1. Introduzione generale
Il presente lavoro intende ripercorrere brevemente il modo in cui è stato concepito il concetto di apparenza all’interno della poesia e della filosofia antica. Mi incentrerò, in particolare, su Omero, Parmenide e Gorgia al fine di mostrare l’ambivalenza e la poliedricità del termine. Infatti, si noterà come dell’apparenza esistono due facce, due lati, che intrinsecamente si uniscono e si compenetrano. Innanzitutto, prima di addentrarci nel districato percorso che ho sinteticamente annunciato, è opportuno partire dalla stessa definizione di apparenza:
Dal lat. tardo apparentia, der. di apparere, apparire. Ciò che appare, che si mostra alla vista; quindi aspetto, e anche contegno, comportamento esteriore. […] Per lo più si contrappone alla sostanza, a ciò che è in realtà. […] Nella metafisica, ciò che è, o può essere, percepito dai sensi ed è oggetto di immediata o riflessa credenza, variamente interpretato nella storia del pensiero ora come ciò che vela e nasconde la realtà, ora come ciò che la manifesta.1
Se, invece, scegliessimo come riferimento il termine “Fenomeno”, strettamente connesso all’apparenza, la definizione che ne risulterebbe è la seguente:
Tutto ciò che di un essere si manifesta all’esperienza, in modo da poter essere percepito o constatato, […] dal gr. phainomenon, fenomeno, apparenza, p. pr. sost. di phainesthai apparire, sembrare..2
Ancora, Pierre Chantraine offre tale caratterizzazione:
Montrer, mettre en lumière […] devenir visible, venir à la lumière, se montrer, apparaître […] visible, manifeste.3
Stefano Maso, dal canto suo, sempre alla voce “Fenomeno”, scrive:
È insomma qualcosa che “appare”: è l’ente nel suo manifestarsi a colui che lo prende in considerazione. Più in generale, si tratta del modo in cui la realtà fisica manifesta non tanto la propria “essenza”, ma la propria “verità”.4
Già da questo preambolo si deduce chiaramente la grande difficoltà che insorge nell’approcciarsi a questo termine. L’apparenza ha in sé un aspetto di verità, poiché altrimenti non avrebbe alcun valore gnoseologico per noi;5 al tempo stesso è ciò che, pur mostrandosi e avvicinandosi alla verità, la nasconde – come vedremo – sotto un velo di verosimiglianza (non di falsità o inganno).6 Quest’ultima, infatti, di contro alla finzione e alla menzogna, ha un contatto, seppur in negativo, con la ἀλήθεια. Come ha infatti giustamente notato Roberta Ioli:
Il realismo dell’arte antica non è lo specchio che imita il vero, non è la superficie piatta che tenta di riprodurre il mondo in una mimesi impossibile, ma è semmai l’apertura verso altro, è il velo che nasconde e, insieme, promette uno svelamento, una possibilità di visione, è protezione della fragilità dei mortali […] ma è anche condizione necessaria affinché si attivi quel processo euristico che conduce ad una conoscenza più profonda delle cose.7
Quindi la poesia, stando al passo appena citato, non può essere esclusa a priori dal novero della verità, in quanto strumento fondamentale per il raggiungimento di una maggiore, e più profonda, conoscenza delle cose.
2. Omero
L’apparenza sensibile conduce l’uomo verso la verità, ma non la mostra mai del tutto. Essa non è una conoscenza epistemica, ma al tempo stesso non è mai puramente finzione e/o menzogna. Tale movenza – come già preannunciato – si riscontra in primis nella poesia.8 Come ha infatti evidenziato Mario Untersteiner, parlando delle Muse:
Perciò quanto esse comunicano, non è una verità sicura e pienamente valida: si tratta di “creazione” della fantasia poetica, che non esclude la “realtà”: impensabile sarebbe una creazione artistica, che non proclami quello che nel nostro cosmo possiede un valore effettivo. L’elemento museo non è, nella sua essenza, verace ma non si stacca dalle realtà, una delle quali è egli stesso.9
Come esempio – e a conferma di ciò – possiamo riferirci alla figura di Odisseo, unilateralmente definito come un maestro dell’inganno, del mentire. Definizione che viene primariamente offerta da Aristotele il quale, nella Poetica, afferma:10
Omero ha insegnato anche agli altri come si deve dire il falso. […] Giacché anche nell’Odissea l’episodio dello sbarco è chiaro che riuscirebbe insopportabile se l’avesse scritto un cattivo poeta.11
Questo in quanto, per lo Stagirita, la poesia deve necessariamente occuparsi di verosimiglianza, e non di verità assoluta.12 Infatti «laddove la verità sia inaccessibile allo sguardo dei mortali, la poesia può risultare strumento euristico non solo più onesto della storia e della scienza, ma anche più fortunato».13 La poesia è in grado di far giungere l’uomo gnoseologicamente più lontano della storia, perché si sta parlando di esistenza umana, di vita vissuta, e non di un fatto puramente meccanico e fisico. La verità è primaria, ma quando si tratta di prendere in esame questioni umane, bisogna adattarsi alla natura degli esseri umani e – il più delle volte – accontentarsi di una semplice parvenza di vero. L’arte, la poesia, sono in grado di produrre ciò che Ioli, ma anche Vitali,14 riferendosi al potere della parola in Gorgia,15 chiamano deviazioni. Essa «non è già un inganno, e neanche una illusione ma costituisce, quanto meno, un tentativo reale di reimmettersi da parte dell’uomo sulla via di ἀλήθεια che è la via del canto».16 Ritornando ad Omero, possiamo dire che certamente a buon titolo Aristotele lo definiva come “maestro dell’inganno”. I suoi poemi ne sono pieni: la tela di Penelope, forse tra quelli più noti ed evidenti; le poderose catene di Efesto, finalizzate a catturare Ares e Afrodite, la fitta nebbia che si dirama in più occasioni. Quest’ultimo caso è quello, a mio avviso, più interessante perché mostra chiaramente l’ambivalenza, mai contraddittoria, della stessa poesia, che è anche – per esteso – uno dei motivi centrali del pensiero greco. La verità non è mai pensata come totalmente inaccessibile, ma è sempre «calibrata sulle cose prima che sul nostro sguardo»,17 come ben messo in luce anche dal pensiero aristotelico.18 La verità, nell’ottica dello Stagirita, può essere intravista se si lascia “parlare” la realtà che ci circonda. Non è possibile, ovviamente, avere una conoscenza totale, universale, assoluta ma, grazie ad un “ascolto” attento di ciò che appare, si può arrivare ad una comprensione utile e adeguata “per noi”:
L’evento della verità per i greci dell’epoca classica fu soprattutto inteso come l’evento ogni volta possibile, ma ogni volta contingente, dell’offrirsi alla nostra percezione di qualcosa – to on, l’ente, ciò che è – il cui essere si dà già originariamente formato fuori di noi e nei confronti del quale alla nostra facoltà conoscitiva non resta altro che adeguarsi e conformarsi al meglio delle sue possibilità.19
Possiamo prendere a titolo di esempio di questo processo di mascheramento/smascheramento della verità il momento in cui, nell’Iliade, Paride viene velato dalla dea Afrodite mentre si trova sul campo di battaglia, pronto a combattere contro Menelao, per permettergli di fuggire e raggiungere Elena.20 Allo stesso modo anche la dea Atena impedisce, mediante una fitta nebbia, il riconoscimento della propria patria a Odisseo. Questo stratagemma ha «un doppio fine che ruota attorno al tema della conoscenza».21 La nebbia permette al protagonista di non essere riconosciuto, e dunque di poter attuare il suo «colpo di Stato»22 e compiere il suo pieno ritorno..23 Il riconoscimento, da parte di Odisseo, della sua patria e della sua famiglia, richiedono tempo e un graduale avvicinamento. Solo una verità celata e mostrata poco per volta può permette al naufrago di ritornare ad essere re:
Si fa riconoscere dagli schiavi come padrone; si fa riconoscere dal figlio come padre, e già ci stiamo avvicinando a una forma di autorità molto affine a quella del re. Non rimane che farsi riconoscere dalla moglie, per tornare ad essere marito, e vedersi immediatamente rivestito di quei ruoli che sono stati lasciati ancora vacanti nell’oikos e nella reggia.24
L’inganno è necessario. Ma – evidentemente – più che di inganno e di menzogna, sarebbe opportuno parlare di un «racconto che pare sostituirsi alle “parole trattenute”, cioè alla verità che egli stesso avrebbe istintivamente voluto rivelare insieme alla gioia per la patria ritrovata, ma che è prudente differire».25 Ecco quindi che, in parte, si incomincia ad intravedere la dialettica – fin qui accennata – che muove il concetto di apparenza, in un continuo susseguirsi di realtà e finzione.26 Continuiamo però nell’analisi. Parlando di “inganno necessario”, non può non venir in mente l’astuto stratagemma messo in atto da Penelope, e ricordato poc’anzi:
Allora di giorno la gran tela tesseva, e la sfaceva di notte, con le fiaccole accanto. Così tre anni tenne nascosto l’inganno e illuse gli Achei. Ma quando arrivò il quarto anno e le stagioni tornarono, una donna lo disse, che bene sapeva, e la cogliemmo a disfare la splendida tela.27
Penelope non si rassegna alla presunta morte del marito, e contro coloro che la spronano a scegliere presto un futuro sposo (Telemaco, in primis, che aspira a ricoprire il ruolo svolto dal padre all’interno dell’oikos), lei «è riuscita a non seppellirlo e a non inabissare se stessa nel privato di un qualsiasi altro oikos […] sottolineando l’assenza del coniuge, unico re, fino a quel momento è stata impedita ogni sostituzione».28 L’astuzia di Penelope sta proprio in questo: procrastina, facendo credere ai Proci di giungere ad una scelta quando completerà la tela, ma disfacendola di notte. Dà solo l’illusione di una scelta prossima, ma mostrando al tempo stesso, come un’abile giocoliere, la verità: Odisseo è semplicemente assente, non morto, per cui ogni sostituzione è vana. Questa stessa movenza caratterizza anche altri passaggi dei poemi omerici. Una apparenza che potremmo quasi paragonare alla persuasione, che rende inaccessibile la verità ma che è anche espressione di saggezza. Come ha infatti ricordato Louise H. Pratt: «The divine Muses dispense not beauty or poetic inspiration but a knowledge of people and events that would otherwise be inaccessible to a mere mortal»,29 e, ancora più significativamente:
