1. «Qui si tratta di essere, non dell’essere»
Condizionato dal contesto culturale francese di inizio secolo — dominato dalle figure di Brunschvicg e Bergson -, dal recupero, a cavallo delle due guerre mondiali, dei temi della filosofia dell’esistenza di ascendenza kierkegaardiana, heideggeriana e jaspersiana, ma pure da idealismo e spiritualismo, il giovane Marcel getta le basi del proprio pensiero in linea col generale ridestarsi di un interesse tutto nuovo per le esigenze più concrete dell’esistenza umana, da troppo tempo offuscate dal filosofare oggettivante di stampo positivistico. In virtù, poi, della visione per cui l’esistenza è coincidenza di sé e altro da sé, di autorelazione e relazione all’altro, il punto di partenza offerto dalla natura umana e le sue costitutive e ingombranti limitazioni rendeva nuovamente possibile il discorso sulla trascendenza, in linea con il rinnovato interesse per il discorso religioso. Al di là di queste influenze di carattere strettamente accademico, comunque, non va dimenticato il grande impatto intellettuale oltre che, chiaramente, emozionale, che su Marcel come su altri pensatori del tempo ebbe la tragica esperienza della Grande Guerra: questo dramma, che il Nostro visse in prima persona al tavolo del servizio-informazioni della Croce Rossa, lo portò a interrogarsi sui temi della sensazione e del corpo, che lo avrebbero condotto, successivamente, proprio alla scoperta dell’esistenza intesa come incarnazione.
In effetti, fin dal primo Journal1 Marcel insiste sul primato dell’esistenza, sul suo carattere indubitabile e preliminare all’interno della sua ricerca filosofica e a partire da ciò procede alla fondamentale distinzione tra esistenza ed essere. Alla formulazione completa di quest’ultima tematica contribuisce in modo primario l’apertura alla prospettiva fenomenologica, all’interno della quale il Nostro può finalmente interrogarsi circa la relazione intercorrente tra i due termini del binomio, circa, cioè, il modo in cui la questione dell’essere si pone per il soggetto esistente: in quest’orizzonte i suoi sforzi si orientano così all’elaborazione di una filosofia della presenza dell’essere e della partecipazione ad esso e al progressivo allontanamento dalle originarie filosofie dell’esistenza, ancora troppo incentrate sull’io e sulla sua autoaffermazione. L’esistere viene, così, a configurarsi come un rapporto d’implicazione con l’essere, e quest’ultimo, a sua volta, come ciò che coinvolge l’esistente; gli approcci concreti all’essere (il corpo, l’amore, ecc.) di cui si serve Marcel nella sua ricerca non sono che l’esistenza e le sue molteplici articolazioni.
Orbene, in questa prospettiva, anche il rapporto tra uomo e mondo viene completamente ripensato: l’esistenza umana non è mai presa in considerazione isolatamente rispetto al contesto in cui si manifesta; la realtà non è un ordine chiuso in sé a cui noi assistiamo inerti come a uno spettacolo. Al di là di ogni opposizione tra un soggetto e un oggetto qui si professa una partecipazione infra o supra-oggettiva per cui «il mondo è una situazione in cui ci troviamo coinvolti (senza averlo voluto e da ben prima che ne prendessimo coscienza) e in cui dobbiamo impegnarci personalmente se vogliamo realizzare il nostro essere spirituale».2 Quest’io in situazione, poi, nulla ha a che fare in Marcel con l’io trascendentale di ascendenza idealistica: si tratta di un io che non solo è in situazione rispetto al mondo e alla storia ma che è tale pure rispetto alla corporeità a cui è sempre, necessariamente legato. Si tratta, cioè, di un io incarnato: «ciò che esiste e ciò che conta, è un determinato individuo, è l’individuo reale che io sono, col bagaglio della sua esperienza, con tutte le specificazioni dell’avventura concreta che spetta a lui vivere, a lui solo e non a un altro».3 La condizione umana corrisponde, insomma, all’essere-in-situazione, ove quest’ultima è una realtà concreta, né solo fisica né solo psichica, la quale delinea allo stesso tempo tanto i limiti quanto il campo d’azione del soggetto; in questo modo quella realtà per l’uomo che vi è coinvolto è insieme ostacolo e possibilità.
Ma addentriamoci ora nel rapporto tra essere ed esistenza: la necessità, a cui abbiamo più sopra fatto riferimento, di pensare secondo la categoria dell’essere partendo dal primato esistenziale si fa viva soprattutto in Essere e avere in cui viene seguita proprio la doppia esigenza di guardare all’esistenza umana ma senza cedere alla tentazione di una trattazione oggettiva e astratta dell’essere. Questo doppio intento fa capo a uno dei più celebri binomi di cui è costellata la produzione marceliana: si tratta dell’importante differenziazione tra problema e mistero. L’essere marceliano non è niente di lontanamente simile a un qualcosa di fronte a cui ci si pone come si trattasse di un problema da risolvere o di un oggetto da possedere bensì è un mistero, un qualcosa che appartiene, cioè, a una dimensione meta-problematica nella quale ci si trova “gettati” dal momento in cui si viene, appunto, ad essere. Insomma, il soggetto che s’interroga non è al di fuori della domanda stessa che egli formula perché quella stessa domanda rimanda sempre al chi che la pone in quanto già sempre coinvolto nell’essere stesso. Più precisamente, «il problema è qualcosa che s’incontra, che sbarra la strada. Esso sta interamente davanti a me. Invece il mistero è qualcosa in cui mi trovo impegnato, la cui essenza perciò è di non essere tutto intero davanti a me. È come se in questa sfera la distinzione tra l’in me e il davanti a me perdesse il suo significato».4 Per questo motivo l’essere non è suscettibile di una ricerca analitica bensì solo di riconoscimento e affermazione e il discorso ontologico può, così, essere affrontato unicamente tramite il metodo degli approcci concreti, a partire, cioè, dalle più concrete esperienze esistenziali che vive ogni singolo individuo, e che Marcel riconduce alle tre esperienze-chiave dell’amore, della fedeltà e della speranza. All’ambivalenza di sguardo costituita dalla coppia problema/mistero coincide l’ambiguità a cui è soggetta l’esistenza umana stessa: due sono, infatti, le modalità in cui essa si dà — essere e avere — le quali, sebbene diametralmente opposte, vanno “tenute assieme” il più possibile perché proprio a partire dal loro intreccio, dalla loro relazione è possibile riscrivere gli esiti dell’ontologia classica trasmutandola in un’ontologia concreta che oscilla, come un pendolo, tra i due poli di un’unica esperienza, che è quella dell’esistenza stessa di ogni individuo. In particolare, l’esistere secondo la categoria dell’avere dipende dalla prospettiva del problema: come quest’ultima imposta il discorso nei termini di opposizione tra un soggetto solo epistemologicamente inteso e un oggetto separato indagabile e inventariabile, così l’avere imposta ogni tipo di relazione (col mondo e con gli altri, con se stessi, col proprio corpo) in termini di separazione e possesso, giacché alla base di questa modalità esistenziale sta sempre la distinzione tra un soggetto (appetente) e un oggetto (appetito). Al contrario, nel caso dell’essere, possesso e conquista lasciano spazio a un rapporto di confidenza e collaborazione mentre il principio di separazione viene contrastato con quello di inclusione reciproca in una unità fatta, al suo interno, di rapporti solidali. Ora, di questi poli il Nostro non prende, in linea con buona parte della filosofia moderna, in considerazione unicamente quello positivo ma propone di quello negativo, ossia dell’avere, una fenomenologia in grado di far cadere lo sguardo anche sull’aspetto più oscuro e opaco della nostra esistenza, quell’aspetto persistendo nel quale si è condotti allo scacco e al fallimento. Seguendo Franco Riva possiamo precisare meglio la questione: «il tema dominante delle analisi esistenziali di Marcel riguarda la struttura fondamentalmente ambigua dell’esistenza, sempre in tensione tra due estremi o possibilità: l’autentico e l’inautentico, l’essere e l’avere. L’analisi dell’esistenza pone in luce questa ambiguità fondamentale, nella quale si radica la possibilità dello smarrimento e della disfatta».5
Perciò, in quest’alternanza dialettica tra essere e avere un altro binomio, quello composto da fedeltà e tradimento, si fa avanti: la fedeltà è, infatti, la modalità con cui l’esistenza si rapporta all’essere facendosi aderente a un processo creatore che però non prende vita dal soggetto bensì lo coinvolge, lo investe e lo chiama a rinnovarsi continuamente in un’esperienza creatrice; la fedeltà è, ancora, il riconoscimento della struttura stessa — carnale o, più in generale, ambigua — della propria esistenza da parte di ogni individuo. Ora, parlando qui della struttura stessa dell’essere, il tradimento, altro corno della dicotomia, non può che essere considerato come male in sé.
Detto questo, che ne è del pensiero? Esso è forse stato del tutto accantonato in favore di una qualche esclusività dell’essere? Ovviamente non è così: la conoscenza è interna a quest’ultimo giacché il mistero dell’essere essendoci immanente non ci costringe a rinunciare alla conoscenza per aprirci ad esso. È chiaro, tuttavia, che la nozione stessa di pensiero va qui riformulata nel senso di un distacco radicale da ogni tipo di conoscenza oggettivante che presupponga la presenza fuori di sé di problemi che cercano in qualche modo una risoluzione, dal momento che è il pensiero stesso, ormai, a risolversi nel mistero ontologico che lo circonda. In questo modo, «la conoscenza fa […] esperienza di uno slittamento dal piano gnoseologico, dell’asserzione speculativa, a quello ontologico: nel rinnovato processo riflessivo, il soggetto si scopre interiore a un’affermazione che egli è, e non più soggetto epistemologico che proferisce un’affermazione a lui esteriore».6 Diviene così improvvisamente chiaro il senso della celebre espressione marceliana “riflessione alla seconda potenza”: la filosofia risulta seconda rispetto a una molteplicità di presupposti nei quali e a partire dai quali pensare e che tuttavia non si lasciano essi stessi pensare ma che devono essere partecipati nell’esperienza concreta della nostra esistenza; lo sforzo filosofico si delinea così come un tentativo di ri-conoscere la realtà in cui ci troviamo già da sempre implicati, immersi, e la riflessione risulta così, da questa ammissione di un’anteriorità di senso che da sempre la precede, semplicemente rinnovata ma certamente non condotta al fallimento, arricchita e non destituita di valore. Riflessione e vita sono, insomma, profondamente legate l’una all’altra: la seconda non è, infatti, spontaneità pura né mero complesso di funzioni fisiologiche e biologiche (per quanto queste ne siano il presupposto) bensì è anche quello che lo stesso Marcel ha definito il “combustibile mentale” che permette alla vita stessa di continuare; la riflessione sarebbe estranea o addirittura opposta alla vita, come vorrebbe una filosofia di stampo romantico, soltanto se di quest’ultima si avesse un concetto limitato al suo mero aspetto animale, e anzi in una tale prospettiva sarebbe del tutto fuori luogo il suo stesso ingresso nella vita; niente è più necessario, al contrario, del riflettere e sarebbe del tutto illusorio pretendere di porsi al di qua della riflessione, al livello della coscienza immediata della partecipazione esistenziale.
