1. La ricerca dell’identità dell’uomo oltre le vecchie certezze
Come è noto, Karl Löwith maturerà la propria sensibilità su diversi temi nel corso del tempo, tuttavia una cosa che resterà sostanzialmente invariata sarà il peso specifico dell’alterità e con essa il riconoscimento della relazione con l’altro da sé. Certamente, anche in questo senso, il confronto con Heidegger sarà dirimente mentre fondamentale risulterà la dimensione della dialogicità. Sarà col saggio Max Scheler und das Problem einer philosophischen Anthropologie che l’autore sosterrà che la filosofia scheleriana, pur nei suoi esiti dubbi o addirittura aporetici, possiede comunque il merito di porsi in maniera strutturale la domanda fondamentale su che cosa è quest’uomo «nel tutto del mondo». Scheler e Löwith sono, dunque, accomunati nel ricercare dentro l’umanità dell’uomo — la quaestio antropologica — nel cosmo (nel mondo) e non in quell’oltre che sia metafisico (Dio) o meno (l’Essere di Heidegger) cui si appellano le altre filosofie.1
Aggiungiamo che, secondo lo Strauss di una lettera all’amico del 30 dicembre 1932, il problema dirimente di Löwith è quello della incondizionatezza (Unbefangenheit): cioè la conoscenza dell’uomo e del suo ideale senza presupposti storici e culturali, colto nella sua originarietà (un precategoriale fenomenologico). Ciò significa che l’identità non è in possesso stabile (ontologico). A tal proposito, Karl Löwith scrive:
Il mio dunque non è un utopico ritorno a: la natura dell’uomo, ma il tentativo di sviluppare possibilità «autentiche» a partire da ciò che per noi è divenuto, di fatto, universalmente umano — come per esempio il denaro e il lavoro! — e che noi consideriamo «naturale» […]. Lei[riferito a Strauss] domanda: che cos’è l’uomo e che cosa ne è diventato, all’inizio è proprio così la mia formulazione, tuttavia, approdo effettivamente a questa considerazione: «noi ora siamo così» e mi domando «che cosa può ancora scaturire dall’uomo» […]! Io inizio sempre dalla contemporaneità, avendo come scopo il futuro prossimo.2
L’originarietà si determina perciò in questo proiettarsi nel futuro, che per definizione rimanda alla sfera della possibilità e non della necessità.
Sarà, tuttavia, nel pieno degli anni ’50 che l’autore riconoscerà la problematicità umana come inscrivibile nell’indagine circa la posizione che i soggetti hanno nel mondo; come sostiene lo studioso M. Rossini, siamo dinnanzi ad una antropologia che si fa cosmologia, perché è nel kosmos che si incontra l’anthropos, ed è lì che occorrerà la possibilità che questi sia dia come allos, alter o meno.
Alla luce di quanto emerge, allora la questione sembrerebbe porre una primazia del dato ontico rispetto all’etica (e alla filosofia tout court); a questo interrogativo l’autore non si sottrae quando scrive Zur Frage einer philosophischen Anthropologie;3 in esso il filosofo pone in essere una disamina della sfera incosciente e esterna all’uomo. A differenza degli animali, in effetti, il singolo essere umano
con il suo corpo nudo è così indifeso e bisognoso di aiuto che senza lunghi anni di cure sarebbe scomparso. Come uomo è fin da principio affidato al prossimo (Mitmensch).4
La necessità del rapporto con altri, non solo si acclara nella piena razionalità della vita cosciente, ma sembra, sostiene l’autore, affermarsi all’inizio, sulla base di una interdipendenza su basi fisiologiche ed organiche, lasciate intatte dal processo evolutivo; segno evidente, potremo aggiungere, del fatto che non si tratta di un vulnus, quanto piuttosto di un nostro elemento distintivo ed elemento di forza.
Interessanti, in questo senso, sono le considerazioni che il filosofo apporta sull’uso e lo scopo del linguaggio,5 le quali paradossalmente lo avvicinano alle considerazioni ricœuriane sull’identità narrativa del sé. Nei paragrafi successivi, si cercherà di argomentare il nucleo della proposta antropologica del pensatore tedesco.
