Rilevanze antropologiche del principio di individuazione in Giovanni Duns Scoto. Tra metafisica ed epistemologia

1. Introduzione

Il “principio di individuazione” è stato introdotto nel linguaggio filosofico dai traduttori di Avicenna: è il principio in virtù del quale un essere non possiede soltanto uno specifico (un uomo l’umanità), ma un’esistenza singolare, concreta, determinata nel tempo e nello spazio.1 L’“individualità” in Avicenna è una proprietà dell’anima che si compie nell’atto di unione con il corpo dell’uomo. Dunque è l’anima di per sé individuale.

Distinguiamo tra sostanza prima e sostanza seconda. La sostanza prima è l’individualità e l’esistenza in atto, mentre la sostanza seconda è il concetto che si forma nell’atto del conoscere.2

Il concetto di individualità necessariamente richiama la nostra precomprensione rispetto a un individuabile e la nostra stessa disposizione a conoscere. Esso coglie tutti gli aspetti di un qualcosa che si pone davanti a colui che osserva, dunque nella sua oggettività fuori e dentro l’anima di chi osserva. Da Avicenna mutuiamo questo legame dell’anima con il termine individualità poiché ci sembra che porti con sé l’origine di tutto il discorso: la possibilità della conoscenza da parte dell’uomo. E non solo la conoscenza delle essenze e degli universali, ma la possibilità stessa di cogliere la realtà ricca di ciò che si pone. L’oggetto in tutta la sua realtà, dentro le realtà: «[…] in breve, l’individualità è ciò per cui il singolo è singolo, cioè unico nella sua realtà».3

Individuo4 è indiviso, uno in sé e distinto dagli altri, applicabile o riscontrabile non solo nella specie umana ma estendibile a tutta la totalità, o meglio a ogni singolo ente. Gli scolastici distinguono tra individuo predicamentale e individuo trascendentale. Quest’ultimo si riferisce alla totalità degli enti, a ogni ente che ha le caratteristiche dell’individuo. L’individuo predicamentale invece è l’individuo vero e proprio che è tale nella moltitudine della stessa specie.

Indiviso in sé e distinto dagli altri rimandano a due aspetti fondamentali dell’individuo: l’indipendenza nel suo essere e nel suo agire; l’incomunicabilità e irripetibilità della sua essenza individuale.5 Con l’influsso dello spirito cristiano, più vicino a un’interpretazione antropologica, si cerca di superarne i limiti “naturalistici”. Per questo il termine individuo si alternerà a quello di persona, che unisce all’individualità la razionalità e la volontà.

[…] nella persona la realizzazione concreta del principio: la persona esercita l’alleanza ontologica incontrando l’uno e il diverso. Riflettendo su di essa, il pensiero sembra dunque meditare sulla sostanza più compiuta, quella che illumina tutto il suo cammino intellettuale. La persona è la sostanza più perfetta che ci sia nella nostra esperienza perché, in se e per se, assume la responsabilità delle sue azioni. Tuttavia, benché unita in sé, non è a se. La persona non è il principio che, semplice, fa idealmente provenire da se stessa una diversità che non subisce; è la sostanza più reale, ma non è il reale al principio del sé.6

Le discussioni teologiche, soprattutto in campo trinitario, hanno contribuito alla rielaborazione del concetto di persona. Le difficoltà sono state superate distinguendo tra sostanza, ossia “supposito” o soggetto, e persona, che è principio delle sue azioni.7 Boezio propone la seguente definizione di persona: “una sostanza individuale di natura razionale”. È una definizione aristotelica, muove dalla totalità generica, la natura sostanziale, precisando la specie della persona, razionale, e in ultimo affermando che è individuale. Nel tempo dovrà subire delle modifiche poiché il campo di estensione della sua proposizione è troppo ampio e non può cogliere la natura particolare. Tommaso sostituirà alla “sostanza” la “sussistenza”, che caratterizza la sostanza come in se e per se e mediante il suo atto: “persona è ogni sussistente di natura razionale”. È caratterizzata così anche la natura razionale, capace di riflettere e assumere responsabilità.

Un ente, unico nella sua esistenza, e nel suo essere indivisibile, è tale o perché è un ente semplice, o perché nella sua unità è composto da principi che ne consentono l’individuazione, e dunque, la sua stessa esistenza. Nel caso degli enti intrinsecamente semplici l’individuazione non sussiste come problema in quanto l’ente è individuato, è già questo ente conoscibile esistente uno. Lo stesso Duns Scoto, come prima di lui la filosofia aristotelico-tomista, si riferisce alle sostanze separate, come sostanze semplici, enti semplici, per esempio gli angeli. La distinzione terza, all’interno del secondo libro dell’Ordinatio, che tratta del principio di individuazione, si apre proprio con la questione della distinzione tra gli angeli, affrontata partendo dalla distinzione delle sostanze composte. La sostanza separata è per la filosofia aristotelico-tomista la pura forma. A differenza del semplice individuato di per se stesso, il composto ha in sé l’elemento che genera l’individuazione, l’elemento che costituisce il “principio”. Uno dei suoi componenti permetterebbe di fatto maggiormente la ragione intrinseca, il principio essenziale, di individualità, ossia la materia o la forma, o entrambe.

Individuare la causa stessa dell’individuazione non pretende di sezionare l’ente, ma di fare in modo che l’intera realtà, che è l’ente e in cui l’ente è immerso, venga contemplata, colta, in tale principio.

Nel De ente et essentia Tommaso parla di materia signata quantitate. L’agostinismo, non accettando la materia come principio di individuazione considera l’unità (o comunicazione) di materia e forma causa del fenomeno dell’individuazione. Solo con Duns Scoto, il quale formalizzò una “realtà ultima dell’ente” che potesse per questo individuarlo (chiamata dai posteri haecceitas), si ebbe una svolta nell’indagine, uscendo fuori dal circolo ricorrente di materia-forma. Non si riduceva né all’una, né all’altra, ma più che altro caratterizzava entrambe, come “sede di ogni reale individuazione”.8

In metafisica il problema dell’individuazione è strettamente collegato al problema degli universali: non ammettere in qualche modo la realtà degli universali equivale a non ammettere il principio di individuazione. I nominalisti non ammettono altra realtà al di fuori del particolare empiricamente o intuitivamente dato. In questo modo, se non è più riferito all’essere pensato metafisicamente, allora il principio di individuazione diviene solo verifica del riferimento ai termini in uso nel linguaggio. Nella filosofia contemporanea il problema dell’individuazione si attenua a causa del fatto che l’“esserci” (l’individualità in situazione) diventa il dato originario e il punto di partenza per l’analisi esistenziale.9

Al di là del nostro pensiero, sia esso “debole” o “forte”, l’uomo è di fatto chiamato, vocato, alla domanda sull’essere e alla sua conoscenza. Tutto ciò che è principio di per sé non dovrebbe andar perso, pena la perdita del senso stesso, e di chi lo cerca.10

Duns Scoto rappresenta in un certo senso l’ultimo sviluppo della Scolastica: dopo di lui, a parte Occam, non si hanno più figure di grande rilievo. Quest’ultimo si discosterà volutamente da Duns Scoto, per creare una filosofia distinta dalla teologia, indipendente e separata, fissata sulla visione dell’individuo anch’esso nella sua singolarità separato e indipendente.

È noto che la stessa Edith Stein11 ha mostrato forte interesse per il sistema spirituale di Scoto, e in una lettera a Roman Ingarden del 27 novembre 1933, afferma: «Ces dernières semaines, j’ai pu étudier un peu Duns Scot, ce pour quoi je n’avais jusqu’ici jamais trouvé le temps, quoique je sache depuis longtemps quels trésors on peut trouves chez lui».12

Non può sfuggire come questo impianto metodologico sia orientato antropologicamente: il discorso teologico è connesso con esigenze di ordine antropologico, che mostrano la sproporzione tra i bisogni autentici dell’uomo e l’insufficienza dei mezzi naturali a sua disposizione, ma che nel contempo inseriscono le risposte di ordine soprannaturale in un ambito naturale che le compatisce in quanto detentore di istanze di apertura e di ulteriorità.13

In effetti i limiti della conoscenza filosofica emergono quando ci poniamo di fronte alla domanda sul fine ultimo dell’uomo, che sia realmente tale, che sia beatitudine piena, vera e inesauribile; a questo punto infatti la conoscenza di Dio che abbiamo a livello naturale non riesce ad adeguarsi alla “verità tutta intera”. Duns Scoto è molto chiaro, crede che il passo ulteriore chiesto al filosofo in questa via verso il fine ultimo, appartenga a un campo diverso, dove teologia e filosofia sono chiamate a dialogare proprio in virtù delle loro identità distinte. «[…] filosoficamente conosciamo Dio solo in un concetto comune a lui e alle creature sensibili, e quindi siamo privi di una conoscenza esaustiva del fine ultimo in sé».14 Si evince inoltre un forte ottimismo nei confronti della natura umana: «[…] tutti gli uomini, a qualunque cultura, area sociale o geografica essi appartengano, sono chiamati alla salvifica fruizione del fine ultimo […] ».15

Scoto elabora in tutta la sua trattazione una profonda impalcatura gnoseologica, attraverso il modo di argomentare tipicamente medievale della quaestio scolastica.16

Non sono le conclusioni teologiche a fare la sua teologia, ma il procedere delle argomentazioni, del suo pensiero; è una ricerca che privilegia un cammino verso il basso, verso qualcosa di fruibile da parte dell’uomo e che, nella realizzazione del percorso stesso, fa ritrovare in alto, nella possibilità della distinzione, dell’essere “di fronte”, del poter dire e riconoscere in una ricchezza di differenza e appartenenza. L’orizzonte di Scoto è un orizzonte aperto. Il modo di argomentare teologico è per questo motivo non diverso dal modo di argomentare prettamente metafisico del principio di individuazione. Metafisico non tanto per i risultati a cui giunge ma per la capacità di conoscenza, per la consistenza di quel livello logico scientifico vivamente interessante che trapela attraverso gli argomenti trattati.

Tuttavia, l’unità che è l’uomo reale, soggetto della teoria e della pratica […] Perciò, non occorre più gerarchizzare le diverse scienze in funzione dei loro oggetti rispettivi, l’universale e l’individuale, ma occorre muovere dal soggetto conoscente che conosce l’universale al centro delle cose particolari e che si impegna in maniera particolare, seguendo norme universali. Ciò che unifica il sapere e l’agire è il loro radicarsi comune nel soggetto che comprende e vuole, vuole ciò che comprende e comprende ciò che vuole.17

Concludendo, vorremmo in questo studio cercare di esplicitare, restando fedeli all’autore, come un sostrato che attraversa tutta la sua riflessione, ossia il piano epistemologico; esplicitare anche quel carattere di dignità che lui stesso, a voce bassa, e attraverso l’argomentare a volte complesso, sa di aver riconosciuto alle creature e all’uomo. Non abbiamo incontrato passi in cui Duns Scoto parli esplicitamente di “persona”, o usi tale termine, ma certamente questa “estensione” ha provocato e stimolato l’intera riflessione.18 Potremmo aggiungere che emerge un’immagine di persona “luminosa”, in quanto essa è fatta capace di conoscere le cose, se stessa, Dio. È fatta capace di cogliere la ricchezza dell’intero creato.

2. L’ente in generale

Con il termine ente che cosa si designa?19 Che cosa intendiamo quando parliamo dell’ente?

L’ente non è una cosa sensibile, né un pensiero intelligibile, ma tutto questo allo stesso tempo, è “questo” e “non-questo”. L’ente è anche tutto ciò di cui facciamo esperienza. Tutto ciò che è reale, in termini di sentire, e di conoscere. La stessa negazione è reale. Per comprendere il senso della parola ente occorre un intelletto ad esso sensibile, che sappia desostanzializzare tale parola, liberarla da ogni fissità di determinazione sensibile. Occorre saper riconoscere quale pensare conduce all’ente. Per Duns Scoto l’ente è tutto il possibile a cui non “ripugna” l’essere.20 Dalla realtà stessa dell’ente che è reale, in quanto realtà ontologica, nel suo essere forma intelligibile, deduciamo che l’alleanza tra pensiero e realtà, tra parola e cosa, è possibile e altrettanto reale e intelligibile. «[…] la questione dell’ente è troppo importante, poiché tutte le ricerche umane vi convergono; si esige dunque di parlare dell’ente, rispettando la ragione orientata nello stesso tempo verso la semplicità dell’uno e la molteplicità delle cose».21 Con Platone si penserà l’intelligibilità dell’ente liberata dalle rappresentazioni del sensibile. La parola non è l’ente, come in una prospettiva nominalista, ma può essere uno strumento di pensiero. In questo senso allora l’essere (to on) è attraverso tutti gli enti colti in una relazione di conoscenza, ed è unito alla sostanza (ousia), potenza passiva, che patisce lo sguardo della conoscenza.22 Questo sguardo chiaramente non manipola l’ente conosciuto, altrimenti non sarebbe possibile alcuna conoscenza della sostanza. In questo senso sono ugualmente importanti la riflessione ontologica e quella logica.23

2.1. Sulla sostanza24

La parola sostanza significa “ciò che sta sotto”. Dunque appartiene al modo di comprendere la realtà delle cose, di ciò che sta in un certo senso sotto le apparenze mutevoli, e riguarda la nostra attività intellettuale. La sostanza è un sostrato, un soggetto che sorregge ciò che passa. Dunque la sostanza, che è dell’ente ciò che sostiene i fenomeni nelle diverse circostanze, è “in sé” poiché è essa stessa principio di unità dei suoi fenomeni.

Aristotele, all’interno della discussione su materia e forma, distingue quattro sensi della parola sostanza: essenza, universale, genere e sostrato. Sostanza sarebbe la forma, la quale determina intelligibilmente la materia. Inoltre, essendo in sé, è in senso proprio l’ente individuale a cui si attribuisce un predicato.

Egli distingue ancora tra sostanza prima e sostanza seconda. La sostanza prima è quel soggetto che può ricevere diversi predicati, mentre le sostanze seconde sono le specie cui sono immanenti le sostanze prime, e sono i generi: per esempio sostanza seconda è la nozione di uomo, come specie, e il genere di questa specie è la nozione di animale. L’individuo è il solo ad essere realmente sostanza, ma quanto più la sostanza seconda presenta in maniera adeguata la sostanza prima, la si può dire sostanza. La sostanza seconda è logica, quella prima sussiste. Ma perché possa essere conosciuta, la sostanza in sé è orientata verso un’altra. Per questo motivo la tradizione aristotelica ha aggiunto che è anche ad aliud. E in questo senso, poiché l’in sé non è conoscibile se non attraverso l’ad aliud, ossia attraverso ciò che permane, vuol dire che è possibile una conoscenza trascendentale della sostanza. Questa intrinseca intelligibilità si chiama essenza, e la definizione di questa essenza si chiama quiddità. Dunque l’essenza è una capacità della sostanza, la capacità di essere presente all’intelletto.

2.2. Il principio di individuazione.25 Il De ente et essentia

Il dibattito sulla questione dell’individuazione trova il suo inizio problematico nell’Isagoge di Porfirio, uno studio sullo statuto ontologico delle categorie, di per sé concetti astratti (universali). L’autore ritiene necessario trattare i supremi generi, i concetti di genere, differenza, specie, proprio e accidente, ma non risponde alla domanda sottostante sulla realtà di tali concetti, sulla loro esistenza corporea o incorporea, sul loro essere uniti o non uniti alle cose sensibili, ammesso che essi siano incorporei. Occorre soffermarsi con attenzione sulle distinzioni che lo stesso Porfirio fa e che lasciano intendere una dialettica di fondo, che lega aristotelismo e platonismo,26 la logica e la metafisica, l’ontologia. La stessa domanda che resterebbe irrisolta nell’Isagoge sulla esistenza o meno degli universali lascia intravvedere proprio questo. Parlando della differenza, egli afferma: «Elaborando ulteriormente la nozione di differenza, hanno detto che la differenza non è qualcosa che distingue casualmente le realtà comprese in uno stesso genere, ma che è qualcosa che porta all’essere, e che è parte integrante dell’essenza della cosa»;27 «Il genere, infine, è analogo alla materia, mentre la differenza è analoga alla forma».28

Importante è la differenza tra predicamenti, categorie e predicabili. I primi sono la sostanza e altro che a essa si riferisce; i secondi sono modi diversi di attribuzione in riferimento ad altre proprietà, per esempio il genere29 (parte di essenza comune ad altre specie) e la specie (essenza completa dell’individuo che implica differenza,30 altra attribuzione), il proprio e l’accidente.31

Alla “base” della ricerca logica e ontologica di Porfirio c’è l’individuo, e al di sotto dell’individuo, specie infima, non c’è possibilità di altra specie, poiché la differenza, il molteplice, si realizza nella sua pienezza e concretezza proprio nell’individuo. Questo, ben lungi dal rappresentare una scala gerarchica, o un albero, ci parla della complessità del reale e rivela la dignità dell’individuo, al di là di ogni qualificazione aggiunta. Dignità in quanto soggetto, intrinsecamente, e diremmo quasi in maniera “assoluta”.

