1. Modernità e individualismo
La presunta forza della ragione moderna si fonda sul soggetto, che solo con se stesso e in se stesso, in pacifica solitudine, trova la certezza, avendo azzerato tutti i rapporti e le relazioni col mondo esterno. La coscienza del soggetto si scopre, nelle Meditazioni metafisiche di Cartesio, come unico punto fisso e immobile capace di offrire un’evidenza rassicurante e definitiva.1 Ma proprio per questo l’Io penso, dunque io sono resta strutturalmente un atto solitario e individuale, essenzialmente egoistico, che ha origine da un’operazione di astrazione da tutto e tutti. Nello stesso tempo il Cogito si afferma come unico punto di autocertificazione attraverso il quale deve passare ogni relazione col mondo, con gli altri, con Dio stesso. Perciò un sostanziale egocentrismo (ed egoismo) connota la modernità sia nel rapporto col mondo sia nel rapporto con l’altro, con il tu, che mi si para di fronte con il suo volto e con la sua consistenza intrascendibile.
Questo Io sono, costituisce la nozione di riferimento che rende significativo il discorso della modernità. Ma l’Io sono, se è principio di spiegazione, non è principio di comunicazione. “Riferendo tutto a me stesso penso, ma non parlo. Per parlare bisogna partire da un altro presupposto: non dall’Io sono, ma dal tu sei”. È il tu sei che costituisce il principio della comunicazione, del linguaggio, il motivo reale, consistente del parlare. Il pensare resta un atto confinato nell’individualità, è un immaginario parlare dove l’interlocutore, posto dallo stesso soggetto che pensa, non ha volto, né corpo, né autentico bisogno di comunicare. Invece “la parola è comunicativa, se ci sono chi la dà e chi la riceve”,2 perché solo se c’è qualcuno oltre l’io individuale è possibile parlare e, solo in questo contesto, la parola rivela la sua vocazione profonda, il suo porsi ontologicamente all’interno di una relazione fra persone che sentono di dover dire qualcosa a qualcuno. Solo il tu, in definitiva, mi dà la possibilità concreta, reale, di uscire fuori da me stesso, m’insegna a vedere fuori di me, a gettare quei ponti comunicativi che sono le parole, i gesti, i segni.
Che cosa pensa il pensiero? La modernità afferma innanzitutto che il pensiero pensa se stesso, dimenticando che pensare è aliud intelligere, avere intellezione di ciò che è altro da sé. In tal modo si attua una fondamentale inversione fra pensiero e realtà, fra io e tu del rapporto interpersonale, per cui il pensiero s’identifica con la realtà, per cui l’io pone un tu immaginario, che, spogliato della sua alterità, diventa il medesimo. La conseguenza è che pensare il pensiero e pensare la realtà finisce per essere un tutt’uno. La verità finisce per essere intesa come la corrispondenza fra il soggetto pensante e il frutto interiore della sua attività di pensiero, dunque, come la coerenza del pensiero con se stesso. Si genera così una sorta di circolo vizioso che condanna il soggetto ad un individualismo senza sbocchi, perché nel coerentismo soggettivista la verità non è più rapporto con l’alterità, ma mera coerenza interna. All’interno di questo circolo vizioso l’altro è in funzione del sé, nel senso che le sue rimostranze, le sue esigenze e le sue volontà sono poste in un discorso che non è un dialogo autentico, ma una costruzione intima al pensiero. L’altro è una costruzione ideale, non un tu reale di cui si accetti il reclamo ad essere diverso da quello che noi abbiamo immaginato di lui. Il confronto è escluso, la differenza dell’altro è negata, la diversità è soffocata prima ancora di porsi. In Hegel, ad esempio, sembra dissolta la figura stessa dell’alterità.3
Gli epigoni tecnologici di questa antropologia soggettivista e trionfalmente individualistica sono oggi verificabili, più che nella filosofia, nei percorsi della tecnica e, in particolare, del “mondo virtuale”, che circonda i soggetti empirici, rendendoli privi di contatti “reali” con il mondo esterno. Il mondo dell’immagine e della comunicazione appare paradossalmente scarsamente comunicativo, perché è un mondo senza incontro fra persone, senza un interlocutore reale che faccia sentire la sua calda e consolante presenza di fronte a noi. Il mondo della comunicazione guarda agli indici di ascolto, ma trascura il bisogno di essere ascoltati dei suoi ascoltatori. Li condanna anzi ad una comunicazione unidirezionale, li condanna a restare per sempre ascoltatori. L’occhio del grande fratello mediatico, in realtà, non ti vede e non ti riconosce.