Ora, le implicanze esistenziali di quel tipo di riflessione si vincolano a ciò che in generale possiamo designare col termine sentire, o, meglio ancora, con ciò che è da Marcel incanalato sotto la tematica dell’incarnazione; il prossimo livello che va affrontato è quindi quello che ha a che fare con ciò che nelle opere marceliane è indicato con l’espressione corpo proprio, con ciò, che, lo vedremo, più di ogni altra cosa denota la nostra costitutiva ambiguità e opacità. Il corpo si annuncia, in effetti, fenomenologicamente, allo stesso momento come intimità e come estraneità, come rischiaramento e insieme come opacità, nella sua consapevolezza di essere oltre che soggettività anche sempre e insuperabilmente “cosa”; nell’esperienza della struttura del corpo si presenta, cioè, quel misto di soggettività e oggettività che rende il corpo stesso la “zona di frontiera”, la soglia tra l’io e il mondo, tra sé e l’altro da sé. Nonostante, così, la criticità dell’esistenza umana in virtù di questa ambiguità legata al dato corporeo, è proprio grazie a quest’ultimo che la filosofia trova quella strada che rende possibile il raggiungimento del perfetto equilibrio tra essere e avere. Insomma, «l’identità corporea viene espressa dall’esperienza per la quale io ho un corpo e, nel contempo, sono un corpo».7 Nel primo caso è al corpo come cosa o strumento che ci si riferisce, per cui esso è osservato come un oggetto circoscrivibile dotato di certe qualità, come, primariamente, una struttura invariabile che trova una precisa e stabile collocazione nello spazio; di esso si parla qui alla terza persona (terza rispetto a me che ne parlo ma anche rispetto al mondo, agli altri) e a proposito della sua utilizzabilità o disposizione, ossia della sua strumentalità: in quanto strumento esso non solo dipende da chi lo mette in funzione ma anche fa dipendere, rende dipendente chi lo utilizza. In questo senso, quindi, il corpo è considerabile — ed è di fatto considerato — come un quid con cui s’intrattiene un rapporto del tutto esteriore; ma in questo modo il corpo non è di fatto il proprio: perché ciò avvenga, infatti, è necessario sentirlo interiormente (percezione interna o cenestetica), pur se in maniera confusa. Questo secondo versante — quello che, per intenderci, Marcel riporta sotto l’ambito dell’essere — rappresenta, così, una riconsiderazione del corpo che trasferisce quest’ultimo al di là della mera cosalità o strumentalità attraverso una riconsiderazione dell’elemento vitale la quale va di pari passo con un atteggiamento filosofico consistente nel sottrarre il corpo alla pura spazialità e all’estensione per riportarlo al vissuto personale, alla soggettività, alla coscienza. Ciò significa, ripetiamolo, che «alla riflessione si presentano subito due modi d’esistere di ciò che io chiamo il mio corpo: l’esistenza o più esattamente l’esserci nello spazio, come di un qualunque corpo esteriore che tutti possono vedere e toccare; e l’esistenza nell’intimità di quella percezione del mio essere organico che i moderni psicologi chiamano cenestesia».8 Se sul piano della riflessione prima la formula “Je suis mon corps” genera dubbi circa le condizioni che rendono o no possibile tale affermazione, al livello della riflessione di secondo grado risulta chiaro che il proprio corpo non è che proprio in quanto sentito: si tratta, cioè, di una certezza basata sul proprio dato coscienziale, sul sentimento di cenestesi inteso come percezione interna o sguardo soggettivo sul corpo. La cenestesi è, per usare le parole dello stesso Marcel, il sentimento fondamentale corporeo e come l’a priori della sensibilità in generale, di ogni attività percettiva e affettiva. Ancora una volta, si badi bene, il tentativo di scindere la prospettiva cenestetica da quella oggettivistico-strumentale si dimostra privo di speranze giacché se da un lato non è possibile considerare il proprio corpo unicamente come qualcosa con cui s’intrattiene una relazione esteriore e dunque strumentale, d’altro canto esso non dev’essere inteso come un immediato coscienziale totalmente chiuso in se stesso.
Il complesso dato dell’incarnazione che abbiamo tentato fin qui di esporre il più chiaramente possibile è per Marcel quello centrale della metafisica, e dal momento che il nostro corpo è per noi qualcosa d’impensabile (se si tien conto del fatto che non può essere considerato come un oggetto di conoscenza a noi esterno su cui poter indagare) il punto di partenza della ricerca metafisica è nient’altro che, appunto, l’impensabile. A quest’ultimo, va da sé, il pensiero non può sperare di avvicinarsi per concetti logici o per argomentazioni; al contrario esso può, e deve, accostarlo muovendosi trasversalmente, cioè attraverso le esperienze concrete fondamentali dell’esistenza dell’uomo — che sono la fedeltà, la speranza e l’amore — ma anche passando per gli aspetti più oscuri e spaventosi della sua realtà, quelli cioè, appartenenti al mondo dell’avere e dell’indisponibilità ad esso connessa, i quali sono pur sempre tratti imprescindibili della nostra esistenza che possono essere superati e contrastati soltanto se precedentemente riconosciuti. È a questo proposito che Marcel introduce il discorso su quell’inquietudine tanto centrale nella nuova ontologia da fargli ammettere che la metafisica è l’atto stesso con cui quest’inquietudine si definisce e si traspone, almeno parzialmente, in una forma di autoespressione che anziché paralizzare la vita la conferma e la sostiene. Ma qual è il significato preciso di quest’inquietudine? Sebbene non vada affatto confusa con la curiosità è da una trasmutazione di quest’ultima ch’essa si genera: la curiosità può, infatti, trasformarsi in inquietudine se l’oggetto a cui si rivolge è interno al soggetto che prova tale sentimento; e tale inquietudine diventa metafisica quando riguarda un oggetto che una volta separato dal soggetto porterebbe quest’ultimo al suo annullamento totale. Si nota con facilità, allora, che l’unica domanda in grado di generare davvero questo tipo di sentimento è quella riguardante il soggetto stesso — “Che cosa sono io?”. Questa disperazione in cui si può incorrere a causa del mistero dell’incarnazione è il punto di partenza per una riflessione metafisica che risponda anche a quell’esperienza di negazione attiva dell’essere che trova la sua concretizzazione massima nell’estremo gesto del suicida. Quindi da un lato la stessa sofferenza va assaporata fino in fondo giacché anch’essa è luogo di comprensione di sé ma d’altro canto non si deve rinunciare alla speranza in un andamento alternativo, migliore, della propria vita; questa speranza non è, ovviamente, una certezza ma come una boccata d’aria che rende quanto meno sereni anche quando il dolore sembra essere più acuto, e anzi, è essa stessa talvolta a rendere quest’ultimo più intenso, al fine di farci comprendere che solo chi è capace di sopportare il massimo dolore è capace anche di gioire appieno qualora se ne presenti l’occasione. Il riconoscimento della possibilità di quell’alternativa così tremenda non rende per cui quest’ultima inevitabile: è possibile anche resistervi e opporvisi, e lo sforzo di Marcel consiste, infatti, nell’incitare l’uomo a non lasciarsi trasportare dal flusso negativo ma seducente del pessimismo radicale che lo induce ad anticipare il momento della sua fine, alla rinuncia a se stesso totalmente passiva.
Deterrente fondamentale in questo senso è offerto dall’incontro con l’altro, con, cioè, tutto ciò che trascende la nostra esistenza singola e che non si riduce a mera proiezione del nostro orgoglio e dei nostri desideri, ad allargamento della nostra egoità; c’è, infatti, una parte di conoscenza che non si riduce unicamente all’autoproduzione coscienziale del soggetto conoscente e che si rifà, ancora una volta, alle esperienze dell’amore, della speranza e della fedeltà. Quest’attenzione nei confronti dell’alterità si manifesta in Marcel in termini del tutto nuovi, ancora una volta: in contrasto non solo con la tradizione di derivazione cartesiana ma pure con la più recente filosofia husserliana, denunciata dal Nostro per solipsismo, Gabriel Marcel non ammette la possibilità di un pensiero sull’altro; dal momento che il pensiero è, infatti, pensiero di un soggetto pensante, fintanto che si parla di pensiero è sempre a quel soggetto, cartesianamente inteso, che si guarda. Se, insomma, si continua ostinatamente a focalizzarsi sull’io si continua allo stesso tempo a tentare di modellare il mondo, e gli altri, a partire da quest’io che li pensa il quale, pertanto, si autodesigna quale fulcro su cui poggiano le sorti dell’intero universo. L’unica strada per uscire da questa impasse si rivelò essere, per Marcel, quella di portare sul piano dell’impensabilità la relazione che lega quel soggetto, ora quindi non più epistemologicamente inteso, all’altro da esso per mezzo della tematizzazione del rapporto d’amore. Nonostante questa costitutiva impensabilità del rapporto d’amore sarebbe del tutto fuorviante tentare di render conto dell’amore prescindendo da ogni conoscenza possibile rifugiandosi in una dimensione misticheggiante che non spiegherebbe nulla e lascerebbe irrisolto questo nodo. L’amore essendo radicalmente incaratterizzabile non può per ciò stesso essere ridotto entro i limiti della soggettività psicologica, come se ne fosse uno stato tra gli altri. Occorre allora riconoscere, ancora una volta, che l’amore spinge verso qualcosa che, ora lo sappiamo bene, può essere definito misterioso; colui che ama non considera, infatti, l’altro come oggetto (piano del problematico) bensì semplicemente come amato e l’allontanamento dalla centralità dell’io a livello epistemologico si accompagna, così, a un allontanamento analogo sul piano morale. Mai come a proposito di questa situazione che è l’amore si verifica, insomma, un distacco così netto rispetto all’oggettivismo: ogni qual volta si provi infatti questo sentimento d’amore nei confronti di un’altra persona, tutti i giudizi costruiti sul modello di quelli del mondo delle cose sono fuori luogo. Quando di fronte a un io ci si atteggia così come quando si ha a che fare con un oggetto, si tenderà, infatti, a trattare quell’essere come un qualsiasi lui, mentre l’amore è proprio la sostituzione di questo che possiamo definire il livello dell’anonimato con quello del tu. Da quanto detto si nota facilmente, in sintesi, che «Marcel procede […] verso l’equiparazione tra il primato conoscitivo e il primato morale dell’io, così che una scelta egologica nel modo di pensare implica necessariamente una prospettiva etica dell’esclusione dell’alterità, e dunque egoistica, mai più raggiungibile in questa prospettiva se non come referente dell’io stesso».9
Detto questo bisogna però chiarire ora in che modo possono avvenire gli incontri autentici tra gli esseri, in che modo, cioè, si possono gettare le basi per l’instaurazione di un rapporto d’amore che sia completamente estraneo alla logica dell’opposizione tra soggetto e oggetto. La reale condizione di possibilità di tali incontri è il rendersi disponibili a ricevere o ammettere qualcuno in sé dal di fuori, dove però è chiaro che ciò non avviene per colmare un vuoto ma per permettere all’altro di partecipare a una certa realtà, la nostra: «bisogna che possa far posto in me in qualche modo all’altro; se sono interamente assorbito in me stesso […] mi sarà chiaramente impossibile captare, incorporare il messaggio dell’altro».10 L’altro esiste, per così dire, solo nella misura in cui v’è un io aperto a lui (che è però, lo abbiamo visto, un tu) realmente, ossia non nei termini dell’idea che di esso mi formo (dimensione del lui). Caratteristica essenziale della persona è così la disponibilità, attitudine ad aprirsi a ciò che ci sta di fronte e a plasmare la propria condotta in virtù di quell’apertura. Perché il rapporto che lega due esseri si trasmuti in un vero e proprio incontro è allora necessario che entrambi siano disponibili all’apertura verso l’altro che sta loro di fronte: da parte mia, ad esempio, dovrò sforzarmi di scoprire, al di sotto del mero lui anonimo, un soggetto personale, un tu, il quale a sua volta dovrà reciprocamente rispondere al mio appello e aprirsi così alla comunione intersoggettiva. E ancora, perché l’affermazione dell’altro sia possibile è necessario partire dal dato della comunicazione intesa qui non come sistema di domande e risposte — sistema, questo, proprio della conoscenza oggettivamente intesa — bensì come modalità di partecipazione intima e immediata, come disponibilità verso gli altri che apre verso la loro presenza che deve importarci più di quanto non interessiamo noi in prima persona a noi stessi. Quanto detto qui a proposito della disponibilità può essere riassunto nei termini per cui soltanto laddove gli esseri sono dotati di interiorità essi possono pervenire all’incontro autentico che è comunione e che è amore, e il carattere propriamente ontologico di quest’ultimo non si rivela, perciò, soltanto nel suo immediato riferirsi alla realtà dell’essere amato ma anche, soprattutto, nel crearsi, grazie alla sua mediazione, di quella comunione di amato e amante che rappresenta l’essere più autentico di entrambi. L’incontro autentico agisce, per così dire, al livello della più intima essenza degli individui che vi sono coinvolti: «incontrare qualcuno […] non è soltanto incrociarlo, “essere là” nello stesso momento in cui vi è lui; è essere, almeno un istante, con lui. “Essere là” non è che un dato “oggettivo”; essere con è l’atto libero che ci rende presenti l’uno all’altro. L’incontro è una co-presenza».11 Ora, essendo l’essenza dell’uomo fondamentalmente libertà, è chiaro che permane la possibilità di ritrarsi, di rifiutarsi di aprire se stessi alla disponibilità verso l’altro. Tuttavia dev’essere ben chiaro che, nonostante quella nichilista e latente possibilità, l’essere è, per Marcel, relazione, co-esse, noi.