2. La Mitmenschenheit come Mitanthropologie
In Löwith siamo dinnanzi ad una vera e propria (Mit) anthropologie,6 questo è il nostro assunto di partenza; a tal guisa, in effetti, egli stesso scrive circa la propria concezione dell’antropologia, sostenendo come essa abbia in oggetto
la fondazione dei problemi etici» indicata come antropologica. Ciononostante, in quanto terreno di una antropologia filosofica, essa implica delle pretese, per così dire, «ontologiche» (sebbene di tipo particolare), già solo perché nell’ambito di una connessione strutturata determinata della vita umana — il «rapporto» dell’uno verso l’altro, il loro essere «l’uno con l’altro» — mira ad ottenere una comprensione originaria ovvero fondamentale per il suo «senso» dell’esserci umano in generale.7
Quindi, la visione filosofica diviene antropologica sia come metodo sia come contenuto. Col primo si cerca di dare vita ad una «filosofia dal punto di vista dell’antropologia» mentre, per il contenuto, dobbiamo attestare le
problematiche effettive (faktisch) delle manifestazioni quotidiane della vita umana. Al fine di porre un fondamento antropologico, esse ritornano alle più elementari connessioni strutturali della vita umana — le trivialità.8
Löwith insiste per questo su di un significato eminentemente patico — come nota A. Cera — della sua fenomenologia, in una sorta di filologia di quanto di umanamente umano si cela dietro questo particolare fenomeno; certamente un metodo fenomenologico sui generis, ma che è forse la condizione di possibilità di una effettuale dinamica relazionale tra l’io ed il tu. Questa attestazione della determinazione patica9 del pensiero del filosofo raccorda queste analisi con i sentieri troppo a lungo poco praticati dalla filosofia, come il campo sconfinato delle emozioni o comunque della parte irrazionale che è ineludibile per una comprensione del fenomeno uomo. Scrive Löwith in Individuum:
Dal momento che l’esserci umano è determinato dal suo «essere-nel-mondo» mentre l’essere nel mondo lo è dall’«essere-con», ma l’autentico essere-con significa essere-l’uno-con-l’altro, il quale, a sua volta, è sinonimo di vivere insieme. […] così come il «mondo» generale indica già eo ipso il mondo-del-con, anche la vita in generale si riferisca già eo ipso al vivere-insieme.10
Queste parole possono soltanto essere arricchite in un senso che vada oltre la gettatezza heideggeriana (l’esserci della citazione); questo «con-essere-con» è dato attraverso una modalità affettiva-affermativa, in una dinamica di apposizione e di ricerca.
Certamente si parte dal sé, in questa intermonadologische Gemeinschaft di husserliana eco, eppure io e tu sono sempre Körper (und) Leib. Una dimensione, a ben vedere, nella quale l’individuo è Un-natürlichkeit (in-naturale — cioè nella natura fisica) e dove il prefisso Un comprende l’espressione della reale originarietà (Ur)11 che si dà nel co-mondo e dunque Un-Ur si riassumono e compiono più propriamente in quel Mit, attestando, infine, l’originaria relazionalità dell’individuo Person.12
Scrive ancora il filosofo che
l’individuo umano è un individuo nel modo d’essere della «persona», ossia esiste essenzialmente all’interno di determinati «ruoli» relativi al mondo-del-con (Mitwelt) […] ovvero è fissato formalmente come io di un tu, come individuo in prima «persona», cioè di una possibile seconda persona e dunque come co-uomo (Mitmensch) — attraverso questo «ruolo» principale.13
L’in-dividuo, perciò, è tale solo in quanto «ritorna» a sé perché si è ciò che si è a partire dalla condivisione di quanto si ha in comune con l’altro sé — in sintesi è questo lo scenario nel quale si dispiega il Miteinandersein. Questa co-appartenza e co-originarietà fanno di questa alterità che si para dinnanzi agli occhi dell’io non semplicemente altri in quanto simili (biologicamente e antropomorficamente),14 ma in quanto altri poli relazionali tutti abitanti nel co-mondo (Mitwelt). C’è dunque una innegabile primazia del rapporto rispetto al soggetto, e dunque «venendo prima» la relazione, essa, necessariamente, fonda l’oggetto (cioè il soggetto).15 Forse queste affermazioni detengono una dimensione rivoluzionaria nel panorama della filosofia europea, e non è questa la sede per approfondire questi aspetti. Del resto era stato Husserl stesso, nel formulare la concezione della Fremderfahrung su di una Mit-wahrnehmung,16 ad avanzare questa esegesi dell’originarietà seppur con tutte le cautele ed eccezioni che possono essere rinvenute nel padre della Fenomenologia. Come sostiene L. Caputo in modo molto pertinente:
il metodo fenomenologico promuove la presa di coscienza della struttura fondativa dell’intersoggettività come apriori e telos di tutto il mondo naturale e sociale […]. Un’esperienza autentica di auto rappresentazione dell’io che coglie se stesso nel suo essere proprio e originario. In seguito, l’io si riconosce nella forma estranea dell’altro e quindi degli altri ego trascendentali.17
Mi pare dunque che la lettura löwithiana possa ascriversi appieno in questo orizzonte tematico.