L’ideologia violenta e oppressiva, che, nelle sue varie forme, ha rinchiuso la persona all’interno del sistema e che ha costruito un’antropologia del dominio dell’identità, dove il diverso non è tollerato, dove l’incontro con l’altro avviene all’insegna dell’omologazione, è solo una manifestazione eclatante di questo sfondo soggettivistico ed individualistico della modernità: “Il totalitarismo e la violenza le appartengono costitutivamente: dove è tolta la differenza, il potere dell’identità è assoluto e brutale”.4 Forse quel tempo è ormai finito, ma l’individualismo soggettivista non è finito. Esso sopravvive nei rapporti formalizzati del vivere sociale e nella generale e diffusa spersonalizzazione della comunicazione fra gli individui. Sopravvive ancora in quello che è un limite della ragione moderna, e forse della stessa ragione, “dovuto al fatto che questa conosce senza dubbio i soggetti, ma li conosce come oggetti, risulta totalmente circoscritta entro la relazione intelligenza-oggetto”.5 Conoscere è oggettivare, rendere identico, trascolorare i caratteri propri dell’altro, prescindere dalla situazione concreta, più che comunicare.6 Al comprendere non sembra, perciò, appartenere il compito di amare e di impegnarsi per gli altri. L’intelligenza si disimpegna dal farsi carico delle sofferenze altrui e si deresponsabilizza finanche rispetto alle conseguenze dirette delle proprie scoperte.
2. Nichilismo e incomunicabilità
Nel nichilismo si è assistito, come reazione alla modernità, ad una crisi del soggetto-fondamento, in quanto questo ha rivelato un’intrinseca debolezza (si pensi a Freud e a Nietzsche). Nichilismo e post-modernità hanno riscoperto, nel contempo, l’alterità dell’altro, la sua differenza, ma hanno finito per vedervi l’estraneo più che il prossimo. L’altro viene a costituire una realtà che produce effetti importanti e anche decisivi sul nostro io, una dimensione dell’esperienza che è ineliminabile e non riducibile alla semplice soggettività, ma resta irrimediabilmente distante.
In continuità con l’egocentrismo della modernità, l’affermazione dell’Io sono porta al superuomo e alla morale dei signori che nega programmaticamente ogni forma di altruismo. L’individualismo assume una forma alteramente sdegnosa nei confronti di ogni relazione con gli altri: “L’uomo di specie nobile — ha scritto Nietzsche — sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, […] sente se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose”.7 Il valore non nasce all’interno di una relazione interpersonale, ma appare come possesso autonomo e solitario dell’individuo. L’indipendenza è di per sé un valore, perché il rapporto con gli altri viene visto non come rapporto personale, da cui scaturisca un confronto ed un arricchimento, ma come rapporto con una folla senza volto. Ecco perché il valore è, per Nietzsche, essenzialmente convenzione che mortifica l’attività e la creatività, e non punto di incontro e motivo di pacifica relazione:
Nobili e prodi che pensano in questo modo sono quanto mai lontani da quella morale che vede precisamente nella pietà o nell’agire altruistico o nel desintéressement l’elemento proprio di ciò che è morale; la fede in se stessi, l’orgoglio di sé, una radicale inimicizia e ironia verso il disinteresse, sono compresi nella morale aristocratica.8
Nietzsche ha, in definitiva, dell’altro una percezione concreta e non oggettivante, nel senso che, da categoria generale, momento dello sviluppo dialettico dell’Idea, l’altro tende a identificarsi con chi abbiamo di fronte. Tuttavia l’altro non è concreto nel senso di avere il volto del tu, della persona che ci è di fronte, ma ha la concretezza ancora informe della convenzione sociale, della folla anonima, del costume assorbito passivamente. Proprio per questo l’altro appare sostanzialmente incomprensibile e inassimilabile.9 La stessa frattura, che il nichilismo interpone fra uomo e realtà e fra uomo e se stesso, appare condizionare, in effetti, i rapporti fra gli uomini, nel senso di renderli distanti fra di loro. Il nulla che è fra noi interrompe la comunicazione, perché rende indecifrabili i messaggi che sono lanciati dagli altri e distorce i nostri stessi moti e sentimenti verso gli altri. La morte di Dio non può che portare alla morte della comunicazione.