2. Fenomenologia del suicidio
Sarà necessario, ora, riprendere e sviluppare ulteriormente quanto detto a proposito del mistero dell’incarnazione per compiere i primi passi sul tortuoso sentiero che ci porterà a osservare da vicino quell’alone di minaccia che sempre offusca l’uomo e che sempre può trasformarsi, per lui, nel rischio reale e concreto di perdersi. In questo senso il punto di partenza della nostra ricerca sembra essere il dubbioso interrogativo “Chi sono io? ”, che ci permette di focalizzare la nostra attenzione tanto sull’essere quanto, ovviamente, sull’io. Tale questione, che sta alla base di ogni ricerca metafisica, non può assolutamente trovare risposta nel mero elenco di predicati, qualità o caratteristiche che apparterrebbero come degli averi al soggetto su cui si sta indagando, non può trovare risposta, cioè, in un elenco più o meno dettagliato di proprietà da porre artificialmente le une accanto alle altre: questa operazione non ci permetterebbe di procedere in alcun modo verso l’intimità della realtà che ci siamo proposti di indagare. Abbiamo parlato più sopra del dato dell’incarnazione e abbiamo tentato di dare una sommaria definizione del concetto marceliano di corpo proprio; abbiamo visto pure in che modo l’attenzione del Marcel, allontanandosi da quello che possiamo definire generalmente “cartesianesimo”, si focalizza sul corpo non solo inteso come manifestazione della nostra presenza al mondo ma anche come esistente privilegiato in certo modo indubitabile attorno a cui ruota tutto il mondo degli esistenti.
Se Marcel non è stato certamente il primo a occuparsi del corpo — si pensi al De corpore hobbesiano a titolo d’esempio — sono tuttavia totalmente nuovi, nella sua opera, la metodologia con cui il nodo viene affrontato e il campo fenomenico a cui esso è ricondotto, ossia quel campo del vissuto che guarda alle relazioni che s’intrecciano tra l’uomo e il mondo; come ha precisato Matera, «nel filosofare pre-fenomenologico […] il corpo veniva pensato come un insieme di organi, fisiologicamente legati gli uni agli altri da un principio di coordinazione imposto estrinsecamente. L’immagine consueta che ci si faceva del corpo era quella di una pura esteriorità senza il principio di interiorità e lo stesso rapporto anima-corpo era un rapporto di interno-esterno […]».12 Il dato dell’incarnazione, base della nuova ontologia proposta dal Nostro, permette, invece, di fare un passo in avanti rispetto a quella tradizionale questione dei rapporti intercorrenti tra anima e corpo per come sono state più sopra definite e di pervenire all’alternativa nozione di mon corps; proprio quest’ultima è la chiave di volta dell’intero discorso marceliano giacché sottolinea il passaggio da un approccio fisicalistico — che guarda a ciò che i germanofoni indicherebbero col termine Körper, ossia al corpo-cosa, al corpo inteso come oggetto tra oggetti — a un approccio di tipo fenomenologico — che tratta del corpo che l’io è e vive, quel corpo (Leib, in tedesco) che gli permette di esprimersi e d’intrecciare relazioni col resto del mondo. Quell’espressione segnala inoltre il vero problema che va qui affrontato, e cioè il rapporto che lega il je e, appunto, il corps: tale rapporto, come abbiamo anticipato, è quanto mai ambiguo, essendo per il je impossibile tanto identificarsi col proprio corpo quanto separarsene radicalmente; infatti, è bene ripeterlo ancora, ci si trova implicati col proprio corpo in una relazione tale per cui non si può affermare esclusivamente né di essere quel corpo né che esso è nient’altro che una cosa esteriore sulla quale avanzare un certo diritto di proprietà. Il punto è, ormai lo sappiamo, che ci si trova qui sulla soglia tra il campo dell’essere e quello dell’avere, ed è questo il senso delle parole marceliane «di questo corpo io non posso dire né che sono io, né che non lo sono, né che esso è per me (oggetto)».13
Ma che cos’è, in definitiva, che s’intende fenomenologicamente per corpo proprio? Dovrebbe essere ormai chiaro che non ci si riferisce affatto a ciò che gli altri, meri spettatori, vedono dal di fuori bensì a quel corpo che io stesso sento come mio. Capelli, taglio degli occhi e colore dell’incarnato del mio viso sono semplici oggetti di percezione per chi mi sta di fronte e mi osserva ma il reperto carnale di per sé non è affatto il mio corpo: esso lo diventa nel momento in cui viene da me assunto, vissuto, partecipato, e non accostato e infine unito forzatamente alla mia soggettività come si trattasse di due cose separate che tutt’al più possono essere costrette alla prossimità nel tempo e nello spazio. La soggettività incarnata rifiuta, cioè, radicalmente, la possibilità di distinzione tra il corpo e una qualche coscienza separata: è inutile perseverare nelle affermazioni circa questa fantomatica separazione tra anima e corpo quasi si trattasse di due “cose”. Esiste un rapporto, un legame ben stretto tra le due componenti, che tali nemmeno potrebbero essere denominate, dell’io: pur essendo soggetto epistemologico esso resta pure anche sempre legato alla fatticità empirica per la mediazione della corporeità.
Ed ecco che si ripresenta, allora, la necessità di soffermarci sulle due categorie opposte ma in fondo inscindibili dell’essere e dell’avere: in particolare dovremo ora dimostrare che quest’ultimo non rimanda soltanto a un punto di vista estrinseco, fuori dell’io, bensì è in grado di aprire delle brecce, delle ferite; esso «penetra più al di dentro e si coniuga anche […] con una sensazione che si prova, con un sentir male che ferisce».14 Ora è forse più chiaro il senso in cui abbiamo parlato di inscindibilità di essere e avere; è come, infatti, se nell’essere corpo che io sono si aprissero incessantemente delle crepe che mi fanno sentire pure che io ho quel corpo. Questa vera e propria fenomenologia dell’avere prevede due fasi fondamentali; dapprima vengono analizzate le caratteristiche della categoria dell’avere e in secondo luogo ne viene presentata la dialettica. In primis occorre, allora, specificare meglio in che cosa consiste la categoria dell’avere: se si lasciano da parte i casi-limite in cui è utilizzata un’accezione del termine davvero degradata, del genere di quella utilizzata in espressioni come “Ho mal di testa”, sono, di fatto, due i casi significativi in cui è possibile che esso ci si presenti. L’avere-possesso, prima di tutto. Esso presuppone che vi sia una cosa, un quid, rivendicata come sua da parte di qualcuno, un qui; tale forma di avere presuppone, schematicamente: a) una rivendicazione di qualcosa da parte di qualcuno che escluda chiunque altro dal possesso dell’oggetto in questione (rivendicazione esclusiva); b) l’aspetto del mantenimento, della preservazione di quella cosa; c) un potere che renda il possessore capace di disporre del suo oggetto secondo la sua utilità o volontà. La situazione è, dunque la seguente: fino a un certo punto quell’oggetto è esistito autonomamente, indipendentemente dal fatto d’essere o meno posseduto da chicchessia e soprattutto si è conservato in una porzione di spazio fuori di noi (qui siamo, infatti, in un ordine di cose in cui la distinzione tra l’interno e l’esterno, tra il dentro e il fuori, resta ben netta); in un certo momento, poi, qualcuno se ne appropria e decide di aggiungerlo, per così dire, al proprio io che diviene così una sorta di contenitore in grado di fagocitare in sé ogni cosa esterna a lui e da lui stesso appetita. Tale rivendicazione, che non a caso Marcel definisce esclusiva, agisce anche sul rapporto che quell’io intrattiene con gli altri soggetti che gli stanno intorno: tutti loro sono, infatti, dal momento in cui si verifica quell’appropriazione, potenziali usurpatori del potere ch’egli ha esercitato sull’oggetto appetito e fatto proprio. Qui, lo si vede, è sparita, da un lato, ogni distinzione netta tra un dentro e un fuori per quel che riguarda la mia unione con l’oggetto posseduto e allo stesso tempo, dall’altro lato, è stato eretto un muro tra me e gli altri esseri di modo che ogni tipo di comunione è senz’altro impedita; nonostante ciò, tuttavia, questi altri vengono necessariamente riconosciuti, dal momento che quando considero me stesso come “avente” non faccio che identificarmi con chi è a me esterno per guardarmi dal di fuori. Veniamo ora al secondo punto, al tema, cioè, del mantenimento e della preservazione dell’oggetto posseduto. È propria di ogni avere la caratteristica di poter sempre essere perduto o distrutto, il fatto di essere sottoposto a una molteplicità di vicissitudini esterne che sfuggono al controllo del possessore e la conseguenza di ciò è il particolare atteggiamento di smodata protezione dell’uomo nei confronti dei suoi beni che finisce per renderlo schiavo di questi ultimi. La spiegazione di questo secondo aspetto dell’avere-possesso scivola spontaneamente verso l’ultimo, il quale riguarda, per l’appunto, la fusione della posizione di padrone dei propri averi e quella di loro schiavo. Qui siamo entrati nella seconda fase di questa fenomenologia dell’avere, la quale si occupa della dialettica a cui l’avere stesso da luogo: questa dialettica si poggia sull’ambiguità profonda che si scopre nelle trame di quella relazione di possesso per cui il rapporto, appunto, sussistente tra possessore e posseduto tende infine a rovesciarsi. Ciò che possediamo finisce per divorarci, per annichilirci e questa alienazione del soggetto possessore di fronte alle cose da lui possedute scatena la trasmutazione dell’avere in essere; il legame tra qui e quid non è, cioè, una congiunzione meramente esteriore bensì tende a trasferirsi interamente nel qui fino a modificarlo nel suo essere: «certo, io non sono ciò che ho, ma l’avere implica in maniera oscura un’assimilazione, un desiderio di far partecipare “qualche cosa” alla mia immediatezza».15 Il germe di questa instabilità dell’avere si ritrova in una delle caratteristiche di tale categoria, che abbiamo precedentemente menzionato: nella sfera dell’avere si realizza sempre una vera e propria tensione tra interno ed esterno che comporta il fatto che ogni possesso sia sempre profondamente instabile vista la sua costante oscillazione tra gli sforzi del possessore di tenersi stretto il posseduto permanentemente e la tendenza allo stesso modo continua di quell’oggetto di fuggire verso l’esterno in virtù della sua costitutiva alterità. Orbene, tutto ciò si realizza necessariamente tramite la mediazione del corpo proprio, dal momento che l’io che possiede non può essere in alcun modo ridotto a un soggetto smaterializzato: se la tragedia del possesso in generale consiste nello sforzo disperato di diventare un tutt’uno con quella cosa che comunque non potrà mai essere identica a chi la possiede, è chiaro che questa tragedia è effettivamente legata al corpo del qui perché esso diventa strumento di assimilazione, mezzo per appropriarsi in modo definitivo del quid appetito. Questi sentimenti che l’avere in generale suscita nel possessore, e l’instabilità dell’avere in generale, portano velocemente, comunque, al ribaltamento delle posizioni tra possessore e posseduto di modo che il primo finisce per essere posseduto dal secondo e viceversa; ora, questa inversione dei ruoli è, di fatto, l’esito di un fallimento degli enormi sforzi che il possessore ha compiuto per arrivare a possedere completamente l’oggetto da lui ambito, l’esito, cioè, di un’esistenza che privilegia l’orizzonte dell’avere anziché dell’essere.
Il punto fondamentale è ora comprendere che quanto detto qui a proposito del rapporto tra il qui e un generico quid avviene pure nel caso del rapporto che lega l’io al corpo: si presenta, in effetti, in entrambi i casi quella caratteristica pretesa inalienabile, quella rivendicazione esclusiva per cui il corpo è appunto rivendicato come il proprio; inoltre è necessario anche nel caso del proprio corpo rispondere delle sue esigenze materiali, occuparsi, cioè, della sua sussistenza; infine il corpo è effettivamente il proprio se si è nella posizione di poterlo controllare, di dirigerlo nei movimenti e anche, ovviamente, di disporne in risposta alle proprio mire. A ben vedere, non si tratta qui di un semplice e poco più che casuale parallelismo: «il legame che mi unisce al mio corpo è il modello, non figurato ma sentito, l’esperienza non concettualizzabile ma vissuta, a cui sono rapportati tutti i tipi di avere».16 E allora, in quanto prototipo d’ogni altro avere, il corpo proprio può sempre trasformarsi in un tiranno nei confronti dell’io, anche se è quest’ultimo ad avere in mano le redini della situazione giacché il fatto di lasciarsi sopraffare dal corpo oppure sforzarsi di ammansirlo è in fondo oggetto di scelta, di decisione dell’io stesso, o meglio della sua libertà. Ciò significa che il possibile dispotismo del proprio corpo dipende in buona misura dall’attaccamento possessivo che si può provare nei suoi confronti, attaccamento alla cui base sta ovviamente l’idea per cui il corpo appartiene all’io in senso pienamente oggettivo; allo stesso modo in cui altri tipi di possesso possono finire per divorare l’io che li possiede, anche il corpo, se considerato come un possesso a cui si è legati con particolare brama e ossessione, può finire per annichilire quell’io definitivamente.