There are certainly statements in archaic literature that strongly suggest that truth-telling is normally assumed to be good and lying bad. Nonetheless, if we look at archaic depictions of lying and deceiving, we find that archaic narrative presents a far more complex view, one that tends to undermine pure assumption that all lies and acts of deception are equally reprehensible.30
Mentire, ingannare, ammaliare, sedurre, meravigliare, non sono passibili unicamente di giudizio negativo.31 In Omero infatti i protagonisti spesse volte mentono, ma sempre avendo un obiettivo in mente, che possa essere proteggere un segreto, protendere verso un bene maggiore32 o nascondere una verità al fine di garantire la protezione di qualcuno.33 Un gioco di compromessi, quindi, in cui vero e falso si intrecciano dando vita ad una narrazione «which we can use to reveal our own professional metis».34 Ovviamente Omero non rinuncia a mettere in evidenza anche l’aspetto negativo della thelxis, di questo incanto che produce la poesia,35 di cui è emblema per eccellenza la narrazione del canto delle Sirene nel XII libro dell’Odissea. Queste leggendarie figure ammaliano con la loro voce, ingannano con la loro suadente e seducente melodia. Ma la loro è pura apparenza, pura finzione, destinata a rivelarsi fatale:
Chi ignaro approda e ascolta la voce delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, tornato a casa, festosi l’attorniano, ma le Sirene col canto armonioso lo stregano, sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano. Ma fuggi e tura gli orecchi ai compagni, cera sciogliendo profumo di miele, perché nessuno di loro le senta.36
Quello delle Sirene è un «suono di miele»,37 ma che nasconde infiniti mali. Uno scrigno dorato, ma al cui interno riversano velenosi serpenti. Ecco una ulteriore dimostrazione dell’ambiguità dell’apparenza, questa volta vista dal suo lato negativo. È indubbio che, stando all’insegnamento omerico, bisogna prendere le distanze e valutare criticamente tutto ciò che ci si presenta.38 Ma è anche vero che spesse volte un benevolo inganno, dettato dalla «bellezza delle parole e saggezza dei pensieri»,39 costituisce una fonte indispensabile per il raggiungimento della verità. Il poeta modella le parole, le fa proprie e le porta dalla sua parte affinché abbiano l’aspetto della verità, per giungere poi, passo dopo passo, ad essa. Come non ricordare – a tal proposito – l’incontro di Odisseo con Antinoo.40 Il naufrago propone una elaborazione del discorso precedentemente fatto a Eumeo, togliendo e mascherando però alcuni dettagli, al fine di rivelare la reale natura dell’interlocutore. Quest’ultimo, infatti, mostratosi inizialmente come un sovrano, si rivelerà poi un avido egoista:
Povero me, dunque, non era pari all’aspetto il tuo cuore; certo di casa tua nemmeno il sale daresti al mendico, tu che ora sedendo sulla tavola altrui non hai cuore di prendere un pezzo di pane e darmelo: eppure hai molto davanti.41
Odisseo necessita di un discorso quale quello da lui pronunciato, pur non veritiero, per poter smascherare Antinoo, in quanto «the story is a fiction to reveal the truth».42 Ma, avviandomi alla conclusione di questa prima parte, è nell’incontro tra Penelope e suo marito «che si gioca lo scambio più potente e misterioso, in un equilibrio sapiente tra nascondimento e verità».43 Di fronte alla sua amata, Odisseo vorrebbe rivelare tutto, subito.44 Ma si trattiene, perché sa che è la scelta più saggia da prendere. Le offre così una narrazione che unisce elementi inventati ad altri reali..45Come ho accennato in precedenza, in questo, come in altri casi visti, il parziale inganno è necessario per proteggere Penelope e lo stesso Odisseo, e riuscire così, svelandosi al tempo opportuno, a cacciare i Proci da Itaca. È la stessa motivazione che induce Odisseo a chiedere alla nutrice – una volta riconosciuto tramite una sua cicatrice – di non rivelare la sua identità:
Ora la vecchia, toccando la cicatrice con le due mani aperte, la riconobbe palpandola, e lasciò andare il piede. Dentro il lebete cadde la gamba, risonò il bronzo e s’inclinò da una parte: in terra si sparse l’acqua […] e Odisseo la mano afferrò della vecchia, la strinse con la destra alla gola, con l’altra la tirò a sé, le disse: «Balia, perché mi vuoi perdere? Eppure tu m’hai nutrito al tuo petto; e ora, dopo aver sopportato gran pene, arrivo dopo vent’anni alla terra dei padri. Ma, giacché l’hai capito, un dio te l’ha messo nel cuore, taci, che nessun altro nel palazzo lo sappia».46
Interessante è a tal proposito quanto afferma, tra le righe, Luciano De Crescenzo, in un romanzo che per primo mi introdusse al mondo greco:
Fa pensare il fatto che gli unici esseri che riconoscono Ulisse siano i più semplici, ovvero il cane Argo e la nutrice Euriclea. Argo riconosce il suo padrone con l’odorato, Euriclea con il tatto. Ambedue, però, sono quasi ciechi e, con ogni probabilità, anche i meno intelligenti, quasi che la vista (il più utile dei nostri sensi) e l’intelligenza (la più utile delle nostre qualità) fossero non già una dote, ma un ostacolo alla conoscenza.47
Rileggendo questo passo dopo anni, posso notare come sì, in questo caso sembrano maggiormente utili i sensi rispetto alla saggezza e all’intelligenza, ma senza queste ultime ci risulterebbe impossibile – come si è visto sinteticamente – uscir fuori dall’inganno poetico per scoprire quella verità sì celata, ma sempre visibile a chi ha gli occhi per vederla e le orecchie per ascoltarla.48 È la saggezza che ci consente, comprendendo la finzione funzionale della poesia, di utilizzare quest’ultima come mezzo di acquisizione della verità. Riassumendo brevemente quanto fin qui ho cercato di dimostrare, possiamo dire che, grazie ad Omero e alla figura di Odisseo, è possibile rintracciare nella poesia una apparenza che non sia semplicemente falsità e illusione, ma che possa essere valido strumento di comprensione della realtà: «Se l’inganno dell’arte può danneggiare lo stolto, può d’altra parte beneficare il saggio, confermandone il sapere o permettendogli di affinarlo attraverso l’esperienza della bellezza».49 Un ultimo tassello di questa prima parte, a mio avviso, va dedicato ad Esiodo, e in particolare alla figura di Pandora. Essa è l’inganno per eccellenza. Non a caso, infatti, “Pandora” deriva dal greco πᾶς “tutto” e δῶρον “dono”, cioè, letteralmente, “tutti i doni”. Zeus decise di nascondere ogni bene ai mortali, a seguito dell’ingiuria subita per mano di Prometeo, il quale rubò l’arte del fuoco per offrirlo agli esseri umani.50 In risposta Zeus ordinò agli dèi di preparare un dono così scaltro, malevolo e raggirante che nessun mortale potesse sfuggirgli:
Così disse e scoppiò a ridere il padre degli uomini e degli dèi. All’inclito Efesto diede ordine quanto prima di bagnare della terra con acqua, di metterci di un umano e il vigore, e di rendere simile nel volto alle dee immortali una bella figura fascinosa di vergine; ad Atena poi ordinò di insegnarle lavori, a tessere una tela dai molti ricami; e di versare grazia attorno al suo capo all’aurea Afrodite, e il desiderio doloroso e gli affanni che consumano le membra; di porre in lei mente di cagna e carattere accorto, ordinò ad Ermete, il messaggero Argifonte. Così disse e quelli obbedirono a Zeus Cronide sovrano. Subito con la terra plasmò il nobile Zoppo un’apparenza somigliante a vereconda vergine, secondo i Voleri del Cronide; la cinse e ornò la dea glaucopide Atena, e attorno a lei le dee Cariti e l’augusta Peitò aurei monili posero a ornare il suo corpo, e attorno le Ore dalle belle chiome l’incoronarono di primaverili fiori; ed ogni ornamento al suo corpo aggiustò Pallade Atena; nel suo petto il messaggero Argifonte menzogne, parole ingannevoli e carattere accorto apprestò secondo i voleri di Zeus che pesante risuona; in lei voce pose l’araldo degli dèi.51
Prima dell’arrivo di Pandora – ci racconta Esiodo – gli esseri umani erano immuni e ignoranti rispetto ai mali. Questi ultimi fanno ingresso nel mondo dei mortali solo quando Pandora tolse «con le mani il grande coperchio del vaso».52 Questa donna viene descritta, come abbiamo visto poc’anzi, come bellissima e possedente i più bei doni che si potessero immaginare:53 bellezza, virtù, abilità, grazia, astuzia, ingegno, curiosità. Quest’ultimo è quello che risulterà fatale agli esseri umani.54 Zeus, infatti, le offrì un vaso che mai avrebbe dovuto aprire. Spinta però dalla curiosità donatale da Ermes, la prima donna mortale aprì il vaso, dischiudendolo quasi subito – per volere di Zeus stesso – ma facendo fuoriuscire moltissimi mali. Solo «la Speranza lì, nell’infrangibile dimora dentro restò».55 La bellissima Pandora è l’esempio della duplicità presente nel concetto di apparenza. Travestito da dono, si rivela essere il peggior incubo dei mortali.56 «Non è tutto oro ciò che luccica»,57 insomma. O, almeno, non sempre. Anche se l’apparenza, come ho fin qui cercato di dimostrare – e continuerò lungo tutto il percorso di questo contributo – non ha esclusivamente un aspetto sfavorevole e svantaggioso,58 non si può assolutamente negare la presenza e l’importanza di quest’ultimo. Discernimento critico, attenzione puntuale e rigorosa, sono la chiave per non cadere nel suo suntuoso e sopraffino inganno ma, anzi, condurlo a nostro favore. Ora vediamo come – e se sia possibile – rintracciare la stessa multifocale movenza anche in Parmenide e Gorgia.
