1. Introduzione
Nelle battute finali del corso tenuto nel semestre invernale 1942/43,1 Heidegger si accosta all’ottava delle Elegie duinesi di Rilke,2 dando luogo ad uno stimolante confronto-scontro che ruota attorno alla nozione di “Aperto” – un accostamento che il filosofo riprenderà qualche anno più tardi, nel 1946, in occasione della conferenza Wozu Dichter?3 per il ventesimo anniversario della morte del poeta, sopravvenuta il 29 dicembre del 1926. Con la lettura interpretativa della achte Elegie, Heidegger si inserisce in maniera attiva nel dibattito inerente la relazione tra organismo e ambiente (interno-esterno, soggetto-oggetto), prendendo in esame quei caratteri primari fondamentali che contraddistinguono e differenziano in modo inequivocabile l’ambiente dal mondo, l’animale dall’uomo. L’interpretazione heideggeriana dell’elegia rilkiana getta luce su uno sfondo problematico a partire dal quale si dipanano impulsi e punti interrogativi con cui Heidegger mostra di confrontarsi: gli studi sulle realtà organiche, le teorie ambientaliste e le osservazioni circa l’habitat del vivente, l’urgenza di ripensare la differenza d’essenza che vige tra l’uomo e l’animale, il progetto di una comprensione filosofica del problema dell’uomo e la questione della sua collocazione specifica nel mondo. In questo sfondo, inoltre, Heidegger rintraccia una polifonia di motivi filosofici e storico-culturali che aprono via via a problemi fondamentali, come la verità, la libertà o la tecnica. Con un approccio tendente a recuperare un rapporto genuino con la grecità, il filosofo reinterpreta gli studi biologici sulla Umwelt, concentrandosi in particolare sulla specificità della condizione umana nel suo rapporto originario con l’essere del fenomeno. Risultato di questo serrato confronto è il consolidamento della nozione di “Aperto”, che diventa fondamentale per potere sollevare la domanda circa la peculiarità della condizione umana.
2. Il confine tra uomo e animale
La achte Elegie, dedicata all’amico scrittore austriaco Rudolf Kassner, è composta da Rilke nel febbraio del 1922 nel piccolo castello di Muzot, ubicato in un incantevole scenario alpino nei pressi di Sierre, in Svizzera. In essa risulta evidente l’influenza esercitata soprattutto dalle ricerche biologiche dell’epoca. Nei versi, infatti, il poeta affronta con originalità la questione del vivente, articolando un discorso poetico nel quale trova espressione il tema della Umwelt con riferimento alle azioni della zanzara, dell’uccello e del pipistrello. Al riguardo, è importante tenere in considerazione il rapporto di stima ed amicizia che lega il poeta al biologo Jakob von Uexküll, un legame duraturo sorto nel marzo del 1905 quando, in occasione di un incontro informale, i due si dedicarono alla lettura di brani della Kritik der reinen Vernunf di Kant.4 Impressionato perciò dalle ricerche uexkülliane, Rilke ripensa nella achte Elegie i motivi tipici della scienza contemporanea allo scopo di sondare limiti e possibilità dell’esistenza dell’uomo «nelle sue differenti espressioni, come l’esperienza dell’amore, della felicità e del dolore»,5 opponendo l’esperienza del vivere dell’animale a quella del vivere umano, poetando di conseguenza «la precarietà e l’insufficienza del sentire umano di fronte ai grandi compiti della vita».6
Con i versi iniziali della achte Elegie ha avvio una densa e circostanziata analisi interpretativa per mezzo della quale Heidegger si misura con uno dei momenti più alti della poetologia rilkiana:
La creatura, qualsiano gli occhi suoi, vede l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son come rigirati, posti tutt’intorno ad essa, trappole ad accerchiare la sua libera uscita.7
I versi summenzionati introducono a una esperienza di senso che, a dire del filosofo, dovrebbe chiaramente indicare «senza indugi a chi è concesso di vedere “l’aperto” e a chi no».8 Essi rivelano immediatamente il fulcro tematico dell’intera elegia, richiamando l’attenzione sulla questione, cruciale per il poeta praghese, circa la correlazione tra due concetti chiave: “la creatura” (die Kreatur) e “l’Aperto” (das Offene). Da questo punto di vista, la tesi rilkiana può riassumersi nell’affermazione secondo la quale a ciò che viene chiamato “creatura” è data la possibilità di accedere direttamente alla natura delle cose. Ora, al fine di ricomprendere l’argomentare del testo rilkiano, l’interpretazione heideggeriana desidera cogliere in prima istanza il significato precipuo che assume la parola tedesca Kreatur all’interno dell’elegia del poeta. Afferma Heidegger:
La parola latina creatura, che deriva da creare, significa «l’insieme di ciò che è stato creato» (das Geschöpf). Creator è il Creatore. […] Ora, però, se Rilke contrappone «la creatura» all’uomo, e se tale opposizione è il tema centrale dell’ottava elegia, allora la parola die Kreatur non può significare creatura nel senso dell’insieme della creazione. […] Nella poesia di Rilke la parola «creatura» indica «gli esseri creati» in senso stretto, coincidente con la parola e il concetto di «esseri viventi», a esclusione dell’uomo.9
La riflessione heideggeriana mostra come con il termine “creatura” Rilke intenda l’essere vivente non umano. Più precisamente: «“la creatura” è soprattutto “l’animale”».10 Da questa osservazione preliminare è possibile già determinare quello che, secondo Heidegger, è il tema ricorrente dell’elegia, cioè l’opposizione tra la natura dell’uomo e quella dell’animale. Si tratta di un argomento a partire dal quale si dipana una riflessione circa la contrapposizione tra l’essere vivente privo di ragione, l’animale, e quello che invece ne è dotato, l’uomo. Qui, secondo Heidegger, si rivela tutta l’originalità e la debolezza dell’impalcatura teoretica edificata da Rilke: «Rilke non intende, in linea con la concezione corrente, l’“essere creato” “privo di ragione” come l’inferiore, poiché meno capace, nella sua differenza con l’uomo superiore, in quanto più capace».11
Ciò che effettivamente nella poesia emerge è lo statuto privilegiato della creatura animale, che risulta soprattutto godere della possibilità di fare riferimento all’Aperto e di vederlo indistintamente. L’Aperto è qui assunto come l’assoluto nel senso dello sciolto, del non vincolato, che viene tutte le volte sperimentato dall’immediatezza dell’istinto animale e non dall’operare mediato dell’uomo, il quale, circoscritto entro un orizzonte limitato, non riesce affatto ad intravvedere e riconoscere ciò che sta fuori di questo orizzonte. Cionondimeno, secondo il poeta della achte Elegie, alcune figure umane hanno la possibilità di scorgere o intuire spontaneamente la presenza dell’Aperto. Esse, di conseguenza, riescono a vivere, sebbene occasionalmente, nella massima purezza poiché hanno la capacità di sganciarsi e fuggire da quella gedeutete Welt (“mondo interpretato”) fatta di schemi articolati e mediazioni. Queste figure sono, ad esempio, i bambini e gli amanti. Affidandosi al gioco, all’immaginazione e alla fantasia, i primi compiono di frequente il distacco (l’urto) dagli obblighi e dai legami che contrassegnano la vita quotidiana, non avendo ancora ricevuto le istruzioni e le nozioni per interpretare (schematizzare) il mondo che li circonda; i secondi, invece, potenziano il proprio sentire, soprattutto se coltivato lontano dall’amato/a, accedendo ad una dimensione esistenziale di desiderio mai consumato o posseduto. Oltre ai bambini e agli amanti, infine, un’altra figura presa in considerazione dal poeta è quella dei morenti. È questa la condizione di quando si è “prossimi alla morte” (nah am Tod), di quando cioè non si è più scossi dal pensiero della morte e dalla sua preoccupazione. Se durante tutta la vita l’angoscia della morte assilla l’animo umano, che dovunque vede frapporsi tra sé e il proprio mondo l’impietoso tramonto, nel momento in cui invece avverte l’imminenza della fine l’uomo, ossia il morente, paradossalmente non la vede e non se ne cura; il suo sguardo, come quello animale, conquista infine la capacità di guardare incondizionatamente fuori, verso l’“esterno” (draußen), verso das Offene, laddove non c’è morte e non c’è più Deutung; laddove, in senso rilkiano, si è veramente liberi. Per il poeta, allora, l’unica esistenza autentica (cioè incondizionata o pura) – oltre a quella dell’animale – sembrerebbe essere quella del fanciullo, dell’innamorato e del morente che, liberi dal giogo consapevole degli oggetti del mondo, s’innalzano apertamente verso lo spazio puro dell’immediatezza, uscendo fuori da un mondo in sé chiuso e mediato.