Oltre all’avere-possesso, non dimentichiamocene, Marcel fa breve cenno anche alla modalità dell’avere-implicazione, la quale si modella sullo stampo del primo. L’implicazione verifica, allora, l’opposizione del dentro e del fuori, nel senso che qualora ci si interroghi sulle proprietà di un determinato corpo si ha la chiara sensazione che queste siano in qualche modo interne a quel corpo, ben radicate nel suo intimo; inoltre non si può pensare l’implicazione senza una certa potenza dal momento che non pensiamo alle caratteristiche di cui sopra senza pensarne anche la specifica efficienza o energia; infine siamo qui in un ambito in cui è necessario il ricorso al modello addizionale, come se quelle caratteristiche fossero sommate tra loro, accostate le une alle altre come in una collezione e perciò anche sempre distinte le une dalle altre.
Torniamo ora al nostro corpo, a ciò che possiamo indicare, in virtù delle sue proprietà, come avere assoluto. Abbiamo visto che è propria della libertà dell’uomo la possibilità di essere o avere il suo corpo: è forse il caso di spiegare tutto ciò in maniera più precisa. Riflettiamo per un momento sul fatto che nella vita di tutti i giorni si utilizza il termine avere per indicare la soddisfazione di bisogni intesi come “mancanze di qualcosa”. Ora, se è vero che per gli animali non umani il corpo proprio è semplicemente una somma di parti (organi, capacità etc.), è altrettanto vero che per l’uomo il corpo è, invece, una totalità indifferenziata, di modo che il bisogno di averlo si traduce, lo abbiamo già visto, nella generalizzata preoccupazione di perderlo, attivamente o passivamente, nella sua globalità: senza il proprio corpo, infatti, non si può dire di essere realmente se stessi, il corpo fa parte di noi stessi, noi siamo il nostro corpo — «l’uomo nel suo essere è l’essere del bisogno: è un essere che ha bisogno di avere ciò che egli è»,17 ha scritto Prini. Tuttavia dal momento che si ha bisogno di esso e che è possibile servirsene o sbarazzarsene alla stregua di uno strumento qualsiasi è anche sempre vero ch’esso è qualcosa di esterno. Questa frequente abitudine di considerare il proprio corpo essenzialmente come uno strumento, come mezzo tramite cui agire e inserirsi nel mondo comporta la necessità di soffermarsi sul reale significato del termine “strumento”, perché questo ci mostrerà la tensione dialettica tra essere e avere in tutta la sua portata metafisica. Gli strumenti sono mezzi artificiali che prolungano dei poteri già esistenti di chi fa uso dello strumento stesso; quei poteri, a loro volta, sono capacità del corpo organizzato del soggetto in questione, di modo che questo stesso corpo appare come la somma di tutti questi poteri attivamente intesi; ciò non significa che quel soggetto è come una sorta di complesso, di addizione di vari poteri bensì è come se questi ultimi fossero, diciamo, delle determinazioni di quella totalità che è il soggetto di cui stiamo qui parlando. È come, in sintesi, se il corpo fosse un congegno utile al raggiungimento di svariati scopi. Detto ciò, se restringiamo il campo e dichiariamo che quel corpo di cui si sta parlando è, precisamente, il mio corpo ci accorgeremo del fatto ch’esso rimane, effettivamente, mio anche se non me ne occupo e in generale se non lo considero come un oggetto o come uno strumento: esso rimane il mio corpo perché io sono il mio corpo. Anzi, a ben vedere, questa — l’ontologica — è l’unica relazione effettivamente sussistente tra sé e il proprio corpo, dal momento che se ci si ostina ad ammettere la relazione di tipo strumentale si finisce inesorabilmente in un regresso all’infinito: «uno strumento qualsiasi come abbiamo detto, aumenta il potere di un corpo, ed in questo caso il potere del mio stesso corpo, non si può considerare quest’ultimo uno strumento se non immaginando un secondo corpo, che potremmo chiamare mentale, o astrale, di cui il mio corpo fisico sarebbe appunto uno strumento. Ma finché questo corpo, o mentale o astrale, è posto anche lui come corpo, la questione si sposta oltre e così all’infinito».18 Ora, l’unico modo per evitare questo ostacolo è ammettere che il mio corpo può da me solo fittiziamente essere paragonato a uno strumento ma che esso non lo è affatto, di per sé, e ammettere inoltre che l’espressione “il mio corpo” ha lo stesso significato di “me stesso”. Si ponga attenzione, comunque, al fatto che questa equivalenza non intende affatto farci scivolare verso un materialismo grossolano e scorretto, che sarebbe il naturale esito della nostra riflessione se parlassimo ancora del nostro corpo nei termini di un corpo-oggetto; l’affermazione “Io sono il mio corpo” non si traduce quindi nella formula “Mi identifico con il mio corpo” la quale comporta un atto di annullamento dell’io consistente nell’affermare che quel corpo esiste da sé e basta. È bene specificare, cioè, che qui è di un corpo-soggetto che si parla: Marcel conferisce alla soggettività, al corpo-soggetto, il primato ontologico e questo fa sì che il corpo a cui qui si guarda è il corpo in quanto vissuto, in quanto esistente, e non un corpo-oggetto solo materialisticamente o fisiologicamente inteso.
Il vincolo intercorrente tra la fruizione dell’aspetto vitale del proprio corpo e la costante preoccupazione di esserne privati è esattamente ciò in cui risiede quella minaccia a cui abbiamo più sopra fatto riferimento, quel “pungolo nelle carni” di kierkegaardiana memoria il quale consiste, precisamente, nella possibilità di precipitare verso la decisione ultima di dire di no alla vita in tutti i modi a propria disposizione, fino a quello estremo, il suicidio. Questa minaccia corrisponde al pericolo di compromettere o ledere un’integrità non solo organica ma anche e soprattutto morale e spirituale, la quale non va però pensata come qualcosa di verbalmente formulabile da qualcuno che sia esterno all’essere in questione bensì come l’infiltrato dell’esercito nemico in quella che può essere paragonata, con Marcel, a una città assediata. Questo pericolo è, quindi, una vera e propria categoria esistenziale, o meglio il simbolo della stessa finitudine dell’essere umano: è come se in fondo ognuno di noi fosse sempre, in qualche modo, ammaliato dalla tentazione di anticipare quell’esito finale, soprattutto in particolari momenti della propria esistenza, momenti caratterizzati da forte delusione o, peggio ancora, da sentimenti più profondi radicati nell’intimo di noi stessi, come la disperazione e l’angoscia.
Veniamo ora al dunque. La riflessione sul suicidio ruota fondamentalmente intorno ai temi del corpo e della libertà: è come se esistesse un legame pattuito tra l’uomo e la vita (che è anche corpo) che l’uomo stesso ha però il potere, la libertà di sciogliere in qualsiasi momento; l’uomo ha questa capacità del tutto particolare di prendere posizione di fronte alla sua vita ed egli si distingue davvero dagli altri animali, a ben vedere, proprio per questa sua capacità di esporsi volontariamente alla morte, di correre incontro a essa. La radice della possibilità dell’interruzione della propria esistenza risiede, insomma, nel fatto che «l’uomo è, per natura, il possessore espropriabile del proprio essere»,19 e questo rischio è in più amplificato, secondo Marcel, dalla società contemporanea la quale, votata completamente alla tecnica e all’avere, ha portato al prevalere di categorie quali quella di funzionamento e di rendimento che favoriscono la valutazione oggettiva dell’uomo che finisce, per loro tramite, per essere denudato in quanto soggetto della sua intimità più personale e per essere estimato unicamente a partire dal rendimento che può avere nella società, a partire dalle funzioni che è in grado o meno di espletare. Anche qui, come in generale, del resto, nella sfera dell’avere, la funzione che si ha finisce per divorare chi la possiede fino a diventare la funzione che egli è. Le conseguenze a livello comportamentale di tutto ciò sono fondamentalmente due: alcuni uomini tendono a cercare di evadere dal male interiore che li attanaglia votandosi a un insano e forzato divertissement, a una frenetica ed esasperata ricerca del piacere; altri, non trovando soluzioni al loro malessere, finiscono per votarsi al pessimismo e al nichilismo più radicali, incapaci come sono di capire quale sia il senso della loro vita, quale sia il motivo per cui vale la pena di vivere, scivolando così a poco a poco sempre più nel baratro della passività che si traduce, talvolta, nella tragica anticipazione della propria morte. E si badi bene che la morte, in questo nostro mondo, è vista tendenzialmente come mera caduta nell’inutilizzabile di scarti umani, di rifiuti che hanno smesso di adempiere alle loro funzioni e che perciò vanno, in un modo o nell’altro, eliminati. Allo stesso tempo, se è vero che nella sfera dell’avere, lo ripetiamo ancora, la disperazione e il tradimento di sé aleggiano costantemente sopra di noi tentandoci ostinatamente, è altrettanto vero che per chi rimane imbrigliato nelle trame di questo mondo completamente oggettivato e oggettivante la scelta del suicidio diventa l’unico rimedio a una disperazione insopportabile. Questo rimedio è, quindi, una tentazione costante che solo la nostra libertà ha il potere di respingere o, al contrario, di accogliere; la libertà, allora, lo vediamo bene, non è che l’ennesimo concetto ambiguo e duale nel pensiero marceliano. Libertà come atto — l’ultimo — di liberazione da una disperazione divenuta insostenibile ma pure libertà di rifiutare quella disperazione e di trascendere il pessimismo tramite l’apertura, o la riapertura, alla partecipazione creatrice, ossia all’uso positivo di una libertà che, in questo modo, diviene adesione e quindi amore. Da un lato, pertanto, è la libertà stessa a scavare la fossa in cui si rischia di precipitare ma d’altro canto è sempre la stessa libertà a restituire alla nostra esistenza il suo peso ontologico facendoci prendere posizione contro la disperazione. Presa nel suo grado positivo la libertà ci introduce al tema della fedeltà, dal momento che la libertà di restituire alla propria vita il suo peso ontologico votandosi alla partecipazione creatrice significa, in fin dei conti, essere fedeli a se stessi. Ora, quest’ultima espressione non intende affatto indicare una qualche permanente e mai messa in discussione adesione a certi valori o principi: ciò a cui è importante rimanere fedeli è il nostro stesso essere, di modo che l’espressione “essere fedeli a se stessi” coincide fondamentalmente all’altra “rimanere presenti a se stessi”; essendoci alla base di questo intento uno sforzo va da sé che la propria presenza a se stessi non è per nulla un dato autoevidente; essa è, cioè, soggetta a eclissi che fanno sì che essa vada sempre di nuovo riscoperta: «tutto ci obbliga dunque a riconoscere che non è facile conoscere e praticare la fedeltà a se stessi; per essere fedeli a se stessi occorre anzitutto restar vivi, e questo appunto non è facile»,20 scrive Marcel in Homo viator.
Analizzata la possibilità del suicidio dalla prospettiva della libertà torniamo ora al corpo. Più sopra eravamo giunti ad alcune importanti conclusioni: a) avere significa poter-disporre-di; b) ogni avere necessita della mediazione del corpo, responsabile della possibilità della proiezione di sé verso l’esterno, dove poter agire ai fini dell’appropriazione di ciò che si anela; c) l’avere si definisce in funzione del proprio corpo. Ciò significa, ripetiamolo, che se da un lato “Io sono il mio corpo”, dall’altro “Io ho il mio corpo” giacché sfruttandolo posso sfruttare ciò che mi è esterno; ciononostante, si diceva, non è affatto possibile affermare di possedere totalmente il proprio corpo se non nel senso per cui tramite esso si può possedere tutto il resto: per questo motivo definiamo il corpo come il nostro avere assoluto. Queste conclusioni a cui eravamo pervenuti sembravano assicurarci dell’impossibilità di dichiarare definitivamente o assolutamente del proprio corpo sia che esso è (dimensione dell’essere) sia che esso può esser posseduto alla stregua di un qualsiasi oggetto o utensile (categoria dell’avere); tuttavia è ormai chiaro che sussiste, in fondo, la possibilità di trattare il proprio corpo come il proprio avere assoluto e di rendersi così completamente schiavi nei suoi confronti. In effetti, la fenomenologia dell’avere ha mostrato come la dualità tra possessore e posseduto caratterizzante ogni relazione strumentale, nel caso del corpo potesse paradossalmente rovesciarsi in un’identità, per cui l’uomo finisce per considerare se stesso come corpo, solamente come corpo, e a negare il proprio essere, pervenendo così a un nichilismo generalizzato. Sussiste cioè la possibilità di considerare il proprio corpo come un avere assoluto ma in modo sostanzialmente paradossale giacché disporre di esso in modo tanto radicale significa in fondo mettersi nella posizione di non poterne disporre mai più; allora «possedere del tutto il mio corpo è una possibilità che mi è data in modo paradossale […] È chiaro che si sta alludendo alla possibilità limite del suicidio, dove il corpo può venire considerato come qualcosa di proprio, ma qui nel senso crudo del possesso, e di cui si può farne quel che si vuole».21 È ritornata, così, per fondersi insieme alle riflessioni circa il corpo proprio il tema della libertà, la quale si traduce, talvolta, nella possibilità di utilizzare il proprio corpo fino anche a spingerlo verso la sua soppressione. Senza la libertà, lo abbiamo anticipato altrove, nessuna decisione in merito all’essere o l’avere il proprio corpo può essere presa.