Se dunque il dettato fenomenologico resta questo appena descritto, si avrà allora l’impossibilità di non co-rapportarsi col mondo e con altri, almeno fino all’intervento negativo — ed eventuale — di una coscienza che scelga volontariamente di sottrarsi a questa comunic-azione. «La Mitwelt non si fa luogo in un vuoto circostante».18 Ecco come la forma In-der- (mit) Welt-sein diviene la traccia per una Mitanthropologhie. Siamo quindi alla presenza di un nuovo «Sé» il quale è
non soltanto compatibile con un impianto antropologico verhältismäßig, ma che appunto nell’autoalienazione della propria già sempre accaduta «messa in comune» sappia rinvenire l’origine e il senso della sua stessa caratura ipseologica.19
Inoltre, sempre A. Cera nota come giustamente Jean-Luc Nancy scriva:
Questa «aseità» del sé è anteriore allo stesso e all’altro […]. Prima dell’intenzionalità fenomenologica e della costituzione egologica, ma anche prima della consistenza cosale in quanto tale, c’è la co-originarietà del con.20
Il seme gettato da Husserl si schiude così nel rizoma che stiamo individuando. È chiaro, perciò, che quella della Mitwelt sia evidentemente e originariamente una totalità, dalla quale poi scomporre le componenti dell’io e del tu; c’è quindi una «comune umanità» dalla quale si procede sulla via della determinazione del rapporto di prossimità; siamo co-uomini e (co-originari) e con-uomini (originari con gli altri ed il mondo) .21 Questa è la prospettiva nella quale si acquisisce quel guadagno che Löwith descrive come «il senso generale di un concetto «ontologico» di essere-con».22 Mi preme solo sottolineare come, a mio parere, il senso con cui l’autore parla di totalità non ha nulla a che vedere con la Totalità idealistico-metafisica che viene sottoposta a sferzanti critiche da parte di Levinas (si pensi, per esempio, a Totalità ed Infinito); essa assomiglia, piuttosto, ad una sorta di universale ontologico, un insieme i cui elementi sono le persone e i loro rapporti.
Deve però essere bene evidenziato che quella del filosofo non è una relazionalità ipertrofica; gli attori sono co-essenziali in quanto con-essenziali. L’autonomia che il filosofo attribuisce all’altro soggetto ne garantisce una non strumentalità per il sé, che esperisce l’altro non come un mezzo, ma come un fine (l’eco kantiana è molto forte in Löwith)23 ;infatti, è dispiegata secondo il pensatore «l’autonomia dell’uno per l’altro» affinché «giunga a espressione nel rapporto stesso come rapporto non assolutizzato, bensì assoluto, di io stesso e tu stesso».24 Il modo nel quale questa «personalità morale e carnale di io e tu» si esplicita in maniera più fulgida è il Miteinandersprechen (il parlare l’uno con l’altro).