Così, con la nozione di Aperto il poeta postula il congedo dalla soggettività umana, se con essa si fa riferimento alla relazione che vincola il soggetto (l’uomo) all’oggetto e viceversa. Attraverso un confronto con la vita animale, egli si misura con gli invalicabili limiti della natura dell’uomo, ponendo l’accento su un impedimento costitutivo che emerge, in tutta la sua drammaticità, come cifra di una inesorabile distanza: la distanza tra l’uomo e l’Aperto. Per questa ragione, nel suo componimento Rilke sottende l’equazione tra ciò che non è razionale e ciò che è illimitato e, viceversa, tra ciò che è limitato e ciò che è razionale. Egli compie in termini poetici quello che Heidegger definisce un vero e proprio «rovesciamento del rapporto gerarchico fra l’uomo e l’animale».12 A fondamento di suddetto rovesciamento c’è l’idea rilkiana secondo cui la mancanza della ragione non costituisce una carenza o lacuna esistenziale per l’animale, bensì un guadagno.
Ora, prendendo in considerazione quanto finora scritto, la poesia di Rilke cela in sé, secondo Heidegger, un discorso impegnato a celebrare l’eccellenza dell’animale libero (das freie Tier) rispetto all’uomo limitato, prigioniero della gedeutete Welt. In questo discorso viene registrata inoltre «la preminenza dell’inconscio sul conscio».13 Proprio perché non è razionale, e dunque non è cosciente di sé e dell’esterno, l’animale si rivela puro e libero. L’assenza di coscienza diventa una sorta di carattere primario che si fa espressione di un’eccellenza e che rende preminente l’animale, e il proprio ambiente, rispetto alla complessità e all’artificiosità della realtà umana.
La tesi di Rilke è dunque per Heidegger sintetizzata nell’idea secondo la quale l’animale “vede” (sieht) più e meglio dell’uomo. Perché? Perché i suoi occhi non si soffermano a rappresentare ed interpretare gli oggetti incontrati. Quelli umani, al contrario, si rivolgono sempre in direzione dell’oggetto nella modalità della rappresentazione, fissandolo, calcolandolo ed imponendo ad esso un ordine stabilito. Di conseguenza, mentre l’animale non rappresenta gli oggetti esterni né tantomeno guarda al proprio stato, gli occhi dell’uomo “sono come rigirati” (sind wie umgekehrt). Essi si arrestano ogni volta con l’obiettivo di ordinare e ripartire il mondo secondo talune maglie categoriali, cogliendo altresì in modo frammentario le parti e mai pienamente il tutto, l’Aperto. Per tale ragione, all’uomo – ed è ciò che l’elegia rilkiana annuncia fin dal principio – è esclusa la possibilità di vivere una vita piena, pura o assoluta giacché egli è «inserito forzatamente nella relazione che gli oggetti hanno con lui in quanto soggetto, una relazione che, là dove si presenta, barrica e chiude l’insieme dell’aperto com’è inteso da Rilke».14 Tutto ciò rappresenta quello che Rilke chiama nell’elegia Schicksal. Si tratta cioè del “destino” umano; un destino che conduce l’uomo a sostare al di qua dell’Aperto, fuori di esso, condannato a vivere entro un orizzonte oggettuale che di fatto non lo lascia mai accedere nell’Aperto, bensì immer gegenüber, sempre e solo di fronte ad esso. Per tale ragione, la parola con cui il poeta designa gli uomini è Zuschauer: essi vengono pensati quali “spettatori” che, in virtù della loro natura rappresentante, risultano in ogni caso zugewandt alla comprensione (alla mediazione) dell’oggetto e mai effettivamente orientati verso ciò che è hinaus dalla loro comprensione – verso l’Aperto. Questa, per Rilke, è dunque la grande costrizione e condanna umana, la quale si dà parimenti come un destino che non offre all’uomo la possibilità di potere vedere, nella sua purezza, il lato in ombra dell’essere. Di conseguenza, la riflessione rilkiana si spinge a determinare l’essenza umana insieme come imprigionante e imprigionata. Da un lato, infatti, essa è imprigionante poiché tesa a determinare e rappresentare (e quindi, in un certo senso, a “imprigionare”) gli oggetti esterni, violandoli e recludendoli entro determinate categorie mentali; dall’altro, risulta persino imprigionata perché dipende necessariamente dalla relazione con gli oggetti stessi.