Questa fenomenologia del suicidio ci mostra, così, come sia possibile, effettivamente rendersi fondamentalmente indisponibili nei confronti non solo del mondo e del prossimo ma della vita stessa; un ulteriore passo avanti nella nostra ricerca coincide, così, ancora una volta, con la presentazione di una dicotomia: disponibilità e indisponibilità entrano qui in causa accompagnandosi ai temi dell’avere, della speranza e della disperazione. Se da un lato, infatti, la sofferenza tende a rigettarci su noi stessi separandoci dagli altri diventando così un principio d’orgoglio, dall’altro essa può trasformarsi da esperienza crudelmente circoscritta a mezzo per comprendere se stessi, per superare se stessi e per rendere capaci di comunicare con altre vite che da lontane si fanno prossime al sofferente proprio in virtù della comune percezione di quel malessere. A proposito dell’indisponibilità — che è ciò che ora a noi maggiormente interessa essendo ciò che mette in moto tutta la fenomenologia del suicidio — Marcel specifica che la sua radice è esistenziale, ossia consiste in un morboso attaccamento a sé che si confonde facilmente con un sentimento di grandiosità che conduce a sentirsi, fondamentalmente, indispensabili: questo ripiegamento su di sé non è altro, in realtà, che una sorta di accecamento che, se da una parte accende, diciamo, i proiettori sul sé, dall’altro lato offusca, però, i rapporti veramente importanti (con gli altri, col mondo, con Dio) che contribuiscono alla nostra reale costituzione. Questo particolare attaccamento a sé è, poi, ricondotto dal Nostro a una forma d’inquietudine a cui abbiamo già fatto cenno, quell’inquietudine fondamentale e indeterminata che caratterizza l’esistenza stessa dell’uomo, di tutti gli uomini: qualora questa vaga inquietudine dovesse rivolgersi a qualcosa di particolare, foss’anche la vita stessa, vedremmo coincidere le radici del pessimismo con le radici dell’indisponibilità giacché l’essere indisponibile è concentrato su di sé e interpreta tutto ciò che gli sta fuori come minaccia o pericolo cadendo così inesorabilmente verso il pessimismo. Se la disponibilità nella sua accezione positiva è apertura, decentramento e permeabilità, capacità di lasciarsi coinvolgere nel coro di voci che chiamano dal di fuori, l’indisponibilità è, al contrario, rifiuto, atteggiamento nichilistico che considera la vita come mero oggetto posseduto e quindi, infine, come merce di scambio che non soddisfa mai pienamente colui che la detiene, il quale anela cose sempre nuove. Questa opposizione tra disponibilità e indisponibilità emerge con tutta la sua forza proprio nel caso limite dell’esperienza di morte e in particolare nelle due esperienze, simili ma profondamente diverse tra loro, che sono il martirio, o sacrificio, e il suicidio; la base di tale differenza è sita nella categoria di speranza, rivolta alla realizzazione di quella che si può definire in generale una “buona causa” e che conta, per chi vi si vota, molto più della sua stessa vita. Se, quindi, chi si sacrifica mette la sua vita a disposizione di una realtà superiore spingendo al suo limite massimo la disponibilità, il suicida, al contrario, non fa che rendersi più o meno deliberatamente indisponibile in maniera definitiva; così «il suicidio è essenzialmente un rifiuto, è una dimissione. Il sacrificio è essenzialmente un’adesione».22
Ora, si faccia attenzione, però, a non travisare la riflessione marceliana: mai, tra le righe degli scritti del pensatore francese troveremo una condanna del suicidio e del rinnegamento di sé, a discapito di quanto possa sembrare: se è vero che l’alternativa, per l’uomo, si gioca in certo modo tra la ragionevolezza e l’assurdo per eccellenza è pur vero che è dell’essenza stessa di quest’ultimo di non poter essere riconosciuto, facilmente almeno, come tale.
3. «Tu non morirai»
In questo paragrafo vorremmo ripartire dalla generale tematica dell’intersoggettività, a cui si è già brevemente fatto cenno, per affrontare un secondo aspetto della questione della morte: dopo aver trattato della morte di sé vogliamo ora concentrarci sulla morte dell’essere amato.
Il pensiero di Marcel, in netto distacco rispetto all’impianto husserliano, si struttura in generale sulla base della critica alla centralità del cogito e per conseguenza sulla base del rifiuto del solipsismo che infine aveva messo in difficoltà lo stesso Husserl; ora, questo rifiuto si traduce, ovviamente, in una necessaria apertura a ogni tipo di relazione con l’esterno, con il corpo, con il mondo, con gli altri, senza che queste stesse relazioni vengano, però, a trovarsi irretite nello schema logico-epistemologico della contrapposizione tra un soggetto e un oggetto: in questo senso, allora, non si pone per il Nostro un problema dell’altro perché il riconoscimento di questi non è secondo all’atto con cui il soggetto conosce con certezza se stesso, ma la comunione tra sé e l’altro da sé è costitutiva dell’esistenza stessa del soggetto; detto altrimenti, la relazione ad altri struttura la costituzione stessa dell’io e questo è vero tanto da poter affermare con Marcel che «non solo abbiamo il diritto di affermare che gli altri esistono, ma […] l’esistenza può essere attribuita soltanto agli altri, e […] io posso pensare me stesso come esistente solo in quanto mi concepisco come colui che non s’identifica con gli altri; dunque, come altro da essi».23 Insomma, per il Nostro la posizione ontologica fondamentale, come abbiamo già specificato nelle prime pagine, non è l’io in quanto esistente né il tu, ma il coesse che determina l’io e il tu contemporaneamente, ove questo coesse è, appunto, una compresenza strutturale, una determinazione simultanea che produce un influsso d’essere reciproco tra i due termini i quali non sono più propriamente separati ma uniti in questo scambio vitale reciproco. L’io egoisticamente inteso, lo abbiamo visto attentamente, quell’io imbrigliato nella sfera dell’avere tende a vedere negli altri degli esseri che minacciosamente ambiscono ad appropriarsi di ciò ch’egli possiede e a ledere i suoi diritti; in questo modo gli altri contribuiscono in certo modo pure a ispessire quello strato di egoismo che già isolava l’uomo da loro perché l’io così inteso si serve anche sempre di quegli altri individui per fortificare l’immagine di sé, li sfrutta come casse di risonanza del proprio ego che finisce per apparire così oltremodo artificiale, inautentico. Abbiamo già osservato a cosa conduce questo accecamento dell’io che si chiude in sé e non è il caso di ripeterlo: ciò che qui ora preme specificare è il fatto che l’unico modo per uscire da quell’ossessione egoistica consiste nel cessare di considerare l’altro oggettivamente vedendolo come un intruso per aprirsi invece a lui riconoscendone la realtà spirituale, per rendersi disponibili, cioè, all’incontro con lui (che diventerebbe perciò a questo punto tu). Specifica in tal senso Davy che «questo essere limitato che io sono è in qualche modo murato, e il solo modo di aprire delle brecce in queste mura che mi rinchiudono è di aspirare al tu. Non ho quindi altra soluzione che l’amore, l’amicizia».24 Ora, questo importante incontro non consiste affatto, si badi bene, nel semplice contatto fisico o nella mera prossimità spaziale bensì è possibile solo qualora i due esseri in esso coinvolti siano dotati di interiorità, di spiritualità e si riconoscano vicendevolmente questa caratteristica: sarà solo allora che l’iniziale lui cesserà di esser tale per l’io e diverrà un tu, sarà solo allora, cioè, per tramite di questo scambio vitale reciproco, che sarà possibile pervenire alla comunione intersoggettiva autentica, la partecipazione. Quest’apertura all’altro si realizza sottoforma di una vera e propria invocazione, di appello rivolto all’altro che risuona come un amorevole “Sii con me”; ciò, va precisato, non significa affatto dimenticarsi di sé in favore dell’altro né asservire l’altro ai propri bisogni bensì rendersi reciprocamente in certo modo penetrabili, rinnovare genuinamente la propria anima in modo da renderla, appunto, pronta a quell’appello. Condizione necessaria di quest’invocazione, si capisce, è quella disponibilità che abbiamo visto mancare all’uomo che, completamente chiuso dentro di sé, si rende per ciò stesso assolutamente indisponibile all’incontro con gli altri. Al contrario, l’essere disponibile è in grado di gettarsi interamente nella comunione con gli altri, è disposto a donarsi agli altri completamente e di testimoniare, in questo modo, la sua presenza a loro; ora, la caratteristica fondamentale di questa presenza è ancora una volta la sua intrinseca ambiguità, per cui essa può sempre essere accettata come rifiutata. Se è di disponibilità che qui si parla è chiaro, allora, che tutto ruota intorno alla decisione dell’io, tutto ha a che fare col suo essere: soltanto se preserva la sua intimità con se stesso egli si rende capace di entrare in contatto con l’altro, di rispondere al dono della sua chiamata per mezzo della dimostrazione della sua fedeltà; certo è che questa presenza a se stessi è soggetta a cicliche eclissi, non è continua, ma è anche vero che proprio nell’atto di rendersi disponibili agli altri questa fedeltà verso se stessi si realizza pienamente: più mi apro all’altro, più lascio cadere ciò che mi separa da lui, più cadono, di conseguenza, anche le mie difese interiori.
D’ora in avanti cesseranno di esserci un io e un tu isolati, che pure sono stati i responsabili della formazione di quella nuova realtà che è il noi tramite un impegno concreto ed effettivo che li legherà per l’eternità nonostante le tentazioni e le intermittenze a cui andrà necessariamente incontro questo loro rapporto; questo noi che può essere definito come una “indistinzione feconda” costituisce un vero e proprio slancio vitale per le anime che vi si fondono perché qui esse vanno incontro a un rafforzamento e a una rigenerazione che non cessa mai di essere rinnovata. Un’unione del genere sarà in grado di legare quei due esseri anche quando non potranno più fisicamente essere insieme, anche quando le circostanze non sembreranno più permetterlo, e quindi «è chiaro che non vi è da preoccuparsi se uno degli individui in contatto non è fisicamente presente. Noi siamo in effetti su un piano in cui i segni non hanno alcuna importanza».25 È allora qui che entra in gioco il ruolo ontologico della fedeltà, in grado di prolungare la presenza al di là della mera fisicità e dunque creatrice in quanto capace di rinnovare sempre e di nuovo l’impegno iniziale che ha dato origine al noi. La fedeltà non può così esser ridotta allo status d’abitudine risiedendo il suo valore in una sorta di luce che è il dono dell’attività creatrice la quale determina la fondamentale partecipazione, il necessario impegno all’interno di questa unione: essa è creatrice proprio perché permette a due esseri sempre in bilico tra disponibilità e indisponibilità, sempre inseriti nel rischio di tradire l’unione di cui ora fanno parte, di rinnovare costantemente l’impegno preso. La fedeltà non è allora in alcun modo equiparabile alla costanza: un essere costante, un amico per esempio, agisce più in base al senso del dovere, a un obbligo più o meno autoimpostosi di rimanerci vicino a ogni costo, agisce, cioè, in un certo modo per evitare di mostrarsi negligente nei confronti di un accordo prestabilito; la costanza allora, lo si vede bene, è come il simulacro della fedeltà realmente intesa. Ma allora cosa significa giurare fedeltà a qualcuno? Un’ulteriore difficoltà di fronte a tale domanda è determinata dal fatto che quando si giura fedeltà a chicchessia lo si fa sulla base di una disposizione interiore particolare; ora, come si può essere certi del fatto che quelle disposizioni non si modificheranno col passare del tempo, scontrandosi con le circostanze della vita? Ovviamente nessuno di noi è nella posizione di dichiararsi assolutamente certo del fatto che le proprie più intime disposizioni rimarranno uguali per sempre e qualunque cosa accada ma — ed è questo il tentativo di soluzione proposto da Marcel — non è questo l’oggetto del giuramento; ciò con cui qui si ha a che fare è, infatti, la volontà di chi redige il giuramento, e non la possibilità di formularlo o meno. Quando si prende un impegno si pone allo stesso tempo come principio il fatto ch’esso non venga messo in discussione: si tratta di una volontà attiva la quale farà in modo di condizionare la nostra condotta futura in virtù del patto stabilito, la quale, cioè, sarà in grado di stabilire un modus vivendi orientato da quell’atto con cui si è preso l’impegno. In più siamo qui nella sfera dell’essere, dove i sentimenti e gli impegni non si acquisiscono o perdono come si trattasse di oggetti ma fanno parte della nostra più profonda intimità, del nostro essere stesso.