Nei testi di Duns Scoto si respirerà il tenere unite le due riflessioni, quella platonica e quella aristotelica, indice di attenzione alla realtà. Del resto è ruolo della metafisica meditare sull’alleanza originaria tra l’ente e lo spirito.32

Rispetto ad Aristotele, Tommaso33 aggiunge alla coppia materia-forma, il principio dell’actus essendi, cambiando sostanzialmente il ruolo della materia. La sua concezione della conoscenza comincia con l’esperienza sensibile. Al sentire occorrerà la dimensione spirituale della conoscenza. Ultimo passo dell’attività sensitiva (sensi esterni e sensi interni) è il phantasma, che riguarda sempre il particolare. Dal phantasma è possibile formarsi un concetto universale. L’“intelletto possibile” esprime che cosa è un oggetto, la sua quiddità; non conosce sempre in atto, ma è capacità di conoscenza. La conoscenza è conoscenza dell’universale, l’universale non esiste in natura perché ciò che esiste è individuo, per questo il modo di tale conoscenza è l’astrazione, opera dell’intelletto agente. Tommaso porta avanti in maniera nuova il principio di individuazione della riflessione aristotelica: la sostanza prima è composta di materia, forma e atto; essa è individualizzata, come designata, da una materia signata. La sostanza seconda, anch’essa composta, ha la materia indeterminata nello spazio, comune. Al centro della sostanza composta di materia e forma Tommaso pone l’atto d’essere. La forma e la materia non esistono in sé ma per mezzo della conoscenza. La materia signata è leggermente anteriore all’atto di individualizzazione, come una potenza che passa all’atto essendo designata. Dunque è condizione di riconoscimento della sostanza. Quindi principio di individuazione non è la forma, né la materia, ma l’atto d’essere; oppure la materia signata ma come designazione dell’alterità dell’ente, indipendentemente dall’intelletto, nella sua unità.

È un’indagine sul reale che tocca il soggetto e la realtà in tutta la sua significazione. Il De ente punta alla connessione tra l’ordine reale e quello logico-linguistico.34 L’individuazione, principalmente nel contesto delle sostanze composte, rappresenterà la possibilità di vedere la relazione tra genere, specie e differenza, che sono intenzioni logiche.35 Detto in termini più concreti: in che modo l’essenza,36 che è definizione, significazione delle cose, è predicabile di queste stesse cose? L’essenza diventa predicabile solo quando è considerata come un tutto (dunque, c’è relazione tra essenza e quiddità, ma non coincidenza al punto che l’una potrebbe annullare l’altra).

«L’essenza — secondo uno dei tratti più caratteristici dell’intero impianto metafisico avicenniano — non è di per sé né universale né individuale: essa può accedere all’unità individuale soltanto in virtù dei suoi accidenti e delle sue disposizioni aggiuntive».37 Ogni essenza non è in sé né una né molteplice: se fosse una non potrebbe infatti essere comune a più individui; se fosse di per sé molteplice, non potrebbe trovarsi interamente in un solo individuo.38 L’universalità non si riferisce al soggetto ma all’oggetto del pensiero, dunque non è il pensiero universale. Genere è predicabile di più cose, include le specie, e quando viene predicato di un soggetto, insieme alla differenza, ne dice l’essenza. In questo modo un predicabile può essere genere nei confronti delle specie in esso contenute, ma specie nei confronti di un genere superiore. La specie invece non può fungere da genere di una specie inferiore, detta “specialissima”.39 La differenza specifica permette la differenza tra specie diverse all’interno di un genere.

Tommaso va oltre lo stesso Aristotele formulando un’analogia tra le intenzioni logiche e i principi di materia e forma.

E da ciò risulta evidente la ragione per cui il genere, la specie e la differenza corrispondono rispettivamente alla materia, alla forma e al composto nella realtà, quantunque non siano la stessa cosa, dal momento che né il genere è la materia, pur essendo tratto dalla materia come ciò che designa il tutto, né la differenza è la forma, pur essendo tratta dalla forma in quanto designante il tutto. Per cui diciamo che l’uomo è un animale razionale, e non che è composto da animale e razionale allo stesso modo in cui diciamo che è composto da anima e corpo; l’uomo si dice infatti composto di anima e corpo nel senso che dalla composizione di due cose ne viene a risultare una terza, che non coincide con nessuna delle prime due: l’uomo non è infatti né anima né corpo. […] Il concetto di questa differenza “razionale” consiste invece nella determinazione della forma specifica, e da questi due concetti si costituisce quello della specie o della definizione. E così come una cosa costituita da altre cose non riceve la predicazione di quelle stesse cose da cui è costituita, così neanche il concetto riceve la predicazione di quei concetti da cui è costituito: non diciamo infatti che la definizione è il genere o la differenza.40

Si tratta di una questione che tocca la possibilità della conoscenza stessa dell’individuo, in quanto il concetto di essenza di un individuo è comune anche agli altri, nel modo di una similitudine tra diversi individui. Questa similitudine che mette in relazione l’intelletto e gli individui, produce il concetto di specie. L’intelletto attribuisce all’essenza il predicabile “specie”. Il fondamento dunque della verità di una predicazione è l’unità reale che esprime delle realtà significate dai termini.41

Dunque il principio di individuazione svela anche la natura della cosa. Permette di accedere alla sostanza, e permette il significato concreto, nel modo della quiddità. Ma per quanto riguarda il modo di essere, le relazioni esistenti, l’esistere stesso di queste relazioni, il discorso si fa più complicato.

e perciò Avicenna dice che la razionalità non è una differenza, ma un principio della differenza, e per la stessa ragione l’umanità non è una specie, e l’animalità non è un genere. Analogamente, non si può dire neppure che il modo di essere del genere o della specie convenga all’essenza come qualcosa di realmente esistente al di fuori dei singolari, come ponevano i platonici; perché in tal modo il genere e la specie non si potrebbero predicare di un determinato individuo […] E perciò rimane che il modo di essere del genere o della specie conviene all’essenza in quanto viene indicata come un tutto, come con i termini uomo o animale, nella misura in cui a livello implicito e indistinto contiene tutto ciò che è nell’individuo. […] »;42 «È dunque evidente che la natura dell’uomo, considerata in senso assoluto, astrae da qualunque tipo di essere, senza tuttavia escludere nessuno di essi. E questa natura così considerata è quella che si predica di tutti gli individui.43

3. Duns Scoto e il concetto trascendentale di ente. L’univocità dell’ente

All’alba del secolo xiv Giovanni Duns Scoto (-1308) elabora una sintesi grandiosa. Se la sua noetica privilegia il singolare e l’individuale, la sua metafisica si dispiega in una teoria dell’ordine universale, in cui le diverse entità sono strettamente collegate tra loro e la persona umana s’inserisce nell’ordine dell’universo con l’obbedienza volontaria. Queste prospettive metafisiche avrebbero potuto dare origine a una dottrina sociale. Duns Scoto non l’ha neppure tentata. Troviamo nella sua opera soltanto alcune affermazioni: la famiglia è la sola società naturale, la società civile è un’unità di aggregati costituita dal consenso dei membri; l’autorità è pura costruzione umana.44

Il clima intellettuale in cui matura il pensiero di Duns Scoto è quello creato dalle condanne ecclesiastiche del 1277 contro l’aristotelismo per lo più averroistico, la nuova filosofia che esaltava le capacità della natura umana di pervenire alla felicità del fine ultimo e alla pienezza della verità senza l’aiuto di una rivelazione soprannaturale. L’uomo è capace da solo della propria autorealizzazione. Una felicità raggiungibile attraverso le capacità intellettuali, attraverso le scienze speculative aristoteliche, la fisica, la matematica, la filosofia prima, capaci di giungere alla conoscenza delle sostanze separate. I filosofi sono dunque veri sapienti. La natura per il filosofo è completa e perfetta in se stessa. A questi filosofi si opponevano i teologi, i quali affermavano l’imperfezione della natura e la necessità della dottrina rivelata.

Ponendosi sul piano della fede, Duns Scoto dimostra l’insufficienza della conoscenza filosofica del fine ultimo, delle sostanze separate e della beatitudine. Non sminuendo l’autonomia del filosofo e la dignità dell’uomo, contrasterà quella filosofia chiusa in se stessa che ha negato all’uomo la possibilità dell’apertura al piano soprannaturale, la possibilità di una “conoscenza maggiore”. Il sapere filosofico, che si basa sulla conoscenza astrattiva e universale, non può intuire da sé l’essenza divina.

Il lavoro riflessivo di Duns Scoto sarà tutto volto a lasciar interagire la filosofia e la teologia, mantenendo ognuna la propria identità e la propria autonomia, in una sinergia finalizzata alla conoscenza dell’unica verità di Dio e dell’uomo.45 Si parla di una conoscenza soprannaturale in termini di oggetto ma anche in termini di soggetto in quanto diventerebbe essa stessa dottrina ispirata, cioè accolta per mezzo di uno speciale aiuto che supera la natura dell’intelletto umano o che la potenzia.

Egli pensa che se non è possibile una conoscenza intuitiva di Dio, è però possibile pensare Dio partendo dal concetto comune di ente, oggetto principale della metafisica. In questo modo il rapporto tra filosofia e teologia è restaurato in quanto l’una scienza richiama l’altra, per i propri diversi ambiti. Si tratta della teoria dell’univocità del concetto di ente,46 che

[…] permette di risolvere definitivamente l’oscillazione della filosofia prima aristotelica tra ontologia e teologia: la metafisica è scientia transcendens, ovvero un’ontologia generale che si occupa dell’ente come concetto trascendentale (comune e anteriore a tutte le categorie aristoteliche) e che racchiude in sé la teologia come parte speciale, allo stesso modo in cui tale concetto include in sé l’ente infinito — cioè Dio.47

Dalla determinazione dell’ente in quanto ente come oggetto proprio dell’intelletto umano scaturisce l’univocità del concetto di ente, in netto contrasto con il concetto di analogia comunemente accettato per salvaguardare la trascendenza divina, in particolare secondo l’elaborazione di Enrico di Gand (per il quale i diversi livelli della conoscenza, per esempio il passaggio dall’ente finito all’ente infinito, rappresentano un errore insito nella struttura dell’intelletto umano). La stessa prova dell’esistenza di Dio che dall’effetto giunge alla causa incausata come dimostrazione, permette a Duns Scoto di parlare di necessità nel caso dell’esistenza di Dio e non per il suo agire, che è libero. L’argomento ontologico di Anselmo è in questo modo superato, non essendo possibile passare dal piano gnoseologico a quello ontologico senza una dimostrazione. Dunque Dio crea un ordine contingente e lo crea in assoluta libertà.

Duns Scoto ne era consapevole e vi pervenne lentamente, non senza qualche esitazione e resistenza interna al suo stesso pensiero, passando dall’affermazione esplicita dell’analogia nelle sue prime opere logiche a una progressiva apertura all’univocità in alcune tormentate revisioni delle questioni sulla Metafisica, fino alla dichiarazione finale dell’Ordinatio che c’è un concetto assolutamente semplice (simpliciter simplex), quello di ente, univocamente comune a Dio e alle creature, perché se non fosse così, non si potrebbe nemmeno parlare di un oggetto proprio dell’intelletto né giustificare il discorso metafisico […].48

L’essenza divina nelle sue proprietà particolari non può essere conosciuta, come non può nemmeno essere conosciuta qualsiasi altra essenza in sé, nel suo carattere di infinità. Partendo dalla questione del primo oggetto della conoscenza, è evidente che il primo oggetto in ordine alla perfezione assoluta è Dio. In ordine all’adeguazione invece, sorgono divergenze, in quanto cioè alla capacità naturale dell’intelletto di conoscere e di contenere virtualmente tutta la potenzialità intenzionale di tale conoscenza.49 Duns Scoto afferma che se limitiamo la conoscenza, o potenza, intellettiva alla sola astrazione o livello immateriale, finiamo per chiudere l’intelletto nella impossibilità e gli precludiamo altri modi di conoscenza. L’essenza divina non è colta direttamente dall’intelletto umano ma solo attraverso concetti universali, a differenza di quanto sosteneva Agostino con la sua teoria dell’illuminazione dell’intelletto umano da parte di Dio, partecipando di questa luce l’anima intellettiva in modo innato.50 Secondo la teoria dell’illuminazione l’oggetto primo dell’intelletto umano, in ordine all’adeguazione, è Dio. Ma se fosse vero che Dio contiene in sé virtualmente tutti gli intelligibili, non sarebbe vero che possiamo cogliere l’essenza in sé, cioè non sarebbe vero che possiamo così cogliere o conoscere tutte le realtà conoscibili.

Dunque per Duns Scoto oggetto primo dell’intelletto umano in ordine all’adeguazione è l’ente, in quanto nell’ente vi è sia il suo essere comune, sia il suo raccogliere virtualmente ogni ente.

Il concetto di ente è un concetto semplicissimo, che mantiene sempre lo stesso significato, di qualunque soggetto si predichi; è predicabile per tale motivo univocamente di tutto ciò che esiste. Dunque è l’oggetto primo dell’intelletto considerato però in senso assoluto, cioè facendo riferimento alla sua potenza intellettiva ordinata alla conoscenza. Se invece consideriamo l’ente come oggetto primo dell’intelletto in qualche stato particolare in atto, sbagliamo, in questo caso infatti l’oggetto primo di tale intelletto, o che “adegua” tale intelletto alla conoscenza, è la quidditas rei materialis.51 In questo caso siamo di fronte alla conoscenza per modo di intuizione.52

L’univocità che attribuisce Scoto al concetto di ente è sufficiente per fondare il principio di non contraddizione, ed è estranea a ogni particolarizzazione, o categorizzazione, o modo dell’essere come l’infinità e la finitudine. Il concetto di ente copre l’infinità come la finitudine. Ecco perché l’intelletto umano indagando sugli attributi di Dio, in particolare l’infinità, considera tale termine come apertura massima dell’intelletto al concetto di ente in quanto ente. Il concetto di univoco è «[…] quel concetto che “è uno in modo che la sua unità basta alla contraddizione, se si afferma o si nega la stessa cosa del medesimo soggetto; e basta anche per il medio sillogistico, in modo che circa gli estremi uniti in un medio siffatto si concluda che si uniscono fra loro senza cadere nella fallacia dell’equivocazione”».53

Duns Scoto semplicemente ribadisce l’univocità del concetto di ente affermando che se non ci fosse un elemento comune tra finito e infinito non si potrebbe ammettere la conoscenza naturale di Dio. «[…] l’univocità concettuale sta così a fondamento della stessa analogia reale, senza di essa si cadrebbe nel nominalismo dei termini e nell’equivocità dei principi conoscitivi, con un esito scettico o fideistico».54 Non è un caso che all’inizio dell’Ordinatio Duns Scoto si riferisca al legame inscindibile tra l’ispirazione e l’interiorità dell’uomo, quest’ultimo chiamato a insegnare e dire con franchezza, preparato per le opere della fede e della giustizia. Sul piano filosofico è detta l’imperfezione della natura, sul piano teologico invece un anelito alla perfezione e una via per la perfezione, in quanto l’oggetto primo stesso è perfetto. La conoscenza dell’uomo è un cammino ed è sicura rispetto al fine.

L’ordine soprannaturale, cui si fa riferimento in campo teologico, non indica un cambiamento della conoscenza da parte del soggetto, dell’intelletto possibile. Si parla di soprannaturale quando è l’agente a non “essere proporzionato”, quando l’agente in maniera naturale non è atto a suscitare la conoscenza nell’intelletto possibile. Quindi non in relazione all’atto ma alla causa agente. Infatti l’intelletto possibile è in potenza atto a ricevere, e quindi attuato attraverso, qualsiasi informazione in atto nella realtà. L’agente, che non appartiene al piano dell’intelletto agente e del fantasma, piano del “naturalmente”, è Dio, il quale permette che l’intelletto conosca in atto delle verità non acquisibili altrimenti. Questa è la conoscenza soprannaturale. È l’agente stesso, soggetto, che indica una finalità superiore, a livello della conoscenza, nello stesso tempo insita nel cuore dell’uomo. E si tratta della conoscenza soprannaturale di verità complesse, proposizioni peculiari, composizioni di termini semplici in proposizioni, che non sarebbe possibile conoscere in quanto l’intelletto conosce i singoli termini separati. Per esempio l’enunciato “Dio è trino”.55 Quello che accade alla potenza conoscitiva è di essere non sminuita dal soprannaturale ma di essere portata a estendersi “a ciò che trascende i fantasmi”. La capacità di conoscere viene aperta a tutto l’essere e non solo all’essere sensibile. Possiamo qui richiamare l’argomentare sottile di Duns Scoto che passa dall’oggetto primo al soggetto primo, e che fa cogliere la soprannaturalità non solo dal punto di vista della conoscenza attuata da un particolare agente, ma anche dal punto di vista dell’oggetto stesso. Infatti l’enunciato “Dio è trino” non viene soltanto conosciuto in modo soprannaturale ma riguarda anche un contenuto soprannaturale. La verità “Dio è trino” non potrebbe essere manifestata da un oggetto naturale, solo l’essenza divina può dare avvio a questa conoscenza.

