Recensione ad Andrea Sangiacomo, Scorci. Ontologia e verità nella filosofia del Novecento

Andrea Sangiacomo, Scorci. Ontologia e verità nella filosofia del Novecento, Il prato, Padova 2008, 247 pp., € 12,00.

La riflessione sull’essere ha mantenuto nei secoli, da Parmenide fino ai nostri giorni, la stessa significante e ineludibile valenza, come attestano le varie tradizioni di pensiero ancora in gioco. L’essere si dice in molti modi, e l’esistere, da sempre, si pone come problema per la filosofia, anzi come «il» problema per eccellenza. Ben consapevole di ciò, Andrea Sangiacomo, che già si era cimentato con Parmenide in pagine ricche di spunti ed argomentazioni (La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza, Il Prato, 2007), ci riporta con un nuovo lavoro (Scorci. Ontologia e Verità nella filosofia del Novecento, Il Prato, 2008) di fronte al problema dell’essere e della sua verità. Come ci ricorda Giorgio Brianese nella sua Prefazione:

C’è bisogno — c’è sempre bisogno — di sottolineare che la filosofia, anche e soprattutto quando rinvia ad un passato all’apparenza lontanissimo — non è semplicemente una più o meno attendibile ricostruzione storica e filologica di ciò che è già stato pensato, ma ha sempre di nuovo a che fare con il nostro qui e ora, con il senso attuale della nostra esistenza (p. 5).

Basta anche solo sfogliare le pagine o scorrere l’Indice di questo testo (composto da cinque diversi saggi: La Civiltà della solitudine, Un dogma dell’ontologia analitica, Il silenzio di Orfeo, La concezione heideggeriana della Verità in Essere e tempo, Il solido cuore della verità), per comprendere che l’intento di Sangiacomo non è tanto quello di esplicitare nei termini di un esame storico, o storiografico, le diverse proposte, ma è, più significativamente, quello di instaurare un vero dialogo con gli autori trattati, anche a costo di mettersi direttamente in gioco. Da qui il taglio fortemente teoretico di tutto il lavoro: la pur accurata e puntuale analisi di alcune fondamentali tematiche di Heidegger e Severino, così come la radicale e serrata critica al «dogma» del senso comune e dell’ontologia analitica, rispondono all’esigenza di affrontare — non solo denunciando limiti ed errori, ma anche indicando una possibile via di uscita — i problemi del nostro tempo, di quella «civiltà della solitudine» che caratterizza la nostra società e condiziona il nostro stesso essere e pensare. Per Sangiacomo alla radice della Civiltà Occidentale c’è un errore fondamentale: l’isolamento in cui, credendo illusoriamente di salvarli dal pericolo di annullamento, ma in realtà annullandoli nell’astrattezza del «questo e solo questo» (p. 37), l’Occidente ha posto gli enti e, con essi, il proprio mondo, il proprio destino. Lungi dall’essere un discorso accademico limitato alla ristretta cerchia degli ‘specialisti’del settore, fin dalle prime pagine di questo lavoro, la speculazione ontologica si rivela così il tema di fondo del nostro sapere, meglio, la radice della nostra civiltà: il modo in cui viene declinato il concetto dell’Essere, determina il modo in cui viene caratterizzata l’esistenza stessa.

Due sono le linee portanti dell’argomentazione di Sangiacomo. La denuncia dell’isolamento con cui l’Occidente condanna ogni cosa alla caducità della contingenza e della precarietà assoluta (ogni ente è un ab-solutum perchè slegato, separato dal Tutto) e l’analisi della ‘logica’che è alla base di questo pensiero calcolante (si declini nella forma di uno scetticismo esplicito o di un’ontologia dogmatica che maschera una volontà di potenza) costituiscono la pars destruens del lavoro. La pars costruens che le fa da contrappunto nasce dal confronto con quelle che, in tema, possono essere annoverate fra le più significative proposte del panorama contemporaneo: la riflessione heideggeriana sul senso dell’Essere e la tesi severiniana dell’eternità dell’Essere.