3. Parmenide
Per quanto concerne il filosofo di Elea, sarò relativamente breve. Quello che intendo fare è dimostrare che, al contrario delle testimonianze a noi giunte,59 Parmenide non esclude completamente la doxa, l’opinione fallace dei più, prediligendo in maniera preminente «il solido cuore della Verità ben rotonda».60 È innegabile che una distinzione tra le due, ovvero tra alètheia e doxa, verità e apparenza, venga chiaramente delineata. Lo stesso Parmenide afferma: «Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della Verità ben rotonda, e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza».61 Dunque, è vero che i sensi, quello che vediamo e sperimentiamo, può ingannare. Ma, subito dopo, in DK B 1, 31-32, egli continua: «Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso». La sensazione – almeno da un certo punto di vista, come vedremo – è fondamentale per l’essere umano. È ingannevole e fallace, ma necessaria ed utile. Bisogna che l’essere umano apprenda tutto, anche questo. Come ha ampiamente rimarcato Giovanni Reale, infatti:
La via della verità è la via della ragione (il sentiero del giorno), la via dell’errore è sostanzialmente quella dei sensi (il sentiero della notte). Infatti, sono i sensi che parrebbero attestare il non essere, nella misura in cui sembrano attestare l’esistenza del nascere e del morire, del movimento e del divenire. Perciò la Dea esorta Parmenide a non lasciarsi ingannare dai sensi e dalla abitudine che essi creano e a contrapporre ai sensi la ragione e il suo grande principio. […] Ma la Dea parla anche di una terza via, quella delle “apparenze plausibili”. Parmenide, insomma, dovette riconoscere la liceità di un certo tipo di discorso che cercasse di dar conto dei fenomeni, e delle apparenze delle cose, a patto che esso non andasse contro il grande principio e non ammettesse, insieme, essere e non essere.62
Quindi, stando a quanto detto fino ad ora, Parmenide critica un certo tipo di apparenza, un aspetto del φαινόμενον, quello per cui si scambiano vicendevolmente essere e non essere – affermando “il non essere è” – o per cui si ammettono insieme entrambi i termini. Quindi non in assoluto torto si è etichettato Parmenide come il critico dei fenomeni. Ma questo è solo un aspetto del pensiero del filosofo. La seconda parte del poema Sulla natura infatti – la maggior parte, purtroppo, andata perduta – è dedicata proprio a questa via indiscutibilmente indispensabile, all’«ordinamento del mondo come appare».63 Occorre ammettere che questa seconda parte risulta assai aporetica, anche – e soprattutto – per la frammentarietà con la quale ci è pervenuta. Certo è che in essa Parmenide tenta una deduzione dei fenomeni. Parte, infatti, dalla coppia di opposti “luce e notte” per giustificare la permanenza di entrambi nell’essere:
E poiché tutte le cose sono state denominate luce e notte, e le cose che corrispondono alla loro forza sono attribuite a queste cose o a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura, uguali ambedue, perché con nessuna delle due c’è il nulla.64
Gli opposti devono pensarsi come ambedue “essere”. Così facendo però, Parmenide (ma si potrebbe estendere questa conclusione anche all’eleatismo in generale) salva l’essere, ma non i fenomeni, i quali vengono ridotti ad immobilità, indifferenziazione, staticità, unità indissolubile.65 Nonostante, però, le forti aporie appena viste, a mio avviso Parmenide offre – forse per primo in ambito filosofico – una notevole giustificazione della poliedricità del mondo. Esso viene sì ridotto, da un certo punto di vista, a mera finzione, ma è insindacabile come l’opinione abbia una sua pregnanza, fosse anche, come ha notato Roberta Ioli, perché «per conoscere davvero, bisogna apprendere non solo “il cuore della rotonda verità”, ma anche “le opinioni dei mortali in cui non vi è credenza verace”».66 Ovviamente, con ciò non si tende assolutamente a sminuire o negare il costitutivo e intrinseco limite conoscitivo umano:67
E dunque da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno vanno errando, uomini a due teste: infatti, è l’incertezza che nei loro petti guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati, sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio, dai quali essere e non essere sono considerati una medesima cosa e non la medesima cosa.68
L’essere umano, afferma Parmenide, può solo dare un nome alle cose, il quale funge da segno delle stesse,69 ma facendole comunque rimanere inesauribili: «in tal modo secondo l’apparire queste cose sono nate e ora sono e in seguito cresceranno e poi finiranno; ad esse gli uomini hanno posto un nome, per ciascuna come un segno distintivo»,70 e, ancora, «per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore».71 La realtà non può mai essere compresa appieno dall’essere umano ma – a mio avviso – nonostante questo, Parmenide non nega una conoscenza (seppur parziale ed incompleta). Ovvio che non esiste una preminenza dell’ambito “veritativo” su quello fenomenico e doxastico, ed è lo stesso Parmenide ad affermarlo chiaramente:
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero, né l’abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi a muovere l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa che da me ti è stata fornita.72
Rimane – in ultimo – ferma la premessa che questa è solo una proposta di interpretazione che non vuole assolutamente pretendere esaustività. Come ha giustamente chiarito Antonio Capizzi, infatti: «Questo è il solo Parmenide che appare allo storico attraverso la lente del proemio e della sua lettura realistica: il che non significa che non possa essere, ancora una volta, un Parmenide distorto. Solo una lunga abitudine alla nuova lettura potrà ridurre al minimo queste probabili storture, consentendoci di costruire, se non un impossibile Parmenide “reale”, almeno un Parmenide plausibile».73
4. Gorgia
Uno degli autori che ha analizzato maggiormente la questione dell’apparenza è senz’altro Gorgia di Leontini. Egli, discepolo di Empedocle, mette in stretta connessione, nell’opuscolo Del non-essere o della natura (Περί τοῦ μή ὂντος ή περί φύσεως), il λόγος – dunque la parola – e la persuasione, facendo venire meno, al tempo stesso, la comunicabilità e la conoscibilità dell’essere. Ogni singolo individuo esperisce la realtà in modo diversificato, per cui si trae la conclusione che ognuno di noi ha una diversa visione dell’essere e del bene, che rende la comunicabilità di concetti assiologicamente pregnanti semplicemente impossibile, arbitraria e cangiante. Da questo punto di vista quindi il logos74 altro non è che portatore e generatore di inganni, menzogne e fantasticherie illusorie, una mera «componente “energetica”, funzionale alla produzione dell’azione».75 Nel suo Encomio di Elena (Ελένης Εγκώμιον)76 l’autore critica i tradizionali valori e ideali greci, oltre ad offrire una metodologia chiara e distinta della tecnica retorica. In primo luogo, si chiede quali siano le cause che indussero Elena a partire per Troia, scatenando il susseguirsi di vicende ormai note a tutti. Individua ben quattro possibili cause,77 ma quella a mio avviso più rilevante, e maggiormente centrale ai fini del presente contributo, è la terza: «la parola che persuase e che ingannò il suo animo».78 Ecco che ritorna dunque il ruolo centrale della parola. Essa, per il filosofo, rappresenta una forza talmente potente da essere avvicinata, ma non scambiata, alla costrizione fisica o alla necessità. L’encomio continua infatti come segue:
La parola è un potente signore, che, con corpo piccolissimo e del tutto invisibile, compie opere assolutamente divine: ha, infatti, il potere di fare cessare il timore, e di sopprimere il dolore e di suscitare letizia e di accrescere la compassione. […] Negli uditori si infonde un brivido di paura, di compassione che fa versare lacrime, una forte tendenza alla commozione, e l’anima subisce, a causa delle parole, una propria passione per i fatti altrui e per i casi buoni e cattivi di estranei.79
E, ancora, per affermare ulteriormente la potenza sconfinata della parola:
Riunendosi, infatti, all’opinione dell’anima, la potenza dell’incantesimo la avvince e persuade, e la cambia grazie alla sua magica fascinazione. Della fascinazione e della magia sono state inventate due arti, che consistono in errori dell’anima e inganni dell’opinione. Quanti e su quali argomenti sono riusciti e riescono a persuadere quanta gente, avendo costruito un discorso mendace!80
E, di nuovo:
Sarebbe infatti possibile vedere quanto potere ha la persuasione, che non ha la caratteristica della necessità, ma ne ha la stessa potenza. Infatti, un discorso che sia riuscito a persuadere un’anima, costringe l’anima che ha persuaso, sia a fidarsi di quanto viene detto, sia ad essere d’accorso nei fatti.81