3.1. La teologia come scienza56

Soffermiamoci prima sul concetto di “oggetto primo”57:

[…] il carattere del primo oggetto è di contenere in primo luogo virtualmente in sé tutte le verità di quell’abito [della scienza]. Il che lo provo così: in primo luogo, perché l’oggetto primo contiene proposizioni immediate, perché il loro soggetto contiene il predicato e così l’evidenza della proposizione intera; ma le proposizioni immediate contengono le conclusioni; quindi il soggetto delle proposizioni immediate contiene tutte le verità di quell’abito.58

Con l’espressione “in primo luogo virtualmente”, viene indicato il fatto che si tratta di una adeguazione (“in primo luogo”) che riguarda l’oggetto, la scienza, e le facoltà. L’oggetto nel senso del suo essere primo è adeguato all’abito della scienza, in tutto, perché se così non fosse l’abito non riuscirebbe a ricoprire tutto l’oggetto e lo eccederebbe. In questo senso la scienza stessa non deve eccedere il suo oggetto.

Il carattere dell’oggetto è quello di contenere tutto ciò che è adeguato all’abito, e questo è contenuto virtualmente, nel senso che seppure mettessimo da parte ciò che è il contenuto dell’oggetto e avessimo comprensione solo dell’oggetto, questo conterrebbe ancora “oggettivamente” tutte le altre cose. Per abito allora si intende l’essenza di quella scienza.

Riportando la posizione di Tommaso rispetto alla specificità del sapere teologico (e dunque siamo agli inizi della trattazione sulla necessità della dottrina rivelata), Duns Scoto afferma che, in quanto la diversità delle scienze non è data dalla diversità di oggetti ma dal modo di conoscere, il quale modo è prodotto dal concorso dell’oggetto e dell’intelletto proporzionato, sono i principi attivi del conoscere che fanno la differenza, come causa formale. Da qui la conseguenza che le scienze speculative abbracciano in maniera generale l’essere, il conoscibile, in maniera astratta, quindi l’essere divino resta oggetto specifico della teologia.

Egli non crede che nei principi siano incluse tutte le conclusioni possibili, anche se virtualmente. Infatti nelle proposizioni generali il soggetto e il predicato sono presi nella loro massima estensione, e ci sono delle verità conoscibili, non “comunissime”, che non sono incluse nei primi principi.

La teologia possiede tale carattere di scienza. In questo senso la teologia è un abito, ed è la specie intelligibile del suo oggetto primo, della sua essenza, in quanto l’oggetto primo è tutto in essa, non lo eccede. In questo senso l’oggetto primo dell’intelletto e l’oggetto primo della scienza coincidono.

La distinzione non avviene dunque per mezzo dell’oggetto primo ma dell’oggetto prossimo, ciò che è in verità l’immediato o il mediato. Il soggetto stesso o il predicato in esso contenuto.

Possiamo concludere che la teologia in sé è la conoscenza dell’oggetto teologico che si manifesta naturalmente in un intelletto ad esso proporzionato. La teologia per noi, o in noi, è invece la conoscenza che il nostro intelletto ha per natura circa l’oggetto.59

Di per sé il soggetto contiene solo le verità necessarie che lo riguardano. Le verità contingenti gli sono accanto come il resto delle cose, anche contrarie. C’è però qualche verità contingente prossima, ossia “in primo luogo vera”. In questo modo soggetto primo delle verità contingenti è quello a cui si riferisce il predicato che prima viene detto del soggetto, ossia il predicato della prima verità contingente, prima nell’ordine delle verità contingenti. Dunque questo significa che l’elemento in cui è intuibile il predicato di una verità contingente è soggetto primo di tutte le verità contingenti ad essa ordinate.60

[…] l’essenza divina è il primo soggetto della teologia contingente, e lo è intesa nello stesso senso in cui è stato già detto che essa è il primo soggetto della teologia necessaria [ossia rispetto al suo oggetto] […] Il primo soggetto dunque di tutta la teologia in sé e di Dio e dei beati è la [divina] essenza in quanto tale, la cui visione da parte dei beati svolge il ruolo che nella metafisica è la conoscenza dell’ente; e perciò la visione beata non è teologica, ma è per così dire una perfetta e incomplessa apprensione del soggetto, che precede per natura la scienza.61

Con Duns Scoto accade che la teologia divina, quella umana e quella particolare dei beati, i quali hanno una conoscenza perfetta ma non attualmente infinita, fanno una teologia unitaria su un piano d’intersezione, che vede il rapporto della totalità degli enti, delle cose create, in rapporto con l’essenza divina.62 E difatti la conoscenza stessa è data dalla modalità di questo rapporto, se esso è cioè mediato o immediato. A questo punto è possibile qualificare la teologia come scienza.63 Essa anche attraverso verità contingenti porta a conoscere il vero in modo determinato.

È in tal modo ribadita la necessità della teologia come indagine sulla rivelazione, in base alla confutazione delle pretese della filosofia di saper condurre l’uomo al suo ultimo fine, senza contrapporre l’ordine del rivelato a quello naturale, ma servendosi degli strumenti concettuali della filosofia per sostenere la validità della rivelazione e delle sue caratteristiche peculiari, una volta che questa rivelazione è stata accettata come tale per l’assenso della fede.64

4. Il principio di individuazione in Duns Scoto. L’importanza di analizzare: la profondità si fa evidente

Pensare non qualcosa in particolare ma “questa cosa presente in se stessa”, è un argomento quanto mai attuale. Riguarda il pensare e comprendere un qualcosa di individuale, di singolare.65 Così come ci è parso di vedere circa le questioni iniziali, riguardanti la teologia come scienza, cercheremo ora di scorgere il movimento epistemologico che è nel fondo delle questioni riguardanti più strettamente la metafisica. La tensione epistemologica è molto presente in Duns Scoto. Lo stesso modo di considerare la “contrazione” come accesso alla realtà ultima della cosa, dell’individuo, manifesta la possibilità di una conoscenza vera e adeguata, in quanto richiama la capacità dell’intelletto umano di considerare tale stessa contrazione non solo possibile ma anche come un vero e proprio canale per la conoscenza dell’ente. La distinzione formale, che ha indotto alcuni a vedervi una tendenza a non ammettere una vera e propria conoscenza dell’individuo (in contrapposizione alla distinzione di ragione), dovrebbe essere letta in questa prospettiva e secondo l’intenzione dell’autore. La distinzione reale riguarda le cose e gli aspetti che sono separabili. Hanno reale distinzione Socrate e Platone, Socrate e la sua mano, la materia prima e la forma sostanziale, i particolari appartenenti alle diverse categorie. La distinzione formale o concettuale riguarda più in particolare l’intelletto, come causa totale o parziale.66

L’intuizione che sta dietro alla distinzione formale è che l’inseparabilità esistenziale non comporta identità nella definizione; allora gli aspetti distinti formalmente sono esistenzialmente inseparabili, e realmente identici; è meno della distinzione di una cosa dall’altra.67 Tommaso aveva dibattuto molto e affermato l’unicità della forma sostanziale conferente l’essere, che è l’anima per il corpo inteso biologicamente. Duns Scoto, in questo più vicino a Enrico di Gand, pensa la necessità di una forma corporeitatis, distinta dall’anima, dalla forma che conferisce l’essere. La presenza di due o più forme nel composto non compromette l’unità del composto, poiché siamo di fronte a una gerarchia di forme che vede nell’ultima la forma più perfetta, il centro che unifica tutte le determinazioni inferiori. Il progetto di Duns Scoto va decisamente oltre. Il principio di individuazione deve rientrare nella sostanzialità, aggiungendo alla differenza specifica la differenza individuale, una contrazione nella singolarità. La distinzione formale ex natura rei è una particolarità del suo pensiero, originale categoria logica. L’anima pur essendo forma trascende l’attività organica e sensitiva del corpo; per quanto riguarda le sue facoltà, intercorre tra loro e l’anima una distinzione formale. L’anima ha un’esistenza per sé, Duns Scoto è attento a sottolinearlo, separata dall’esistenza del composto, ma l’esistenza dell’intero composto è una.

La differenza degli aspetti identici può essere dunque espressa, causata, o semplicemente detta dalla definizione, una differenza in ratio; ratio qui è inteso come scegliere le caratteristiche che fanno una cosa “questa”. Quindi tutte le definizioni sono rationes. Non è vero il contrario.

Queste rationes le scopriamo per mezzo dell’intelletto, e non meramente le creiamo, in quanto la distinzione tra gli aspetti formali sembra esserci nel mondo, e non causata parzialmente dall’intelletto.68 Quando parliamo di aspetti formali distinti non intendiamo “fuori” della cosa, ma dentro essa. È come se questa iniziale interna distinzione permettesse le distinzioni dei concetti sulla medesima cosa, fino all’esterno, fino a renderla “massimamente” intelligibile, fino a fondare ogni “maggiore” differenza. La formalità di cui parliamo è intesa come “entità”, oggetto formale, intenzione, rationes reali e rationes formali.69 La differenza formale riguarda l’entità e non introduce alcuna reale composizione.70

Possiamo facilmente dedurre il realismo moderato di Scoto, che lascia spazio ai tentativi dei filosofi successivi, ai moderni, soprattutto di area tedesca, di poter teorizzare un “ideal-realismo”.

Duns Scoto parlerà di intuizione del singolare in quanto c’è differenza tra pensare una cosa e “questa cosa” nella sua identità. Egli affronta il tema del principio di individuazione in una delle trattazioni più complete del suo insegnamento, nell’Odinatio II, e nella Lectura II (ma anche in Rep. Par., in Quaestiones subtilissime) .71 Ci soffermeremo sulle questioni 1-6 della terza distinzione, libro II dell’Ordinatio.72

Pensare l’individuo urta con la questione epistemologica. Nella metafisica aristotelica un ente è conosciuto in base alla definizione secondo il genere e la differenza specifica, o definizione della specie: “l’uomo è un animale razionale”. Ma se dovessimo pensare Socrate non in base alla specie ma come uomo? “Bisognerebbe aggiungere una nuova determinazione, una differenza o una realtà supplementare che restringe la sua umanità”. “L’individuo concreto scappa alla scienza”.73

L’importanza del tema dell’individuazione dice prima di tutto una rivalutazione dell’individuo sulla specie (concetto universale che raccoglie la totalità degli individui, caro al pensiero greco), in quanto l’intento è di puntare l’attenzione su un tutto che non è la specie ma l’individuo stesso, una “ricchezza intrinseca”, un rovesciamento di prospettiva che non si nutre di una ristrettezza di sguardo, ma si apre al contenuto di tale ricchezza.74 Come avviene la plurificazione delle essenze? Secondo Duns Scoto non si tratta tanto di considerare la ripetizione della specie, quanto la realizzazione della ricchezza della stessa virtualmente nell’individuo.75

Egli si chiede se la materia sia individuale per sua natura. Ammettere la singolarità per natura significa parlare della universalità come artificio dell’intelletto che deforma le cose. La soluzione che propone è di pensare una realtà intermedia, una unità inferiore, reale, tra l’unità numerica, ossia l’unità reale del singolare, e l’universale. Due individui appartenenti alla stessa specie sono della stessa natura, e dunque la natura è una. Tale natura è una unità propria e reale, comune agli individui, che non si può paragonare all’unità concettuale del genere che è comune alle specie. L’unità reale è minore di quella numerica e meno ristretta di essa, in quanto due unità numeriche non sono paragonabili. Questo elemento comune che non è di per sé individuale, non è nemmeno ancora universale ossia predicabile di più individui.

Causa dell’individuazione può essere allora l’esistenza? Poiché l’individuo è il reale per eccellenza, e poiché lo stesso Aristotele riteneva che l’atto determina un qualcosa, un individuo, e lo distingue, la distinzione ultima dovrebbe essere dovuta all’atto ultimo che è l’atto d’essere. Ma «Exsistentia actualis non habet differentias per se, sed tantum habet variari secundum esse quiditativum; ergo non est de se distinctivum, et per consequens non potest esse prima causa alicuius distinctionis».76 Inoltre, l’esistenza attuale non rientra nell’ordine categoriale, come invece accade per l’essenza, in quanto seppure in qualche modo determina o distingue, non lo fa come per determinare essenzialmente, ossia secondo l’ordine e la distinzione delle essenze.

L’ultima distinzione nell’ordine delle categorie è la distinzione individuale, attraverso l’ultimo atto, per sé pertinente all’ordine delle categorie, a cui non è pertinente, per sé, l’esistenza attuale. L’esistenza attuale è l’ultimo atto, ma posteriore a tutto l’ordine categoriale, distingue ultimamente, ma per una distinzione che è per sé fuori dall’intero ordine categoriale. Una “distinzione” che è quasi accidentale.

La domanda sul principio di individuazione si estende alla quantità. Può la quantità essere causa dell’individuazione, in quanto, anche secondo Aristotele, la quantità è divisibile in parti soggettive, ossia della stessa natura? È riportato l’esempio di due fuochi, diversi poiché le loro forme sono ricevute in quantità differenti. Ma questo esempio evidenzia una caratteristica ancora accidentale. La quantità dunque non può individuare. Gli accidenti non possono distinguere la sostanza materiale, non possono renderla individuale. Sicuramente permettono la distinzione in un insieme di enti, in quanto gli accidenti stessi diventano intelligibili in relazione alle sostanze proprie che li determinano. La divisione per mezzo della quantità non è della stessa ratio della divisione delle specie, in quanto in una specie la plurificazione degli individui è intrinsecamente connessa alla loro individuazione. La natura della specie è la stessa natura dell’individuo.

Dunque il principio di individuazione secondo Scoto è un elemento positivo intrinseco, che si aggiunge alla natura dell’individuo e lo individualizza. L’individuo possiede la natura in un modo tutto particolare, proprio, singolare e incomunicabile, irripetibile. Il principio intrinseco che le si aggiunge non resta un aggiunto, diventa uno con la natura.77

Codesta realtà individuante è intelligibile? Scoto risponde che essa lo è in se stessa, ma non lo è in rapporto a noi. La ragione non dipende dalla singolarità in se stessa, ma dal fatto che essa ci trascende per eccesso. Il singolare, se lo conoscessimo, potrebbe da noi esser visto o intuito, ma non definito, perché l’entità che aggiunge non è dell’ordine della quiddità. Solo le essenze sono definibili, dimostrabili e oggetto di scienza. Nella visione metafisica di Scoto la punta estrema del reale sfida la conoscenza scientifica; se fosse diversamente, basterebbe la fisica. Noi riteniamo che Scoto richiami qui la distinzione tra la conoscenza intuitiva e quella astrattiva. L’oggetto della prima è l’esistenza attuale della cosa o realtà presente alla mente; l’oggetto della seconda è l’essenza astratta dalla esistenza. L’individuo è direttamente conoscibile in quanto è questo esistente, ma non è definibile perché è al di fuori della sfera dell’essenza.78

4.1. (Quaestio 5) Utrum substantia materialis sit haec et individua per materiam

La domanda circa la materia quale causa individuante è conseguente alla trattazione della quantità: essa non può essere causa dell’individuazione in quanto parlare di quantità vuol dire dover distinguere prima di tutto i termini del discorso, ossia se esso avviene secondo l’ordine categoriale, o secondo l’ordine accidentale, un po’ più complesso; non può essere inoltre causa di individuazione e di divisibilità in quanto è posteriore ad ogni distinzione.

“In fundamento naturae nihil est distinctum” (ex V Metaphysicae), — et haec est materia; ergo materia, quae secundum se est indistincta, non potest esse causa distinctionis».79 “Nel fondamento della natura niente è distinto”. Quello che non è in sé distinto non può essere causa prima della diversità o della distinzione da un altro; la materia è fondamento della natura completamente indistinto e indeterminato; dunque non può essere la prima causa della distinzione o della diversità da altro. «Ad hanc quaestionem solent dicere quidam quod materia est ratio qua substantia materialis est haec, et quod forma non est haec nisi quia recipitur in hac materia vel in illa, ut sic tota singularitas substantiae materialis sit a materia.80

Come il composto non può essere da se stesso questo, così nemmeno la materia, che è parte di esso, sarà da sé questa. Inoltre la materia è la stessa in ciò che è generato e in ciò che è corrotto.

Secondo Gilson, Duns Scoto chiedendosi se la materia esiste, non sta semplicemente chiedendo se esiste quella materia che insieme alla forma costituisce il composto, ma la domanda riguarda già l’esistenza di quella realtà positiva dotata di un essere proprio e distinto dalla forma negli enti che sono soggetti a generazione e corruzione. E la risposta sull’esistenza di quella realtà positiva è affermativa, ed è realtà ultima di quella stessa materia che è parte del composto.81

È interessante che Duns Scoto sia certo di interpretare qui esattamente il pensiero di Aristotele. La materia aristotelica è il ricettacolo della forma; se essa non fosse nulla, come potrebbe riceverla? Et ideo ponens materiam solum in potentia objectiva, et non subjectiva, negat omnem rationem Philosophi de materia. La posizione scotista differisce qui da quella che avevano adottato non soltanto Tommaso d’Aquino, ma la maggior parte di coloro che si erano richiamati ad Aristotele. Tutti ammettevano, come fa Duns Scoto, che la materia è il soggetto della transmutazione sostanziale, ma pochi avrebbero ammesso che essa sia concepibile come dotata di una propria entità indipendente dalla forma.82

La materia diventa conoscibile proprio perché possiede un essere distinto dalla forma, e il composto è possibile proprio perché i distinti si trovano in una situazione di convenienza a formare un uno. Dunque la materia ha il suo grado di entità, inferiore a quello della forma ma superiore a quello dell’accidente, in quanto parte della sostanza.