Con pagine di grande suggestione, nel primo capitolo, La Civiltà della solitudine (p. 11-54), si affronta, prima nel linguaggio del mito, poi in quello della filosofia e della fede, il nascere e consolidarsi del senso dell’Essere all’interno della nostra civiltà e il suo inevitabile approdo al nichilismo. Il lettore non deve lasciarsi trarre in inganno dallo stile letterario di queste pagine: il commento all’Iliade, il «racconto» dell’assedio che pur ci conduce con maestria attraverso le vicende e le storie degli eroi che quella guerra ha reso immortali, non è fine a se stesso. «Ilio dalle solide mura» è la «città» per eccellenza, il paradigma dello stesso Occidente; la storia del suo assedio è la storia di come la Civiltà Occidentale si sia sempre sentita assediata e abbia finito per chiudersi in se stessa, isolandosi. Per conservare la propria vita e mantenersi in essere, l’uomo deve chiudersi entro mura protettive, difendersi da quel pericolo di annullamento che caratterizza la propria esistenza finita:

Chi abita Ilio, è colui che vive solo in quanto è nato per morire, ovvero per uscire dalla città e scegliere in battaglia in che modo dire addio a se stesso, in che modo uscire da sé e farsi ridurre ad altro. Chi abita Ilio è l’uomo inteso come il mortale, colui che è chiamato a esistere solo per uscire dalla città fiorente della sua stessa esistenza. Il valore di questa vita è dunque il valore della cosa fuggevole, che va colta fino a che c’è e che va goduta sino a che non sia chiamata all’estrema difesa di se stessa, ovvero alla lotta per scegliere come perdere sé nel diventar altro. Vivere, per contro, è essere uno, essere se stessi, sempre uguali, in sé stessi esistere e in sé stessi stare, muore chi esce, giacché la morte abita il fuori in quanto tale (p. 24).

Il successivo pensiero greco e la stessa filosofia rielaborano quest’idea archetipa. Platone non fa che riedificare sui resti di Ilio la sua «Repubblica» forgiata dalla ragione e non più dal mito. Ma, a ben guardare, in fondo

gli abitanti della Politeia platonica sono i medesimi abitanti di Ilio, divenuti però in qualche modo più saggi, più sapienti, ovvero più lucidamente coerenti con le regole del luogo in cui vivono. Ciò che Omero cantava in poesia, Platone lo radicalizza temprandolo nel fuoco dell’ottima ragione e ponendolo come pietra angolare di tutto il suo edificio metafisico. Ilio dalle solide mura risorge così non più nel dominio fantastico e mitico delle epopee narrate dagli aedi, ma acquista la dignità e la solidità di un sistema di pensiero che sbarra la strada al nemico opponendogli la forza del proprio logos (p. 29).

Ma questo logos non è soltanto chiamato a edificare la polis, a individuare le regole della giustizia e della convivenza, se vuole garantire l’esistenza dell’uomo deve sforzarsi di dimostrarne l’eternità. Con le prove dell’immortalità dell’anima, Platone prosegue idealmente il tentativo di Omero di garantire l’esistenza dal pericolo dell’annullamento. Fin dalla filosofia delle origini, però, è già in un certo senso implicito l’inevitabile esito nichilista: la legge che domina l’Occidente, di volta in volta, diventa Stato, Epistéme, Religione, Civitas Dei, si rivela pienamente come volontà di potenza, Téchne (p. 45). Il nichilismo non è la fine dell’Occidente, ma la sua verità:

Il nichilismo si rivela come quel pensiero che, conquistando assoluto rigore, giunge a pensare ciò che già la poesia di Omero presupponeva: l’Essere è sempre esser-questo e solo questo, ciò che è altro è niente. In tale formula, il «questo» indica precisamente una certa cosa finita e limitata, chiusa entro confini ben determinati e ben fortificati. Sulla base di questa formula è necessario dedurre che se di cose ne esistono tante e se queste sono soggette a divenire, questo divenire, in quanto le porta ad essere altro da sé, a diventare diverse, le porta a cadere nel nulla: è in base a questa formula che l’Occidente, quando pensa il divenire, pensa sempre, necessariamente, il sorgere e l’uscire dal niente (p. 37).