In senso contrario, come poco sopra accennato, l’animale vede paradossalmente più dell’uomo perché il suo sguardo non viene mai arrestato dagli oggetti, ed è perciò uno “sguardo aperto” (Ausblick). Si tratta di una concezione nella quale l’animale è compreso come la particolare creatura vivente che, per sua natura, non si lascia bloccare o trattenere dagli oggetti del mondo. Il suo occhio è nient’affatto rigirato in quanto «non vede mai ciò che è alle sue spalle»,15 ma osserva dritto avendo davanti a sé uno sterminato campo aperto, non lasciandosi offuscare da sensazioni di declino che ne precluderebbero l’agire. La conclusione di questo ragionamento è che l’animale «può procedere infinitamente nel vuoto privo di oggetto, esso “ha dinanzi a sé” lo sconfinato».16 Il suo è uno spazio di vita assoluto, sconfinato e puro dal momento che «sul suo cammino non incontra mai un confine, dunque nemmeno la morte».17 Secondo quest’ultima affermazione, l’animale risulta persino frei von Tod poiché, non avendo coscienza di sé o autocoscienza, non ha neppure la capacità di ripiegarsi su se stesso – non flette verso sé (non ri-flette) –, ma ha sempre il “suo declino” - o tramonto - (seinen Untergang) alle spalle, dietro a sé: non si preoccupa dunque della propria condizione di essere transitorio e del futuro, ma vive la vita pienamente, in un’eterna visione, avanzando senza indugi e barriere verso l’eternità (und wenn es geht, so geht’s / in Ewigkeit). Per questo motivo, Rilke sostiene nell’elegia che l’animale, a differenza dell’uomo, è attore (e non spettatore) giacché: 1) non è governato dalla percezione del tempo e della fine; 2) non ha bisogno di porsi innanzi a sé le cose per coglierle intellettualmente, succube di un pensiero interpretativo e categorizzante, ma è sempre dentro il soggiorno dell’Aperto, vivendo la pienezza di un mondo che trabocca e che si dà apertamente nella sua più pura totalità.
È soprattutto attraverso la metafora del “mare aperto” che l’interpretazione heideggeriana pensa l’Aperto di Rilke come a ciò che è privo di condizionamenti: «il […] significato [di Aperto] ci viene indicato nel modo più semplice dalla locuzione “mare aperto”, che è raggiunto allorché tutti i confini terrestri sono scomparsi».18 Esso viene similmente postulato come il “vuoto privo di oggetto” totalmente inaccessibile all’uomo, strettamente imprigionato in quelle delimitazioni che la sua stessa ragione ogni volta costruisce. Questo vuoto non è però pensato come una forma di carenza o inadeguatezza, ma viene recepito come l’assenza di limiti e confini (per questo “mare aperto”) che si dispone quale «insieme originario del reale in cui la creatura è immediatamente rilasciata, cioè lasciata libera».19
Qui emerge tutta la differenza tra l’elegia di Rilke e la riflessione di Heidegger. Mentre il poeta canta in versi la condizione sostanzialmente drammatica dell’uomo, segnata dalla mancanza di un contatto immediato e diretto con il mondo (che ogni volta deve rappresentare o categorizzare attraverso forme a priori per tentare di comprendere), il filosofo insiste sul fatto che è l’uomo, e mai l’animale, a “vedere” (sehen) l’Aperto come l’orizzonte problematico entro cui si offre la manifestazione dell’essere e in cui si verifica quella “s-chiusura” o “apertura” (Erschlossenheit) che dà all’uomo la possibilità di predisporre e progettare il proprio esistere, sottraendosi di conseguenza alle dipendenze dell’ambiente, andando incontro alle cose e alla loro evenemenzialità, cogliendone in senso pieno la natura o verità.