4.2. (Quaestio 4) Utrum substantia materialis per quantitem sit individua vel singularis

Con la quarta questione entriamo nello specifico dell’argomento della quantità. «Utrum quantitas sit illud positivum quo substantia materialis est haec et singularis et indivisibilis in partis subiectivas».83

L’itinerario di approfondimento sembra a questo punto indirizzarsi sempre più chiaramente verso quello che sarà l’argomento più importante, “conclusivo”, la “soluzione”.

Effettivamente merito di Duns Scoto è aiutare a guardare con occhi nuovi il particolare presente, “scontato”, nella sua importanza, rilevanza, straordinarietà. E ancora di più nel suo essere indispensabile. La sua soluzione al problema dell’individuazione affascinerà molti, soprattutto nell’età moderna.84

Che la quantità possa essere causa di individuazione è sostenuto da coloro che, come Boezio, vedono negli accidenti la ragione della differenza nel numero e non attraverso la specie o il genere. E tra tutti gli accidenti, il primo accidente è la quantità, la quale sembra esprimersi attraverso il “luogo”, che a sua volta è collegato ai corpi e alla loro grandezza.85 Il vero intento di Boezio in realtà era di provare che non c’è differenza numerale delle persone divine.86

Per individuazione o unità numerale o singolarità si intende non certamente l’unità indeterminata (per la quale ogni cosa in una specie, è detta una per numero), ma l’unità segnata (“questa”), di modo che, non solo è incompatibile con un individuo essere diviso in parti soggettive, ed è cercata la ragione di questa “incompossibilità”, ma è anche incompatibile con un individuo non essere designato “questo” da questa singolarità, ed è cercata la causa non della singolarità in generale ma “di questa” singolarità in particolare.

Nessun accidente può per sé essere causa di individuazione della sostanza materiale.

È necessario che la quantità in se stessa sia primariamente questa, e da se stessa distinta numericamente da quella, come una sostanza è numericamente distinta da un’altra. Questa quantità differisce dalla posizione di un’altra quantità, secondo la differenza numerale e non per se stessa.87 «[…] diversitas quantitatis a quantitate est secundum speciem: ergo duae quantitates non possunt differre in eadem specie! ».88

L’argomento è confermato, poiché “l’intero” universale, che è diviso in individui e in parti soggettive, è predicato di qualsivoglia di quelle parti soggettive (così che qualsiasi parte soggettiva è virtualmente lo stesso intero), al contrario le parti quantitative, nelle quali un continuo intero è diviso, mai ricevono la predicazione dell’intero diviso in esse. “La natura comune” è divisibile da sé in individui, non al contrario gli individui sono distinti a motivo della natura; il genere è divisibile in se stesso in molti generi e in molte specie, e tuttavia il genere non è misura di distinzione delle specie.

4.3. L’unità reale. (Quaestio 1) Utrum substantia materialis ex se sive ex natura sua sit individua vel singularis

Se la natura della pietra fosse “questa pietra” sarebbe “questa pietra” ovunque. Ma non si può costringere la natura della pietra in questa pietra. Inoltre se all’uno conviene un opposto da sé, gli è incompatibile un altro opposto, ossia se la natura diventa una per numero, le è incompatibile la multitudo numeralis. Esisterà dunque una pietra e non una pluralità di pietre. L’oggetto è oggetto prima di tutto per l’intelletto umano. Ed è oggetto singolare. L’intelletto conosce questo oggetto secondo un modo, non posteriore al suo opposto, ossia conosce l’oggetto sotto il modo dell’universale:

igitur intellectus intelligens illud obiectum sub ratione universalis, intelligit ipsum sub ratione opposita suae rationi, quia ut praecedit actum determinatur ex se ad oppositum illius rationis, scilicet universalis»;89 «ergo intellectio lapidis sub ratione universalis est intellectio eius sub opposita ratione obiectivae propriae et rationi obiecti: ergo omnis intellectio rei, sub ratione qua universalis, est intellectio opposita propriae rationi obiecti.90

L’unità reale di qualsiasi cosa è minore di quella numerale, infatti non è da sé una per unità numerale e non è da sé “questa”. È propria e sufficiente della natura di “questa pietra”. Poiché l’unità reale è anteriore all’intelletto, è altro dall’unità numerale. «Intellectus enim considerans non facit generationem esse univocam, sed cognoscit eam esse univocam».91

Riferendosi al fatto che l’intelletto conosce l’oggetto per la sua ragione opposta, ossia l’universale, Duns Scoto deduce che allora la sostanza materiale non è da sé questa, perché l’intelletto non la conoscerebbe per il suo opposto. Dunque anche la posizione che c’è qualcosa che è unità reale fuori dall’intelletto e minore dell’unità numerale, o minore dell’unità propria del singolare, porta alla medesima considerazione, ossia che questa unità non è l’unità del singolare, è altro. Perché è tale secondo un’unità propria di natura. Questo lo spiega bene Avicenna nella sua Metafisica, dove dice e stabilisce che l’equinità è l’equinità, e basta. Non è da sé una, né parecchie, né universale, né particolare. Infatti è prima di tutti questi, e non è senza qualcosa di questi. Ed è oggetto dell’intelletto per ciò che è, e per ciò che è, è definizione e oggetto di studio del metafisico.

“Questo uomo”, posto come “idea”, e per sé esistente e non può essere universale di ogni uomo, perché così accade a ogni sostanza per sé esistente, ossia di non essere in altro ma proprio in quello di cui è, o fatta propria da un “contraente” che non è in altro, anche se questo non gli sarebbe incompatibile. L’idea non può essere sostanza di Socrate perché non è natura (il per sé) di Socrate, ed è anche in altro. Dunque l’universale non può essere sostanza. La sostanza prima invece è propria di ciò cui appartiene. Occorre evidenziare che sia “l’essere comune”, sia la singolarità, sono da cercare come convenienti alla natura, fuori dall’intelletto. Già la comunanza conviene da sé alla natura, per l’unità reale. La singolarità invece le conviene ma attraverso altro, attraverso cioè un contraente nella stessa.

4.4. “Oltre” la ragione formale. (Quaestio 2) Utrum substantia materialis per aliquid positivum intrinsecum sit de se individua

Nella seconda questione Duns Scoto si chiede se la sostanza materiale sia individuale per qualche positivo intrinseco. Sostanzialmente egli risponde all’obiezione di Enrico di Gand, secondo il quale l’individuazione nelle cose create avviene per duplice negazione.

Sembra essere necessario che per qualche positivo intrinseco questa pietra sia questa pietra, così come essere divisa in parti soggettive è incompatibile con il suo proprio modo di essere; e questo positivo intrinseco sarà quello che è detto essere per sé causa dell’individuazione, poiché per individuazione si intende quella indivisibilità o incompatibilità con la divisibilità.92 Riprendendo l’argomento principale, si afferma che per quanto sia falso che “il termine ‘uno’ esprima solo la privazione e la divisione in se stesso e la privazione di identità con un altro”, tuttavia se fosse vero che “uno” significhi formalmente quella duplice negazione, non seguirebbe che non abbia qualche causa positiva.93

E questo è l’argomento adatto per la soluzione della questione, poiché in una unità, minore dell’unità numerale, una entità positiva (la quale per sé sia ragione di questa unità e incompatibilità con una moltitudine opposta) deve essere data, massimamente, o egualmente, per l’unità perfettissima, che è l’unità numerale.94

Si sta cercando di capire se la causa prossima dell’individuazione della sostanza materiale sia qualcosa di positivo, nel suo genere, o di privativo (la domanda non è riferita a “unum” se dica un positivo o un negativo) .95

Duns Scoto si chiede donde “una negazione” sia questa, della stessa causa in questo singolare e in quello. In Socrate vi è duplice negazione, così come in Platone; per quale motivo Socrate è “singolare” per la propria singolarità e non per la singolarità di Platone? Non può esserci risposta se non trovando donde la “negazione” è questa negazione, il che non può avvenire se non per qualche positivo.

Tu dicis: ‘Propter duplicem negationem, scilicet propter indivisionem in se et divisionem ab omni alio’. Adhuc restat alia quaestio, quae prius: unde est quod natura in illo habet duplicem negationem? Unde non assignat in aliquo causam individuationis»; «[…] si igitur prima substantia non habet nisi naturam et negationem duplicem, et ista negatio non addit perfectionem supra naturam, sequitur quod prima substantia non dicet maiorem perfectionem quam substantia secunda, — quod falsum est, quia ‘prima substantia maxime et proprie dicitur’, sicut dicitur in libro Praedicamentorum.96

5. L’entità positiva. (Quaestio 6) Utrum substantia materialis sit individua per aliquem entitatem per se determinantem naturam ad singularitatem

Nell’ultima questione che prendiamo in considerazione, ci troviamo di fronte a un cambiamento di formulazione della domanda. Duns Scoto parla di una qualche entità, per sé determinante, e per sé determinante la natura, alla singolarità.

Parla di una entità. Qualcosa di specifico perché appartenente al campo dell’ens. Ricerca metafisica. La realtà dell’ens. A Duns Scoto sta a cuore questo, entrare in maniera riflessiva in quel canale reale che conduce alla massima, o meglio dovremmo dire minima (nel senso di indivisibile), realtà dell’ens. Sembra aprirsi a questo punto una riflessione a livello antropologico, a partire effettivamente da questo minimo, apparentemente ovvio, ma che per quanto ci riguarda è il fulcro di tutta la nostra riflessione, lasciando, come vedremo, questioni aperte, in un “sistema aperto”.

Siamo di fronte a una entità che è in grado di determinare da sé la stessa natura alla singolarità. Non determina l’individuo, ma la natura. In modo tale da poter far parlare di una individualità dell’individuo, di caratteristiche dell’individuo stesso.97

Inoltre è questo il primo luogo in cui è indicata nella questione la “singolarità” non in maniera alternativa o come sinonimo di individualità, ma come caratteristica della stessa individualità. È interessante. È come se egli fosse riuscito, nella sua riflessione, a recuperare il dato di fatto della singolarità come caratteristica, come proprietà dell’individuo, come stato fondamentale del suo essere, fondamentale e perciò di diritto. La singolarità come dignità dell’essere.

La singolarità è sicuramente un aspetto da recuperare a livello filosofico, teologico, antropologico.

Cercare il principio di individuazione della sostanza materiale, ossia della sostanza che include come sua parte essenziale, accanto alla forma, anche la materia, significa indagare quale sia il fondamento immediato e intrinseco di una “opposizione (repugnantia) ” che contraddistingue l’individuo: quello ad “essere diviso in più entità, ciascuna delle quali sia esso stesso”. Il concetto di repugnantia designa una incompossibilità tra realtà dovuta alle loro proprie ragioni formali. Nel caso dell’individuo si tratta della opposizione o incompossibilità tra la sua singolarità e quella particolare modalità di divisione.98

L’incompossibilità è la repugnantia alla divisione in parti soggettive, cioè quidditativamente identiche all’individuo (in questo senso l’individuale si oppone intrinsecamente all’universale). La indivisibilità del singolare, ossia della sua unità massima che è l’unità numerale, non può essere fondata su una negazione.99 «[…] la differenza individuale è una “differenza perfettissima”. Essa è infatti il fondamento dell’unità perfettissima del singolare».100

L’articolazione dell’intera questione è questa volta abbastanza semplice. Riporta gli argomenti negativi, a svantaggio della questione, e un argomento positivo. Si fa parlare l’opinione di altri, secondo la traduzione di King si tratta in realtà del punto di vista di Goffredo di Fontaines, e quindi è riportata la disapprovazione dell’opinione, la confutazione dell’interpretazione di questa opinione, e l’opinione propria di Scoto, comprese le risposte ai diversi argomenti.

Tra i motivi negativi verso quanto proposto nella formulazione della questione:

Si substantia materialis, vel natura specifica, determinaretur ad singularitatem per aliquid positivum aliud, illud se haberet ad naturam specificam sicut actus ad potentiam; sed actus et potentia faciunt unum compositum; ergo omne individuum esset compositum, cuius altera pars esset ‘natura specifica’ et altera ‘alia natura positiva’, — et ita nullum individuum posset poni in esse nisi haberet maiorem compositionem quam natura specifica, quod videtur inconveniens.101

Quell’entità “determinante” sarebbe in relazione alla natura (che è natura specifica) come l’atto alla potenza; dalla natura specifica e da quel determinante verrebbe un vero e proprio composto, la qual cosa è inconveniente. Questo “determinante” sarebbe materia, o forma, o un qualche composto di materia e forma: qualunque di queste alternative è però inconveniente. Si aggiungerebbe a ciò che è già parte della natura un’altra materia, o un’altra forma o un altro composto.102

Il secondo argomento negativo, comporta già un accenno interessante alla questione della conoscenza del singolare. Il singolare, composto dalla natura e da quel per sé determinante, sarebbe uno per sé, dunque intelligibile per sé. Ma questo sembra essere contrario allo spirito aristotelico. Aristotele sostiene apertamente che l’intendere è “universale” mentre il senso e la sensazione riguardano il singolare. Se il singolare fosse per sé intelligibile, potrebbe esserci dimostrazione e scienza di esso, e così ci sarebbe una scienza propria dei singolari in quanto singolari, e questo non è possibile.103

Duns Scoto puntualizzerà più avanti che il “singolare” è per sé intelligibile, per quanto è da parte sua, come per esempio non c’è impossibilità da parte del sole ad essere visto, l’impossibilità è dalla parte degli occhi della nottola.

Il singolare non è determinato da una definizione altra dalla definizione della specie. Quella “entità per sé” che il singolare aggiunge all’entità della specie, non è l’entità quidditativa. Diventa chiaro che circa la scienza e la dimostrazione del singolare, in quanto la definizione del soggetto è il termine medio nella dimostrazione principale,104 non avendo il singolare definizione propria, ma solo definizione di specie, non può esserci dimostrazione propria dello stesso, ma solo dimostrazione che concerne la specie.

L’argomento positivo inoltre afferma che, poiché ogni inferiore include di per sé qualcosa che non è nel superiore, dunque nella ragione dell’individuo è incluso qualcosa per sé, che non è incluso nella ragione della natura. Questo qualcosa è appunto un’entità positiva (in riferimento alla precedente seconda questione, Ord. 2 d. 3 p. 1 q. 2 n. 57), e produce con la natura un “per sé uno” (come dalla soluzione della quarta questione, Ord. 2 d. 3 p. 1 q. 4, n. 111). Quindi si tratta di una entità positiva che determina la natura alla singolarità, o al modo dell’“inferiore”.

5.1. L’opinione propria di Scoto

Respondeo […] quod substantia materialis per aliquid positivum determinatur ad hanc singularitatem, et ad diversas singulatitates secundum diversa positiva.105

La sostanza materiale è dunque individuale per qualche entità positiva per sé determinante la natura alla singolarità.

[…] igitur unitas singularitatis, cui repugnat dividi, habebit entitatem sibi proportionalem. Non autem ista unitas consequitur entitatem naturae (quia unitas naturae minor est unitas quam sit ista singularitas quae est unitas numeralis […] ergo oportet quod consequatur aliquam entitatem formaliter, quae sit extra rationem entitatis specificae, — et per consequens non est entitas specifica quam consequitur ista unitas. Ista autem entitas facit ‘per se unum’ cum natura specifica, quia supra probatum est quod individuum est per se unum, non per unitatem alterius generis; ergo sequitur quod natura specifica determinetur per aliquid positivum ad essendum hoc individuum.106

Come l’unità in generale è per sé conseguente all’entità in generale, così qualunque unità per sé è conseguente a qualche entità; dunque l’unità semplicemente, “l’unità dell’individuo”, se è negli enti consegue per sé a qualche entità per sé. Questa entità determina la natura e produce qualcosa per sé una, poiché “il tutto” di cui è questa unità, è perfetto da sé. La natura è “naturalmente” prima di questa unità, e dunque è prima anche la sua unità propria rispetto a “questa natura”. «[…] et sub ista ratione est consideratio metaphysica de natura, et assignatur definitio eius, et sunt propositiones per se primo modo».107 Quindi, nello stesso individuo, che è uno per numero, vi è qualche entità alla quale consegue una unità minore dell’unità numerale. Questa unità è reale. E l’ente a cui appartiene tale unità è formalmente uno da sé per l’unità numerale.108

«Si autem comparetur natura specifica primo modo [ad inferius se], sic differentia specifica est ratio ultima unitatis suae, quae non potest dividi in plures naturas specificas; et per differentiam specificam, cui primo repugnat divisio, natura constituitur atoma».109 Qualcosa può essere detta animata in due modi: “denominativamente” e “per sé nel primo modo”. È animata denominativamente come nel caso del corpo, che è chiamato animato; mentre è detta animata per sé nel primo modo come nel caso dell’uomo, in cui il soggetto include il predicato. Oppure, la superficie è detta bianca denominativamente, la superficie bianca è detta bianca per sé nel primo modo. Qualsiasi cosa presente in “questa pietra” è una per numero: o primariamente (in quanto tale unità converrebbe al composto), o per sé (quello che è primariamente uno in tale unità ne è considerato per sé parte), o denominativamente (come nel caso del potenziale che è contratto dall’attuale, unità conseguente quell’attualità. Il potenziale è “uno” dall’unità propria di quell’attuale, ed è denominativamente “uno”).