Quanto detto finora ci fornisce puntualmente l’anello di congiunzione tra ciò che abbiamo concluso precedentemente a proposito della disperazione e del suicidio e le tematiche fondamentali che dovremo invece affrontare procedendo nella ricerca: infatti è in seno alla fedeltà, alla speranza, alla disponibilità che l’uomo si scopre in grado di fuggire alla disperazione, alla solitudine e alla perdita di sé. In particolare, la formulazione dell’autentica speranza, della speranza impegnata, ha sempre a che vedere con situazioni particolarmente difficili che hanno, in genere, le fattezze di una prova che va superata in vista della propria salvezza. In casi del genere si ha sempre a che fare con alienazioni momentanee più o meno lunghe di una certa luce, di una certa pienezza di vita, che si aspira a riottenere: ora, a ben vedere, la vita in sé è profondamente analoga a questi casi che generalmente possiamo definire di schiavitù giacché, almeno sotto certi aspetti, essa appare come prigionia, e questo la rende soggetta alla speranza, ove, precisiamolo ancora meglio, questo termine “speranza” non ha nulla a che fare con oggetti particolari bensì costituisce un più generale appello all’essere ed è rivolta a una qualche salvezza di là da venire. Questo significa pure, allora, che la speranza in questa sua accezione più vera rappresenta nient’altro che l’atto attraverso cui la tentazione di disperare e di rimanere passivi all’interno di quella cattività che caratterizza ogni stato del genere viene sconfitta; la speranza, sebbene si accompagni sempre a una grande capacità di “portare pazienza” non può, quindi, mai essere considerata un “lasciar fare” o un “lasciar essere” ma allo stesso tempo si distingue dalla ribellione o dalla rivolta le quali sono non-accettazioni di segno negativo, che comportano, cioè, un irrigidimento, una contrazione.
Qualche parola va detta, però, anche circa il soggetto che spera: non c’è all’interno delle esperienze più pure e più genuine di speranza niente che abbia a che fare con l’aggressivo autocompiacimento proprio, ad esempio, dell’ottimista; quest’ultimo ha, infatti, la ferma convinzione, o almeno la sensazione, che “le cose andranno per il meglio”, “che tutto si risolverà”, come se fosse uno spettatore dotato di una vista tanto acuta da poter vedere l’esito delle vicissitudini che lo interessano più o meno da vicino. Spettatore abbiamo detto: questo termine è veramente adeguato giacché l’ottimista non cerca mai appiglio nell’intimo di sé e della propria esperienza ma considera quest’ultima da una distanza sufficiente a far sì che si venga a stabilire una qualche armonia cosmica che gli permetta di azzardare le sue previsioni. Ora, il punto è che, ancora una volta, l’ottimista rimane concentrato orgogliosamente su di sé, sulle proprie speciali capacità di previsione ma non s’immerge affatto nella realtà delle cose, non si impegna, non partecipa alla situazione. Colui che autenticamente spera, al contrario, non è esterno al processo che si deve svolgere per raggiungere la salvezza finale ma ne è coinvolto e vi partecipa completamente; egli è, insomma, inserito in una dimensione misteriosa e sopra-razionale: «colui che spera […] appare a se stesso come coinvolto in un determinato processo; ed è soltanto da questo punto di vista che è possibile rendersi conto di ciò che vi è di specifico e, aggiungerò, di soprarazionale, forse anche di soprarelazionale, nella speranza, che […] si presenta come mistero e non come problema».26
Detto ciò, la formula autentica del puro “Io spero” è, più precisamente, quella che suona come un “Io spero in te”, visto che la vera forza della speranza può essere emanata solo simultaneamente a quella dell’amore e visto che essa non va intesa come azione interna di difesa o salvaguardia della propria integrità minacciata dall’ossessione della preservazione di sé: la speranza non ha per oggetto ciò che è dentro di noi ma ciò che è, invece, indipendente da noi, dalle nostre azioni o dalle nostre volontà. Il Nostro riporta l’esempio di un padre che non riceve da tempo notizie del figlio impegnato in una missione in un paese lontano; egli ha da un lato la possibilità di disperare, di cessare di aspettare anticipando, per così dire, l’esito della sua attesa nel senso più negativo, dall’altro può invece lasciarsi invischiare nel malinconico susseguirsi dei giorni vivendo la sua prova giorno per giorno e continuando, semplicemente, a sperare. Come abbiamo già cercato di chiarire, questa speranza non va confusa con un certo tipo d’ottimismo consistente nel desiderio del tutto egoistico di risparmiarsi, finché è possibile farlo, un’inquietudine giudicata inutile; essa è davvero come calamitata dall’amore. Ma ecco un nuovo ostacolo: alcuni potranno interpretare la speranza come la rappresentazione tanto nitida nella propria mente di quell’avvenimento di cui si desidera ardentemente la realizzazione da credere che questa realizzazione si sia già effettivamente verificata; ciò significherebbe ammettere che la speranza implichi l’illusione che ci conduce a interpretare i nostri desideri come realtà di cui il pensiero critico svelerebbe immediatamente e senza sforzo alcuno il fallace meccanismo. Bene, il punto è che non si deve scordare di rimarcare sempre la differenza tra sperare e sperare che: più la speranza si confonde con l’atteggiamento consistente nel fissarsi su una certa immagine più l’obiezione sopra riportata sarà inconfutabile, mentre più ci si proibisce di immaginare ciò che si spera, più è possibile confutare quella stessa obiezione. Tuttavia resta il fatto che nella vita di tutti i giorni questo è estremamente difficoltoso: ogni qual volta ci si trova in una situazione critica da cui si spera di uscire, si tratti di una malattia o di un esilio o di altro ancora, è sempre nella propria (per usare un termine generico) liberazione che si spera infine, ed è del tutto naturale che si sia tentati di immaginare il momento in cui essa avverrà, anche se questo non si traduce nella formazione nella propria mente di un’immagine precisa del modo in cui essa avverrà. Soltanto così, del resto, può emergere il dato ontologico della speranza la quale, trascendendo ogni condizionamento e ogni rappresentazione, supera ogni delusione possibile e abbraccia direttamente l’essere nella sua totalità. Poco sopra abbiamo anticipato che la formulazione autentica della speranza include nell’atto di sperare sempre un riferimento all’altro, ma forse solo ora è davvero chiaro il motivo di questo: in effetti, quando un individuo è completamente solo nell’affrontare una determinata situazione critica dalla quale spera di liberarsi, questo suo sperare rischia di assumere le fattezze di un mero istinto di conservazione, di un mero voler preservare un’integrità puramente organica; accade diversamente, invece, quando quell’attaccamento è rivolto verso il proprio essere, che esiste proprio grazie all’amore che si rivolge e si ispira a un altro essere. Insomma, non è difficile notare che quando un uomo è da solo in causa non è poi così importante per lui sapere con esattezza cosa ne sarà di lui, mentre nel caso in cui colui che egli ama dipende dalle sue sorti quell’uomo sarà, per ciò, estremamente più interessato a conoscere il proprio destino. È così nel tu che l’io spera, nel senso che quando si spera non lo si fa per sé solamente ma lo si fa rifrangendo questa speranza e irradiandola a tutto ciò che ci sta intorno; e con questo tu, si faccia attenzione, non ci si riferisce solamente a un individuo a noi esterno; chi spera fa, cioè, appello a una certa creatività intrinseca al mondo, alle reali risorse creative di esso, e confida nel fatto che la realtà non sia affatto qualcosa di determinato una volta per tutte ma, al contrario, qualcosa in eterno divenire, in eterna evoluzione. Per questo Marcel sottolinea il fatto che la speranza determina un rapporto del tutto particolare tra la coscienza e il tempo; la speranza apre delle fessure nel tempo, dilata il tempo il quale permette così il passaggio di qualcosa attraverso di esso. Solo in virtù di quest’influenza che ha sul tempo la speranza può così mostrare il suo carattere profetico che non è la semplice visione di ciò che sarà ma che consiste nel formulare espressioni circa il futuro come se lo si potesse già vedere. Chi spera non afferma presuntuosamente, come l’ottimista, che una certa cosa deve succedere, ma che essa succederà, perché è al di fuori dell’ambito del fare e dello sforzo che ci si trova qui, al di fuori dell’azione di un soggetto orgoglioso delle proprie capacità; la conferma di ciò è che la speranza non ha a che fare con il desiderio egoistico ma abbraccia l’intera comunità degli esseri coinvolti. Ora, si faccia attenzione che qui non si vuol affatto far intervenire un ordine impersonale che si dimentica dell’io in favore di un noi i cui membri sono stati desoggettivizzati: questi membri, legati dall’amore, lo abbiamo visto, sono, in effetti, presenti più che mai in questa comunità spirituale e l’io, in virtù di questo amore reciproco, vede profondamente trasformato lo stesso legame che intrattiene con se stesso; questo dipende proprio dal fatto che essendo così strettamente legato agli esseri che sono con me io mi sento responsabile di loro, mi sento responsabile di ciò che accade loro nel bene e nel male, e, viceversa, amare qualcuno significa attendere da lui un qualche dono indefinibile e imprevedibile, e così il cerchio si chiude, ancora una volta, con la speranza, con l’attesa. Detto ciò risulta forse più chiaro in che senso Marcel afferma che è sempre per noi che io spero, per una comunità di cui, sperando, proclamo l’indistruttibilità: «Spero in te per noi è quindi davvero l’espressione più adeguata e la più elaborata dell’atto che il verbo sperare traduce in modo ancora confuso e mascherato».27
Ma chi è, precisamente, questo tu in cui occorre sperare per salvarsi dall’angoscia? Esso è ogni essere che si ama, ma soprattutto il Tu assoluto, Dio, garante di ogni particolare unione (quella che mi lega a me stesso come quella che mi lega agli altri). In effetti, le cose prettamente umane non sono assolutamente in grado, a detta del Nostro, di conferire consistenza, garanzia, stabilità se non riferendosi a un ordine sovrumano; quest’ultimo punto, cioè il fatto che si possa parlare di speranza esclusivamente quando si verifica quest’amore incarnato in una realtà che fa essere quell’amore ciò che esso è, esclude, contro ogni obiezione del genere, che la speranza possa esser considerata solo come una sorta di palliativo, come uno stimolante soggettivo ad accettare una situazione che in fin dei conti non può essere mutata; questo riferimento a una realtà sovrumana, insomma, non fa che conferire il carattere creativo e vitale alla speranza. Ora, è chiaro che è ancora una volta compito della libertà dell’uomo accettare questo dono della speranza oppure rifiutarlo; e accettare non significa soltanto far posto in un sé-contenitore in cui posizionare ogni cosa al meglio ma vuol dire esercitare il dono che si è ricevuto; proprio per questo Marcel conferma lo status, di ascendenza chiaramente cattolica, della speranza come virtù, essendo quest’ultima la messa in moto di una certa forza interiore che spinge ad agire in una determinata direzione, anche se dal punto di vista razionale non sembrano sussistere buone motivazioni per impegnarsi in questo senso. Ed ecco che allora urge qui esporre gli elementi per attuare una nuova distinzione, la quale si ricollega però ad altre tematiche e ad altre dicotomie che già abbiamo incontrato nel corso di questo lavoro; precisamente occorre qui interrogarsi su quale tipo di rapporto leghi la speranza a quelle che comunemente vengono indicate con l’espressione “ragioni di sperare”. Insomma, si può sperare quando sembrano insufficienti, fallaci, o addirittura inesistenti le ragioni per farlo? La questione così posta, lo vediamo bene, si presenta con le tipiche fattezze di quello che all’inizio del nostro lavoro abbiamo denominato in senso speciale problema, si presenta cioè come tipico interrogativo di chi si limiti a considerare la speranza come un fenomeno esterno a lui e si chieda, perciò, quali siano, in definitiva, le condizioni affinché questo fenomeno possa manifestarsi. Se siamo riusciti in qualche modo ad entrare nell’ottica marceliana osserveremo senza fatica che il fatto stesso di parlare in questi termini di tali ragioni come si trattasse di oggetti indipendenti dal soggetto nell’esistenza del quale esse assumono un reale significato ai fini della sua condotta, è errato; la speranza non può in alcun modo esser paragonata a un modo di ragionare e interrogarsi sulle buone ragioni dello sperare non significa, di fatto, che giudicare come buona o cattiva una data maniera di condurre un ragionamento: se così fosse è chiaro che sperare senza avere le ragioni (logiche) per farlo sarebbe un errore ma è pur vero che tutto ciò si traduce in una vera e propria incomprensione di ciò che finora ci siamo sforzati di definire col termine speranza. Puntuale è, per comprendere meglio ciò che qui si sta tentando di spiegare, è l’esempio, addotto da Marcel stesso, di una madre che spera di rivedere il figlio nonostante ne sia stata formalmente accertata la morte; ecco, sembra proprio che qui un osservatore qualsiasi sarebbe legittimato a dichiarare l’inesistenza di buone ragioni per quella madre di continuare a sperare. Ora, se la speranza della madre si verbalizzasse sottoforma di un giudizio oggettivo del tipo “È possibile che mio figlio ritorni” è ovvio che chiunque potrebbe e dovrebbe rispondere che oggettivamente parlando non è possibile che ciò avvenga; ma ciò che a noi interessa non sono né la formulazione verbale né la coerenza logica di tale espressione bensì l’atto d’amore che sta alla base, amore che trascende e rifiuta il fatto oggettivo.