3. Il linguaggio nella Mitanthropologie ed il sentimento del rispetto
L’antropologia relazionale si incentra, evidentemente, sul dia-logon come parola di un io che è con un tu.25 Nel linguaggio, per questa ragione, torna in auge la diversità costitutiva e funzionale del ruolo di chi parla e di chi ascolta, ruoli che ovviamente sono scambievoli. Il senso ed il significato interiore, intimo, vengono esplicitati, tra dotti nella struttura grammaticale del discorso che sottolinea sia la distanza ma anche la vicinanza del tra i due poli nel linguaggio; si parla, necessariamente, a un qualcuno ma non un qualcuno generico, bensì ad un tu. Ci si appella alla sua attenzione, e ci si attende la sua risposta. Temi anche questi molto cari alla riflessione di Levinas. Come sostiene Humbolt, è solo nella seconda persona che si trova quella immediatezza che viene esatta nel linguaggio. La terza persona, invece, interviene con la mediazione del pensiero, come un terzo che non è insieme con me, in quanto «Egli è un non-io ma anche un non-tu. Egli è contrapposto tanto all’io quanto al tu».26
Va inoltre sottolineato che quella di Löwith non è una antropologia logo centrica, anche se è del tutto evidente che non può darsi (e dirsi) un con-uomo prescindendo dalla sfera linguistico-grammaticale. Infatti, sostiene l’autore che
l’indicibile sarà giocoforza anche l’accidentale. Ecco così che, classicamente, il pensiero filosofico non tiene nel debito conto gli stati d’animo, gli affetti, i sentimenti, ossia, in generale la «logica delle condizioni umane».27
Non a caso, il bersaglio polemico di queste pagine è senza ombra di dubbio Hegel, per motivi divenuti ormai evidenti ma che forse mantengono un fondo di ingenerosità. Verrebbe da chiedersi, infatti, quale sia quella possibilità di attingere ad una dimensione così originaria che possa escludere qualsiasi livello di mediazione; ritengo infatti che quella del linguaggio rappresenti la più «immediata delle mediazioni» che l’uomo produce per se stesso — in parte — ed in altra misura importa dall’esterno, trasforma e proietta oltre il proprio orizzonte di esistenza, indirizzandola magari ad altri oppure affatto. Se l’esistenza umana è desiderio di infinito — o semplicemente desiderare, vista la propria finitudine — il linguaggio è al tempo stesso metro e il limite di questa dinamica paradossale in cui tendo a quell’ulteriorità che le mie facoltà possono solo intravedere. Qui si staglia la forma più immediata di attestazione di sé, di possesso delle cose attraverso il potere adamitico di nominare per dominare, il quale conduce giocoforza a delle mediazioni. Sarebbe interessante sviluppare queste considerazioni in un contesto più opportuno.
Quel meccanismo di rivelazione dell’io al tu garantisce — mediato anche e soprattutto dal linguaggio — quella relazione intima e di prossimità, la quale conduce alla piena maturazione della coscienza di sé, oltre che una misura spaziale dell’estensione del «proprio».28 In questo orizzonte interpretativo, l’autore si mostra molto prossimo al Kant della Metafisica dei costumi, quando asserisce che il filosofo di Königsberg non auspicava un allontanamento dalla natura, piuttosto un’emancipazione dal confinamento in essa; è questa oggettualità consapevole a rendere la persona fine in sé (Selbstzweck). Kant, è noto, conduce un’analitica affascinante e convincente circa il sentimento del rispetto; egli caratterizza lo stesso come diametralmente opposto all’amore di sé (Selbstsucht), proprio per questa sua tensione a tenere ferma questa dualità tra uomo-persona e uomo-cosa. Scrive Löwith:
Il senso primario del riconoscimento e del rispetto non è però il porre su se stesso colui che viene riconosciuto nella sua indipendenza, quanto piuttosto rendergli possibile un libero incontro, fondare un rapporto dal carattere vincolante.29
È dunque in questa accezione teoretico-attestativa del riconoscimento e del sentimento del rispetto che si fonda il valore del legame. Quindi, l’esito più congruo e fecondo di questo essere fini in se stessi è quello che si esplica in un libero incontro di persone libere (da un punto di vista organico e morale) che si pongono in contatto, in relazione. Del resto è Kant stesso nella Metafisica dei costumi a parlare di «fini che sono al tempo stesso doveri» descrivendo in tal senso «propria perfezione» e «l’altrui felicità», dove il proprio e l’altrui si perfezionano proprio nella messa in comune della felicità.30
Tuttavia, l’asse strategico con Kant si rivela presto irto di qualche insidia, in quanto articolato sulla base di una ipoteca meta-umana: la legge morale ricevuta passivamente dall’uomo, il quale si deve ad essa con-formare.31 Si potrebbe obiettare che l’antropologia löwithiana (almeno in Individuum) è chiaramente anti-storicistica nel senso di un adattamento alle particolari configurazioni storico-sociali, quali per esempio si ravvisano nel percorso kantiano come in quello di altri autori cari al filosofo (ad esempio Feuerbach). Conseguentemente, nota ancora A. Cera,32 anche l’etica che si sviluppa a partire da queste premesse antropologiche è per così dire neutra rispetto a peculiari condizioni storiche.