Sicuramente negli individui ci sono dei fattori diversi primariamente, e questi non saranno negazioni, o accidenti, ma saranno alcune entità positive per sé determinati la natura.110

Duns Scoto chiarirà la sua soluzione, lo status ontologico di quella entità positiva che determina per sé la natura alla singolarità; quale sia questa entità dalla quale deriva quella perfetta unità che è nell’individuo. Egli riporterà il caso dell’analogia tra tale entità e quell’entità dalla quale è presa la differenza specifica.

Il dottor Sottile ha richiamato l’attenzione dei filosofi sul valore del principio di individuazione: esso non deve limitarsi alla considerazione dell’individuo come mera ripetizione dell’essenza, ma sul valore metafisico ed etico (se si tratta di enti dotati di intelligenza e volontà libera).111

5.2. La singolarità, il nuovo nome dell’essere e fondamento di una altrettanto nuova antropologia

La questione stessa dell’intelligibilità del singolare, che sarà fondata proprio su quella realtà ultima che determina l’individuale “questo individuale”, diventa un’esigenza non soltanto per la filosofia ma anche per la teologia. Infatti Dio non crea la specie umana ma ogni uomo in particolare. Perché possa essere conosciuto da Dio, occorre che l’individuo sia in se stesso intelligibile.

L’unità assoluta non deve essere confusa con l’essere della specie (che ammette in se stessa diversi soggetti esistenti), in quanto è una determinazione posteriore a quella della specie. Inoltre, all’interno della stessa specie è possibile parlare di differenza tra gli individui, attraverso quelle caratteristiche che diversificano un individuo da un altro, Pietro da Paolo. Gli individui hanno una differenza propria, la differenza individuale, sulla base di qualcosa di identico: la loro essenza comune. Queste differenze che si aggiungono alla natura comune, individuano maggiormente, e diversificano proprio il “comune”.

Dunque si tratta di un’aggiunta che è propria di ciascun ente individuato, che non possiamo in questo modo conoscere direttamente perché non abbiamo intellezione diretta della singolarità e la sua intelligibilità non può essere elevata a universale. Possiamo soltanto pensare le cause della singolarità per mezzo di una somiglianza con una determinazione già nota: “la differenza specifica”.

«Differentia quippe specifica, sive entitas a qua sumitur differentia specifica, potest comparari ad illud quod est infra se, vel ad illud quod est supra se, vel ad illud quod est iuxta se».112 Così come l’unità della specie non è divisibile in altre specie («repugnat per se dividi in plura essentialiter»),113 e dunque tale divisione è incompatibile con il tutto di cui l’entità specifica è parte, allo stesso modo l’unità dell’individuo non può essere divisibile in altri individui («repugnat dividi in quascumque partes subiectivas»)114 e dunque tale divisione è incompatibile con il tutto di cui l’entità individuale è parte. «Et tantummodo est differentia in hoc quod illa unitas naturae specificae minor est ista unitate, et propter hoc illa non excludit omnem divisionem quae et secundum partes quantitativas, sed tantum illam divisionem quae est partium essentialium; ista autem excludit omnem».115 La differenza tra i due casi riportati è solamente nel fatto che l’unità di natura specifica è minore dell’unità dell’individuo, e per questo l’unità di natura specifica non esclude ogni divisione che è secondo le parti quantitative, ma solo esclude quella divisione che è di parti essenziali; invece l’unità dell’individuo esclude ogni divisione.116

Come il genere è determinato dalla differenza specifica, così la specie dalla differenza individuale. «Quoad hoc ista realitas individui est similis realitati specificae, quia est quasi actus, determinans illam realitatem speciei quasi possibilem et potentialem, — sed quoad hoc dissimilis, quia ista numquam sumitur a forma addita, sed praecisa ab ultima realitate formae».117

Ma la somiglianza finisce qui. La differenza specifica è una forma quidditativa, costituisce il composto (del quale è parte) nell’essere quidditativo, poiché è essa stessa una certa entità quidditativa, mentre la differenza che individua, ossia la realtà dell’individuo, non è una quiddità che si aggiunge a quella già esistente, è primariamente diversa da ogni entità quidditativa, non deriva da una forma aggiunta ma dalla realtà ultima della forma. «[…] quamcumque entitatem quiditativam […] communis est multis, nec repugnat dici de multis quorum quodlibet est ‘ipsum’»;118 allora questa entità individuale, la quale da sé è altra entità dalla quiddità o entità quidditativa, non può costituire il tutto (di cui è parte) nell’essere quidditativo, ma piuttosto nell’essere che ha altra ratio (cioè essere contratto) .119

Questa realtà ultima che diventa individuante è paragonabile all’“atto che determina la realtà della specie”; in questa ultima attualità la forma della specie si manifesta, si esteriorizza, si fa singolare.

La realtà specifica, essenzialmente formale, costituisce qualcosa nel modo di essere del predicato, è capace di essere predicato; la realtà individuale, essenzialmente materiale, costituisce qualcosa nel modo proprio del soggetto, è capace di essere soggetto.

Duns Scoto conclude dicendo che se gli si chiede qual è questa “entità individuale” dalla quale deriva la differenza individuale, se non è la materia, o la forma, o il composto, egli risponde ancora con riferimento alla differenza specifica: ogni entità quidditativa, appartenente a un genere, è da sé indifferente “come entità quidditativa” a questa o a quella entità individuale ed è naturalmente prima di quest’ultima. Dunque questa entità individuale non è materia, o forma o composto, in quanto questi sono “natura”, ma è “ultima realitas entis”, che è materia o forma o composto.

Non est igitur ‘ista entitas’ materia vel forma vel compositum, in quantum quodlibet istorum est ‘natura’, — sed est ultima realitas entis quod est materia vel quod est forma vel quod est compositum; ita quod quodcumque commune, et tamen determinabile, adhuc potest distingui (quantumcumque sit una res) in plures realitates formaliter distinctas, quarum haec formaliter non est illa: et haec est formaliter entitas singularitatis, et illa est entitas naturae formaliter. Nec possunt istae duae realitates esse res et res, sicut possunt esse realitas unde accipitur genus et realitas unde accipitur differentia (ex quibus realitas specifica accipitur), — sed semper in eodem (sive in parte sive in toto) sunt realitates eiusdem rei, formaliter distinctae.120

Dunque quell’entità che permette all’individuo di essere “questo individuo” non possiamo concepirla come fuori dall’essere distinto. La distinzione formale in questo senso aiuta.

Nella ricerca resta una “tensione epistemologica” che stiamo cercando di evidenziare. L’importanza di questa visione del reale avrà la sua continuità in Occam, anche se in termini detti spesso di “rovesciamento” di prospettiva. Occam infatti partirà dal singolare come assioma, dato. Egli riprende la “primità” metafisica dell’individuo, rendendo il singolare accessibile alla nostra intelligenza presente, in se stesso intelligibile. Si tratta della conoscenza attuale del singolare. La nostra intelligenza è elevata a una nuova intelligibilità, che sembrerebbe trasparente, delle cose. Dunque non vi è alcun “comune”, alcun universale “fuori dallo spirito”.121 Occam fa dell’intuizione distinta del singolare la pietra angolare della sua epistemologia. La genesi di questo “rovesciamento” è proprio nell’opera di Duns Scoto, nel suo aver parlato dell’individuazione attraverso l’attualità ultima della sostanza materiale individuale. “La singolarità stessa di ogni singolare è l’ultima attualità della sua forma”.122 La metafisica delle essenze diventa “esperienza del singolare”. Lo studio del reale è l’esatto momento in cui l’intelligibile si esteriorizza, si fa visibile in se stesso, nella sua realtà più intima.

Dunque Duns Scoto afferma che in ogni individuo c’è un principio che causa per il suo essere l’esatta cosa che esso è, ossia la differenza individuale, e un principio distinto formalmente che causa per il suo essere il genere di cosa che esso è, ossia la natura comune. La natura comune tra le due viene prima, in quanto indipendente e indifferente alla differenza individuale. La domanda che pone King è interessante: come nella stessa cosa possono sussistere due principi, che sembrano opposti, entrambi reali, la differenza e la comunanza?123

King si chiede se il nostro autore ha una risposta al problema di Occam. E la risposta è sì, perché l’individuazione si applica all’atto, la comunanza alla potenza. La domanda “se la sostanza materiale è individuale da se stessa o per natura sua”, in realtà è la domanda “se occorre realmente parlare del principio secondo cui una cosa è questa”. La questione metafisica è che cosa contrae la natura dalla sua intrinseca comunanza all’individualità. Secondo King si può parlare di un’uncontracted nature e di una contracted nature. Ciò che contrae è la differenza individuale, che si aggiunge alla natura uncontracted.124 L’essenza stessa, oggetto dell’intelletto, è dunque primaria e indifferente, natura non contratta. E la natura non contratta come tale non esiste, ossia non ha lo status ontologico metafisico, poiché non ha esistenza reale. La natura non contratta, che non è numericamente una, non è predicabile di molti individui, per questo non può essere considerata universale.125 La natura che ha l’essere nell’intelletto è universale, predicabile a livello quidditativo di molti. L’universalità è una caratteristica dei concetti.

La natura contratta, o differenza individuale, attualizza le potenzialità della natura non contratta, e la natura contratta è il prodotto dell’attualizzazione. Il genere rispetto alla specie è potenza, la differenza specifica è l’atto che attualizza la specie.

Come è possibile allora che in una reale, unica e stessa cosa, la reale minore unità di quella numerale è compatibile con la reale unità numerica? Seguendo Aristotele, un individuo è la sua natura contratta, intrinseco modo della sua natura non contratta. La natura non contratta è denominativamente una secondo il numero (in senso potenziale). Il numericamente uno viene poi attualizzato.

L’universalità ha il suo fondamento nella realtà singolare, ma ha la sua esistenza, forma o condizione di universalità nella sola mente, la quale predica di più individui ciò che nella realtà si trova nella condizione o stato di singolarità. La peculiarità della dottrina scotista è che Scoto ammette l’esistenza della natura comune, la quale di per sé non è universale, ma riceve per così dire l’universalità che vi si aggiunge quando essa diviene oggetto dell’intelletto.126

Dunque l’intelletto (che per Duns Scoto, a differenza di Tommaso, non è distinto realmente in intelletto agente e possibile, ma è unico, come lo sono la potenza e l’atto di una medesima facoltà)127 non crea l’oggetto, fuori da ogni soggettivismo, o idealismo assoluto, ma ricrea l’oggetto dandogli l’essere intenzionale, ossia il modo universale di essere, secondo cui avviene la conoscenza intellettiva.128

Per Duns Scoto non c’è reale distinzione tra essenza ed esistenza, ma è pur vero che con il linguaggio contemporaneo potremmo leggere nella verità dell’ultima realitas entis qualcosa che è in analogia con la differenza ontologica; del resto come abbiamo visto la riflessione del nostro autore non si discosta radicalmente nemmeno da Tommaso che formalizza l’atto d’essere come principio di individuazione. Le differenze all’interno della riflessione di Duns Scoto e la sua concezione della distinzione formale aggiungono elementi che qualificano l’istanza di intelligibilità del reale, ossia il trascendentale.129 Il suo pensiero è dunque quanto mai attuale e quanto mai volto a un nuovo sguardo sull’uomo nella sua umanità. La singolarità è ciò che attraverso il linguaggio umano può dire il nuovo nome dell’essere, non cosificandolo, ma mantenendolo nella sua trascendenza e dunque nella sua intelligibilità. Che ogni uomo sia considerato oggettivamente nella sua unicità e autenticità, nella sua libertà di individuo soggetto è quello che ci sembra possa nascere da queste considerazioni sul principio di individuazione nelle questioni tratte dal secondo libro, terza distinzione, dell’Ordinatio. Al di là di ogni interpretazione che si è data del pensiero di Duns Scoto sull’individuo come ultima solitudo, vogliamo propriamente richiamare l’attenzione alla connessione, di tessuto gnoseologico, tra la natura comune e l’autenticità per così dire, l’unicità, l’ultima entità, che contrae tutto l’ente, non aggiunta, somma ed evidente qualificazione, ricchezza d’essere, che pone l’uno di fronte alla possibilità di conoscere e riconoscere l’altro.

6. Conclusione

Ci chiediamo come collocare a livello epistemologico una pur presente ineffabilità o non totale comprensione da parte dell’intelletto umano di quell’entità, ultima realtà, che individualizza l’individuo. Non dobbiamo dimenticare che siamo di fronte a un filosofo credente, e a un teologo.130 Sulla base di un’esperienza di fede è possibile dedurre, esprimere, tutto il valore dell’autenticità, irripetibilità, e mistero, dell’individuo. In realtà la filosofia di Duns Scoto è stata stimolata dagli elementi di fede ad andare oltre, e il suo contributo è alla filosofia, in quanto nel cercare il fondamento ultimo della realtà, dalla parte dell’individuo, pone la necessità di dire la semplicità della realtà ultima, in analogia con lo stesso discorso sull’essere, che non è possibile conoscere in maniera adeguata ma che certamente permette la corretta conoscenza di ciò che accade sotto il suo ordine. Dunque interrogarsi e ricercare il fondamento è possibile, ed è, a questo punto, regolativo per tutto il resto.

È come se il discorso metafisico si arrestasse per far spazio alla riflessione che guarda “dentro” alle cose, e si sforza di dire tutto quello che riesce a dire. Ciò che si scorge nell’indagine del nostro autore è l’origine stessa della filosofia: il pensiero si trova a contemplare la verità intuita in uno stato di meraviglia e nello scacco di non poter comprendere fino in fondo. «Il principium individuationis può dunque essere caratterizzato come il fondamento di una indivisibilità, e precisamente della massima indivisibilità o unità dell’ente».131

Scoto non ha cercato tanto una risposta, quanto di formulare correttamente la domanda sul principio di individuazione.

Dopo aver presentato diversi argomenti per l’esistenza di quella entità che risolutamente Duns Scoto ha asserito essere il principio di individuazione, entità determinante la natura specifica alla singolarità, abbiamo visto che tale entità gioca un ruolo sul piano individuale che è simile a quello che gioca la differenza specifica a livello specifico. Ma cosa sia questa entità non lo sappiamo.132

Egli richiama gli elementi fondamentali della sua dottrina dell’essenza: ogni entità quidditativa è indifferente all’individuazione. Un’essenza da sé non è un individuo. Le essenze individuali non sono prima individuali, ma rese individuali da qualcosa che si aggiunge. Materia, forma, composto, sono entità quidditative poiché sono essenze dello stesso genere. Il principio di individuazione non è un’essenza.

«Scotus holds that we do not have intellectual knowledge of the individual in this life even though the individual is in itself knowable […] ».133 In realtà egli non si inventa qualcosa di nuovo, misterioso, perché crede nell’adeguatezza del sistema categoriale di Aristotele. Vuole aprire una possibilità di pensiero sul principio di individuazione. E questa è la vera novità. Cercare non una cosa, ma il principio e l’attuabilità di una cosa. Occam intenderà questo principio, nell’impianto di Duns Scoto, come qualcosa dentro all’individuo, una “piccola cosa”. Ma questo non è l’intento di Duns Scoto.

Scotus is trying to show that the relationship between a specific essence and its principle of individuation is not to be seen as the relationship between two essences or kinds of being, such as a substance and an accident, but as the relationship between a potentiality and an actuality, an essence and a principle, namely between two different senses of ‘being’: two entities belonging to what we would call different logical categories.134

Secondo G. Pini135 nel primo schema di Duns Scoto il nocciolo della questione era, anticipatamente alla Lectura e all’Ordinatio, cercare un modo appropriato per esprimere il principio di individuazione, parlando di forma individuale (forma individualis). Più tardi nella Lectura e nell’Ordinatio, egli si allontana da questa terminologia per parlare di individuazione in termini di entità, realtà…

Viene da chiedersi: cosa è diventata la filosofia? Certamente la teologia ha rappresentato un aggancio importante per la filosofia, le ha dato la possibilità di considerare l’oltre in termini quasi “concreti”, quasi “afferrabili” (pensiamo per esempio ad Heidegger che parla della verità come manifestazione, come ri-velazione e pensiamo anche alle sue critiche rispetto alla metafisica del passato). Una filosofia aperta che medita l’uomo e Dio. Quasi contempla Dio attraverso la ricerca che conduce all’uomo. Vorremmo una filosofia che si interroghi ancora sul reale,136 lo avvicini, che “necessariamente” collabori con la teologia.

Quello che possiamo qui affermare è che questi due ambiti del sapere hanno bisogno dell’apporto e dell’ascolto reciproco. Oggi ancora di più.