Si è così giunti al nucleo teoretico fondamentale di tutta l’argomentazione: la denuncia dell’isolamento dell’essere e della sua identificazione con il nulla secondo la formula così esplicitata: «o questo o niente; oltre a questo, niente». Sottolineando questo tema Sangiacomo è già oltre ogni metafora.

E se qualche lettore ritenesse questo modo di procedere, così attento al mito e all’allegoria, poco rigoroso, si tranquillizzi: il secondo capitolo (Il dogma dell’ontologia analitica, pp. 54-95) riprende in chiave diversa questi stessi temi. Nel linguaggio dell’ontologia analitica è possibile formalizzare la tesi del senso comune, fatta propria in alcuni casi dalla stessa ontologia analitica, nei termini: D: «Qualsiasi X in quanto X non dipende da non-X». (p. 59). Da questa formula si ricava che X, secondo D, è un qualcosa di finito, limitato, in sé concluso, qualcosa che non dipende da altro, ma solo da sé, perchè essendo non-X tutto ciò che non è X, X risulta indipendente dalla Totalità. Il tema dell’isolamento, del «questo e solo questo, oltre a questo niente», pur riproposto in altri termini, si ripresenta alle stesse condizioni. Ma nell’isolamento ricade anche la stessa formula D: «D in quanto D, non dipende da non-D», cioè D non dipende dalla Totalità, non ha bisogno d’altro che di D:

in questo senso D è un’asserzione indeducibile e indimostrabile, giacché non segue da altro che da sé. Quindi D sembra avere tutti i requisiti per essere considerato un principio, fatto salvo, certo, che non se ne mostri la contraddittorietà, nel qual caso, andrebbe giudicato più correttamente come un presupposto arbitrario, ossia, appunto, come un dogma (p. 71).

Ed è questo che si tratta appunto di dimostrare. Prima, però, Sangiacomo si preoccupa di evidenziare gli aspetti più aporetici di questa tesi: se la parte è indipendente dal Tutto, ogni tentativo di unificazione risulta arbitrario. Lo stesso linguaggio in quanto relazionalità diventa puro arbitrio determinato solo dalla «volontà». Di conseguenza concetti come «esistenza» e «verità» diventano secondari se non del tutto superflui (p. 79). In ambito ontologico il termine «essere» viene usato (da Carnap, Quine, Russell) in senso predicativo, e non copulativo, perciò l’essere, l’esistere prendono il significato di appartenere e l’ontologia analitica si impegna a catalogare i vari elementi, cioè a fare l’inventario di ciò che esiste (p. 80). Se si riduce infatti l’esistenza alla semplice appartenenza di un elemento al suo insieme (e lo si deve fare se si vuole portare al suo estremo rigore la stessa ontologia analitica), allora

è l’elemento che bisogna studiare, non il suo esistere, giacché è dall’elemento che dipende l’esistere o meno in un certo dominio e non viceversa: non è dall’Essere che dipende la cosa ma è l’essere che dipende dalla cosa che è, giacché solo in base alla sua quidditas questa è come è, ossia appartiene al dominio a cui appartiene. Parlare di ciò che è non richiede quindi di parlare dell’essere di ciò che è, ma può volgersi direttamente alle cose: i problemi relativi all’essere in quanto essere sono falsi problemi, giacché, in definitiva, l’essere in quanto essere non è affatto un concetto problematico (p. 81).

Detto questo, non resta che fare un ultimo passo: dimostrare la contraddittorietà di D. Anche asserendo che X dipende solo da X, si intende non-X come termine di riferimento rispetto a X. Si pone quindi X in relazione necessaria con non-X, cioè in funzione di non-X . Ma allora

D è contraddittorio, giacché asserisce che X in quanto X, che come tale dipende da non-X, non dipende da non-X. Tradotto in termini più familiari: un termine «ritagliato» dal suo sfondo si dà così solo «in astratto», cioè appunto in quanto viene abs-tractum dal contesto nel quale tuttavia è originariamente: nessun termine isolato può darsi se non si dà contemporaneamente Tutto l’intero, o, meglio, nessun termine può darsi isolatamente dall’intero a cui appartiene (pp. 87-88).