Così, la prospettiva che Rilke e Heidegger dischiudono non potrebbe essere più diversa e riguarda dopotutto la modalità diametralmente opposta di ragionare sul concetto di libertà. Infatti, se nel pensiero del poeta la libertà è intesa come lo spazio assoluto della non-determinazione e della non-relazione, nel senso dell’immediatezza, della non-mediazione, dell’allontanamento dalla Deutung, nel caso di Heidegger, invece, libertà è sempre relazione, e quindi vincolo, con gli altri uomini e con le cose, all’interno di una totalità di relazioni reciproche che costituisce il mondo:
Sia per Rilke che per Heidegger il nostro è un mondo: per il primo ciò vuol dire che la nostra condizione vive di una mancanza (l’assoluto nel quale è immerso l’animale e che noi sfioriamo solo nell’infanzia e nell’innamoramento); per il secondo la disaderenza alle circostanze tipica del mondo costituisce la possibilità di percepire le cose per quel che sono e non solamente per il rilievo funzionale che rivestono nell’ambiente.20
3. Rilke, poeta metafisico. L’accusa di Heidegger
L’Ottava Elegia nasconde per Heidegger echi di un’intera tradizione filosofica metafisica impegnata, attraverso l’ausilio di un determinato criterio metodologico, a comprendere e scandagliare il reale. “Metafisica” è il termine che, in senso lato, il filosofo impiega per identificare un sistema di pensiero che, da Socrate e Platone in avanti, ha dato vita ad un modello gnoseologico fondantesi nell’opposizione tra ὐποκείμενον e ἀτικείμενον, tra subiectum e obiectum. Si tratta di un modello in cui “soggetto” e “oggetto” stanno di fronte l’uno all’altro come enti totalmente difformi e diseguali. Se il primo è recepito in quanto ente rappresentante (l’uomo), il secondo di conseguenza è compreso quale ente rappresentato (il mondo in generale). Entrambi, dunque, vengono ad essere registrati nella più assoluta divergenza come componenti fondamentali di una teoria della conoscenza volta direttamente alla comprensione della totalità della realtà.
Ora, Heidegger inscrive la achte Elegie nella tradizione metafisica occidentale giacché, a suo dire, il poeta, attraverso la descrizione del vincolo che lega la specie umana alla gedeutete Welt, ripone in auge, seppur criticandola, la vecchia tesi secondo cui l’uomo, inserito nella sfera degli animalia, è anzitutto pensato come animal rationale, ossia quale animale, in qualche modo speciale, dotato di ragione, grazie alla quale giunge ogni volta ad articolare una vera e propria rappresentazione o determinazione di sé e degli oggetti esterni che si traduce a): in un pieno controllo di tutto ciò che è reale; b): nella trasformazione di ogni cosa in oggetto e strumento di rappresentazione.