Gli autori che abbiamo incontrato hanno non solo parlato ma vissuto la loro comprensione. Forse è questo tipo di testimonianza che oggi manca a corroborare l’esigenza del dialogo? O forse il discorso è più delicato di quanto in questa sede si possa pensare?

Lasciamo aperto l’interrogativo.

È assodato in maniera incontrovertibile che il definire, sia a livello di contenuto della definizione che di differenze all’interno delle stesse definizioni, è basilare, è necessario, è al cuore del nostro stesso lavoro. Del resto ce lo ricorda Duns Scoto, che articola la sua teologia, e la sua filosofia, proprio centrando le distinzioni e le argomentazioni.

«[…] ogni sistema filosofico è una (ri-)costruzione della realtà, un tentativo di capire tutta la realtà per mezzo di una riflessione razionale, secondo un ordine logico, a partire da certi principi fondamentali».137 Circa Dio siamo di fronte a un’“eccedenza”, in quanto non rientra in nessun sistema: primo motore immobile di Aristotele, non è Dio, poiché impersonale; lo stesso spirito assoluto di Hegel non sarà Dio, poiché non è libero; l’idea trascendentale di Kant non è Dio; non è Dio nemmeno il Bene al di là dell’essenza di cui parla Platone.138

Concludiamo il nostro itinerario con un’ulteriore riflessione. Sembra non solo urgente il discorso epistemologico ma urgente riconoscere tale tratto come interno alla metafisica.139 Bisogna dunque recuperare il senso di una metafisica aperta al trascendente, aperta sul suo limite.140 La filosofia deve interrogarsi sull’essenza del linguaggio stesso, sul rapporto tra realtà e conoscenza,141 tra l’ente e lo spirito, una conoscenza in atto, reale. La metafisica è una conoscenza di un certo tipo. E questo obiettivo così fondamentale ci sembra raggiunto a pieno dalla riflessione di Duns Scoto. Lo stesso rapporto tra Duns Scoto e Tommaso sulla questione è importante in quanto se Tommaso punta a una conoscenza di adeguazione, e conoscenza della sola quiddità del reale (quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur), e Duns Scoto alla conoscenza dell’ente in quanto ente, e dunque una apertura a tutto il reale, in realtà il secondo non è su un piano diverso dal primo, pur non riconoscendo strettamente il principio secondo il quale il livello ontologico debba avere la struttura formale del conoscente.

Anche in un contesto di filosofia trascendentale la natura non soltanto resta l’oggetto indispensabile della coscienza umana, ma diventa proprio sua condizione trascendentale. […] le condizioni di possibilità di essere conscio della natura, di essere conscio di un oggetto come altro e indipendente da me che sono “spirito”, debbono trovarsi nel soggetto stesso. Questo significa che l’alterità dell’oggetto fa parte del soggetto stesso e la natura fa parte dello stesso spirito.142

Nella storia della filosofia ci sono grandi filosofi che hanno tentato di costruire un sistema aperto, ma l’unica soluzione reale sembra essere quella di accettare la dialettica tra chiusura e apertura del sistema.143

La possibilità di una reale comunicazione tra il mondo e il soggetto sembra essere data da una teologia che si pone come affermazione di Dio, libero, vero sempre. Le stesse questioni filosofiche, come il principio di individuazione, che sono in stretta connessione con la riflessione su Dio, le sostanze separate, ecc., manterranno al loro interno la domanda aperta. In questo modo la reciprocità tra teologia e filosofia può sul serio diventare ciò che garantisce la continua apertura del sistema, la costituzione della realtà, la realtà del logico, la conoscenza del reale, la capacità dell’individuo di essere parte di tale conoscenza.

[…] di Dio si deve parlare e perciò di Lui si può parlare. Dato che ogni linguaggio umano necessariamente ontologizza, l’ontologizzazione linguistica di Dio è inevitabile. […] Solo un sistema aperto non esclude Dio. Bisogna però aggiungere che nessun sistema è già da se stesso aperto, e perciò aperto a Dio. La ragione di questo è palese: ogni sistema, proprio in quanto sistema, ha una tendenza insita alla sua propria completezza e quindi alla sua chiusura, che nasce dalla necessità di coerenza dello stesso pensiero umano.144


  1. Cf. «Principio di individuazione», Grande dizionario enciclopedico Utet, vol. x, Torino 19884, 824. Lo stesso termine individualità si incontra per la prima volta nella traduzione della Metafisica di Avicenna, stampata a Venezia nel 1508. Cf. «Individualità», Enciclopedia filosofica, Centro di studi filosofici di Gallarate, Novara 1979, 5623. ↩︎

  2. Cf. «Individualità», Enciclopedia filosofica, Centro di studi filosofici di Gallarate, Novara 1979, 5623. ↩︎

  3. Ibid., 5623. ↩︎

  4. «La notion d’individu conduit à trois types de problèmes philosophiques, extrêmement compliqués. Le premier concerne la nature du principe d’individuation et des questions connexes comme: peut-on assimiler individuation et discernabilité. Le problème se pose concrètement en physique. […] Le second problème est ontologique: les réalités ultimes (élémentaires) composant le réel sont-elles de type individuel? Ou bien doit-on admettre l’existence de réalités non individuées susceptibles de participer à plusieurs individus, comme les Idées platoniciennes? […] Le troisième type de problème est épistémologique. Connaître et expliquer, c’est généraliser et réduire à l’identique. […]». Encyclopédie philosophique universelle, Parigi 1990, 1272. ↩︎

  5. «Individuo», Enciclopedia filosofica, Centro di studi filosofici di Gallarate, Novara 1979, 5627. ↩︎

  6. P.P. Gilbert, La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, Casale Monferrato 1992, 357. ↩︎

  7. Ibid., 345. ↩︎

  8. Cf. «Principio di individuazione», Enciclopedia di filosofia Garzanti, Milano 2004, 526-527. ↩︎

  9. Cf. «Principio di individuazione», Grande dizionario enciclopedico Utet, vol. x, Torino 19884, 824. ↩︎

  10. A tal proposito le parole di P. Gilbert, in Corso di Metafisica. La pazienza d’essere, Casale Monferrato 1997, nella Prefazione, 5: «Senza l’essere, non vi sarebbe nulla. […] Essere, per noi, implica il tempo. Il nostro tempo non ha più pazienza d’essere. Per Ireneo di Lione, il peccato originale è d’impazienza. Il filosofo ha il dovere di ricordare ai suoi contemporanei cosa essi omettono distruggendo se stessi. Ad essi oggi ricorda le condizioni della loro sopravvivenza messa in pericolo. Il nostro tempo, impaziente, si attiva ad annullare le differenze tra gli uomini e ad eliminare ciò che non tollera questa uniformità. L’impazienza sopprime l’essere, il tempo, gli altri. Noi dobbiamo ritrovare il senso dell’essere, del tempo, delle differenze». «L’arte filosofica consiste nel ritrovare il principio, nello stesso tempo immanente all’esperienza immediata e trascendente». Id., La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, Casale Monferrato 1992, 95. ↩︎

  11. Sembra che la Stein sia molto più vicina a Scoto che a Tommaso nella formulazione del principio di individuazione, più vicina a quella “realtà positiva” che caratterizza in ultima istanza qualsiasi ente. ↩︎

  12. C. Rastoin, Edith Stein (1891-1942). Enquête sur la Source, Paris 2007, 295. La Stein si sente vicina al modo di affrontare da parte di Scoto il problema dell’individuazione e il primato dell’amore di Dio nell’atto creatore come in quello redentore. «L’individuation permet à Dieu d’exprimer l’infinie richesse de sa bonté: “Pour Duns Scot, la différence entre individus (differentia individualis) est une réalité positive et une nouvelle perfection”». Ibid., 296. ↩︎

  13. G. D’Onofrio, ed., Storia della teologia nel Medioevo, III. La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, 328. ↩︎

  14. Ibid., 330. ↩︎

  15. Ibid., 343. ↩︎

  16. «Non è stato soltanto il tipo critico di pensiero giustamente attribuito con onore a Scoto e così straordinariamente necessario per i problemi logici che ha guidato la nostra attenzione proprio verso di lui. Determinante è stata in genere la sua individualità di pensatore con la innegabile modernità dei suoi tratti. Egli ha trovato, in confronto agli altri scolastici anteriori, una più grande e più fine vicinanza (haecceitas) alla vita reale, alla multiformità e possibilità di tensione della vita. Ma nello stesso tempo egli sa staccarsi dal piano della complessità vitale, volgendosi con la stessa agevolezza verso il mondo astratto della matematica. A lui sono familiari sia “le forme della vita” (quanto almeno questa era accessibile al medioevo), sia “il grigio nel grigio” della filosofia». M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di Albino Babolin, Bari 1974, 15. Avvicinarsi al reale, cogliere la realtà nella sua complessità e totalità, ma restando davanti a un mistero, quello della presenza, dell’indicibile. Ecco perché in filosofia parliamo di scacco, di meraviglia, di un ‘andare verso, senza mai possedere’. L’Assoluto in qualche modo. Essa è nobile, perché accompagna al mistero; è povera perché non lo esaurisce, non lo possiede. ↩︎

  17. P.P. Gilbert, La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, Casale Monferrato 1992, 117. ↩︎

  18. Menzioniamo un articolo interessante relativamente a come può essere pensata la persona e l’alterità in conseguenza della concezione del principio di individuazione: G. Salmeri, «Corporeità e alterità. Riflessioni per un materialismo della persona», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 1 (1999) [inserito il 2 febbraio 1999], disponibile su World Wide Web: https://mondodomani.org/dialegesthai/, [63 KB], ISSN 1128-5478. «Può questa prospettiva essere designata come “materialismo”? Certamente il termine va respinto quando la “materia” venga intesa nel quadro della contrapposizione con lo spirito. Scegliere di partire da quella “materia umana” che è il corpo non dice ancora nulla sulla realtà e sul ruolo di uno spirito non materiale. Allo stesso modo sarebbe senza dubbio frettoloso identificare senz’altro la “materia umana” con ciò che le scienze positive possono dirci: il concetto stesso di “materia” è tra l’altro uno dei più problematici a livello fisico, ed è scorretto dichiarare irrilevanti le difficoltà che in quella sede vengono sollevate. Ma in realtà, proprio le origini platoniche del concetto di materia che tentiamo di usare mettono in guardia dall’uso di questa prospettiva: la materia di cui si parla non è qualcosa di cui indicare le caratteristiche sperimentabili (per Platone si tratta anzi dell’indeterminato per eccellenza), ma si identifica proprio con l’individualità delle cose, con il loro sussistere concreto e verificabile, con la tensione tra l’éidos che posseggono ed esprimono e la caducità che immancabilmente le accompagna». Ibid., 5. ↩︎

  19. «L’influsso della teologia è stato grande durante tale ricerca. La riflessione dialettica intrapresa dal De trinitate (cc. V-VII) di Agostino sulla sostanza e l’essenza, sull’accidente o la relazione, o anche sulla persona, fu feconda lungo l’intero Medioevo. L’opuscolo di Boezio intitolato De hebdomadibus, una specie di assiomatica della sostanza e dell’essere in atto, fu ugualmente letto e spesso commentato. La fissazione del vocabolario ontologico è tuttavia lenta e difficile. La questione della sostanza e dell’essenza fu oggetto di analisi complesse in sant’Anselmo. San Tommaso sviluppò anche una ontologia della sostanza, ma che il suo genio portò alla sua massima profondità completando le categorie ontologiche classiche con quella dell’atto di essere, ciò che permise alla filosofia di accogliere alla fine l’unicità dell’esistente […]». P.P. Gilbert, Saggi di metafisica II (1195), ad uso degli studenti, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1995, 13. ↩︎

  20. «Sembra quindi improprio designarlo come l’iniziatore di una metafisica essenzialistica astratta e vuota, se si riflette che per lui non esiste un’essenza senza il suo esse, e non si dà una distinzione reale tra essenza ed esistenza come tra potenza e atto, bensì come tra due realtà soltanto formaliter distinctae nell’unità di una medesima natura o quiddità, possibile o realmente esistente». «Duns Scoto», Enciclopedia filosofica, Centro di studi filosofici di Gallarate, Novara 1979, 3146. ↩︎

  21. P.P. Gilbert, La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, Casale Monferrato 1992, 28. ↩︎

  22. La sostanza è contenuta nell’ente, per questo l’ente può essere attivo e passivo. «Ogni sostanza è in potenza di essere conosciuta, e non di più; essa non ha in se stessa, come sostanza, l’energia che la fa essere. […] L’ente è nello stesso tempo passivo ed attivo, inerte ed energetico». Ibid., 32-33. ↩︎

  23. Sembra doveroso precisare che a questo punto possiamo affermare l’importanza dell’esperienza per il sapere metafisico. «[…] nessun ragionamento può sostituire l’esperienza. Difficoltà insuperabili nascono quando si collega immediatamente la teologia all’ontologia. Il pensiero formale analizza ciò che è, ma non lo fa essere; esso ritrova solamente le strutture immanenti del reale che lo precede, a priori. Il ragionamento si limita a disporre l’intelletto ad avvicinare l’esperienza in una maniera più ricca e più conforme alla sua natura. La questione dell’ontologia verte sulla struttura dell’intelligibilità ultima dell’essente; tale questione nasce dallo stupore provocato dall’essente». Cf. P.P. Gilbert, Saggi di metafisica II (1195), ad uso degli studenti, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1995, 10. ↩︎

  24. Cf. P.P. Gilbert, La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, Casale Monferrato 1992, 140-159. «Sostanza, in un senso, sono detti i corpi semplici. […] Tutte queste cose si dicono sostanze, perché non vengono predicate di un sostrato, mentre di esse vien predicato tutto il resto. In un altro senso, sostanza si dice ciò che è immanente a queste cose che non si predicano di un sostrato ed è causa del loro essere: per esempio l’anima degli animali. Inoltre, si dice sostanza di ciascuna cosa anche l’essenza, la cui nozione è definizione della cosa. […] Ne risulta che la sostanza si intende secondo due significati: ciò che è sostrato ultimo, il quale non viene più predicato di altra cosa, e ciò che, essendo un alcunché di determinato, può anche essere separabile, e tale è la struttura e la forma di ciascuna cosa». Aristotele, Metafisica, Testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Milano 19984, 215-217. «Si dice che sostanza ha significato di sostrato, di essenza, d’insieme dell’uno e dell’altro e universale. […] universale si dice ciò che, per sua natura, appartiene a una molteplicità di cose». Ibid., 345-347. ↩︎

  25. Cf. P.P. Gilbert, La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, Casale Monferrato 1992, 164-169. ↩︎

  26. Porfirio «opera una mediazione con l’aristotelismo, identificando l’Uno con l’Essere e la molteplicità indeterminata con il Non-essere». Porfirio, Isagoge, Testo greco a fronte, a cura di G. Girgenti, Milano 1995, 196. Riportiamo inoltre un frammento tratto dallo scritto Sulla filosofia di Aristotele, andato perso, e che probabilmente afferma il passaggio di Aristotele dall’essere discepolo di Platone alla fondazione della sua filosofia, dall’idea al mondo sensibile: «Se ci fossero degli uomini i quali avessero sempre abitato sotto la terra …, e dopo qualche tempo, spalancatasi la terra, fossero potuti uscire da quelle loro dimore e pervenire nei luoghi che noi abitiamo; quando a un tratto avessero veduto la terra, il mare e il cielo, e avvertita la grandezza delle nubi e la forza dei venti, e scorto il sole, e insieme con la sua grandezza e bellezza avessero conosciuto l’attività con la quale, diffondendo la luce per tutto il cielo, esso produce il giorno; se poi, oscurata la terra della notte, scorgessero il cielo tutto trapunto e adorno d’astri, e le fasi della luna crescente e calante, e le nascite e tramonti e le orbite immutabilmente fissate per l’eternità di tutti questi corpi celesti: se essi scorgessero tutto ciò, riterrebbero certo che gli dei esistono e che tanta grandezza è tutta opera loro». S. Vanni Rovighi, Filosofia della conoscenza, Bologna 2007, 30-31. ↩︎

  27. Porfirio, Isagoge, Testo greco a fronte, a cura di G. Girgenti, Milano 1995, 85. ↩︎

  28. Ibid., 97. ↩︎

  29. Ibid., 193: «Esprimendo quindi l’essenza delle specie, il genere è il vero e proprio universale. Il “genere sommo” […], è quello posto al vertice dell’albero, che non ha quindi sopra di sé alcun altro genere: in questo senso, non solo “sostanza” è genere sommo, ma anche tutte le altre categorie». ↩︎

  30. Porfirio distingue tra differenze specifiche e differenze semplicemente, che non comportano alterità ma solo alterazione. Dunque le differenze che ineriscono al soggetto sono anche parte della sua definizione, della definizione della sua essenza. Le differenze qualificano (“la differenza è ciò che si predica di più soggetti che differiscono per specie in relazione alla qualità”. Ibid., 83) la specie, e dividono i generi in specie. Cf. Ibid., 77-85. ↩︎