La concezione di Jean-Paul Sartre dell’uomo come passione inutile può essere richiamata come esempio ulteriore di questa antropologia dell’incomunicabilità, che se rifiuta ogni rassicurante dominio della ragione soggettiva, riscontra poi l’impossibilità di incontrare l’altro nel nulla totale che circonda il soggetto da tutte le parti. Il reale, inteso come essere in sé, sta davanti al mondo della coscienza come ceppo chiuso, come opacità, alterità irriducibile e ottusa.10 Con esso è, perciò, preclusa ogni forma di comunicazione. Anche con l’altro il rapporto è impossibile, perché sotto la violenza dello sguardo l’altro appare al soggetto come sua negazione, come limite della propria libertà, minaccia del proprio possesso. L’altro è in grado di circoscrivere la mobilità della mia coscienza, di dirmi “tu sei così”, di bloccarmi in un’immobile oggettività, di fissarmi in un ruolo. “Con lo sguardo d’altri, la ”situazione“ mi sfugge, o, per usare un’espressione banale, ma che rende bene il concetto: io non sono più padrone della situazione”.11 Ogni relazione con gli altri è, conseguentemente, conflitto ed incomunicabilità, incapacità di attraversare il nulla che abita in entrambi e che si manifesta nelle incomprensioni, nelle reciproche negazioni e negli antagonismi.
Ciascuno vuole che l’altro l’ami, senza rendersi conto che amare è voler essere amato e che volendo che l’altro l’ami vuole solamente che l’altro voglia che egli l’ami […]. Il problema del mio essere-per-altri rimane quindi senza soluzione, gli amanti rimangono ciascuno per sé, in una soggettività totale; niente interviene a liberarli dal loro dovere di farsi esistere ciascuno per sé.12
L’amore non vince il nulla che, come un verme, rode l’interiorità della coscienza, né attraversa la solitudine a cui l’uomo sembra condannato. L’intero mondo dei rapporti umani e delle relazioni con le cose è segnato e come soffocato all’interno di questo limite insormontabile: l’altro è solo la mia negazione, la negazione della mia libertà e del mio essere.
Si può, in conclusione, osservare che, pur negando la forza fondante del soggetto, il nichilismo resta vicino al razionalismo nel condividerne l’individualismo. L’incomunicabilità sembra destino comune ad entrambi, sia che si esibisca questo individualismo come una conquista sia che se ne esperimentino i limiti angoscianti e destrutturanti. Si comprende, inoltre, che la vocazione comunicativa è un dato strutturale dell’antropologia e non un carattere aggiuntivo. Se il soggetto è autocoscienza o se il soggetto è inconsistenza, non c’è comunicazione con l’altro autentica. La comunicazione o l’incomunicabilità hanno a che fare con l’essere stesso della persona, con la sua strutturazione ontologica. Per questo ci pare che risultino inutili i tentativi di fondare la solidarietà sui buoni propositi, restando all’interno di un’antropologia individualistica. Certo “buonismo” alla moda ne è forse, nella sua leggerezza e inconsistenza, l’esplicitazione più chiara. Certo pluralismo relativista che fa della tolleranza la sua bandiera ideale si converte, agli effetti pratici, in un intollerante sistema che soffoca ogni identità ed ogni fede.