Infine, c’è da stabilire una differenza semantica fondamentale tra la Person di Löwith — apparentata all’etimo latino di ruolo, maschera, relazione — e la Persönlichkeit di Kant, dalla valenza molto più formale-categoriale. Se Löwith avesse mantenuto la semantica kantiana, le critiche sarebbero ancor più fondate, in buona sostanza perché anche l’etica della Miteinandersein si articolerebbe su di un concetto di persona, in prima istanza privato e solo successivamente dispiegato all’esterno, in modo mediato, aperto così ad una tessitura etico-politica; la in-naturalità (l’uomo nella e della natura) dell’uomo löwithiano, invece, è immediatamente relazionale. È il passaggio mediano del rispetto, per ricapitolare, ad essere acquisito dal filosofo sulla scorta della brillanti intuizioni del pensatore di Königsberg.
Possiamo dunque concordare sulla ricchezza polisemica del pensatore tedesco. I suoi scritti sono decisivi in tutte le tematiche qui riportate come anche in quelle solo abbozzate — e più in generale per un complessivo ripensamento dell’antropologia filosofica; ciò è ancora più vero nel momento in cui si tiene conto della natura cangiante e sempre in evoluzione dei convincimenti filosofici di Löwith. In virtù di queste considerazioni, certi esiti possono essere sicuramente descritti come eterodossi nel consesso della comunità fenomenologica alla quale senza dubbio egli è appartenuto. Eppure, i recenti sviluppi della critica e della ricerca, anche sullo stesso Husserl, mostrano come alcune categorie vadano fondamentalmente ripensate, come ad esempio l’intersoggettività per lungo tempo, ed a torto, ritenuta tema configgente coi trionfi del solipsismo, dimenticando che esso era metodico e punto di partenza per un’analisi più approfondita.
Il pensiero di Löwith vuole, inoltre, rappresentare in definitiva una via alternativa al Cristianesimo «ritrovato» di Kierkegaard ed agli esiti anticristiani di Nietzsche; egli è spinto dalla profonda convinzione che debba essere ripensata l’antropologia (filosofica e non) in modo radicale, prescindendo anche dai condizionamenti e dalle eredità di natura storica (evidente polemica con Hegel). La soluzione proposta dal pensatore verte sul rapporto che l’uomo ha col mondo — una vera e propria cosmologia — che, col significato con cui la intende l’autore, detiene aspetti di eccedenza; vi sono caratteristiche ontologiche e fenomeniche tipiche del soggetto uomo che emergono oltre la datità mondana, così come, allo stesso modo, vi sono caratteristiche peculiari del mondo originario — come contesto di apparizione di tutti i fenomeni — che non sono ravvisabili neppure nel soggetto che detiene il maggior grado di complessità, cioè l’uomo. La fase «cosmologica» e «naturalistica», cioè quella qui trattata, del pensiero dell’autore occuperà la sua produzione dal 1935 al 1956. Si deve, dunque, procedere dal mondo e nel mondo33 nel quale l’uomo sperimenta la propria finitudine, non riposando più, come si è potuto ben vedere, su delle certezze religiose o metafisiche.34 Questa è la strada tracciata dal pensatore tedesco; vale dunque la pena approfondirla e custodirla come un contributo prezioso per la filosofia tutta.