  31. Cf. Ibid., 23-24. ↩︎

  32. Cf. P.P. Gilbert, La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, Casale Monferrato 1992, 49. ↩︎

  33. Avicenna sarà inizialmente di aiuto a Tommaso con la sua soluzione al problema degli universali e la distinzione tra l’atto di essere e l’essenza della creatura. Averroè sarà da lui criticato ma ugualmente chiamato “Commentatore”. L’opuscolo De ente et essentia, scritto durante il Baccellierato a Parigi, in cui parla del significato dei termini ente ed essenza, termini che secondo Avicenna sono i primi appresi dal nostro intelletto, esamina i modi in cui l’essenza è in relazione alle intenzioni logiche e il modo in cui si deve intendere rispetto a Dio, alle sostanze semplici, a quelle composte, e agli accidenti. L’essenza in Dio coincide con l’essere, nelle sostanze semplici con la forma, nelle sostanze composte con l’unione di materia e forma, intendendo qui la materia in generale, non la materia signata, dei singoli individui concreti. ↩︎

  34. Tommaso d’Aquino, Ente ed essenza, Testo latino a fronte, a cura di P. Porro, Milano 1995, 7. ↩︎

  35. Più avanti si dirà che occorre non confondere il piano logico e il piano reale. Per esempio nell’ordine reale l’uomo è effettivamente una terza cosa rispetto all’anima e al corpo; nell’ordine logico invece “uomo” è concetto che ne comprende altri due. Non si può dire quindi che la definizione è determinata dal genere o dalla specie. Cf. Ibid., 20-21. ↩︎

  36. Il termine essenza era un termine importante anche nel campo teologico: «A differenza di ens — termine praticamente sconosciuto al latino classico, e attestato solo in parte in Boezio (che si serve invece spesso e volentieri della perifrasi “quod est”) l’uso di essentia si trova consolidato nel lessico filosofico e teologico della patristica latina già nel corso delle dispute trinitarie come possibile traduzione di ??s?a, “sostanza”. Per Tommaso, così come per gran parte dei suoi contemporanei, essentia ha tuttavia ormai raggiunto una piena indipendenza da substantia (come è dimostrato dal fatto che si può parlare anche di essenza degli accidenti), e sta ad indicare — come si legge appunto nel De enteciò per cui e in cui l’ente possiede il suo essere (“per eam et in ea ens habet esse”)». Ibid., 10. «Dans le Contra Eutychen, disputant de la double nature du Christ, Boèce met en place la distinction entre essence, subsistance et substance, établissant ainsi le système d’équivalence entre termes latins et termes grecs: au grec ousia correspond le latin essentia, à ousiôsis, subsistentia, à hupostasis, substantia. Est ousia ou “essence” ce qui est; est ousiôsis ou “subsistance” ce qui n’est en aucun sujet: est hupostasis ou “substance” “ce qui est sub-jecté à d’autres, qui ne sont pas subsistances”». Thomas d’Aquin — Dietrich de Freiberg, L’Être et l’Essence. Le vocabulaire médiéval de l’ontologie. Deux traités De ente et essentia de Thomas d’Aquin et Dietrich de Freiberg, presentato e tradotto da A. De Libera — C. Michon, Paris 1996, 16. ↩︎

  37. Tommaso d’Aquino, Ente ed essenza, Testo latino a fronte, a cura di P. Porro, Milano 1995, 13. ↩︎

  38. Cf. Ibid., 22. E sulla scorta di Avicenna, Enrico di Gand e Duns Scoto diranno che, in sé, l’essenza non è che l’essenza (essentia est essentia tantum). ↩︎

  39. «Ma la definizione o la specie comprendono l’uno e l’altro, e cioè sia la materia determinata che si designa col nome del genere sia la forma determinata che si designa col nome della differenza». Ibid., 93. ↩︎

  40. Ibid., 93. ↩︎

  41. Cf. Thomas d’Aquin — Dietrich de Freiberg, L’Être et l’Essence. Le vocabulaire médiéval de l’ontologie. Deux traités De ente et essentia de Thomas d’Aquin et Dietrich de Freiberg, presentato e tradotto da A. De Libera — C. Michon, Paris 1996, 47-51; cf. Tommaso d’Aquino, Ente ed essenza, Testo latino a fronte, a cura di P. Porro, Milano 1995, 101-103. ↩︎

  42. Tommaso d’Aquino, Ente ed essenza, Testo latino a fronte, a cura di P. Porro, Milano 1995, 99-101. ↩︎

  43. Ibid., 103. ↩︎

  44. L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockham a sant’Alfonso de Liguori. Saggi di storia della teologia morale moderna 1300-1787, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 195. ↩︎

  45. Ibid., 3144. «Scoto tenta una profonda riforma filosofica, cerca la zona “pura” della filosofia, la zona tutta naturale (filosofica) in cui si neutralizza e si rende compatibile l’opposizione di natura e soprannatura, a cui può articolarsi la Parola divina. È di questa riforma che ha bisogno la rivelazione per costituirsi in scienza teologica […]». O. Boulnois, Duns Scoto. Il rigore della carità, Milano 1999, 10. ↩︎

  46. Occorre precisare che al di fuori della nostra indagine all’interno dell’Ordinatio, Duns Scoto non ha sempre affermato con sicurezza e convinzione “l’univocità dell’ente”. Infatti, «[…] lo stesso concetto di essere, predicabile univocamente di Dio e delle creature, della sostanza e dell’accidente, non è né effetto di una rivelazione divina, né innato, ma è frutto esclusivo dell’attività astrattiva della nostra ragione […] Non è effetto di una rivelazione come pretende Gilson, perché Scoto […] rimase problematico intorno a ciò. Non è un concetto innato, sia pure in senso virtuale, come sostiene il Bettoni, poiché il Dottor Sottile esplicitamente dice che esso è astratto dai dati sensibili». F.A. Prezioso, La critica di Duns Scoto all’ontologismo di Enrico di Gand, Padova 1961, 172. A tal proposito riportiamo alcune considerazioni da J. De Finance, Conoscenza dell’essere. Trattato di ontologia, ad uso degli studenti, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993, 44-45. “Scoto riflettendo in campo teologico sa che i discorsi su Dio non sono vani”. «[…] di fronte a questo indeterminabile puro, si otterranno delle “differenze ultime” puramente determinanti e assolutamente prive di essere. […] le passiones entis, le differentiae ultimae sono “formalmente” distinte dall’essere, cioè in sé […]. Tuttavia sarebbe inesatto dire che l’univocità scotista è puramente logica, perché allora essa riguarderebbe soltanto l’essere di ragione. Secondo Scoto, invece, essa è metafisica perché essa riguarda non soltanto l’essere in sé, nella sua pura “formalità” di essere che non dice altro che essere. D’altronde, l’univocità dell’essere non è affatto l’univocità degli altri universali perché l’essere anche per Scoto, non è un genere. L’essere li supera tutti e non ne esclude nessuno. […] Riguardo poi alle differenze ultime e alle passiones, l’essere se ne distingue formalmente, non è però “in potenza” ad esse, come nella logica aristotelica il genere è in potenza alle proprie differenze. […] Infatti, secondo Scoto, in Dio stesso, il bene, il vero rimangono formalmente distinti dall’essere, pur identificandosi nella infinità e semplicità dell’essere divino. Perciò l’essere non è in nessun modo un genere»; «L’analisi scotista, terminando ad un essere indifferenziato e a differenze senza essere, pur essendo impeccabile dal punto di vista concettuale, tuttavia manifesta chiaramente la necessità di superare l’ordine dei puri concetti. In altre parole, non basta applicare all’idea di essere uno schema di analisi valido per gli altri concetti. Bisogna vedere se l’idea dell’essere vi si presta e che cosa richieda la sua struttura particolare. Non dimentichiamo che la metafisica esige l’attenzione all’essere». 45-49. ↩︎

  47. M. Bettetini — L. Bianchi — C. Marmo — P. Porro, Filosofia medievale, Milano 2004, 313. ↩︎

  48. «Duns Scoto», Enciclopedia filosofica, Centro di studi filosofici di Gallarate, Novara 1979, 3145. ↩︎

  49. Cf. G. D’Onofrio, ed., Storia della Teologia nel Medioevo. III. La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, 344. ↩︎

  50. Ibid., 344. ↩︎

  51. Cf. Ibid., 346. ↩︎

  52. «Per questa ragione, noi diciamo che l’intuizione intellettuale connota la riflessività; essa scaturisce dalla riflessione dello spirito sul suo atto. Se l’intuizione implica l’alterità del suo oggetto, il primo principio non può essere intuito, poiché non è un’alterità oggettiva. Ma se la riflessività è immanente all’intuizione intellettuale, allora il termine “intuizione” può essere mantenuto, sia pure con prudenza. Il metodo metafisico non è dunque né induttivo, né deduttivo, a rigor di termini; è intuitivo, ma a condizione di comprendere riflessivamente questa intuizione. Ed è ciò che il metodo trascendentale tenterà di precisare». P.P. Gilbert, La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, Casale Monferrato 1992, 86. ↩︎

  53. G. D’Onofrio, ed., Storia della Teologia nel Medioevo. III. La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, 345. ↩︎

  54. «Duns Scoto», Enciclopedia filosofica, Centro di studi filosofici di Gallarate, Novara 1979, 3145. ↩︎

  55. Cf. Giovanni Duns Scoto, Questioni di teologia. Dall’Ordinatio, a cura di G. Salmeri, Cinisello Balsamo, di prossima pubblicazione, 3 (d’ora in poi “Trad. G. Salmeri”). Nella Parte II: Sulla sufficienza della Sacra Scrittura: «[…] Sulla base di questa rivelazione di Paolo, e di molte altre rivolte a diversi santi, si conclude che i loro intelletti non poterono essere indotti ad assentire così fermamente a quelle cose la cui cognizione non poterono avere sulla base di dati naturali, come di fatto assentirono, se non grazie ad un agente soprannaturale». Inoltre, e questo dal punto di vista più strettamente intellettivo, Ghisalberti ci aiuta citando il passo parallelo all’Ordinatio, dalla prima parte del prologo della Lectura, n. 51: «[…] va riletta la potenza passiva della natura umana: “la potenza passiva non esiste invano nella natura, perché sebbene non possa essere principalmente attuata da un agente naturale, tuttavia da tale agente può venire indotta la disposizione all’atto, e può essere completamente attuata da un agente che opera nella natura, ossia nella totalità coordinata degli enti, per esempio dall’agente primo o soprannaturale”». G. D’Onofrio, ed., Storia della teologia nel Medioevo, III. La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, 331. ↩︎

  56. «Duns Scoto dedica una notevole attenzione a questo problema perché dalla sua soluzione dipendono importanti conclusioni gnoseologiche e metafisiche». «Duns Scoto», Enciclopedia filosofica, Centro di studi filosofici di Gallarate, Novara 1979, 3144. ↩︎

  57. «Nel caso della teologia in sé, l’oggetto primo è costituito da Dio, dal momento che solo Dio può contenere virtualmente tutte le verità teologiche; solo l’intelletto divino del resto possiede per natura la conoscenza evidente delle verità riguardanti l’essenza infinita. L’intelletto umano non dispone della conoscenza evidente circa l’oggetto della teologia; perché nello stato di viatore non è dato all’uomo di intuire una natura attualmente infinita quale è l’essenza divina; la teologia nostra si costruisce sulla base non di un’evidenza originata dalla conoscenza dell’oggetto, bensì sulla base dell’evidenza desunta da un oggetto primo conosciuto dall’intelletto umano, ossia dalla nozione di ens infinitum, essendo questo il concetto più perfetto che l’uomo viatore può avere circa l’oggetto (Dio) della teologia in sé». G. D’Onofrio, ed., Storia della teologia nel Medioevo, III. La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, 326-327. ↩︎

  58. Trad. G. Salmeri, 3. ↩︎

  59. «La differenza dunque tra le due teologie sta solo nella modalità di presenza dell’oggetto primo all’intelletto conoscente: nel caso della teologia in sé l’oggetto primo è conosciuto in modo evidente: nel caso della teologia nostra è conosciuto non in modo evidente, bensì per via di astrazione, e perciò in modo non adeguato a fornire all’intelletto la conoscenza diretta e immediata, perché fondata sulla consequenzialità dell’evidenza, delle verità necessarie ad esso connesse». G. D’Onofrio, ed., Storia della teologia nel Medioevo, III. La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, 327. ↩︎

  60. Cf. Trad. G. Salmeri, 8. ↩︎

  61. Ibid., 8. ↩︎

  62. Cf. G. D’Onofrio, ed., Storia della teologia nel Medioevo, III. La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, 328. ↩︎

  63. Considerando il fatto che “amare Dio” indica la rettitudine della prassi necessaria inclusa nella nozione di Dio, oggetto che determina l’intelletto alla cognizione determinata della rettitudine della prassi, si evince che dall’ordine dell’intelletto e della volontà deriva una cognizione anteriore e conforme alla prassi. Si evince anche che la teologia è in tal modo scienza pratica. Oltretutto il primo oggetto della teologia è il fine ultimo (in quanto esso si fonda in un’essenza determinata), e chiaramente i principi che vengono desunti dall’oggetto come conformazione sono principi pratici, sono i principi pratici della teologia. Di conseguenza anche le conclusioni sono pratiche. Duns Scoto, richiamando le verità necessarie della teologia, per esempio “Dio è trino”, il “Padre genera il Figlio”, risponde in maniera brillante all’obiezione che queste non sembrano verità pratiche in quanto sembrano più realtà personali che essenziali, dicendo che: «[…] in senso assoluto qualcosa di essenziale attira l’atto di amore essendone il motivo, ma le persone attirano l’atto di amore essendo coloro che vengono amate. Ma per la rettitudine di un atto non basta che esso abbia il criterio formale che si adatta all’oggetto, ma bisogna anche che abbia un oggetto adatto in cui vi sia tale criterio formale. Quindi, oltre a quella cognizione della rettitudine che include le realtà essenziali nell’atto di amare Dio, le realtà personali includono un’ulteriore cognizione specifica della rettitudine richiesta». Trad. G. Salmeri, 19. Molti studiosi gli attribuiscono d’aver concepito la libertà come totalmente e irrazionalmente indeterminata, e la volontà come sciolta da ogni intervento dell’intelletto, come in una sorta di positivismo etico, fondato sull’assoluta libertà di Dio. Per Duns Scoto semplicemente occorre rivalutare la potenza volitiva, non staccandola come autonoma dall’intelletto. Anzi la particolarità e la dignità della volontà umana sono proprio nella razionalità come suo carattere essenziale e intrinseco. ↩︎

  64. G. D’Onofrio, ed., Storia della teologia nel Medioevo, III. La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, 334. ↩︎

  65. Cf. P. King, forthcoming in Intentionality, Cognition, and Representation in Medieval Philosophy, «Thinking about things: singular thought in the Middle Ages», 1. http://individual.utoronto.ca/pking/articles/Things.pdf ↩︎

  66. Cf. P. King, Scotus on Metaphysics, Cambridge Companions Online © Cambridge University Press, 2006, 21. ↩︎

  67. Cf. Ibid., 22. ↩︎

  68. Cf. Ibid., 23. ↩︎

  69. Cf. Ibid., 23. ↩︎

  70. Cf. Ibid., 24. Duns Scoto parla anche di “distinzione modale”, minore della distinzione formale, che riguarda la gradazione di intensità di una qualità, del colore ad esempio. Anch’essa è in senso ampio reale. ↩︎

  71. Cf. L. Iammarrone, OFMConv, Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo. Le tematiche fondamentali della sua filosofia e teologia, Roma 2003, 225. ↩︎

  72. Utilizzeremo, per la comprensione del testo dell’Ordinatio, I. Duns Scoti, Opera omnia, Studio et cura Commissionis Scotisticae. Ordinatio. Liber Secundus. A distinctione prima ad tertiam, Civitas Vaticana 1973, citando solo il riferimento del numero del paragrafo e della pagina; la Lectura (I. Duns Scoti, Opera omnia, Studio et cura Commissionis Scotisticae. Lectura. In librum secundum sententiarum. A distinctione prima ad sextam, Civitas Vaticana 1982), citandola esplicitamente, e la traduzione in inglese di P. King (P. King, Duns Scotus: Ordinatio II d. 3 p. 1 q. 1; p. 1 q. 2; p. 1 q. 3, p. 1 q. 4; p. 1 q. 5-6. Tr. Ingl., 1987. http://individual.utoronto.ca/pking/translationsScotus.Ord2d3p1q1.trns.pdf ecc.). ↩︎

  73. Cf. F. Marty — P.-N. Mayaud — B. Pinchard — X. Tilliette, Le problème de l’Individuation, Paris 1991, 51. ↩︎

  74. «L’individualità negli enti dotati d’intelligenza e volontà libera è collocata da Scoto nel sommo grado dell’essere, che è quello dei valori. Il valore ontologico fondamentale dell’individuo è quello della individualità o singolarità. L’individuo razionale è primariamente voluto da Dio perché in esso si riflettono l’immagine e la somiglianza di Lui. L’individualità personale è il summum donum col quale la creatura razionale dice ordine immediato a Dio». L. Iammarrone, OFMConv, Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo. Le tematiche fondamentali della sua filosofia e teologia, Roma 2003, 237. ↩︎