La comunicazione è, insomma, una forma “debole” che ha bisogno di basi forti. Dico debole nel senso che non è una forma assolutizzante, che porta cioè al dominio dell’identità, alla soppressione del confronto col diverso e all’omologazione. Dico basi forti nel senso che la solidarietà, la comunicazione e, più in generale, la relazione con chi è altro da noi, hanno necessariamente bisogno di un fondamento antropologico, che riscontri all’interno dell’essere stesso dell’uomo l’apertura verso l’altro. E l’altro verso cui ci si rivolge, come per una vocazione che nasce dal profondo di noi stessi e che dilata la nostra coscienza in una dimensione che completa e realizza, non può restare lontano, ma deve farsi prossimo.
3. L’esteriorità dell’altro
La posizione di Sartre denota come l’incomunicabilità sia tanto un dato antropologico quanto un dato ontologico. Non è solo l’altro ad apparire impenetrabile ed inassimilabile, ma è, più in generale, la realtà a rimanere alterità per la coscienza. Fra la realtà e la coscienza non c’è corrispondenza, non si dà passaggio. Il pensiero è in un certo senso condannato a pensare se stesso e a trovare nell’autocoscienza un limite invalicabile e una prigionia spirituale.
Nell’idealismo la realtà era assimilata totalmente e completamente dalla razionalità: “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale” — aveva detto Hegel.13 Nel nichilismo questa convinzione è ribaltata e la realtà appare irrazionale, negativa, incomprensibile. Allo stesso modo l’altro, perdendo ogni diversità e identità sua, figurava in Hegel come momento dialettico destinato ad essere ricompreso nel sistema; in Sartre l’altro è, all’opposto, incomprensibile e irrimediabilmente distante nella sua diversità. Nell’un caso e nell’altro viene a mancare alla coscienza individuale la capacità di mettersi in relazione, di confrontarsi con la diversità irriducibile del reale nella sua alterità. Fra la coscienza e il mondo viene a mancare ogni forma di corrispondenza. La stessa “svolta linguistica”, che denota tanta parte del pensiero attuale, ci porta ad impaludarci in un concetto meramente linguistico di verità, come se la verità sia tutta all’interno del linguaggio e come se il linguaggio non serva a mettere in relazione, ad indicare qualcosa che è al di là del linguaggio stesso. In effetti, la comunicazione come struttura antropologica essenziale è prima del linguaggio.14
Perché sia possibile autentica comunicazione c’è bisogno di un io e di un tu, e l’essere dell’altro, del tu, che ci è di fronte, deve presentarsi anche esteriormente come trascendente rispetto alla coscienza soggettiva.15 L’altro ha un suo volto, una sua fisionomia, sue abitudini e convinzioni che lo caratterizzano in maniera particolare e unica. L’altro è un mondo diverso rispetto al mio mondo. L’altro è realmente oltre la mia coscienza e la mia volontà. Occorre, dunque, affermare la coscienza del soggetto e insieme la realtà nella sua esteriorità e nella sua irriducibilità al soggetto.
Non è possibile, dunque, la comunicazione sia dove si annulla il soggetto come coscienza autonoma sia dove si annulla l’esteriorità. Se si annulla il soggetto domina il non senso e l’assurdo. Se si annulla l’esteriorità, si annulla, la possibilità stessa della comunicazione, e abbiamo l’assolutizzazione del soggetto. L’altro deve essere inteso non come prodotto dal pensiero del soggetto, ma come espressione di ciò che è soltanto pensato dal soggetto. Non si deve, in altri termini, costringere l’altro (e il reale, in un senso più generale) all’interno di un modello pregiudiziale. L’altro è sempre portatore di una differenza, è sempre diverso rispetto ad ogni forma di precomprensione e di pregiudizio. Questa differenza costituisce una libertà tanto per l’altro, che si sottrae ad ogni schema, quanto per la nostra coscienza, che in questa diversità può trovare una novità che la stimola ad infrangere schemi mentali e sclerotizzazioni linguistiche.