La denuncia è ora completa: di per sé contraddittorio, D si rivela un dogma arbitrario, erroneamente considerato come un principio.

Esaurita la pars destruens, nella seconda parte di Scorci Sangiacomo affronta l’ontologia fondamentale: il discorso si sposta dagli enti all’Essere. Qui i punti di riferimento sono Heidegger e Severino, alle cui tesi sono dedicati il IV capitolo (La concezione heideggeriana della Verità in Essere e tempo, pp. 133-202) e il V capitolo (Il solido cuore della verità, pp. 203-235) di cui lasciamo al lettore l’analisi diretta. La linea di fondo che emerge da queste pagine è caratterizzata dalla riscoperta del senso dell’Essere. Certo, è in contesti diversi e da diverse prospettive che Heidegger e Severino affrontano il problema dell’Essere, ma entrambi si pongono «in ascolto», lasciano che a parlare non sia una qualche «volontà di potenza», un desiderio di dominio sull’essente, ma l’Essere stesso. È questa attenzione al fondamento ontologico della Verità, che per entrambi è Verità dell’Essere, a costituire, in pagine dense di riferimenti ai testi, l’oggetto dell’analisi interpretativa di Sangiacomo che ripercorre il loro discorso filosofico, cercando nell’ontologia fondamentale la soluzione alle problematiche ‘metafisiche’ed esistenziali del nostro oggi.

Di Heidegger Sangiacomo sottolinea soprattutto i temi dell’apertura e della presupposizione, tematiche da cui ricava l’invito ad una emendazione del linguaggio volta ad una comprensione autentica dell’Essere. Da Heidegger è infatti tratta la tesi secondo cui

il risultato dell’interpretazione ontologica dell’ente non è altro che la determinazione del senso di una parola con cui chiamare l’ente, parola tramite cui l’Esserci accede all’essere di quell’ente nel suo significato, cioè nella comprensione del suo essere. L’interpretazione ontologica dell’ente non è quindi una mera applicazione di un principio generale ma è essa stessa lo sviluppo più proprio del discorso ontologico. Il risultato di questo sviluppo è, idealmente, la costituzione di un lessico, ovvero di un insieme di parole che parlano dell’Essere, in quanto conservano in sé il senso che per quel certo ente ha l’Essere. L’utilizzo di un simile lessico, cioè l’esprimersi dell’Esserci utilizzando queste parole, è il modo in cui l’Esserci è nella verità, cioè esiste all’interno della sua propria apertura (p. 200).

La lezione fondamentale che Sangiacomo ha appreso da Severino è, ancor più significativamente, l’incontrovertibilità dell’affermazione «L’Essere è». Sulla via dell’élenchos, è l’analisi della negazione del principio di non contraddizione che rivela l’impossibilità che l’Essere non sia. Identificati il principio d’identità («l’Essere è») e il principio di non contraddizione («l’Essere esclude da sé il non-essere»), si può riconoscere nell’Essere la totalità del positivo: solo il nulla non è, e il non-essere non è altro che contraddizione e appartiene all’Essere come contraddizione (p. 223). L’Essere è la Totalità del positivo, oltre all’Essere non c’è nulla. Ciò significa che l’Essere non si predica, non si «aggiunge», alle singole determinazioni, ma è ciò che propriamente si mostra, di scorcio, in ogni ente. Ogni cosa è nel Tutto ed è in virtù del Tutto:

Il solido cuore della verità è l’identità stessa dell’Essere con sé, ma il senso autentico dell’esser-identico a sé è nella presupposizione in virtù della quale l’identità medesima non è aggiunta dopo la posizione dei termini ma è già da sempre presupposta: termini per sé assoluti non esistono se non come astrazioni (p. 226).