Così intesa, l’interpretazione dell’uomo quale animal rationale è recepita come una vera e propria determinazione metafisica che ruota attorno al significato di ratio, in tedesco Vernunft, elaborato nella forma dell’“apprendimento”, del Vernehmen, come ciò che prende (nimmt), propone, impone, dispone, adatta a sé la totalità del reale e che, perciò, si manifesta anzitutto come un porre innanzi a sé: un “rappresentare” (vor-stellen). Secondo questa prospettiva, la proposizione homo est animal rationale designa per Heidegger un certo modo di pensare la relazione tra uomo e mondo, finendo per catalogare l’essere umano come colui che, distinguendosi inequivocabilmente dal resto degli animali, “fornisce a sé” (sich-zu-stellt) il rappresentato, ponendo innanzi a sé l’oggetto – l’ente –, fissandolo e controllandolo: «Il semplice animale, un cane ad esempio, non pone mai nulla innanzi, non può mai porre qualcosa innanzi a sé, per far questo dovrebbe, l’animale dovrebbe, apprendere di se stesso, percepirsi».21 Di conseguenza, l’intera storia della metafisica assume per il filosofo i contorni di una storia antropologica o della soggettività che si regge in piedi grazie all’assunto secondo cui
l’uomo è l’essere vivente che, rap-presentando, si procura gli oggetti e nel procurarseli li sta a guardare; nell’incalzante stare a guardare li ordina, e nell’ordinare rimette a se stesso (cioè all’uomo) quale proprio possesso quanto ha ordinato come ciò che di volta in volta padroneggia.22
Detta interpretazione dell’uomo, molto più sottilmente, sta per Heidegger a fondamento della Seinsvergessenheit, la “dimenticanza dell’essere”. È questo l’evento in cui l’essere stesso, completamente svuotato del suo pieno significato e assoggettato allo schema oppositivo soggetto-oggetto, viene obliato e rimpiazzato dalle logiche predominanti di una ragione strumentale esplicantesi nella razionalità rappresentante, nel padroneggiamento e nella consumazione dell’essente, tutte occorrenze e manifestazioni che indissolubilmente si legano da un lato allo sviluppo planetario del progresso tecnologico, dall’altro all’inarrestabile sfruttamento delle risorse della terra. Mettendo completamente in discussione i versi dell’elegia, Heidegger sostiene che questi si espongono a un radicale errore nell’interpretazione della natura umana; un errore che, così come l’intera narrazione metafisica, tacitamente conduce, attraverso un linguaggio distorto e inessenziale, al risoluto estraniamento nei confronti dell’essere, a quella Seinsvergessenheit di cui l’homo metaphysicus, con la sua pretesa di determinare tutto ciò che è reale per renderlo oggetto di analisi e calcolo, è palesemente responsabile.
La cosiddetta metafisica rilkiana appare tuttavia a Heidegger assai originale e paradossale. Se è vero che l’uomo è interpretato quale animal rationale, è vero anche che detta natura razionale e oggettivante si dà, fin dai primi versi dell’elegia, non come qualcosa di straordinario e potente, bensì come una insopprimibile debolezza o un intralcio che non lascia immediatamente accedere all’orizzonte dell’Aperto. In senso contrario, invece, l’animale non umano, quello sottratto al dominio della ratio, viene ridefinito a partire da quell’assenza di Deutung che significa precisamente assenza di condizionamenti e insieme possibilità di spingersi ben oltre i limiti, gli impedimenti e vincoli umani dettati dalla razionalità. Rovesciando un impianto teorico tradizionale, pur rimanendo all’interno della stessa tradizione metafisica, Rilke ha per Heidegger sviluppato una ricerca poetica con l’obiettivo di ergere gerarchicamente l’animale al di sopra dell’uomo, elevando conseguentemente la dimensione dell’incoscienza e dell’irrazionalità più su di quella della coscienza e della razionalità. In questa maniera, la lettura heideggeriana individua nell’elegia rilkiana tracce metafisiche più o meno evidenti che rimandano a questioni e concetti sviluppati dalla speculazione scientifica e filosofica tra il tardo Ottocento e primi del Novecento, da Schopenhauer e Nietzsche alla psicoanalisi freudiana; questioni che riguardano in particolare la messa in discussione del dominio della razionalità e le osservazioni sulla portata e sull’autonomia di fattori inconsci determinanti che sfuggono di frequente al controllo della coscienza. Il cuore della critica heideggeriana tocca, dunque, le definizioni di “uomo” e “animale” e ha a che fare con l’interpretazione circa la natura umana e la conseguente interrogazione relativa allo spazio della razionalità contrapposto a quello dell’irrazionalità.