  75. Cf. Ibid., 224. ↩︎

  76. Lectura [56], 245. ↩︎

  77. «Una volta ricevuta la individuazione, la quiddità è disposta a ricevere l’esistenza che la pone in essere. […] Duns Scoto, se esclude che la differenza individuante è una “cosa”, nello stesso tempo afferma che è una entità. Tra la quiddità e la differenza individuale non c’è la composizione di rei et rei, ma quella di “realitatis et realitatis”». L. Iammarrone, OFMConv, Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo. Le tematiche fondamentali della sua filosofia e teologia, Roma 2003, 234. ↩︎

  78. Ibid., 235. ↩︎

  79. Lectura [127], 269. ↩︎

  80. Lectura [128], 269. ↩︎

  81. Cf. É. Gilson, Giovanni Duns Scoto. Introduzione alle sue posizioni fondamentali, Milano 2008, 449. ↩︎

  82. Ibid., 452. ↩︎

  83. Lectura, II Dist. 3 p. I q. 4. ↩︎

  84. Si pensi per esempio a Leibniz. ↩︎

  85. «[…] saying that we cannot imagine the same place [for two of them], and this is fitting for them in that they are quantities». P. King, 1. (Da qui in poi, per i riferimenti alla traduzione in inglese di King, utilizzeremo solamente il numero delle pagine. Ogni questione in King ha la sua numerazione di pagina, che comincia sempre dal numero uno, poiché distinta in singoli pdf). ↩︎

  86. «Ad autoritatem Boethii, quae magis cogens est quam aliae, dico quod Boethius ibi vult ostendere quod Pater et Filius et Spiritus Sanctus sunt tres personae et unus Deus, et quod non sunt tria individua in numero, differentes in substantia, quia in substantia varietas accidentium differentiam numeralem facit». Lectura [119], 266. ↩︎

  87. «Praeterea, nulla natura — in quantum natura talis — est de se haec (sicut probatum est supra, questione istius distinctionis), quia illud quod est de se ‘hoc’, impossibile est quod intelligatur sub ratione universalis, et similiter tunc non esset aliqua unitas realis minor unitate numerali (sicut ibi deductum est); sed quantitas de natura sua habet tantam indifferentiam sicut caro; ergo sicut caro, ratione qua caro, non est de se haec, ita nec quantitas — unde quantitas — de se est haec, nam eiusdem rationis est quantitas in hac quantitate et in illa, sicut caro in hac carne et in illa. Sed illud non potest esse prima ratio quare aliquid est ‘hoc’, cui repugnat esse ‘hoc’. Ergo quantitas non potest esse causa singularitatis, qua aliquid est ‘hoc’ respectu alicuius naturae». Lectura [98], 260. ↩︎

  88. Lectura [101], 261. ↩︎

  89. [7], 394. ↩︎

  90. Lectura [8], 231. ↩︎

  91. [28], 402. ↩︎

  92. «[…] est illud positivum erit illud quod dicetur esse per se causa individuationis, quia per individuationem intelligo illam indivisibilitatem sive repugnantia ad indivisibilitatem». [57], 417. Cf. P. King, 4. ↩︎

  93. «For specific unity, by a symmetrical argument, would signify a twofold negation, and yet nobody denies […]». Cf. Ibid., 5. ↩︎

  94. Cf. Ibid., 5. «quia cum in qualibet unitate minore unitate numerali sit dare entitatem positivam (quae sit per se ratio illius unitatis et repugnantiae ad multitudinem oppositam), maxime — vel aequaliter — erit hoc dare in unitate perfectissima, quae est ‘unitas numeralis’». [58], 417. ↩︎

  95. Cf. Lectura [42], 241. «[…] intelligitur an substantia materialis habeat indivisibilitatem ita quod repugnat sibi dividi in plura quorum quodlibet est ipsum sicut pars subiectiva est suum totum». Ibid., [42], 241. ↩︎

  96. Lectura [48; 50] 242-243. ↩︎

  97. «Il “concetto qualitativo” di Scoto si rivela essere un “trascendentale (trascendens)”: esso appartiene al repertorio delle strutture trascendentali della metafisica, le quali attraversano i diversi generi dell’ente e sono comuni alle categorie senza determinarsi a nessuna di esse. Il conceptus qualitativus o qualificativus denota sia le differenze ultime dell’ente, in cui rientrano le haecceitates, ossia i fondamenti “originariamente diversi (primo diversa)” dei differenti individui, sia le passioni proprie dell’ens. Anche i trascendentali come unum, verum e bonum sono, se intesi nel loro principio di determinazione, configurazioni del concetto qualitativo». A. Incenzo, Hegel e Duns Scoto. Prospettive ontologiche a confronto, Napoli 2004, 122. ↩︎

  98. Ibid., 147. ↩︎

  99. Cf. Ibid., 159. ↩︎

  100. Ibid., 165. ↩︎

  101. Lectura [140], 273. ↩︎

  102. «[…] sed actus et potentia faciunt unum compositum; ergo omne individuum esset compositum, cuius altera pars esset ‘natura specifica’ et altera ‘alia natura positiva’, - et ita nullum individuum posset poni in esse nisi haberet maiorem compositionem quam natura specifica, quod videtur inconveniens». Lectura [140], 273. ↩︎

  103. «Praeterea, si esset ‘tale compositum’ individuum in substantia materiali, illud compositum esset per se intelligibile, cum habeat in se naturam specificam et aliud — quod sit quasi actus — faciens ‘unum per se’ (est de alio genere); sed hoc videtur falsum, quia secundum Philosophum singulare non est per se intelligibile». Lectura [142], 274. ↩︎

  104. «[…] quia definitio subiecti est medium in demonstratione potissima». [193], 486. «The definition of the subject is the middle [term] in the most powerful sort of demonstration». P. King, 17. ↩︎

  105. Lectura [164], 280. ↩︎

  106. Lectura [166-167], 280-281. ↩︎

  107. [172], 476. ↩︎

  108. «Et cum obicis ‘quidquid est in eodem individuo numero, est idem numero’, - respondeo, primo in alio simili manifestiore: quidquid est in una specie, est unum per specie; color igitur in albedine est unum per specie, ‘igitur non habet unitatem minorem unitate speciei’ non sequitur». [173], 476. ↩︎

  109. Lectura [170], 282. ↩︎

  110. «Et quid est illud positivum quod sic ponitur, per quod natura specifica individuatur? Quid autem hoc sit, declaratur per comparationem et similitudinem ad differentiam specificam, iuxta cuius similitudinem apparet quid sit differentia individualis, - nam species potest comparari ad inferius se, et ad id quod est superius, et ad id quod est iuxta se». Lectura [169], 281. ↩︎

  111. L. Iammarrone, OFMConv, Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo. Le tematiche fondamentali della sua filosofia e teologia, Roma 2003, 238. ↩︎

  112. [176], 478. ↩︎

  113. [177], 478. ↩︎

  114. [177], 478. ↩︎

  115. [177], 478. ↩︎

  116. Cf. P. King, 12. ↩︎

  117. [180], 479. ↩︎

  118. [181] 480. ↩︎

  119. Cf. P. King, 13. ↩︎

  120. [188], 484. ↩︎

  121. Cf. F. Marty — P.-N. Mayaud — B. Pinchard — X.Tilliette, Le problème de l’Individuation, Paris 1991, 66-71. ↩︎

  122. Cf. Ibid., 72. ↩︎

  123. Cf. P. King, «Duns Scotus on the Common Nature», Philosophical Topics 20 (1992) 2. ↩︎

  124. Cf. Ibid., 4. ↩︎

  125. «I state that the “universal in act” is that which has some indifferent unity according to which it is itself, as the same, in proximate potency to being said of any suppositum whatsoever. For, according to the Philosopher (Posterior Analytics I. iv [73b26—33]), the universal is what is one in many and of many. Indeed, nothing in a thing—according to any unity whatsoever—is such that according to that precise unity it be in proximate potency to any suppositum whatsoever in a predication that says ‘This is this’. The reason for this is that although being in some singularity other than that in which it is not incompatible with something existing in a thing, nevertheless it cannot be truly said of anything lower-level that ‘any given one is it’. This is only possible for numerically the same object actually considered by the intellect—which, as understood, has also the numerical unity of the object, and according to this it is itself, as the same, predicable of every singular by saying ‘This is this’». Ibid., 7. ↩︎

  126. L. Iammarrone, OFMConv, Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo. Le tematiche fondamentali della sua filosofia e teologia, Roma 2003, 119. ↩︎

  127. Cf. Ibid., 127. ↩︎

  128. Cf. Ibid., 121. ↩︎

  129. «Tommaso d’Aquino parla di un transcendentium ordo […]. Duns Scoto […] chiama similmente i “trascendenti in quanto trascendenti”. La parola ‘trascendentale’ fu introdotta verso il 1320-1321 nelle Disputationes di François de Mayronnes […]. Questo autore, chiamato ‘Principe degli Scotisti’ o Doctor Acutus, proseguì l’opera di Duns Scoto. Egli riaffermò l’univocità dell’essere nel senso di un realismo formalizzante. Distinse per questa ragione ‘trascendente’ e ‘trascendentale’. Quest’ultimo termine indicava l’insieme delle proprietà dell’essente in quanto essente, dell’ens commune puramente formale, il termine ‘trascendente’ convenendo invece a Dio e agli esistenti che le nostre forme non giungono a ridurre a generi. La distinzione fra trascendente e trascendentale era quindi necessaria per affermare l’essente reale al di là di un sistema formale». P.P. Gilbert, Corso di metafisica. La pazienza d’essere, Casale Monferrato 1997, 185-186. ↩︎

  130. Occorre dire che la teologia di Scoto e l’antropologia sono strettamente collegate, anzi la teologia ne è il cuore. Cf. A. Vos, The Philosophy of John Duns Scotus, Edinburgh 2006, 429. ↩︎

  131. A. Incenzo, Hegel e Duns Scoto. Prospettive ontologiche a confronto, Napoli 2004, 149. ↩︎

  132. Come ha affermato anche Aristotele nella Metafisica, si tratta di iniziare e di permettere una ricerca corretta, ponendo le giuste domande. Non si può partire da “cos’è quest’entità?”. ↩︎

  133. G. Pini, «Scotus on Individuation», PSMLM (5) 2005 52. ↩︎

  134. Ibid., 56. ↩︎

  135. Cf. Ibid., 65. ↩︎

  136. «La teoria del significato e dell’analisi dei modi significandi, in rapporto ai modi intelligendi ed essendi, consentì a Duns Scoto l’accesso alla soggettività. Il vincolo fondamentale tra l’oggetto della conoscenza e la conoscenza dell’oggetto trova la sua più netta espressione nel concetto del verum come una delle determinazioni dell’oggetto in genere. Mancano tuttavia nella Scolastica medievale l’inserimento consapevole del problema del giudizio nella relazione soggetto-oggetto e la messa in rapporto della categoria con il giudizio. Il problema della conoscenza deve risolversi in una posizione metafisica. Non è possibile vedere nella sua vera luce la logica e i suoi problemi in genere, se il contesto, a partire dal quale essa viene interpretata, non diviene un contesto translogico. La filosofia non può, a lungo andare, fare a meno della sua propria ottica: la metafisica. Per la teoria della verità ciò significa la necessità di una interpretazione metafisico-teleologica della coscienza. Solo orientandosi verso il concetto dello “spirito vivente”, la logica della teoria della conoscenza potrà essere preservata da una limitazione esclusiva allo studio delle strutture e si potrà porre il problema del senso logico anche secondo la sua significanza ontica. […]. Il soggetto nel senso della teoria della conoscenza non esaurisce la reale significanza dello spirito. Solo con l’inserimento in questa più vasta realtà il problema delle categorie acquista tutta la sua rilevanza e ricchezza. […] La possibilità di penetrare nella struttura metafisica dello spirito vivente, in cui sussistono insieme singolarità e universalità degli atti, è data dall’essenza stessa del suo concetto e dalla sua relazione col fondamento metafisico. […] Solo attraverso l’approfondimento filosofico, o, più propriamente, fenomenologico, della letteratura mistica, teologico-morale e ascetica medioevale, si può penetrare fino all’autentica vita della Scolastica, come a quella che fondò, animò e rafforzò in modo decisivo un’intera epoca culturale», xvii. Dalla Prefazione a M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di Albino Babolin, Bari 1974. ↩︎

  137. C. Huber, Vegliate dunque! La costituzione della realtà. Introduzione al pensiero trascendentale, Assisi 1999, 80. Dio resta fuori da questo tentativo di sistema di costituzione della realtà, poiché lo trascende. «Ogni sistema di filosofia trascendentale parte dalla coscienza. Ma questa coscienza è una coscienza costituentesi in libertà, costituentesi illimitata ma finita […]. Il sistema è, perciò, illimitato ma finito. In tal senso la filosofia trascendentale è necessariamente una filosofia della finitudine». Ibid., 95. ↩︎

  138. Ibid., 95. ↩︎

  139. «[…] la filosofia trascendentale stessa presuppone, non soltanto storicamente ma soprattutto speculativamente, tutta la metafisica classica, specialmente il realismo della conoscenza, del quale è una riflessione ulteriore fondante e necessaria. Proprio per questo la filosofia trascendentale deve portare al realismo epistemologico, non relativistico, altrimenti resta monca. La posizione di Fichte dimostra la possibilità di una tale impostazione. Per lui l’idealismo completo coincide con il realismo. Egli stesso chiama la sua filosofia una filosofia realista ed anche un “real-idealismo” o un “ideal-realismo”. […] l’opposizione esclusiva fra realismo e idealismo nasce da una falsa impostazione del problema». Ibid., 6-7. ↩︎

  140. Ibid., 145. «[…] dato che secondo il razionalismo l’unico contenuto conoscitivo immediato è quello dell’idea, cioè del contenuto di coscienza, nasce necessariamente nel contesto del razionalismo il problema della comunicazione, anzi il pericolo del solipsismo. Se una persona usa certe parole, come posso sapere che le intende nello stesso modo in cui le capisco io, dato che il significato delle sue parole sono le sue idee, la sua esperienza interna, alla quale io non ho alcun accesso diretto?». C. Huber, … e la parola si fece carne. Filosofia del linguaggio, ad uso degli studenti, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2001, 15. Lo stesso Ghisalberti, nella prefazione a S. Vanni Rovighi, Filosofia della conoscenza, Bologna 2007, 6, ricorda che l’Autrice, seguendo un’impostazione che sembrerebbe affermare una filosofia forte dell’evidenza, del dato, della positività e possibilità sempre della conoscenza, nella sua rivalutazione della filosofia della conoscenza, attraverso l’analisi storica stessa della filosofia, «attribuisce a Husserl il merito di averle insegnato a leggere con altri occhi i testi di Tommaso d’Aquino e a cercarvi non come si faccia ad uscire dal soggetto, ma perché e come mai questo problema non debba essere posto. Uscire dal soggetto evoca una prospettiva che assegna il primato all’ente ideale, mentre la caratteristica della coscienza è l’intenzionalità, che è pura manifestazione dell’altro senza conoscere o contenere nulla. All’analisi fenomenologica della conoscenza interessa solo il darsi dell’atto conoscitivo, e non spetta alla fenomenologia del conoscere decidere per il realismo o per l’idealismo, bensì le compete di attenersi a ciò che consta, a ciò che risulta evidente, a ciò che è immediatamente dato». «Il primo atto conoscitivo umano è l’apprensione di un concreto esistente, che dunque precede la nozione di soggetto conoscente e quella di oggetto conosciuto. Si parte, ripete spesso l’Autrice, da qualcosa che consta, dalla presenza intenzionale di qualche cosa, e questo è ciò che si intende per evidenza, che si articola tuttavia in esperienze diverse». Ibid., 7. ↩︎

  141. «Il significato di “costituzione” oscilla costantemente fra un significato logico e un significato metafisico. Nell’analisi logica dei termini universali di Porfirio a costituire la specie, cioè il termine specifico, sono le “diaphorai systatikai”, le “differentiae specificae”, cioè le coppie di determinazioni contrarie, che sono le stesse a dividere il genere, ossia le “diaphorai diaretikai”. D’altra parte, secondo Aristotele, tutti gli esseri di questo mondo sono composti di materia e forma. […] Per Duns Scotus le “constitutiva formalia essentiae” sono quelle per cui ogni cosa è distinta da ogni altra e per Occam i “constitutiva interna” determinano essenzialmente una cosa. […] Scotus Eriugena, Anselmo d’Aosta e Pietro Abelardo parlano della costituzione linguistica della conoscenza umana. Nel contesto logico è da ricordare fra principi dell’argomentazione che costituiscono lo stesso argomento e gli altri che sono “dirigentes” o “regulativa syllogismorum principia”. Questa distinzione prepara la terminologia kantiana che distinguerà fra “uso costitutivo” e “uso regolativo” dei principi a priori della conoscenza umana». C. Huber, Vegliate dunque! La costituzione della realtà. Introduzione al pensiero trascendentale, Assisi 1999, 18-21. ↩︎

  142. Ibid., 65. ↩︎

  143. Ibid., 99. ↩︎

  144. Ibid., 97-98. ↩︎