Come può essere ora coniugato tutto questo lungo e tortuoso discorso sulla speranza con la questione della morte degli esseri che amiamo?
Abbiamo specificato in precedenza come a proposito degli individui e della loro esistenza non si possa parlare definitivamente in termini di “cose”. Nella misura, infatti, in cui il proprio corpo può andare incontro a modificazioni esso può e deve essere considerato una cosa; ciononostante, proprio in quanto è soggetto a tali modificazioni il corpo appare come il centro di un reticolo di relazioni, come presenza quindi, e in questo differisce radicalmente da ogni altra cosa: il corpo, lo abbiamo visto, non può essere considerato come una macchina, come uno strumento che fino a un certo punto può essere posseduto e utilizzato e poi, all’improvviso, si deteriora, cessa di funzionare e va quindi abbandonato, smettendo in questo modo, appunto, di esistere. La preoccupazione che ci accompagna fin dalle prime pagine di questa nostra ricerca circa il rapporto che lega esistenza ed essere si fa avanti qui con tutta la sua forza e problematicità, data, soprattutto, l’ambiguità del termine stesso di esistenza: è, insomma, possibile rendere equivalenti le due espressioni “Non esistere più”, o meglio “Esistere portando in sé la costante minaccia di non esistere più” e “Non essere più”? Un esempio, ancora una volta, può intervenire in nostro aiuto: Marcel immagina un giardino che è stato distrutto per far spazio a un palazzo; bene, a proposito di quel giardino non si può propriamente e in modo radicale dire che non sia più giacché, per il fatto stesso che è possibile affermare ciò, in un certo senso esso esiste ancora. È chiaro che con questo non si vuol affatto dire che esista ancora quel giardino ma che permanga come una sua immagine nella memoria di chi in quel giardino ha giocato, è cresciuto, si è innamorato; ma si faccia attenzione a non fraintendere: non è a un soggetto inteso come baule, come contenitore di immagini-simulacri, che si fa qui riferimento per poter ammettere il perpetuarsi nell’esistenza di quel giardino materialmente o fisicamente distrutto. Abbiamo precedentemente cercato di chiarire a qual punto siamo tentati di trattare il nostro corpo alla stregua di ogni altro oggetto qualora rimaniamo ostinatamente vincolati alla prospettiva del possesso; ora, il soggetto che opta per questo tipo di relazione con l’altro da sé finisce, però, inesorabilmente, per rinunciare alla sua propria esistenza giacché non pensa veramente l’oggetto in quanto tale se non a patto di eliminare dal novero delle possibilità ogni implicazione relazionale più profonda del semplice possesso: l’altro è oggetto per il soggetto, cioè, solo se questi non conta nulla per esso. Più, cioè, si sottolinea questo carattere oggettivo delle cose, più si recide ogni legame esistenziale tra esse e sé, più si afferma l’indipendenza di quel mondo oggettivo di cui si diventa, perciò, meri spettatori. Il punto è che quanto detto a proposito degli oggetti o degli strumenti che troviamo nel mondo non vale, e non può valere, per le persone con cui entriamo in contatto: nel caso, lo abbiamo visto, dell’incontro o invocazione tra due esseri è necessaria la presenza di due interiorità disponibili ad aprirsi al dono dell’altro. E, come abbiamo già detto più sopra, il termine medio in tutto questo è sostanzialmente la libertà, responsabile della possibilità di votarsi a una fedeltà che abbiamo chiamato creatrice che — questo è ciò su cui vogliamo indagare adesso — si manifesta in tutta la sua autenticità soprattutto nella formulazione di un rifiuto esplicito e di una negazione convinta della morte, in particolar modo della morte di coloro che si amano. Molti insisteranno nel descrivere ciò come un’ingenua e forse anche codarda espressione frutto di un’affettività quasi infantile rivolta a una realtà di cui non si ha il coraggio di affrontare la perdita; ma il nocciolo della questione è proprio il fatto che «non è possibile trattare alla stregua di un fatto la scomparsa assoluta d’una coscienza»28 non essendo quest’ultima assolutamente assimilabile a un oggetto; e anche considerandola come una manifestazione esterna di qualcosa di inconoscibile, potrebbe al limite subire alcune temporanee eclissi ma mai andare incontro a una scomparsa definitiva, assoluta; ecco allora che l’errore sta nell’interpretare quelle eclissi, quei silenzi come oltrepassamento — se non addirittura come caduta — nel mondo della non-esistenza, o, peggio ancora, in quello del non-essere. L’essere defunto che si è conosciuto e amato resta allora comunque un essere e non si riduce alla semplice idea che di esso permane in chi gli sopravvive; del resto, a ben vedere, quell’essere ormai dichiarato appartenente unicamente al passato, un tempo era qualcosa che sarebbe appartenuto solo al futuro, ossia era qualcosa che doveva ancora cominciare a essere; o meglio, il suo essere risiedeva a quel tempo nella speranza dei suoi genitori, nella spinta profetica del loro amore. Ora, non è forse possibile riprodurre questo genere di sentimenti anche nei confronti dell’essere amato defunto? Del resto quella cosa che chiamiamo corpo è destinata a scomparire (esso non sarà più visibile come non lo era ancora prima di uscire dall’utero materno) ed è quindi necessario che tutti noi cerchiamo di superare quest’ossessione per la fisicità e ci addentriamo invece nel mondo della conservazione di una memoria, della veglia su una presenza. Parlando di memoria si rischia, però, di fare confusione: limitarsi a rispettare una memoria significa, in effetti, essere ancora tanto legati al mondo delle cose da considerare come memoria tutto ciò che resta dell’essere amato defunto; ma immagini, materiali o ideali che siano, devono tutt’al più essere considerate come oggetti conservati in funzione del loro potere evocativo. Il rischio è quello di fare confusione tra l’immagine o il simulacro intesi come presenza in sé e l’immagine o il simulacro intesi come modalità attraverso cui la nostra adesione a quella presenza si rende cosciente: il simulacro dev’essere ciò attraverso cui quella presenza prende forma materiale per noi ma non è, mai e poi mai, la presenza stessa. Ciò che noi cerchiamo di cogliere è infatti qualcosa di completamente opposto rispetto a un simulacro: è quel qualcosa che Marcel definisce indefettibile, ciò che non verrà mai meno se l’amore che mi lega all’altro è autentico, se si manifesta, cioè, come fedeltà creatrice, e non si trasforma, invece — e questo è, del resto, il rischio dell’amore in generale — in idolatria. Quella qualifica della fedeltà come creatrice vuole inoltre sottolineare che l’indefettibile non è affatto un’essenza immutabile bensì un qualcosa che sfugge sempre e che va, pertanto, sempre di nuovo raggiunto con un immane sforzo di superamento delle tenebre, dell’angoscia, dello scoramento, che ci minacciano costantemente.
La morte non è, allora, per nulla una realtà ultima, un fatto oggettivo di cui si tratta unicamente di attestare la realizzazione effettiva ma un mistero profondamente congiunto all’amore autentico il quale porta sempre in sé un germe d’immortalità.
Ciononostante le reazioni dinanzi alla morte sono molteplici. In particolare Marcel individua tre significativi atteggiamenti: il primo consiste nel partire dal postulato materialista che riconduce l’essere unicamente al dato dell’incarnazione e che considera, per conseguenza, la morte come rottura definitiva di ogni legame personale possibile tra chi sopravvive e chi muore; in questo caso i soggetti con cui condividiamo parte della nostra esistenza son considerati solo spazialmente come corpi da cui a un certo punto la linfa vitale si è come dileguata, involucri vuoti con cui è interdetta ogni possibilità di comunione, corpi-oggetto che ci sono stati strappati via e che perciò non ci appartengono più. Riconosciamo, insomma, che qui ci troviamo in presenza di quel presupposto materialista che non permette di superare il livello del lui, dell’avere, del possesso, che ci priva dell’aspetto dell’autentica relazione con l’altro che, lo abbiamo visto, dovrebbe essere, invece, un tu che si unisce a me per costituire un originario coesse; e proprio rimanendo nel campo del possesso la morte assume le fattezze di un evento ultimo e definitivo, perché solo così si può effettivamente considerare l’altro come un possesso che a un certo punto si perde. Poi è chiaro che, in quanto in bilico tra il mondo dell’essere e il mondo dell’avere, l’individuo è sempre carne e al contempo spirito, e in quanto corpo è chiaro ch’egli può perire alla stregua di un qualsiasi oggetto; ma ciò di cui si dichiara con Marcel l’immortalità è qualcos’altro da ciò: l’indistruttibilità dell’essere amato è l’indistruttibilità del legame che ad esso mi stringe, della comunione che vive tra di noi in virtù di quella spiritualità che ci siamo reciprocamente riconosciuti e che ha reso possibile il nostro incontro prima e la nascita del nostro amore poi. Il secondo atteggiamento di fronte alla morte è una via di mezzo: senza ammettere la reale sopravvivenza dell’essere amato ci si occupa comunque con cura di mantenere vivo il suo ricordo; il ricordo dell’essere amato viene mantenuto ma ciò non comprende una reale ammissione della sua sopravvivenza. Alla base di questa reazione troviamo una forma di fedeltà, certo, la quale però non è autenticamente creatrice e pertanto ottiene il solo effetto di decretare la vittoria della morte sulla vita e soprattutto le fondamenta di tale reazione sono costituite dall’errore, già precedentemente individuato, consistente nel confondere l’essere amato con i ricordi — vere e proprie reliquie se non addirittura idoli — che di lui si hanno. Qui, inoltre, il centro è occupato dal soggetto che prova dolore, un soggetto tutto concentrato su di sé e su ciò che possiede, o meglio possedeva, che non si rende conto del fatto che l’unica possibilità per l’essere amato defunto di rendersi ancora presente consiste proprio nel liberarsi di quegli idoli che l’hanno sostituito immobilizzandolo. Il nodo della questione sta allora nell’ammettere che il mondo dell’oggettivazione va abbandonato una volta per tutte giacché solo così l’esistenza del defunto cesserà di essere guardata come quella di una cosa che smette a un tratto di funzionare; questo permetterà, infine, di chiudersi in un particolare raccoglimento che è in fondo un’apertura e che consente di entrare in reale partecipazione con quell’essere, e questo è il terzo tipo di atteggiamento dinanzi alla morte, consistente, cioè, nell’andare oltre la semplice dichiarazione soggettiva del fatto che l’essere amato sopravvive alla sua morte fisica, ammettendo la sua reale e permanente presenza in virtù di un peculiare atto di trascendenza. Questo particolare atteggiamento è tutto incentrato sul noi: l’indistruttibilità, l’immortalità riguardano, così, lo speciale rapporto che lega l’essere che defunge all’essere che gli sopravvive, riguarda la loro comunione che rimane attiva anche quando subentrano impedimenti materiali. Bene, è ovvio che il fatto che questo legame continui a sussistere dipende in primo luogo dall’atto di fedeltà compiuto da chi sopravvive: sarà solo grazie a una fedeltà che abbiamo definito creatrice che la comunione potrà permanere oltre i limiti fisico-corporei imposti dalla morte. Come abbiamo visto, un legame di tipo possessivo non può che condurre a una manifestazione di fedeltà tutt’altro che autentica la quale conduce a sua volta a un morboso attaccamento a immagini e oggetti i quali prendono il sopravvento e sostituiscono del tutto l’essere dell’individuo defunto; altrimenti accade se i due esseri sono29 stati legati da un amore che Marcel definisce oblativo e grazie al quale è avvenuta la più autentica fusione tra due soggetti che cessano di essere individui separati e s’incontrano nel noi; per mezzo di questo tipo d’amore, infatti, «la reciprocità dell’amicizia è stata abbastanza profonda da comportare un doppio eterocentrismo, ciascuno divenendo centro per l’altro, o, meglio ancora, ciascuno trovando il suo centro nel noi»30 e in questo modo soltanto la morte non solo non spezzerà il legame tra i due esseri ma, anzi, non farà che rinsaldarlo e conferirgli una realtà eterna. Dunque il punto è che «più l’essere scomparso sarà realmente pensato come essere […] meno sarà inteso come possesso, e quindi meno la sua scomparsa sarà risentita come perdita». A proposito, invece, del dolore, se da un lato è vero che esso troverà, grazie a questo terzo e genuino atteggiamento, una maggiore consolazione (in virtù della consapevolezza di essere legati all’essere amato scomparso in un modo trascendente i confini sussistenti tra il mondo dei viventi e il mondo dei morti), dall’altro lato è pur vero che questa consapevolezza non è in grado di offrire una consolazione per così dire sensibile: l’essere che io sono rimane frustrato per la perdita di ogni forma di contatto materiale e fisica; ciononostante, però, a poco a poco, chi sopravvive all’essere amato giunge a comprendere che proprio e soltanto in virtù di quella mortificazione della carne il legame con l’essere amato si è fatto più intimo e più profondo.