Opponendo le categorie della razionalità e della coscienza a quelle dell’irrazionalità e dell’incoscienza, Rilke ha per Heidegger generato «una sconfinata e infondata antropomorfizzazione dell’animale»23 e al tempo stesso «una corrispondente animalizzazione dell’uomo»,24 dando origine ad una nuova gerarchia tra uomo e animale. Il poeta, cioè, avrebbe ridiscusso quella posizione classica fondata sulla superiorità della natura umana rispetto a quella animale, riesplorando prudentemente, sulla scia delle moderne riflessioni biologiche e filosofiche, lo spazio del vivente, arrivando ad affermare però una nuova gerarchia, una nuova tensione tra animale e uomo. In questa tensione – che si traduce di fatto nell’opposizione tra un nuovo “soggetto” (l’animale libero) e un nuovo “oggetto” (l’uomo imprigionato) –, Heidegger scorge la presenza dello spirito della metafisica nell’elegia rilkiana. Ribaltando completamente contenuti e significati propri dell’interpretazione classica dell’uomo come animal rationale, Rilke istituisce secondo il filosofo una bizzarra e particolare dinamica oppositiva secondo la quale l’animale viene «posto addirittura al di sopra dell’uomo, divenendo in un certo senso un “super-uomo”».25 L’accusa mossa da Heidegger al poeta è quella di avere messo in scena una poetica condizionata dalla ridefinizione dell’animale come Subjekt, come “soggetto” che gode di uno statuto eccezionale nella gerarchia dei viventi in quanto capace di sehen l’Aperto, e che pertanto si oppone in maniera perentoria a tutto ciò che riguarda l’umano e il suo campo d’azione. Per questa ragione, libero dalle pressioni e dalle limitazioni che affliggono senza sosta la Welt dell’uomo, l’animale è colto alla stregua dello Übermensch, rivelandosi naturalmente come una sorta di “super-uomo” o “oltre-uomo” a cui è concessa la libertà di esperire nella sua immediatezza e incorruttibilità la vitalità della realtà che istintivamente abita.
4. Riflessioni conclusive: Rilke e Heidegger, punti di convergenza
È indubbio che l’Ottava Elegia di Rilke serbi in sé una critica alla soggettività umana ovunque rappresentante. Il riferimento alla relazione animale-Aperto è fondamentale per il poeta perché permette di avanzare, attraverso un linguaggio poetico, un ragionamento basato sulla centralità della dimensione dell’immediatezza e, in un certo senso, dell’illogicità. Secondo questo assunto, la piena rivelazione dell’Aperto risulta essere preclusa al pensiero razionale o logico; ragion per cui la logica umana, fatta di schemi, vincoli e determinazioni, è compresa come ciò che ha in sé una natura sostanzialmente limitata giacché, nelle articolazioni del suo pensiero, non si misura mai con la profondità, la purezza e la ricchezza di significati che definiscono l’orizzonte dell’Aperto. Influenzato dall’esigenza di determinare le cose che circondano il mondo, ordinandole e ripartendole, dando loro una funzionalità pratica, l’uomo è per Rilke dominato da uno stato di Wendung (“rivolgimento”) o Umkehrung (“rovesciamento”) che non lo lascia veramente libero di agire e di pensare il mondo, generando un mutamento irreversibile nel rapporto con le cose. In ciò consiste la critica rilkiana alla Deutung. Una critica, questa, che riflette quella operata, qualche anno più tardi, da Heidegger, il cui bersaglio intellettuale – se così mi è consentito denominarlo – si chiama “metafisica”, se con ciò si intende un sistema, complesso e ben strutturato, in senso stretto imperniato attorno al concetto di Vorstellung, a partire dal quale va sviluppandosi un pensiero rappresentante-calcolante che, attraverso schemi concettuali astratti e precise maglie categoriali, adempie al compito di possedere (rappresentare e calcolare) il mondo.