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Cfr. K. Löwith, Max Scheler und das Problem einer philosophischen Anthropologie, in SS, I, pp. 219-242. ↩︎
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Lettera di Löwith a Strauss dell’8.1.1933 in L. Strauss, Korrespondenz Löwith—Leo Strauss, in «Gesammelte Schriften», vol. III, pp. 616-17, tr. it. in M. Rossini, K. Löwith: crisi del fondamento e antropologia filosofica, cit., p. 229. ↩︎
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Cfr., K. Löwith, Zur Frage einer philosophischen Anthropologie (1975), in SS, I. ↩︎
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Ibidem, p. 332, la traduzione italiana è contenuta nella citata tesi dottorale di M. Rossini. ↩︎
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Il linguaggio, in realtà, è tanto organico, quanto mondano (si usa l’aria che è nel mondo) quanto animato da una intenzionalità che promana da un sé verso un altro sé, il quale a sua volta riconosce questa forma di (comun)icazione. Quindi, quella Löwith è una antropologia che ridisegna semanticamente l’umano come luogo della libera necessità, o della libertà necessitata ad essere così, nell’unico luogo possibile, il mondo. Non un oltre locus, piuttosto un oltre-uomo perché è capace di elevarsi al di sopra — si richiami il significato del meta greco — della propria naturalità per raggiungere una esistenza che è e resterà problematica. ↩︎
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Termine molto felice coniato da A. Cera nelle sue ricerche e di capitale importanza — così come gli studi di M. Rossini — per una ricostruzione dell’antropologia del filosofo tedesco. Chiaramente, la Mitanthropologie rappresenta un macro-concetto rispetto al quale sono correlativi e discendenti quelli di Mitwelt, Miteinandersein e Mitmenschen. A tal proposito, il primo termine si può descrivere come il «mondo-del-con», «ossia l’orizzonte mondano primo ed ineludibile per l’uomo — la più reale realtà del reale»; il secondo, invece, rappresenta «l’essere-l’uno-con-l’altro» ovvero «modalità fondamentale dell’umano essere nel mondo»; ed infine, per Mitmensch A. Cera intende significare il «co-uomo», cioè «ciò che l’uomo, preso per se stesso, è più originariamente […] la condizione di possibilità per l’esercizio di qualsiasi ruolo» (A. Cera, Io con Tu. Karl Löwith e la possibilità di una Mitanthropologie, Guida, Napoli 2010, p. 284). ↩︎
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K. Löwith, Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen. Ein Betrag zur anthropologischen Grundlegung der ethischen Probleme, Drei-Masken Verlag, München 1928, tr. it., L’individuo nel ruolo del co-uomo, a cura di A. Cera, Guida, Napoli 2007, p. 266, corsivo mio. ↩︎
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Ibidem, p. 267. Si noti il collegamento con Nietzsche, nient’affatto casuale. ↩︎
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Il Mitmensch löwithiano è dunque un qualcosa di molto più essenziale di un semplice «stare accanto» di due individui, né tanto meno trattasi di una mera partecipazione imitativa che potrebbe verificarsi in una coabitazione casuale tra soggetti di una stessa specie biologica. Si tratta, è bene ancora precisarlo, di una con-esistenza (ancora il richiamo a Nietzsche) nel senso più pieno del termine. Il prossimo (Nächste) è dunque tale in virtù di una condivisione spaziale-organica e di intenzionalità — nel senso fenomenologico oltre che heideggeriano. ↩︎
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K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 87. ↩︎
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Husserl asserisce che nell’io originario (Ur-ich) l’intersoggettività trascendentale è data come contemporanea con-vivenza dei soggetti co(n)-fungenti (tra i quali si trova anche l’io della monade aperta) e che tale costituisce il mondo ambiente. Il tutto è mediato dalla reciproca ed immediata percezione a partire dai diversi Körper (cfr. E. Husser, Esperienza e giudizio, a cura di F. Costa, Silva, Milano 1961, pp. XVI-XVII). L’io originario è ricompreso nell’oggettività, nel senso che è superato, ma non ne viene sacrificata la polarità intenzionale (altrimenti non avrebbe senso il tessuto intersoggettivo e trascendentale). Certamente, occorrerebbe una precisazione sullo statuto di questa reciprocità, qui intesa semplicemente come «bidirezionalità-pariteticità». ↩︎
