. ↩︎
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Cfr. Seminare, GA 15, 437/208. ↩︎
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F. Duque, La filosofia non lascia indifferenti. Gli «umori» del pastore nel pensiero di Heidegger, trad. it. di A. Pini, a cura di P. Cipolletta, Mimesis, Milano-Udine 2009, p. 9. ↩︎
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Wozu Dichter?, in Hw, GA 5, 269/247. ↩︎
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Ivi, 275/253. ↩︎
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Einleitung in die Philosophie - Denken und Dichten, in GA 50, 121/93 (trad. it. Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2010 [20091]). ↩︎
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Die Zeit des Weltbildes, in Hw, GA 5, 109-11/96-97. Su questo ed altri aspetti, cfr. F. Duque, El mundo Per de Dentro. Ontotecnologßa de la vida cotidiana, Ediciones del Serbal, Barcelona 2000; trad. it. Il mondo, Dall’interno. Ontotecnologia della vita quotidiana, a cura di V. Vitiello, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 37-50. ↩︎
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Überwindung der Metaphysik, in VA, GA 7, 90-96/60-64. ↩︎
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Das Wesen der Sprache, in UzS, GA 12, 168/141. ↩︎
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Intesa qui nel senso che Heidegger gli dà soprattutto negli Unterwegs — «Fare esperienza di qualcosa — si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio — significa che quel qualcosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma» (ivi, 149/127). Sulla perdita dell’«esperienza» nella modernità sono celebri le pagine di Walter Benjamin (Passages, Esperienza e povertà, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov). Cfr. anche G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 1978 e S. Petrosino, Le fiabe non raccontano favole. Credere nell’esperienza, Il Melangolo, Genova 2013. ↩︎
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Una messa in questione di questi aspetti dirimenti per il futuro di ogni kérigma evangelico, si possono riscontrare in alcuni lavori recenti: L. Grion (a cura di), La sfida postumanista. Colloqui sul significato della tecnica, Il Mulino, Bologna 2013; G. Savagnone, Quel che resta dell’uomo. È davvero possibile un nuovo umanesimo?, Cittadella, Assisi 2015. ↩︎
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Nietzsche, GA 6.2, 267-268 /778. ↩︎
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Ivi, 288/797. ↩︎
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Sul versante teologico sono note le riserve critiche di Fabro, Maritain, Gilson, Ricœur — da ultimo cfr. anche M. Malaguti, Epekeina tes ousias. A proposito della «differenza ontologica», in C. Gentili/F.-W. von Herrmann/A. Venturelli, Martin Heidegger trent’anni dopo, Il Melangolo, Genova 2009, pp. 183-201. In ambito neoplatonico, invece, cfr. il classico W. Beierwaltes, Identität und Differenz, Klostermann, Frankfurt a.M., 1980; trad. it. Identità e differenza, a cura di S. Saini, Vita e Pensiero, Milano 1989, pp. 365-378. ↩︎
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Cfr. G. Penzo, «Se l’essere sia «capace» di Dio». Riflessioni inattuali sulla secolarizzazione nella problematica di Martin Heidegger, in M.M. Olivetti (a cura di), La ricezione italiana di Heidegger, Cedam, Padova 1989, pp. 159-179: 159. Rispetto ai corsi friburghesi degli anni ’20 sull’esperienza protocristiana della vita effettiva, G. Vattimo ha poi parlato di una connessione ESSENZIALE, e non meramente analitica, non solo in relazione a Sein und Zeit, ma alla stessa tematica dello Heidegger maturo, l’oblio dell’essere (cfr. Hos mé. Heidegger e il cristianesimo, in Id., Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002, pp. 129-142). ↩︎
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Anelli, Heidegger e la teologia, cit., pp. 57-107. Cfr. anche J.-L. Marion/P. Gisel/P. Secrétan, Analogie et dialectique. Essais de Théologie fondamentale, Labor et fides, Genève 1982. ↩︎
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Was heisst Denken?, GA 8, 5/37. ↩︎
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Cfr. W. Benjamin, Der Erzähler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows, in Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1955; trad. it. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 19952, p. 257. ↩︎
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Di una attualità storica che ormai ci sopravanza da tanto, troppo tempo — almeno a partire dalla modernità. Non è forse un caso che un altro capolavoro del Novecento filosofico, La stella della redenzione di Rosenzweig — che solca una distanza quasi abissale rispetto all’ontologia heideggeriana — si apra con un atto d’accusa a quella tradizione filosofica, «dalla Jonia fino a Jena», che nega l’«aculeo velenoso» della morte, lo infinge, decretandone l’artificio di una «nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita» (F. Rosenzweig, La stella della redenzione, trad. it. di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato, pp. 3-4). Ancora più radicale la presa di posizione di un Max Scheler, pensatore molto apprezzato da Heidegger, per il quale la questione capitale per la fede cristiana, la risurrezione, è oggi nella sua premessa — la morte — totalmente disattesa, dal momento che «l’uomo moderno (…) non vede più con chiarezza che la propria morte gli sta dinanzi, non «vive» più «al cospetto della morte»». Di conseguenza, «anche l’idea di una sopravvivenza al di là della morte non può che svanire» (cfr. M. Scheler, Morte e sopravvivenza, trad. it. di E. Simonotti, Morcelliana, Brescia 2012, p. 34) ↩︎
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D. Di Cesare, Escatologia dell’essere. Quel che resta di Heidegger — tra finitezza originaria e infinito negato, in Martin Heidegger trent’anni dopo, cit., pp. 131-147: 145. ↩︎