Si ritorna così al tema di fondo di Scorci: la denuncia del fraintendimento in cui è caduto il pensiero occidentale. La negazione dell’identità non è altro che l’isolamento dell’ente, di ogni ente, dal Tutto e da ogni altra cosa. Isolamento che, annullando ogni relazione fra le determinazioni, ci condanna al nichilismo perchè, evocando le cose dal nulla, le astrae da ogni legame:

in ogni termine è l’Essere stesso che parla di sé in un certo modo finito. Dunque a ogni termine compete questa intrinseca apertura, questo non esser mai concluso, in sé dato e isolato, limitato. Ogni termine è costitutivamente e originariamente aperto, la relazionalità è la sua apertura e questa apertura significa: il termine in sé, fermo e assoluto, non si dà mai. Anzi, più correttamente: ad esistere non sono i termini ma le relazioni, che pongono tali termini nella loro originaria relatività. Sostanzializzare i termini e considerarli in sé, assolutizzarli, significa dunque scinderli dall’originaria relazionalità dell’Essere e quindi annullarli. Per questo si può dire che le cose, intese come entità in sé assolute e indipendenti, non esistono affatto (p. 232).

Di qui il riconoscimento dell’infinità dell’Essere: proprio perché tutto comprende e non può mancare di nulla, l’Essere è infinitamente aperto, mai concluso non in quanto incompiuto, ma perché non limitato da niente. L’Essere è relazione: in tutto ciò che è, si manifesta l’Essere ed ogni cosa, in quanto parte del Tutto, è in relazione con tutto.

Nell’Intermezzo (Il silenzio di Orfeo, pp. 97-132) questa infinita relazionalità è significativamente rappresentata dalla musica. Che altro è la musica, infatti, se non relazione, forma, struttura? Come il linguaggio stesso, non è soltanto «suono», una serie di suoni a sé stanti, ma è rapporto, legame fra termini, trama, numero (pp. 101-102). Relazione numerica di relazioni numeriche, è connessione di suoni, il loro senso. E la musica, l’altra grande passione di Sangiacomo, è presentata qui come chiave di lettura della stessa realtà:

la musica è intrinseca alla realtà stessa: la realtà è anche musicale. Di più, l’avvolgersi delle relazioni tra loro e quindi l’intrecciarsi e il raccogliersi insieme di ciò che è, costituisce quel tessuto musicale che noi chiamiamo «realtà». La musica non racconta dall’esterno un mondo che contempla senza prendervi parte, ma raccoglie piuttosto l’estrema sintesi di ciò che esiste, il suo logos (p. 111).

Si può quindi riconoscere che la musica è la concreta negazione di ogni isolamento (p. 124) e se ogni «brano», ogni «pezzo» inizia e finisce nel silenzio, è perché è solo una parte astratta dal Tutto. Il silenzio non è dunque assenza di suono, ma al contrario, è la musica del Tutto quando il Tutto si dà come tale, allo stesso modo in cui la luce bianca non è assenza ma compresenza di ogni colore (p. 106):

Ogni «pezzo» di musica presuppone la totalità, per questo «inizia e finisce» nel silenzio. Ma questo «inizio» e questa «fine» non li si possono allora più intendere in senso assoluto, come venir fuori dal nulla, un prendere ad esserci di ciò che non c’era. Dacché il silenzio stesso è già la musica del Tutto, ogni «brano» che inizia è già inscritto in quel silenzio e il suo finire è il ritornare a risuonare di questo (p. 106).

Ed allora è proprio la musica ad insegnarci che nulla inizia o finisce, ma tutto «è». Si tratta quindi di «educare all’ascolto»: capovolgendo la tesi platonica secondo cui la musica prepara alla filosofia, Sangiacomo può affermare che è la filosofia a insegnarci ad «ascoltare» il senso delle parole e a riconoscere il legame che unisce tutto ciò che è. Educare all’ascolto significa, in ultima istanza, educare a pensare: la Civiltà Occidentale non sarà più una «civiltà della solitudine» quando avrà spezzato l’isolamento che ci imprigiona e avrà riconosciuto l’infinita ricchezza dell’Essere.

Vincere la solitudine, è dunque possibile, ma questa via deve ancora essere percorsa ed oggi:

la guerra contro Ilio, in qualche modo, è ancora una speranza che ha da venire, un’eredità e un compito che da tre millenni attende d’essere assolto (p. 44).