La coscienza del soggetto, l’autocoscienza chiusa in sé, ha fondato il sistema totalizzante della ragione moderna, generando l’ideologia. Per sua stessa natura l’ideologia ha rifiutato la diversità, l’ha soppressa violentemente, perché l’ha considerata come pericolosa per la sua stessa sopravvivenza. Si pensi a ciò che ha significato la diversità nell’ideologia nazista o comunista. L’ideologia è totalizzazione, tentativo cioè di uniformare e di omologare il diverso. L’altro, invece, proprio nella sua stessa esteriorità, che si manifesta plasticamente e concretamente nel volto, spezza l’imperialismo dell’io: “Il volto — ha scritto E. Levinas — impedisce la totalizzazione”.16 Il volto dell’altro esprime di per sé un significato che trascende l’idea dell’altro in me e rompe la nostra stessa solitudine:
Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me. Questo modo non consiste nell’assumere, di fronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum — l’idea adeguata. Non si manifesta in base a queste qualità, ma kath’auto. Si esprime.17
Il volto del bambino che viene al mondo ha una sua espressione, che istituisce già una identità nuova, pur richiamando nei tratti altri volti e altre espressioni. È “un nuovo inizio, che va oltre tutte le combinazioni del materiale informativo gà dato, che presuppone qualcosa di diverso — ”il“ diverso — e così ci insegna a pensare ”Dio“”.18
Volto è, in senso lato, la dimensione esteriore e anche fisica dell’altro, che istituisce un’identità unica e incatturabile. La dimensione fisica è parte integrante dell’identità della persona ed è fondamentale per la relazione interpersonale. Il corpo, infatti, è punto di incontro e di comunicazione, di espressività e linguaggio. Esso permette di entrare in relazione con gli altri e di manifestare la concretezza dell’amore. Il corpo, per il fatto stesso di essere sessuato, è come proiettato verso una naturale complementarietà con la persona dell’altro sesso.
L’Eros non può essere interpretato come una sovrastruttura che ha l’individuo per base e per soggetto. Il soggetto nella voluttà scopre di essere il sé (ciò che non significa l’oggetto o il tema) di un altro e non soltanto il sé di se stesso.19
La sessualità chiama alla complementarietà e, per questo, non può ridursi ad un piacere egoistico in cui l’altro diventi mero strumento di soddisfazione fisica, in cui non si esca dal circolo chiuso dell’amore di sé. Né la sessualità può significare mera genitalità, perché essa indica piuttosto una modalità relazionale della persona. Essa conferisce un carattere proprio alla sensibilità, agli interessi, alle percezioni. Tutte le attività, in questo senso, sono sessuate. Da essa dipende non solo la relazione con un tu particolare dell’altro sesso, ma qualsiasi tipo di relazione in cui venga messa in moto l’affettività.20 Nell’egoismo soggettivistico, invece, si arriva ad una sessualità non comunicativa, ad una sessualità come egoistica fruizione del piacere, e la purezza dell’amore diventa dissolutezza del dominio.
4. La relazionalità come struttura fondante della persona
L’energia dell’amore dimostra come il bisogno di complementarietà sia piantato nell’essere stesso della persona. Oltre il riconoscimento dell’altro nella sua esteriorità trascendente la coscienza, si deve ammettere, all’interno della coscienza stessa, un’inclinazione verso l’altro, una tensione a completarci nell’altro. La nostra stessa coscienza non può fare a meno degli altri e rimanere isolata. Questa spinta può assumere la forma di semplice curiosità o quella più consistente di meraviglia. Può assumere ancora la forma di un sentimento di rivalità o di avversione e di odio, ma può assumere anche quella strana forma di attrazione, di bisogno irresistibile di stare insieme all’altro, che si sperimenta nell’amore.
L’essere non è mera esteriorità oltre la nostra coscienza. L’essere non è staticità, ma dinamicità.
Chi dice essere — ha scritto J. Maritain — dice inclinazione o tendenza; e qui ci troviamo di fronte a una specie di comunicabilità o di sovrabbondanza caratteristica dell’essere stesso; e ciò proprio per il fatto che l’idea di essere trascende se stessa […] in quella di bontà o di bene.21
Ma, più in particolare, la comunicazione, la dialogicità e la relazionalità possono essere indicati come caratteri strutturali dell’essere dell’uomo. Esse rivelano un nuovo volto dell’essere, per cui nelle cose e nella coscienza c’è un’inclinazione a trascendersi, ad andare oltre se stessi; ed è quanto si sperimenta nell’amore. La bontà è questo sovrabbondare dell’essere che inclina a comunicare, a relazionarsi alle cose e agli altri. La bontà è quest’apertura che si sperimenta nell’essere.