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Löwith riconduce tale termine al lemma greco «prosopon» ovvero «ciò che si para davanti agli occhi, quindi la parte anteriore delle cose e, nell’uomo, soprattutto il volto, poi la maschera e, più tardi il ruolo, il carattere» (F. Chiereghin, Le ambiguità del concetto di persona e l’impersonale, in «L’idea di persona» a cura di V. Melchiorre, Milano 1996, p. 65). ↩︎
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K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 267. ↩︎
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A. Cera, Io con Tu. Karl Löwith e la possibilità di una Mitanthropologie, p. 68. ↩︎
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K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 266. ↩︎
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Cfr. H. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Erste Teil, a cura di I. Kern, Nijhoff, Den Haag1973. Questi scritti sono databili tra il 1905 ed il 1920. Nel testo del primo paragrafo della V Meditazione, inoltre, Husserl cerca di delineare la complessa fenomenologia con la quale si dà il rapporto «nel» Mitwelt con gli oggetti e gli altri soggetti; si procede dalla semplice percezione dei corpi alla loro comune rappresentazione nello spazio dell’esperienza (Erlebnisraum) al riconoscere l’alterità presso il mio stesso io proprio (Eigenheitssphäre), determinando così l’alterità rispetto a questo nucleo, passando attraverso l’apposizione dell’ater-ego (§ 42). ↩︎
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L. Caputo, Coscienza e intersoggettività nella fenomenologia di Husserl, Pensa Multimedia, Lecce 2012, p. 64. Questo testo, inoltre, contiene anche delle analisi di stralci di inediti husserliani molto utili ai fini di un ripensamento del filosofo moravo in un’ottica intersoggettiva; scritti che rappresentano la punta più avanzata degli studi su Husserl e che destano l’attenzione di chi si voglia occupare del ruolo del corpo in questa intenzionalità trascendentale, offrendo spunti ulteriori in quest’orizzonte interpretativo, anche in vista di un’analisi più tarda e matura dell’Einfühlung; è impossibile per Husserl «fare esperienza del proprio corpo: «Io non ho nessuna esperienza diretta di me, un’autoesperienza di me come persona umana, come io ho un’esperienza diretta degli altri uomini» garantita dall’empatia (p. 138, la citazione, invece, è tratta da: E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Dritter Teil, a cura di I. Kern, Nijhoff, Den Haag1973). È curioso che nelle pagine löwithiane non si accenni a questa grandezza filosofica. ↩︎
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A. Cera, Io con Tu Karl. Löwith e la possibilità di una Mitanthropologie, p. 90. ↩︎
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Ibidem, intendendo con verhältismäßig una proporzionalità. ↩︎
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J-L. Nancy, Essere singolare plurale, a cura di D. Tarizzo, Einaudi,Torino 2001, p. 57. ↩︎
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Cfr. A. Cera, Io con Tu Karl. Löwith e la possibilità di una Mitanthropologie, p. 94. ↩︎
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K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 130. ↩︎
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Tuttavia, non possiamo non rilevare che l’affrancamento da un esito auto-interessato sia ancora piuttosto debole; questa con-originarietà è vera, ma è poi come io voglio muovermi verso l’altro a creare il problema. Io posso sempre decidere di usare l’altro e/o di sottrarmi al mutuo riconoscimento; in altre parole, manca una forza che sottragga il riconoscimento dalla natura di bisogno, tramutandolo in un desiderio. A questa altezza del discorso, dunque, deve necessariamente darsi un momento etico. ↩︎
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K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 174. ↩︎
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Il richiamo più immediato e certamente circostanziato è quello a M. Buber; la sua è evidentemente una prospettiva ricca di suggestioni, anche se articolata sulla base di una sensibilità religiosa che Löwith ha inteso chiaramente superare. Difatti, il «tu assoluto» di cui parla il filosofo ebreo è ovviamente il Dio della sua tradizione, dal quale e per quale si sostanzia e fonda la relazione tra io e quel particolare tu. Il volume di A. Cera si interroga diffusamente ed efficacemente circa le analogie e differenze tra le due antropologie relazionali. ↩︎