Oltre alla smisurata δύναμις, la parola ha in sé un naturale e necessario legame con le passioni umane, stimolandole e «producendo effetti determinati nell’anima di chi ascolta».82 La stimolazione delle passioni dunque rappresenta un tratto fondamentale della questione che stiamo qui cercando di delineare. La passione è il luogo privilegiato nel quale l’arte retorica può attuare la sua persuasione, trascinando l’anima nella direzione voluta. Per questo la loro accurata manipolazione «rappresenta un intento e, quindi, un atto dello spirito, capace di trasformare qualche cosa in un’altra secondo le esigenze di καιρός, che per il fatto di costituire il momento della decisione, implica una polarità ambivalente, fondata sulla molteplicità contradditoria del reale».83 Alla luce di quanto detto, risulta evidente il compito del retore: costruire delle apparenze che facciano percepire all’opinione anche quello che non sarebbe possibile nell’esperienza sensoriale, immediata. A tal fine deve essere in grado di costruire un discorso svincolato dalla verità (perché, come dimostrato nel Peri tou me ontos, è inaccessibile e incomprensibile) ma al tempo stesso che sia in grado di sollecitare piacere, diletto e persuasione. Ultimo, ma non meno importante, deve possedere la rapidità del ragionamento dei filosofi.84 Tale rapidità è la cartina tornasole che consente di mutare la convinzione dell’opinione. La passione, inoltre, come il termine stesso indica, è connaturata alla passività,85 è un elemento determinato da circostanze esterne. Proprio per questo non esiste alcun criterio per definire una percezione maggiormente veritativa rispetto ad un’altra. Tuttavia, «il sofista rivendica ancora una volta a sé la capacità di intervenire nella determinazione delle serie causali».86 Il sofista è dunque in grado di far leva, di sfruttare questo elemento umanizzante a favore, o contro, l’uomo stesso. È in base a questa caratteristica che Gorgia paragona l’arte retorica a quella del medico:
Lo stesso rapporto intercorre sia tra la potenza di un discorso e la disposizione dell’anima, sia tra l’azione dei farmaci e la natura del corpo. Come, infatti, tra i farmaci, alcuni espellono dal corpo alcuni umori, altri invece altri umori, e alcuni fanno cessare la malattia, altri la vita, cosi anche tra i discorsi, alcuni addolorano, altri dilettano, altri spaventano, altri predispongono gli ascoltatori al coraggio, altri in forza di qualche cattiva persuasione, avvelenano e incantano l’anima.87
Da qui l’inevitabile esigenza aristotelica, posta nella Retorica, di conoscere approfonditamente sia la tecnica di composizione del discorso sia la ψυχή dell’ascoltatore.
La persuasione si realizza per mezzo del carattere quando il discorso sia fatto in modo da rendere credibile l’oratore […] il carattere rappresenta, per cosi dire, l’argomentazione più forte. La persuasione si realizza invece tramite gli ascoltatori quando questi siano condotti dal discorso a provare un’emozione: i giudizi non vengono emessi allo stesso modo se si è influenzati da sentimenti di dolore o di gioia, oppure di amicizia o di odio. […] La persuasione si ottiene tramite i discorsi quando mostriamo il vero o ciò che appare tale attraverso i mezzi di persuasione appropriati in ogni caso.88
Gorgia sembra anticipare, su questo aspetto, la direzione dello Stagirita. Il λόγος ha una forza talmente illimitata che sarebbe impossibile sfuggire al suo dominio. Ne deriva che ad esso non si possa attribuire alcun valore o colpa morale, in quanto trae la sua potenza dalla stessa esperienza.89 La realtà si impone ai nostri occhi stimolando le nostre sensazioni e desideri, costringendoci a soccombere al suo arrivo, in balìa di comportamenti ed atti irrazionali, impossibilitati dunque a ragionare. È proprio per evitare questo che si ricorre all’arte sofistica,90 all’arte di sostituzione delle immagini, paragonata da Gorgia a quella dei pittori che:
ogni volta che da molti colori e corpi ricavano in modo compiuto un unico corpo e un’unica figura, provocano diletto alla vista; anche la scultura delle statue e la preparazione di effigi di dèi offrono agli occhi un piacevole spettacolo. Cosi, per loro natura, alcune cose affliggono la vista, altre la attirano.91
L’uomo, dunque, è sempre vittima di condizionamenti esterni, siano essi le divinità, la natura, il fato, la necessità o le passioni.92 E di tali condizionamenti egli non ne risponde da un punto di vista morale. Nelle azioni e nei comportamenti umani vigerebbe, a quanto sembra, sempre un fondo oscuro di irrazionalità.93 A tal proposito Untersteiner scrive che:
il logos, per mezzo dell’“inganno” polarizza la mia anima e la mia volontà, distogliendole dall’impossibile conoscenza obbiettiva, verso quella sintesi parziale degli elementi di un termine degli opposti, destinata a farsi concreta nella seduzione dell’arte.94
A mio avviso sembra maggiormente aderente al testo gorgiano l’interpretazione offerta da Alessandro Stavru, il quale nota come:
Se è indubbiamente vero che il fine del logos è quello di agire sulla sfera emozionale mediante una persuasione volta a suscitare il consenso altrui, tale sfera emozionale acquista una sua conoscibilità e diventa perciò universalmente comunicabile proprio grazie alla mediazione del logos.95
Non è, dunque, un potere irrazionale finalizzato al superamento del limite conoscitivo umano, bensì un discorso logico - argomentativo capace – certamente – di provocare e manipolare sentimenti e passioni. Da questo si evince, come anche sottolinea giustamente Stavru,96 un rimando inequivocabile tra λόγος e πάθος senza però mai giungere ad una coincidenza. Entrambi rimangono nella loro singolarità specifica. Un’ulteriore, ma non meno importante, definizione è quella della poesia come discorso metrico.97 In questa circostanza la poesia sarebbe soltanto un aspetto secondario, consequenziale, una sottospecie del logos. È solo in funzione di quest’ultimo che i potenti incantesimi poetici «portano piacere ed allontanano il dolore: riunendosi, infatti, all’opinione dell’anima, la potenza dell’incantesimo la avvince e persuade, e la cambia grazie alla sua magica fascinazione».98 Dunque, vediamo venir meno il tradizionale primato greco della poesia, dato che il suo stesso potere risulta esterno ad essa. Questo ci rimanda ad un’altra importante questione. La poesia si rivolge all’anima, anch’essa eteronoma.99 Quest’ultima infatti ha la capacità di lasciarsi coinvolgere da vicende e sentimenti lontani, ma che proprio grazie alla parola, si avvicinano fino a raggiungere la possibilità che l’anima stessa si indentifichi con tali sollecitazioni. Il logos ha quindi la funzione di medium, senza il quale sarebbe impossibile per l’anima lasciarsi coinvolgere dalla poesia, o viceversa. Ecco quindi, a mio avviso, confermata la valenza logico-argomentativa del logos accennata in precedenza. Un ulteriore tassello è aggiunto da Gorgia, per far comprendere meglio la questione:
Se, infatti, tutti avessero, riguardo a tutti i fatti, memoria di quelli trascorsi, coscienza dei presenti, previsione dei futuri, il discorso non sarebbe come quello ora rivolto a quanti non hanno la possibilità di ricordare il passato, né di rendersi conto del presente, né di prevedere il futuro, cosicché, rispetto alla maggioranza dei casi, i più offrono all’anima, quale consigliera, la mera opinione.100
Dunque, l’arte retorica non può prescindere, nel convincimento dell’anima, nel fare appello e nel considerare l’opinione dell’anima stessa. La δόξα rappresenta la base da cui partire nella persuasione, il «“materiale” psichico del tutto imprescindibile ai fini dell’incantesimo persuasivo».101 Dunque, l’oratore avrà sempre la certezza di potersi basare, nella propria arte, sul fatto che l’uomo sia in grado, per propria natura, di conoscere e cogliere solo l’apparenza, ciò che si manifesta e risulta evidente.102 Questo in virtù di una radicale distinzione elaborata da Gorgia tra il dokein e il logos. Quest’ultimo risulta esterno, distaccato e impossibilitato a riprodurre fedelmente la realtà delle cose. Caratteristica che inevitabilmente comporta un certo grado di falsificazione delle cose stesse a cui la parola si riferisce. Esse sono irreparabilmente al di fuori di essa, e nel momento in cui pretende di esaurirle, produce solamente inganno, ἀπάτη.103 Falsificazione che corrisponde, parallelamente, anche alla psychè, la quale possiede una dimensione doxastica. Essa non è capace di conoscenza assoluta, ma di una conoscenza poggiante su di un criterio labile, scorretto, sfuggente quale è l’opinione, come abbiamo notato poco sopra. A tale criterio Gorgia fa corrispondere, però, una massima concretezza e realtà. Ad essa infatti non appartiene la sfera della menzogna contrapposta alla ἀλήθεια, bensì «quella “finzionale” del verisimile, l’unica che il linguaggio è in grado di attingere»,104 caratterizzandosi quindi come una forza in grado di produrre una realtà apparente che si impone su quella empirica, in quanto maggiormente attraente. L’apparenza riveste quindi, per Gorgia, una realtà talmente importante e concreta, da indurre Platone a farci sapere che «lasceremo dormire Tisia e Gorgia, i quali videro come siano da tenere in pregio più che non le cose vere quelle verosimili e che fanno apparire le cose piccole grandi e le grandi piccole mediante la forza del discorso».105 Esse hanno la straordinaria capacità di muovere l’anima, di suscitare bellissime – e pericolosissime – emozioni, le quali dal canto loro modificano e trasformano l’anima stessa. A tal proposito centrale è l’interpretazione di Mazzara. Entrambi (realtà e logos) sono “materiali” e proprio per questo compatibili. In breve, il logos si originerebbe per l’incidenza di flussi di oggetti sul nostro sistema sensibile. Ma – precisa Mazzara – realtà e logos sono distinti da un punto di vista fisico. In virtù di tale caratteristica il logos non potrà mai spiegare pienamente la realtà, o sostituirsi ad essa, ma solo assomigliarle..106 La natura, quindi, sfugge continuamente alla nostra presa conoscitiva, a differenza del discorso, che rimane invece sempre accessibile.107 Per questo possiamo dire che il logos rappresenta l’unico strumento gnoseologico e assiologico a nostra disposizione. Come infatti scrivono Maso e Franco «usando le parole, usando il linguaggio, si rimane nel linguaggio e la comunicazione si trasforma nell’unico universo all’interno del quale è possibile decidere della verità/falsità».108 Ma non dobbiamo scambiare la parola per verità assoluta. L’uomo, nella sua limitazione, attua questa equivalenza, giungendo ad ingannarsi.109 Lo sbaglio non risiede dunque nel logos, ma nella pretesa che esso non sia semplicemente un mezzo, uno strumento, per giungere alla verità, ma sia esso stesso verità: «il linguaggio risulta “esistere” e risulta aver preso lo spunto da un qualcosa che è oscuro e sfuggente, un oggetto che inevitabilmente il linguaggio si sente in dovere di illuminare».110 Questo rischio – di collegare immediatamente verità e parola – è testimoniato anche da altri luoghi gorgiani. Escludendo L’Encomio di Elena, infatti, in Sul Non-essere o sulla Natura (Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ ϕύσεως) leggiamo che:
Ciò con cui manifestiamo è la parola, ma la parola non coincide con le cose che sono. Pertanto, agli altri non manifestiamo le cose che sono, ma la parola che è diversa dalle cose che sono. Dunque, come la realtà visibile non può divenire udibile e viceversa, così l’essere, in quanto è al di fuori del soggetto, non può diventare una nostra parola. L’essere non può venir manifestato ad un altro.111
E, ancora:
Non è la parola che rappresenta la realtà esterna, ma è la realtà esterna che dà senso alla parola. E neppure è possibile dire che, come le realtà visibili e udibili hanno una esistenza reale, allo stesso modo esiste anche la parola, di modo che le sia possibile, sulla base della sua reale esistenza, indicare anche gli enti realmente esistenti.112
E, in ultimo, nell’Apologia di Palamede, viene affermato ciò che segue:
Se dunque per mezzo delle parole la verità dei fatti risultasse trasparente ed evidente agli uditori, sarebbe facile, ormai, il giudizio, in base a quanto si è detto. Poiché, invece, non è così, tenete sotto sorveglianza la mia persona, aspettate per più tempo, formulate il giudizio secondo verità.113
Stando a quanto visto fino ad ora, si può dedurre facilmente che il λόγος risiede in un ambito completamente diverso da quello dell’evidenza. In virtù di ciò, esso può quindi, letteralmente, “plasmare” una seconda realtà non curandosi minimamente di quella fattuale e, anzi, talvolta addirittura negandola. In questo senso si deve dire che il discorso ha la «capacità di rendere visibile, sebbene in una forma diversa, ciò che normalmente non lo è».114 Ecco che dunque ritorna, ancora una volta, la forte concretezza, produttività e dinamicità del logos, accennata precedentemente e qui riaffermata. A questo punto potrebbero essere messe in evidenza alcune problematiche circa quanto detto. In particolare, rimane non spiegata la questione del rapporto tra verità e doxa. Chi detiene il primato, se c’è un primato? Per rispondere, e così chiarire e completare ulteriormente la questione, fondamentale mi sembra il ricorso al paradigma del Multifocal Approach.115 La verità, in Gorgia, da un certo punto di vista, non è conoscibile, dunque per noi risulta meno significativa, seppur importantissima in sé, ma da un altro punto di vista è possibile plasmare la verità, persuadendo l’interlocutore, per cui, alla fine, Gorgia, come ha ben spiegato Francesca Eustacchi,116 ricorre alla situazione come criterio di valutazione della verità. A seconda di chi abbiamo di fronte, del contesto e dell’epoca storica, il retore fa apparire, persuadendo, una verità più appropriata di un’altra, stimolando, come abbiamo visto, le emozioni soggettive. Dunque, in ultima istanza, mi sembra corretto affermare che per noi, per la nostra quotidianità e la nostra vita, maggiormente pregnanti sono le verità che di volta in volta vengono prodotte e a cui, sostanzialmente, ci inducono a credere, nonostante non abbiano alcun valore gnoseologico, ma eminentemente pratico.117 Questa è una ulteriore conferma della tesi che vorrei qui sostenere: l’apparenza non ha solamente un aspetto transitorio. Sebbene esso non venga, e non debba, essere assolutamente abbandonato, cruciale è anche l’altro aspetto della medaglia: in questo senso ci troviamo di fronte ad una apparenza che risulta centrale per il nostro essere al mondo, per il muoverci continuamente tra rovine delle quali non possiamo, e forse mai, riusciremo a dare risposta, ma da cui è fondamentale partire.118 Si tratta di una apparenza sì prodotta dall’uomo, e quindi arbitraria sotto questo aspetto, ma dalla quale non si può prescindere: «l’essere è oscuro se privo di apparenza; l’apparenza è inconsistente se è priva di essere».119
5. Conclusioni
Avviandomi alla conclusione di questo breve contributo, sembra alquanto opportuno e necessario richiamare l’attenzione su quelli che sono gli assi portanti dell’essenza antropologica cui si è indirettamente accennato. Innanzitutto, grazie all’ascolto del pensiero degli Antichi è possibile attuare una profonda apertura di sguardo, che sappia rendere conto della complessità dell’essere umano e del mondo, senza per questo snaturarli. I filosofi greci sono portatori di una fenomenologia dell’essere umano che non ha – a mio avviso – eguali: il prestare attenzione ai suoi limiti, senza per questo trascurarne la grandezza. Non assolutizzare un aspetto dell’individuo – miseria o grandezza che sia – ma apprendere un dato di fatto tanto scontato quanto importante: noi siamo estremamente stupefacenti nel nostro “immortalarci”, ma altrettanto miseri nella nostra finitudine. Questa è la realtà, ed è solo riconoscendo ed apprezzando entrambe le facce che si può realizzare una comprensione – per quanto possibile – fedele di noi stessi e della natura e che sappia inglobare dialetticamente luce e ombra, verità ed apparenza. Mi piacerebbe concludere questo contributo con una citazione che è alquanto riassuntiva di ciò che ho cercato di dimostrare:
Gorgia andò oltre il narcisistico gusto del vocabolo, superò, per quanto lo riguardava, la nichilistica e semplicemente sgargiante combinazioni di periodi, affermando che, pur essendo follia di tipo prometeico per l’uomo pretendere di conoscere in assoluto la verità, tuttavia esisteva una verità più piccola, relativa all’uomo stesso e al suo mondo, e questa verità risiedeva nell’armonia logica e strutturale del λόγος, unico mezzo con cui l’uomo si era costruito il suo mondo.120
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Definizione tratta dal dizionario online Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/apparenza/, (consultato in data 5/08/19). ↩︎
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Definizione tratta da G. Cusatelli (a cura di), Dizionario Garzanti della lingua italiana, Garzanti, Milano 1980. ↩︎
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Definizione tratta da P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque : histoire des mots : avec en supplément les Chroniques d’étymologie grecque, nouvelle édition, Klincksieck, Paris 2009. ↩︎
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S. Maso, L. Ph. G. Lingua philosophica graeca. Dizionario di Greco filosofico, Mimesis, Milano 2010, p. 126. ↩︎
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È da notare, a mio avviso, che anche coloro che vengono solitamente etichettati come critici della δόξα, dell’opinione e di ciò che si manifesta, non possono comunque non fare i conti con questo aspetto del reale. Platone, ad esempio, pone, sia nel Simposio ma ancora più emblematicamente nel Fedro, come principio dell’ἔρως, dell’amore, l’attrazione fisica, corporea e sensibile. Inferiore, certamente, a quello che coinvolge l’anima, ma necessaria a quest’ultima. O i vari autori scettici che, pur sospendendo il giudizio sugli oggetti sensibili, non negano che essi effettivamente ci appaiono come tali: «Attenendoci, dunque ai fenomeni, viviamo senza dogmi, osservando le norme della vita comune, ché non possiamo vivere senza far niente del tutto». Sesto Empirico, Schizzi pirroniani I 23, a cura di A. Russo, tr.it di O. Tescari, Laterza, Roma-Bari 1988. Significativo è quanto afferma, a tal proposito, E. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero, in A. Fermani – M. Migliori, L’inquietante verità nel pensiero antico, Humanitas LXXI, Brescia 2016, pp. 147-148: «Insomma: se è vero che del vero si può fare a meno, allora è utile guardare alla realtà con occhi diversi, meno presuntuosamente definitivi o assoluti, e dunque declinare il proprio stare nel mondo alla luce di altri criteri, più deboli e meno affascinanti, forse, ma non meno produttivi». ↩︎
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Fondamentale, a tal proposito, è il testo di R. Ioli, Il felice inganno. Poesia, finzione e verità nel mondo antico, Mimesis, Milano-Udine 2018, la quale nota questa particolare e sottile differenza in ambito poetico. Cfr. anche P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione all’estetica, Laterza, Bari 2002, il quale sostiene una continuità, soprattutto in ambito aristotelico, tra verità e verosimiglianza. ↩︎
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R. Ioli, Il felice inganno, cit., p. 15. ↩︎
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Definita da R. Ioli, Il felice inganno, p. 13, «finzione come mezzo per ottenere una forma specifica di conoscenza». Cfr. anche L.H. Pratt, Lying and Poetry from Homer to Pindar: Falsehood and Deception in Archaic Greek Poetics, UMI, Ann Arbor 1993, pp. 55-94; D. Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Milano 2003, p.7: «Prevale infatti tra i greci l’idea che anche le arti poetiche, da quelle figurative alla poesia, compresa perfino la musica, siano, a loro modo, forme di conoscenza della realtà, mezzi per stabilire cos’è vero». Definizione che si distanzia dall’interpretazione offerta, ad esempio, da A. Ford, The origins of Criticism: Literary Culture and Poetic Theory in Classical Greece, Princeton University Press, Princeton 2002. ↩︎