Il pensiero ebraico del ’900 ha riscoperto, nel seno stesso della tradizione biblica, la vocazione dialogica dell’uomo, e l’ha riproposta in polemica con la posizione soggettivista. In particolare, il referente polemico di questa riscoperta è l’idealismo di Hegel, ossia il sistema più compiuto del razionalismo moderno.22 La critica alla compiutezza del sistema hegeliano è svolta da M. Buber in nome del recupero del valore dell’esteriorità, nella convinzione che la dialogicità, ossia il rapportarsi all’altro, sia costitutiva del soggetto:
Non è mediante il rapporto con il proprio “sé”, ma è mediante il rapporto con un altro “sé” che l’uomo potrà raggiungere la completezza. Questo altro sé può essere limitato e relativo quanto a se stesso, ma è in questo essere-insieme-con-l’altro che si rende possibile l’esperienza dell’illimitato e dell’incondizionato.23
Non c’è vera antropologia né possibilità di autentica realizzazione umana, se non dove sia recuperata la pienezza del rapporto con altri, se non dove ad una visione del soggetto come autosufficiente e dominante si sostituisca una visione in cui l’esteriorità si ponga come liberante e le categorie di relazionalità come essenziali per il soggetto stesso.24 Solo nella relazione con ciò che è esterno alla coscienza individuale e, in particolare, nella dialogicità, la prigionia dell’io è infranta e si coglie la realtà non come dominio, ma come incontro.25 La relazione interpersonale esprime anzi la struttura originaria dell’essere, la profondità ontologica per la quale l’uomo non è solitudine, ma costitutiva apertura all’altro, e viene a realizzarsi nel riconoscimento e nell’accoglienza dell’alterità.
La coscienza individuale si situa all’interno di un’anteriorità che non fondiamo noi, ma che è fatta di relazioni significative con cose e con persone in cui ci troviamo inseriti già dalla nascita. Questo è immediatamente percepibile nel fatto che la nostra stessa identità fisica e mentale è frutto di una relazione di coppia, che ne è all’origine. Nel bambino che nasce c’è fisicamente la compresenza dei genitori e di ciò che sono i genitori, a loro volta portatori di un’ereditarietà fisica che richiama altre relazioni essenziali con persone vissute in precedenza. Nel bambino che cresce c’è l’attuazione di un progetto educativo che i genitori insieme proiettano nel figlio. Il nostro pensare è, fin dal principio, un comunicare, almeno fin da quando il bambino reclama con il pianto l’attenzione del mondo esterno su di sé. La stessa identità personale è frutto di esperienze legate all’esteriorità e di influssi diversi e di relazioni affettive che sono formanti e strutturanti. Il nostro stesso essere non è un modello di autosufficienza.
La figura antropologica fondamentale rimane quella della dipendenza.26 Questo non vale solo per il bambino, ma anche per l’adulto, che può essere solo insieme con l’altro e a partire da lui. Noi siamo, strutturalmente essere bisognosi di tutto, per nascere, per crescere, per vivere. Non c’è, perciò, libertà esclusiva ed autarchica che non si riveli nel concreto fondata sul sostegno, sull’aiuto di altri. L’essere dagli altri e per gli altri è il presupposto ovvio di ciò che siamo.
Anche il nostro pensare a noi stessi, il nostro individuarci come identità, è sempre in funzione di modelli significativi che hanno segnato il nostro crescere. Il pensiero è esso stesso sempre in relazione indissolubile con quello che gli altri hanno comunicato o hanno significato per noi. Il pensare non è mai costruzione meramente individuale, perché è un’esperienza vitale, condivisa con gli altri con cui si entra in comunicazione. Da questo punto di vista si può affermare che si appartiene sempre ad un mondo, all’orizzonte intenzionale ed affettivo, in cui siamo posti. Né questa relazione continua col mondo esterno a noi e con gli altri smette mai di arricchirci e di provocarci. Un pensiero che pensa se stesso, invece, è una pura astrazione filosofica.