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Ibidem, p. 179. ↩︎
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K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 195. ↩︎
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Molto brevemente, è il caso di accennare, anche a beneficio del confronto di tali impostazioni con quelle di origine neo-hegeliana, la possibilità di rinvenire nella Mitanthropologie una struttura dialettica di primo ordine. Gli elementi di quest’ultima, invero, sono i concetti di individuo e persona, nella mediazione che di essi si dà attraverso la dynamis relazionale, nel mondo. In realtà, si tratta di una dialettica peculiare, la cui conclusione non è mai una sintesi compiuta e definitiva, piuttosto una sintesi aperta il cui esito, per altro rovesciabile, si configura in un Verschränkung (intreccio, interscambio). Il locus specifico nel quale questa dialettica si dà nel mondo è allora proprio quel ruolo, nel quale la sintesi tra individuo e persona conserva in sé tutti gli elementi costitutivi, e la forza della negazione si tramuta, in effetti, non in un trauma oppositivo (come in Hegel) ma in un qualcosa di morfologicamente diverso, una ex-posizione verso l’esterno, verso quella distanza percorrendo la quale incontro l’altro e durante la quale continuo ad essere individuo; la «persona» è dunque anche in quella «terra di nessuno» tra io e tu. Inoltre, deve essere sottolineata l’adesione di Löwith a questa dialettica comprendente — nel senso proposto da Dilthey e da Weber— nella quale l’elemento vitale si conserva nel moto bidirezionale garantito appunto dall’intreccio (cfr. A. Masullo, L’intersoggettività della persona. Husserl, Scheler, Guardini, Weizsäcker, Loffredo, Napoli 1999; questo agile testo, denso di spunti, è molto utile per investigare il tema dell’intersoggettività nella fenomenologia in modo da rintracciare una disposizione biologica originaria). Invece, la sensibilità attorno ad una dialettica non assoluta fu posta in essere da König (cfr. J. König, Der Begriff der Intuition, Halle 1926) fonte senza dubbio a disposizione di Löwith. ↩︎
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K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 231. ↩︎
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Kant, nel § 41 della Metafisica dei costumi ribadisce che il dovere di amore è sostanzialmente diverso dal dovere del rispetto. C’è una accezione più stretta nel dovere afferente il rispetto, che si approssima al concetto della umana dignità, in quanto esso è quell’anello di congiunzione tra i doveri di virtù e quelli di diritto; possiede un valore noumenico (cfr. I Kant, Metafisica dei Costumi, testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano 2006, p. 547 e ss.). Resta, tuttavia, degno di nota il fatto che Kant apponga due precisazioni: 1) la specifica dignità non si nega neppure al vizioso o al peggior criminale; 2) la dignità non può mai essere usata come mezzo. Solo qui si pone la domanda sull’uguaglianza degli uomini. È luogo di conversione teoretica e pratica di diritti e doveri della persona (Ibidem, p. 459). Tuttavia è il rinvio al noumeno a distanziare Löwith da Kant. ↩︎
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Cfr. M. C. Pievatolo, Senza scepsi né fede: la scepsi storiografica di Karl Löwith, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1991. ↩︎
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Ibidem, nota p. 254. ↩︎
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Cfr. K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, il Saggiatore, Milano 1988, p. 203. ↩︎
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Sul ruolo dell’io, anche in un’ottica intersoggettiva, mi permetto di rimandare alle pagine husserliane nelle quali lo stesso è comunque ritenuto come l’Ausgangspunkt (il punto di partenza) di ogni atto teoretico, gnoseologico ed etico — nonostante le critiche di eccessiva teoreticità rivolte al filosofo moravo; si fa esperienza nel mondo, nel co-ambiente, dell’altro a partire da sé (cfr. E. Husserl, Fenomenologia e Antropologia, in «Fenomenologia», a cura di R. Cristin, Unicopoli, Milano 1992, p. 202). ↩︎