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M. Untersteiner, I Sofisti, Lampugnani Nigri, Milano 1967, p. 180-181. ↩︎
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Utilizzo volontariamente il verbo generico “affermare”, e non “scrivere”, perché ciò che ci è pervenuto di Aristotele non sono, a differenza di Platone, le sue opere scritte, bensì appunti di lezioni. Per un maggior approfondimento della questione rimando a A. Fermani, Saggio introduttivo, in Aristotele, Le tre etiche, (con testo greco a fronte), presentazione di M. Migliori; traduzione integrale dal greco, saggio introduttivo, note, sommari analitici, indice ragionato dei concetti, indice dei nomi propri, bibliografia di A. Fermani, Bompiani, Milano 2008, pp. LXXXVIII-XCVI. ↩︎
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Aristotele, Poetica, 1460 a 18-19, 35-36; 1460 b 1-2, tr. it. D. Pesce in Aristotele, Poetica, revisione del testo, aggiornamento bibliografico e indici a cura di G. Girgenti, Bompiani, Milano 2017. ↩︎
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Cfr. Poetica 24, 1460 a 27-28. ↩︎
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R. Ioli, *Il felice inganno, cit., p. 15. ↩︎
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R. Vitali, Gorgia. Retorica e filosofia, Argalìa, Urbino 1971, pp. 145-152. ↩︎
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Cfr. paragrafo 4 di questa introduzione. ↩︎
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R. Vitali, Gorgia. Retorica e filosofia, cit., p. 149. ↩︎
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D. Guastini, Prima dell’estetica, cit., p. 13. ↩︎
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«Allora, quando si ha e quando no una affermazione vera, oppure una falsa? Bisogna esaminare che cosa intendiamo con questo. Infatti, non perché noi ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero». Metafisica Ѳ, 10, 1051 b 5 – 9. ↩︎
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D. Guastini, Prima dell’estetica, cit., p. 12. ↩︎
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«Egli si volse subito, impaziente d’ucciderlo con la lancia di bronzo; ma lo sottrasse Afrodite, agevolmente, come una dea! E lo nascose in molta nebbia, e lo posò nel talamo odoroso dei balsami», Omero, Iliade 3.379-382. Ma ce ne sono moltissime altre. Cfr. Iliade 11.750-752: «E già abbattevo gli Attoridi, i due Molìoni fanciulli, se il padre loro, il potente Enosìctono, dalla battaglia non li avesse salvati, di molta nebbia coprendoli»; Iliade 21.547-549: «Gli gettò in cuore coraggio, gli stette vicino lui stesso dalle pesanti mani della morte a salvarlo, appoggiato alla quercia: ma era nascosto da molta nebbia», ma anche Odissea 23.369-372: «Quelli non disobbedirono, ma di bronzo s’armarono, le porte aprirono e uscirono; avanti andava Odisseo. E già c’era luce sulla terra, ma Atena di notte coprendoli, rapidamente fuori città li guidava». La traduzione di riferimento dell’Iliade e dell’Odissea, qui come nelle successive citazioni, è in Omero,Odissea, Prefazione di Fausto Codino, Versione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1963; Omero, Iliade, Prefazione di Fausto Codino, Versione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1950. ↩︎
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R. Ioli, Il felice inganno, cit., pp. 29-30. ↩︎
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G. Lucchetta, Aristotele, Penelope e le altre, in U. Bultrighini – E. Dimauro, Donne che contano nella storia greca, Carabba, Lanciano 2014, p. 818. ↩︎
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«E poi nebbia gli versò intorno la dea, Pallade Atena, figlia di Zeus, per farlo irriconoscibile e tutto svelargli, sicché non prima lo conoscesse la sposa, e i cittadini e gli amici, che avesse fatto pagare ai pretendenti il sopruso», Odissea 13.189-193. Interessante è anche il rimando a Odissea 7.31 dove la dea Atena, «occhio azzurro», invita Odisseo a «non guardare, non interrogare persona». ↩︎
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G. Lucchetta, Aristotele, Penelope e le altre, in U. Bultrighini – E. Dimauro, Donne che contano nella storia greca, Carabba, Lanciano 2014, p. 820. ↩︎
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R. Ioli, Il felice inganno, cit., pp. 30-31. ↩︎
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Come non citare, a tal proposito, il discorso di presentazione di Odisseo al Ciclope Polifemo: «Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo, lo dirò; e tu dammi il dono ospitale come mi hai promesso. Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano madre e padre e tutti i compagni», Odissea 9.364-367. O, ancora, il discorso del Ciclope ai suoi compagni, dopo l’incontro-scontro con Odisseo, in Odissea 9.408: «Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e non con la forza». ↩︎
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Odissea 2.104-109. ↩︎
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G. Lucchetta, Aristotele, Penelope e le altre, in U. Bultrighini – E. Dimauro, Donne che contano nella storia greca, Carabba, Lanciano 2014, p. 819. ↩︎
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L.H. Pratt, Lying and Poetry from Homer to Pindar. Falsehood and Deception in Archaic Greek Poetics, UMI, Ann Arbor 1993, p. 12. ↩︎
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L.H Pratt, Lying and Poetry, cit., p. 56. ↩︎
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Escludendo il caso omerico, si veda a tal proposito Esiodo, Teogonia 226-231, dove non sembra venir dato alcun giudizio negativo alla menzogna degli dèi. ↩︎
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Cfr. Omero, Odissea 17.14-15: «L’ospite, se anche molto s’adira, peggio per lui; perché a me piace parlare sincero». ↩︎
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Cfr. Omero, Odissea 7.303-307. ↩︎
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L.H Pratt, Lying and Poetry, cit., p. 73. A proposito del verosimile, oltre al testo di Ioli e quello di Montani già messi in risalto all’inizio di questa introduzione, cfr. D. Guastini, Prima dell’estetica, cit., p. 12. ↩︎
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Per un approfondimento del possibile, anche se non voluto, esito negativo della poesia cfr. L.H Pratt, Lying and Poetry, cit., p. 94: «All the products of artfulness may not be equally beneficial and pleasant, indeed some might be harmful, unethical, or painful. The poem seems to hint that if we are to value art and invention, we may need occasionally to confront their negative products as well». ↩︎
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Omero, Odissea 12.41-49. ↩︎
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Omero, Odissea 12.187. ↩︎
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Cfr. L.H Pratt, Lying and Poetry, p. 77: «Though poetic thelxis is seemingly a desiderable effect, at some point the spell must be broken, or the audience will remain spellbound, fixed, immobile, inactive». La poesia, insomma, deve, ed è, in grado di trovare il giusto compromesso tra pura illusione e totale aderenza alla verità. Cfr. anche S. Halliwell, Between Ecstasy and Truth. Interpretations of Greek Poetics from Homer to Longinus, Oxford University Press, Oxford 2011, p. 42-43. ↩︎
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R. Ioli, Il felice inganno…, p. 60. ↩︎
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Omero, Odissea 17.415-444. ↩︎
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Cfr. Omero, Odissea 17.415. ↩︎
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S. Goldhill, The Poet’s Voice: Essays on Poetics and Greek Literature, Cambridge University Press, Cambridge-New York-Melbourne 1991, p. 44. ↩︎
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R. Ioli, Il felice inganno, cit., p. 62. ↩︎
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«Odisseo nel cuore aveva pietà della sua donna gemente, ma i suoi occhi eran fermi come il corno e l’acciaio, immoti fra le palpebre: ad arte tratteneva le lacrime». Omero, Odissea 17.209-212. ↩︎
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Cfr. Omero, Odissea 17.167-170. ↩︎
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Omero, Odissea 19.467-486. ↩︎
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L. De Crescenzo, Ulisse era un fico, Mondadori, Milano 2010, p. 171. ↩︎
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Cfr. R. Ioli, Il felice inganno, p. 72 ma anche L.H Pratt, Lying and Poetry, p. 90: «Fiction requires interpretation, and only those enough will penetrate the speaker’s meaning». ↩︎
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R. Ioli, Il felice inganno, cit., p. 113. ↩︎
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«O di Giapèto figlio, maestro di tutte le astuzie, t’allegri tu, che il fuoco m’hai preso, m’hai tesa la frode;ma gran cordoglio, per te, sarà fra le genti venture: ch’io darò loro, in cambio del fuoco, un malanno che tutti accoglieranno con gioia, gran festa facendo al malanno». Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 54-58. ↩︎
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Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 59-80. ↩︎
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Esiodo, Le opere e i giorni, v. 94. ↩︎