Tutto questo non significa che la persona sia priva di una sua identità, di una sua sussistenza individuale, ma che essa non può definirsi solo sul registro dell’essere in sé e per sé, ma deve anche definirsi su quello dell’essere correlata ad altri. La persona umana è sussistenza individuale, che conservando però la sua singolarità e superando la sua solitudine ontologica, è strutturalmente in tensione ad aprirsi all’altro e alla totalità dell’essere. La persona, proprio perché è se stessa, è indissolubilmente bisogno di relazionarsi. In quanto consistenza della propria singolarità, cioè in quanto sussistenza dell’essere personale,27 essa rifiuta ogni forma di oggettivazione che non la rispetti nell’interiorità e ogni forma di massificazione e di manipolazione. Ma l’essere in sé non va concepito come chiusura gelosa e superba, perché la persona nella sua singolarità è autocoscienza e libertà che si apre e si dona agli altri ed accoglie gli altri in sé. La persona non è solo sussistenza, ma anche comunicazione e relazione.28
Se questa apertura all’altro è costitutiva della persona, si può comprendere come la comunicazione sia non una possibilità aggiuntiva, ma un’esperienza fondamentale che realizza, arricchisce e completa la persona stessa:
La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona: il tu, e quindi il noi, viene prima dell’io, o per lo meno l’accompagna […]. Quando la comunicazione si allenta o si corrompe, io perdo profondamente me stesso: ogni follia è uno scacco al rapporto con gli altri: l’alter diventa alienus, ed io a mia volta divento estraneo a me stesso, alienato. Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite, che essere significa amare.29
L’amore realizza la forma di comunicazione più profonda, che supera la distanza che ci divide dall’altro e, nello stesso tempo, dilata il nostro io al di là del proprio mondo chiuso. Nell’amore l’altro diventa il prossimo, che ci chiama a fare esodo dal nostro egoismo, a superare le barriere dell’incomunicabilità e della diffidenza. E, dal momento che noi siamo il prossimo di altri, occorre farsi prossimo, avendo la capacità di infrangere la prigionia della propria individualità. Come per il buon samaritano si fa prossimo “chi usa misericordia”, chi cioè ha nel proprio cuore quella straordinaria debolezza e delicatezza per la sofferenza e il bisogno dell’altro.30 Questa dimensione dell’essere dell’uomo, che lo porta alla comunicazione e alla relazione fino al prendersi cura degli altri è quella che il Vangelo designa come il cuore della Legge:
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti.31
Nel comandamento dell’amore vi è sia il rifiuto del soggettivismo egoista, sia il rifiuto di ogni concezione nichilista dell’essere umano.
5. Conclusioni
Comprendere non può significare possedere per sé, ma deve valorizzare la dimensione comunicativa e relazionale della persona. Il compito della filosofia deve tornare, perciò, ad essere sapienziale, nel senso di chiamare ad amare e impegnarsi per gli altri.32 L’altruismo potrebbe essere il destino della filosofia, una volta riscoperto il bisogno di dialogare e di comunicare. Non può in altri termini essere un linguaggio privato.33
Al dominio dell’idea di totalità che contraddistingue la tradizione filosofica moderna ed è radice di totalitarismo, sopraffazione e violenza, va contrapposta una filosofia della differenza, del rispetto della molteplicità, del riconoscimento della propria responsabilità nei confronti degli altri. Al nichilismo che, all’opposto della modernità, proclama la morte dell’uomo e delle sue capacità di comprendere e progettare va risposto che l’uomo non è nulla, perché è capace di amare e di essere amato. Non l’incomunicabilità, ma la comunicazione è il destino dell’uomo. Secondo l’antropologia biblica l’uomo è fatto per amare ed essere amato, per stabilire rapporti di solidarietà e di comunione non solo con gli altri esseri umani, ma anche con l’intero creato.