Altrettanto legato alla tendenza che conduce a identificare l’amato defunto con i ricordi, materiali o mentali, che di esso si posseggono, è l’errore consistente nell’anticipare, in qualche modo, la morte di chi si ama servendosi di ciò come si trattasse di un’arma di difesa preventiva all’effettivo distacco. È quanto accade alla protagonista femminile del dramma marceliano intitolato Le mort de demain: Jeanne Framont vive, infatti, ossessionata dall’idea che il marito Noël venga ucciso al fronte e perciò si prepara in modo maniacale a questa eventualità ma in questo suo voler idealizzare il marito in un culto, la donna l’ha trasfigurato in un ricordo e così facendo ha finito per tradire il suo amore. Ciò che manca a individui come Jeanne Framont è una forza differente rispetto a quella del conoscere o quella del volere, ossia la forza misteriosa dell’essere che si manifesta nell’umiltà della pazienza e nell’audacia della speranza, le quali non forzano il naturale corso del tempo ma ne trascendono i limiti intrinseci affermando l’eternità della comunione in cui le anime degli esseri che si amano sono impegnate; la speranza annuncia, così, la profezia della vittoria dell’amore sulla morte e in base a ciò colui che spera è davvero l’unico in grado di sentire che amare qualcuno significa dirgli “Tu non morirai”, rapito com’è dalla certezza dell’eternità dell’amore che lo lega all’altro essere tanto da riuscire a esorcizzare il pericolo del distacco fisico comportato dalla morte.
Crediamo sia ancora necessario accennare qui ad alcune particolari, e se si vuole stravaganti, esperienze che Marcel visse in un particolare periodo della sua vita, le quali in qualche modo confermano e precisano questi suoi pensieri sulla morte che noi abbiamo tentato, per grandi linee, di trattare.
L’interesse per il metapsichico come per la generale questione che abbiamo cercato di affrontare sulla morte dell’essere amato è insorto in Gabriel Marcel sulla scorta delle molteplici esperienze di morte altrui ch’egli ha vissuto fin dai primi anni della sua esistenza: sua madre morì quand’egli aveva soltanto quattro anni e, più tardi, la tragica esperienza della guerra mondiale lo segnò profondamente. Ora, prima del conflitto mondiale del 1914-18 il Nostro ignorava in buona sostanza cosa fossero esattamente tali esperimenti ma si dimostrò sempre incuriosito e soprattutto ben disposto nei confronti delle parascienze; poi, intorno al 1910, quando si trovava in Svizzera, conobbe un ufficiale inglese che si confidò con lui circa le proprie tendenze suicide successive alla perdita improvvisa della moglie ch’egli adorava. Ma soprattutto quell’uomo si confidò con Marcel circa i motivi che lo spinsero a non cedere a quelle tragiche tentazioni: alcuni amici cercarono di convincerlo della realtà dell’immortalità spingendolo a incontrare un medium il quale, a detta sua, lo aveva effettivamente aiutato a mettersi in contatto con la moglie defunta. Dopo qualche anno, durante l’inverno 1916-1917, Marcel tornò a sentir parlare di tali esperienze da una coppia di amici che se ne occupava attivamente: in quel periodo della sua vita, esonerato dal combattimento al fronte per via del suo critico stato di salute, il Nostro era a capo di una sorta di sportello informativo interno alla Croce Rossa dove si occupava, in particolare, di condurre indagini sui dispersi; qui aveva a disposizione un immenso dossier di pratiche concernenti i soldati dei più vari reggimenti e si relazionava quotidianamente con madri, padri, mogli disperati in ansiosa ricerca di notizie circa i loro cari partiti per il fronte dei quali ignoravano le sorti. Fu in tale contesto che, nell’inverno del 1916-1917, nella speranza di mettersi in contatto con soldati di cui egli cercava le tracce fu portato a rivolgersi alla metapsichica: inizialmente i risultati furono deludenti ma a un tratto, intento in uno di questi esperimenti per conto di una giovane donna il cui marito era scomparso, egli fu testimone di un vero e proprio colpo di scena; da lì in poi i risultati, in alcune occasioni, furono davvero sorprendenti e le informazioni che ne scaturirono furono di una precisione tale da colpirlo profondamente e da persuaderlo, soprattutto, a continuare per un po’ di tempo a utilizzare questi bizzarri metodi investigativi.
Provando ad accantonare tutto lo scetticismo che ci pervade nell’affrontare un tale argomento occorre forse tentare di fare alcune importanti distinzioni in merito: bisognerebbe, cioè, innanzitutto, distinguere i fenomeni di telepatia di cui molti psicologi soprattutto in passato hanno fatto uso, da altre esperienze analoghe quali la veggenza — utilizzata per lo più per conoscere il proprio futuro — rispondente a una curiosità tutt’altro che genuina. Per quel che riguarda l’aspetto che a noi maggiormente interessa, le relazioni con i defunti, non si deve pensare che Marcel abbia creduto di poter, tramite queste pratiche, intrattenere relazioni con i morti così come lo si fa con i viventi: non è insomma una seduta spiritica a metterci in autentica comunione con essi giacché «l’attenzione verso la presenza dei morti non si può stabilire che in noi, nel più intimo di noi stessi, altrimenti la presenza del morto cessa di essere vivente».31 E allora è chiaro che il transito di Marcel su questa via della parapsicologia dev’essere letta soltanto come passaggio provvisorio dettato dalla curiosità circa le possibilità comunicative, che necessariamente devono essere differenti rispetto a quelle tradizionali basate sulla fisicità, tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Questo interesse non è, comunque, che una tappa nel percorso di ricerca che conduce infine a riconoscere che parlando di fedeltà e più in generale di relazioni tra mondo dei vivi e mondo dei morti è, ancora una volta, nel campo del misterioso che dobbiamo rifugiarci giacché il mistero è qui espressione di una volontà tanto profonda da essere inconoscibile per essa stessa, è espressione di quell’amore oblativo che sfida l’assenza e trionfa su di essa.
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G. Marcel, Journal métaphysique, Gallimard, Paris 1927; Giornale metafisico, tr. it. di F. Spirito, Abete, Roma 1966. ↩︎
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«Le monde est une situation dans laquelle nous nous trouvons engagés (sans l’avoir voulu et bien avant d’en prendre conscience) et où nous devons nous engager personnellement si nous voulons réaliser notre être spirituel». R. Troisfontaines, De l’existence à l’être: la philosophie de Gabriel Marcel: lettre-préface de Gabriel Marcel, Secrétariat des publications, Namur; E. Nauwelaerts, Louvain; J. Vrin, Paris, Vol. 1, tr. nostra, p. 141. ↩︎
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G. Marcel, Homo viator: prolégomènes à une métaphysique de l’espérance, Aubier Monataigne, Paris 1944; Homo viator, tr. it. di L. Castiglione e M. Rettori, Borla, Roma 1980, p. 160. ↩︎
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G. Marcel, Être et avoir, Aubier Montaigne, Paris 1935; Essere e avere, tr. it. di I. Poma, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999, p. 79. ↩︎
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F. Riva (curatore), «Essere e avere» di Marcel e il dibattito su esistenza ed essere nell’esistenzialismo, Paravia, Torino 1990, p. 27/s. ↩︎
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I. Poma, Gabriel Marcel: la soglia invisibile, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2008, p. 32. ↩︎
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Ivi, p. 37. ↩︎
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P. Prini, Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile, Studium, Roma 1950, p. 36. ↩︎
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F. Riva, Una possibilità per l’altro. Lévinas, Marcel, Ricœur in E. Lévinas, G. Marcel, P. Ricœur, Il pensiero dell’altro; a cura di F. Riva, Lavoro, Roma 2008, p. XLII. ↩︎
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G. Marcel, Du refus à l’invocation, Gallimard, Paris 1940; Dal rifiuto all’invocazione. Saggio di filosofia concreta, tr. it. a cura di L. Paoletti e P. Prini, Città nuova, Roma 1976, p. 120. ↩︎
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«Rencontrer quelqu’un […] ce n’est pas seulement le croiser, “être là” en même temps que lui; c’est être, au moins un instant, avec lui. “Être là” n’est qu’une donnée “objective”; être avec est l’acte libre qui nous rend présent l’un à l’autre. La rencontre est une co-présence». R. Troisfontaines, De l’existence à l’être, Vol. 2, cit., tr. nostra, p. 21. ↩︎
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R. Matera, «La fenomenologia del corporeo», Rivista di filosofia neo-Scolastica, 72, n. 1 (1980), p. 63. ↩︎
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G. Marcel, Giornale metafisico, cit., p. 231. ↩︎
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F. Riva, Corpo e ambiguità in V. Cesarone (curatore), Libertà: ragione e corpo, Messaggero, Padova 2006, p. 64. ↩︎
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«Certes, je ne suis pas ce que j’ai, mais l’avoir implique obscurément une assimilation, un désir de faire participer “quelque chose” à ma propre immédiation». R. Troisfontaines, De l’existence à l’être, Vol. 1, cit., tr. nostra, p. 229. ↩︎
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«Le lien qui m’unit à mon corps est le modèle, non figuré mais senti, l’expérience non conceptualisable mais vécue, auxquels est rapporté tout avoir». R. Troisfontaines, De l’existence à l’être, Vol. 1, cit., tr. nostra, p. 235. ↩︎
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P. Prini, «L’umanesimo tragico di Gabriel Marcel», Annuario filosofico, 5 (1989), p. 88. ↩︎
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G. Marcel, Le mystère de l’être, Aubier Montaigne, Paris 1951; Il mistero dell’essere, tr. it. a cura di G. Bissaca, Borla, Milano 1987, p. 99. ↩︎
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P. Prini, «L’umanesimo tragico di Gabriel Marcel», cit., p. 89. ↩︎
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G. Marcel, Homo viator, cit., p. 153. ↩︎
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F. Riva, Corpo e ambiguità, cit., p. 67. ↩︎
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G. Marcel, Dal rifiuto all’invocazione, cit., p. 109. ↩︎
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G. Marcel, Essere e avere, cit., p. 84. ↩︎
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«Cet être limité que je suis est en quelque sorte emmuré, ma seule façon d’ouvrir des brèches dans ces murailles qui me cloisonnent est d’aspirer au toi. Je n’ai donc pas d’autre issue que l’amour, l’amitié». M. M. Davy, Une philosophe itinérant: Gabriel Marcel, Flammarion, Paris 1959, tr. nostra, p. 261. ↩︎
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G. Marcel, Giornale metafisico, cit., p. 54. ↩︎
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G. Marcel, Homo viator, cit., p. 45. ↩︎
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«J’espère en toi pour nous est donc bien l’expression la plus adéquate et la plus élaborée de l’acte que le verbe espérer traduit d’une façon encore confuse et enveloppé». R. Troisfontaines, De l’existence à l’être, Vol. 2, cit., tr. nostra, p. 201. ↩︎
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G. Marcel, Homo viator, cit., p. 172. ↩︎
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G. Marcel, Giornale metafisico, cit., p. 408. ↩︎
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«Si la réciprocité de l’amitié a été assez profonde pour comporter un double hétérocentrisme, chacun revenant centre pour l’autre, ou, mieux encore, chacun trouvant son centre dans le nous». R. Troisfontaines, De l’existence à l’être, Vol. 2, cit., tr. nostra, p. 152. ↩︎
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«L’attention donnée à la présence des morts ne peut s’établir qu’en nous, au plus secret de nous-même, sinon la présence du mort cesse d’être vivante». M. Belay…/ et al., Entretiens autour de Gabriel Marcel: Centre culturel International de Cerisy-la-Salle, 24-31 aout 1973, Editions de la Baconnière, Neuchâtel 1976, tr. Nostra, p. 311. ↩︎