Al di là della lettura interpretativa di Heidegger, che appare in fin dei conti distorta e abbastanza ingenerosa nei confronti della Ottava Elegia di Rilke, emergono rilevanti punti di connessione che permettono di porre in relazione il pensiero del poeta e quello del filosofo, sebbene i due utilizzino specifici stili linguistici e strategie di pensiero differenti. In entrambi, difatti, la questione dell’Aperto come origine manifestativa cela in sé la necessità di porre in essere una critica nei confronti della ragione strumentale e della sua pretesa di tenere in pugno latamente il reale. Entrambi, dopotutto, si affidano ad un linguaggio, quello poetico e non strettamente scientifico, che non può essere elaborato nella forma del discorso logico e che perciò si apre manifestamente alla rivelazione dell’Aperto. Ciò che in fondo affiora, sia nella poesia di Rilke sia nella riflessione filosofica di Heidegger, è la portata di un pensiero, non più concettuale e dimostrativo, capace di gettare luce sull’interrogazione circa l’esperienza originaria dell’Aperto, mettendo in discussione l’efficienza e la capacità della razionalità di cogliere appieno il significato precipuo delle cose, cioè il loro essere. Affermando l’esperienza di un linguaggio indicibile ed inesprimibile nella grammatica del discorso logico, Rilke e Heidegger si preoccupano dunque di edificare una wesentliche Erwägung basata sulla possibilità di nominare l’Aperto ed abitarlo fondatamente.
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Cfr. M. Heidegger, Parmenides, GA 54, hrsg. von M.S. Frings, 1992; ed. it. a cura di F. Volpi, Parmenide, Adelphi, Milano 2005. ↩︎
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Per la lettura della achte Elegie si rimanda a R.M. Rilke, Elegie duinesi, trad. it. di E. e I. De Portu, Einaudi, Torino 1978, pp. 48 sgg. Per una ricerca complessivamente interessata a cogliere i riferimenti e le peculiarità delle Duineser Elegien si veda esemplarmente M. Engel, Rainer Maria Rilkes “Duineser Elegien” und die moderne deutsche Lyrik. Zwischen Jahrhundertwende und Avantgarde*, Metzler Verlag, Stuttgart 1986. ↩︎
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Ora in Holzwege, GA 5, hrsg. von F.-W. von Hermann, 2003; trad. it. di P. Chiodi, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968. ↩︎
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Per questo aspetto cfr. M. Mazzeo, Prefazione. Il biologo degli ambienti Uexküll, il cane guida e la crisi dello Stato, in J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, ed. it. a cura di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010, p. 8; in particolare si prenda in considerazione la nota numero 2. ↩︎
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M. Paleari, I luoghi della riflessione poetica nelle Elegie Duinesi, in AA.VV., Rainer Maria Rilke. Alla ricerca dello “spazio interiore del mondo” tra arti figurative, musica e poesia, EDUCatt, Milano 2008, p. 151. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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R.M. Rilke, Elegie duinesi, cit., p. 48; in tedesco: «Mit allen Augen sieht die Kreatur / das Offene. Nur unsre Augen sind / wie umgekehrt und ganz um sie gestellt / als Fallen, rings um ihren freien Ausgang. / Was draußen* ist*, wir wissens aus des Tiers / Antlitz allein». I versi sono presenti in M. Heidegger, *Parmenide*, cit., p. 272. ↩︎
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M. Heidegger, Parmenide, cit., p. 272. ↩︎
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Ivi, pp. 272-273. ↩︎
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Ivi, p. 273. ↩︎
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Ivi, p. 274. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 279. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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M. Mazzeo, Prefazione. Il biologo degli ambienti Uexküll, il cane guida e la crisi dello Stato, in J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., p. 22. ↩︎
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M. Heidegger, Parmenide, cit., p. 276. ↩︎
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Ivi, pp. 276-277. ↩︎
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Ivi, p. 284. ↩︎
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Ivi, p. 271. ↩︎
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Ivi, p. 284. ↩︎