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«Sono stati gli dèi a plasmarla, per volere di Zeus. Pandora si presenta agli uomini abbigliata splendidamente, perché tutte le divinità hanno contribuito a renderla affascinante: è bella, ha la cintura di Afrodite ed è vestita da Atena, che le ha anche infuso nel petto i suoi “pensieri”. Ermes, invece, quel dio astuto e un po’ briccone di cui prima o poi parleremo, le ha dato l’eloquenza, la capacità di fare dei bei discorsi. Dunque arriva Pandora e incanta tutti gli uomini che non conoscono ancora le donne. Li seduce tutti, ma con conseguenze assolutamente nefaste». M. Bettini, Il grande racconto dei miti classici, Il Mulino, Bologna 2015, p. 94. ↩︎
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Non sembra essere una novità nel mondo greco. La curiosità, intesa come superamento dei propri limiti, oltrepassamento delle umane possibilità, è caratterizzato come un vizio, addirittura mortale. Basti pensare al mito di Narciso narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, o a quello di Orfeo ed Euridice. Per un sintetico ma esaustivo riassunto soprattutto di quest’ultimo mito rimando a M. Bettini, Il grande racconto dei miti classici, pp. 243-270. ↩︎
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Esiodo, Le opere e i giorni, v. 96 – 97. A tal proposito, utile mi sembra riportare anche la traduzione, e la conseguente interpretazione, di Ettore Romagnoli. Egli sottolinea l’importanza di tradurre il greco Ἐλπίς con “Timor del futuro” in quanto tradurlo con “Speranza” sarebbe sbagliato, dato il contesto. Speranza non può essere un male, e, soprattutto «perché se fosse rimasta dentro il vaso, non sarebbe fra gli uomini, dei quali invece è la più tenace compagna», E. Romagnoli, Note, in Esiodo. I poemi: Le opere e i giorni; La Teogonia; Lo scudo di Ercole; Frammenti, con incisioni di A. De Carolis e A. Moroni, traduzione di Ettore Romagnoli, illustrazioni di Adolfo De Carolis e Antonello Moroni, Zanichelli, Bologna 1929, p. 278. ↩︎
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«Un mostro, bello a vedersi, ma tormentatore degli uomini fino alla morte», L. De Crescenzo, *Ulisse era un fico, p. 57. ↩︎
-
A. Fermani, Pros to Kalon. Bellezza e Verità nelle Etiche aristoteliche, in R. Radice – M. Zanatta, Aristotele e le sfide del suo tempo a 2400 anni dalla sua nascita. Atti del convegno, Milano, 9-11 Novembre 2016, Unicopli, Milano 2018, p. 102. ↩︎
-
«The ideas […] of epic as a form of truth, glorification, and pleasure, are both voiced and yet qualified within Homeric poetry». S. Halliwell, Between Ecstasy and Truth, p. 42. ↩︎
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Penso, ad esempio, allo Pseudo Plutarco: «Mentre il divenire rientra tra le cose che sembrano essere secondo una falsa opinione. Dalla verità allontana anche le sensazioni», DK 28 A 22, tr. it. di G. Reale, in G. Reale, I presocratici, cit.. Oppure Filodemo di Gadara, il quale sostiene, ad esempio: «Parmenide e Melisso […] i quali sostengono che il tutto è uno, anche per la ragione che le sensazioni sono false», DK 28 A 49, tr. it. di G. Reale, in G. Reale, I presocratici, cit.. ↩︎
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DK 28 B 1 29, tr. it. di G. Reale, in G. Reale, I presocratici, cit. ↩︎
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DK 28 B 1 28-30. ↩︎
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G. Reale, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi. Storia delle idee filosofiche e scientifiche, La scuola, Brescia 1985, vol. 1 (Antichità e Medioevo), p. 37. ↩︎
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G. Reale, Il pensiero occidentale, p. 37. Questa seconda parte infatti, inizia affermando: «Qui pongo termine al discorso che si accompagna a certezza e al pensiero intorno alla Verità; da questo punto le opinioni dei mortali devi apprendere, ascoltando l’ordine seducente delle mie parole», DK 28 B 8, 50-52. ↩︎
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DK 28 B 9. ↩︎
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Come ha fatto giustamente notare G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 99 sg: «Lo sguardo eleatico non può non impietrare le cose come quello della Gorgone. Ma il reale si ribella a questa immobilizzazione medusea, e si trasforma, e diviene». La realtà, quindi, è sempre più di ciò che noi possiamo cogliere. Ma questo, a mio avviso, implica sì una non conoscenza assoluta, ma non preclude una conoscenza parziale. ↩︎
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R. Ioli, Il felice inganno, cit., p. 76. ↩︎
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Cfr. R. Ioli, Il felice inganno, p. 78: «L’inganno non è più un elemento che caratterizza l’agire di uomini e dei, ma rispecchia esclusivamente la natura limitata dell’uomo e il suo sapere contraddittorio»; M. Migliori, Presentazione, in A. Fermani – M. Migliori, L’inquietante verità, cit. p. 7: «Si incolpa il logos e si rinuncia al vero mentre si dovrebbe accettare la propria debolezza e vergognarsi della propria dabbenaggine». ↩︎
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DK 28 B6. ↩︎
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«Pensare e dire, verità e discorso persuasivo, fanno tutt’uno: il linguaggio stesso rivela le regole del pensiero, negando la negazione e affermando la affermazione». A. Capizzi, Introduzione a Parmenide, Laterza, Bari 1995, p. 38. ↩︎
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DK 28 B 19. ↩︎
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DK 28 B 8, 38-41. ↩︎
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DK 28 B 7. ↩︎
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A. Capizzi, Introduzione a Parmenide, p. 69. ↩︎
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Per una sintetica ma esaustiva storia della parola, risalente fin da Omero, si veda R. Vitali, Gorgia Retorica e Filosofia, Argalìa, Urbino 1971, pp. 110-121. ↩︎
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M. D’Avenia, L’aporia del bene apparente. Le dimensioni cognitive delle virtù morali in Aristotele, Vita e Pensiero, Milano, 1998, p. 63. ↩︎
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Titolo che sarebbe, seguendo il pensiero di M. Untersteiner, I Sofisti, Lampugnani Nigri, Milano 1967, pp. 172-173, impreciso, in quanto non è propriamente un encomio ma una apologia. ↩︎
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«O dalle decisioni della divinità o dalla violenza, o dalla potenza del logos o dal decreto di necessità». M. Untersteiner, I Sofisti, p. 173. ↩︎
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DK 82 B11, 8, tr. it. di Maurizio Migliori, Ilaria Ramelli e Giovanni Reale, in G. Reale, I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano 2006. ↩︎
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DK 82 B 11, 9. ↩︎
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DK 82 B 11, 10-11. ↩︎
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DK 82 B 11, 12. ↩︎
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M. D’Avenia, L’aporia del bene apparente, p. 66. A tal proposito cfr anche: G. Casertano, La verità Platonica tra logica e pathos, in: G.R. Giardina (ed), Le emozioni secondo i filosofi antichi. Atti del Convegno Nazionale, Siracusa, 10-11 maggio 2007, Catania 2008, pp. 19-37; M. Untersteiner, I Sofisti, p. 186: «La funzione del logos è, quindi, eudemonistica; il suo potere metafisico si attua nella realtà concreta della vita; la gnoseologia è strettamente connessa con l’etica». ↩︎
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M. Untersteiner, Sofisti. Testimonianze e frammenti II: Gorgia, Licofrone e Prodico, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 98. A tal proposito si veda anche R. Vitali, Gorgia. Retorica e Filosofia, p. 105. ↩︎
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Secondo D’Avenia, con cui mi trovo d’accordo, qui i filosofi vengono intesi alla stregua dei σοφισταί, in quanto allora sinonimo di φιλόσοφοι. Ecco perché si può attribuire questa ulteriore caratteristica all’arte retorica. Cfr D’Avenia, L’aporia del bene apparente, p. 68. ↩︎
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Il sostantivo πάθος deriva dal verbo greco πάσχω, ovvero “ricevere un’impressione o una sensazione”, “subire qualcosa”, e significa “esperienza subita”. Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque: histoire des mots: avec en supplément les Chroniques d’étymologie grecque, nouvelle édition, Klincksieck, Paris 2009. ↩︎
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M. D’Avenia, L’aporia del bene apparente, cit., p. 69. ↩︎
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DK 82 B 11, 14. ↩︎
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Aristotele, Retorica, 1355b – 1356a, trad. it. M. Dorati in Aristotele, Retorica, Mondadori, Milano, 1996. ↩︎
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Cfr. A. Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 208: «l’essenza della comunicazione dischiude uno spazio “virtuale” ante litteram e il linguaggio, basato sul meccanismo dell’illusione […] non può non irretire e, insieme, irretirsi, facendo coincidere l’apàte con la vita stessa». ↩︎
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«Il significato di retorica assume una sua precisa fisionomia: essa è capace di conquistare una sua specifica verità. […] Una simile posizione della retorica veniva a creare e a definire in partenza una certa indipendenza del λόγος sulla realtà assoluta dell’essere: anzi questa alla fine veniva a trovarsi subordinata a quello e, meglio ancora, al suo grado di logicità». R. Vitali, Gorgia. Retorica e filosofia, pp. 130-131. ↩︎
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DK 82 B 11, 18 ↩︎
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«La violenza della consequenzialità logica è, quindi, colpa per chi la esercita, mentre chi la subisce sfugge ad ogni responsabilità». M. Untersteiner, I Sofisti…, p. 189; o, citando direttamente Gorgia: «se Elena fu persuasa con la parola, non fu colpevole». DK 82 B 11, 15. ↩︎
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Secondo D’Avenia ciò comporterebbe l’adesione – da parte di Gorgia – ad un nichilismo pratico, annientando di fatto ogni valore assoluto. Al tempo stesso, però, il filosofo non può fare a meno di ricercare un rifugio dalle conseguenze di tale presa di posizione in una condivisione delle tradizioni e degli stili di vita insiti nella πόλις. Per un maggior approfondimento di tale questione rimando direttamente al testo di D’Avenia, L’aporia del bene apparente, pp. 74-76. ↩︎
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M. Untersteiner, I Sofisti, p.293. Cfr anche L. Versenyi, Socratic Humanism, New Haven CT, London 1963, pp. 50-51. ↩︎
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A. Stavru, Il potere dell’apparenza. Percorso storico-critico nell’estetica antica, Loffredo editore, Napoli 2011, p. 79. ↩︎
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A. Stavru, Il potere dell’apparenza, pp. 79-80. ↩︎
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Molti studiosi hanno insistito nel ricollegare tale definizione ad un retroterra pitagorico. In particolare, cfr: R. Vitali, Gorgia. Retorica e filosofia, p. 217; E. Paci, Storia del pensiero presocratico, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1957, cit., pp. 139-140; G. Tortora, Il senso del kairos in Gorgia, in G.R. Giardina (ed), Le emozioni secondo i filosofi antichi, pp. 537-564; S. Consigny, Gorgias. Sophist and Artist, Columbia SC, 2001, pp. 42-48, 87-88 e 154-159. ↩︎
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DK 82 B 11, 10. ↩︎
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Nel senso che, come spiegherò subito, l’anima sottostà a sollecitazioni estrinseche, proprio come la poesia risulta, in quest’ottica, sottomessa al logos. ↩︎
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DK 82 B 11, 11. ↩︎
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A. Stavru, Il potere dell’apparenza, p. 84. ↩︎
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Cfr. P. Mureddu, «La parola che “incanta”: note all’Elena di Gorgia», Sileno, 1991, vol. XVII, p. 252: «la persuasione, osserva Gorgia (§ ll), è resa possibile dal fatto che l’anima manca delle nozioni necessarie per verificare la validità delle informazioni ricevute, e deve affidarsi alla δόξα, la quale “mutevole ed incerta” circonda di una fallace buona sorte coloro che ad essa si rivolgono». ↩︎
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Cfr G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it. Claudio Musolesi, Il Mulino, Bologna, 1988. Fondamentale, per ciò che si dirà poco sotto, è quanto nota M. Untersteiner, I Sofisti, pp. 184-185: «Gorgia comprese l’essenza una, metafisica ed estetica a un tempo, del fenomeno poetico, quando gli attribuì come fattore fondamentale l’ἀπάτη, accettandone in tal modo l’irrazionalità con la necessità d’imporla e rispettivamente di accoglierla: così facendo, egli riconobbe quella molteplicità contraddittoria del reale. […] Poesia è, dunque, confessione della non razionalità del mondo». Utilissimo anche quanto afferma R. Vitali, Gorgia. Retorica e filosofia, pp. 146-147: «Ma proprio qui sta il dramma angoscioso filosofico di questa ricerca amorosa della saggezza, da parte dell’uomo; la constatazione che il λόγος, la parola, procede anzi può procedere per conto suo scostandosi dalla verità, non rispecchiando e non rivelando più l’essere». A questo errore Vitali intravede poi, a mio avviso molto giustamente, come soluzione offerta da Gorgia la poesia. Per ulteriori, ed interessanti, chiarimenti si rimanda alle pp. 146-152, 180-181 del medesimo testo. ↩︎
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M. Serra, Persuasione e inganno: la “retorica” di Gorgia tra Parmenide e Platone, Centro Editoriale e Libraio, Rende 2002, pp. 130-131. A tal proposito cfr anche: A. Stavru, Il potere dell’apparenza, p. 92, per il quale secondo Gorgia «la filosofia non è dunque ricerca della verità, ma, paradossalmente, il miglior alleato dell’opinione, ciò che permette a quest’ultima di acquisire una duttilità altrimenti impensabile, la quale si traduce in una repentina capacità di adattamento alle sfere più disparate dello scibile». Concorde a non ridurre il contrasto esclusivamente fra verità e opinione, ma tra due modi di conoscenza, è M. Untersteiner, I Sofisti, p. 188, per il quale il logos sfonda ogni limite conoscitivo umano ingannando, persuadendo e trasformando «un conoscere privo di relazioni in un conoscere che intesse o disvela nessi e rapporti». ↩︎
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Platone, Fedro, 267 13-18, trad, it G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, G. Reale (a cura di), Rusconi, Milano 1991. ↩︎
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«Qui, come si vede, il corpo della parola è direttamente eguagliato al corpo degli oggetti esterni a noi. La psiche, quindi, si trova di fronte, nel suo processo di ricezione sensibile, a due tipi di flussi, differenti nel loro genere, ma identici, appunto, nella loro corporeità, quelli della realtà e della parola: ad entrambi essa oppone la adeguatezza o meno dei suoi pori, nello stesso modo». G. Mazzara, «Gorgia. Origine e struttura materiale della parola», L’antiquité classique, 1983, vol. 52, p. 131-132. ↩︎
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Cfr. R. Vitali, Gorgia. Retorica e filosofia, p. 137 e 142, dove si dice: «La prima ed unica saggezza conseguibile dagli uomini consiste nell’ordinamento logico del loro sapere estetico che, in quanto dato dalla sensazione (αἴσθησις), non è né completamente vero né completamente falso, ma ha bisogno di essere collegato ragionevolmente con l’altro sapere più o meno acquisito» e «questo accade non per colpa della parola […] ma per l’incapacità dell’uomo di avere una visione unica e globale della realtà». ↩︎
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S. Maso – C. Franco, Sofisti: Protagora, Gorgia, Dissoì Logoi. Una reinterpretazione dei testi, Zanichelli, Bologna 1995, p. 27. ↩︎
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Cfr. R. Vitali, Gorgia. Retorica e filosofia, p. 145. ↩︎
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S. Maso – C. Franco, Sofisti, p. 38. E, ancora, ad ulteriore conferma, a p. 39: «D’altra parte è indispensabile che il linguaggio alluda e faccia riferimento a qualcosa, anche se questo qualcosa gli è in sé, per natura, estraneo. In altre parole, il linguaggio non può non ingannarsi: perciò ἀπάτη (inganno) risulterà elemento indispensabile per vivere», e, mi permetto di aggiungere, per essere realmente umano. Questa è l’unica dimensione a noi possibile. Dimensione da non denigrare, non rigettare come fosse insignificante e di poco conto, ma da tenere in cura. ↩︎
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DK 82 B3, 84. ↩︎
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DK 82 B3, 85-86. ↩︎
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DK 82 B11a, 35. ↩︎
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M. Serra, «Vedere l’invisibile: modelli di conoscenza e forme della ragione nella Grecia antica», Bollettino filosofico, 2004, vol. 20, p. 122. ↩︎
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Tale paradigma prende atto della complessità della realtà, senza per questo semplificarla. Adotta un metodo polivoco e duttile proprio per indagare e al tempo stesso rimanere quanto più possibile fedele alla dinamicità della realtà stessa. Per un quadro completo di tale paradigma si prendano come riferimento i seguenti volumi: E. Cattanei – A. Fermani – M. Migliori, By the sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a multifocal approach, Academia Verlag, Sankt Augustin 2016; M. Migliori, Il pensiero multifocale, Humanitas N.S., anno LXXV, n. 1-2, gennaio - aprile 2020. ↩︎
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F. Eustacchi, Vero-Falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativistica, in A. Fermani - M. Migliori, L’inquietante verità nel pensiero antico, Humanitas, N.S. Anno LXXI, n. 1, Morcelliana, Brescia 2016, pp. 12-27. Mi sembra concorde con questa interpretazione anche M. Untersteiner, I Sofisti, p. 191: «non alla logica razionalistica Gorgia si appella, ma a quella che sa imporre di volta in volta un determinato punto di vista». ↩︎
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Ricordo che questo, come ha illustrato abbondantemente ed efficacemente F. Eustacchi, Vero-Falso in Protagora e Gorgia, pp. 23-25, non significa assolutamente cadere nel relativismo. Queste verità, in Gorgia, hanno come punto di incontro la situazione presente, che, seppur mutevole, offre un centrale riferimento per orientare, di volta in volta, dal punto di vista retorico, l’anima e le azioni dell’uditore. ↩︎
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Cfr. K. Jaspers, Verità e verifica: filosofare per la prassi, Morcelliana, Brescia 1986, p. 239. ↩︎
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DK 82 B 26. ↩︎
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R. Vitali, Gorgia. Retorica e filosofia, p. 168. Cfr. a tal proposito anche pp. 174-175,177,179 del medesimo testo. ↩︎