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Cartesio R., Meditazioni metafisiche, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1967, vol. I, pp. 199-202. ↩︎
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M. Caleo, Metafore del pensiero filosofico, Edisus Salerno, Salerno 2000, pp. 61-62. ↩︎
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Ha scritto B. Forte: “è in generale la figura dell’alterità che in Hegel sembra dissolta. Non c’è più differenza: e ciò che a lui appariva come la promessa vittoria sulle lacerazioni della coscienza infelice, si rivela finalmente abbraccio asfissiante, cattura negatrice della libertà”. L’eternità nel tempo, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1993, p. 15. ↩︎
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Cit., B. Forte, p. 16. ↩︎
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J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1965, p. 88. ↩︎
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La conoscenza concettuale, necessaria e indispensabile non può raggiungere il soggetto nella sua individualità: “La filosofia inizia sempre con il prescindere decisamente dalla sua situazione concreta, cioè con un elementare atto di astrazione”. M. Buber, L’eclissi di Dio, Passigli, Firenze 2001, p. 56. ↩︎
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Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere complete, vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano 1990, p. 187. ↩︎
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Ibidem ↩︎
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Vedi P. A. Rovatti, Introduzione alla filosofia contemporanea, Bompiani, Milano 1996, p. 48. ↩︎
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“L’essere non è rapporto a sé, è sé… È immanenza che non può realizzarsi, affermazione che non può affermarsi, attività che non può agire […]. L’essere è in sé […]. Ma se l’essere è in sé, vuol dire che non rimanda a sé, come la coscienza di sé; questo sé, è esso stesso […]. L’essere in sé, non ha affatto un di dentro, che si opponga ad un di fuori e che sarebbe analogo a un giudizio, una legge, una coscienza di sé. L’essere in sé, non ha segreti: è massiccio. In un certo senso, lo si può chiamare una sintesi. Ma è la sintesi più indissolubile che vi sia: la sintesi di sé, con sé. Ne deriva che l’essere è isolato nel suo essere e non ha alcun rapporto con ciò che non è lui”. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Net, Milano 2002, p. 32s. ↩︎
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Ibid., p. 336. ↩︎
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Ibid., p. 460. ↩︎
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G.F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1979, p. 16. ↩︎
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F. Rosenzweig, in La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, situa la relazione interpersonale nel mondo del linguaggio, nel complesso dei rapporti con gli uomini e con le cose. Per Rosenzweig la parola è creativa e comunica all’esterno il mistero dell’interiorità, consentendo al soggetto di uscire dallo stato di solitudine. ↩︎
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Per E. Levinas il “faccia a faccia” è prima di ogni visione intellettuale e di ogni linguaggio: “Il faccia a faccia non è una modalità della coesistenza, neppure della conoscenza (anch’essa panoramica) che un termine potrebbe avere dell’altro, ma la produzione originale dell’essere alla quale risalgono tutte le possibili collocazioni dei termini”. E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1994, p. 313. ↩︎
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Ibid., p. 219. ↩︎
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Ibid., p. 48. ↩︎
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J. Ratzinger, La via della fede, Ares, Milano 2005, p. 143. ↩︎
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Ibid., pp. 279, 281 s. ↩︎
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I. Fucek, È vocazione all’amore la sessualità dell’uomo (Comandamenti VI e IX) — parte I, Fondamenti antropologico-teologici — Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 1989, p. 39. ↩︎
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J. Maritain, Sette Lezioni sull’essere, Bompiani, Milano 1981, p. 97. ↩︎
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“Il sistema di Hegel viene a costituirsi come il terzo grande tentativo di dare una sicurezza all’uomo nella linea del pensiero occidentale: dopo il tentativo cosmologico di Aristotele e quello teologico di Tommaso d’Aquino, ecco il tentativo logologico. Ogni insicurezza, ogni inquietudine alla ricerca di senso, ogni errore di decisione, ogni problematica senza fine, sono vinti. La Ragione universale procede nel suo indefettibile corso attraverso la storia, e l’uomo, mediante la conoscenza, riconosce quel corso, o piuttosto, è la conoscenza il vero scopo, il fine reale del cammino in cui la verità, realizzandosi, riconosce se stessa nella sua realizzazione”. M. Buber, Il problema dell’uomo, Einaudi, Torino 1983, p. 49. ↩︎
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M. Buber, Il principio dialogico, Bompiani, Milano 1958, p. 83. ↩︎
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M. Buber, Il problema dell’uomo, cit., p. 97. ↩︎
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Per Buber la relazione “è la categoria dell’essere, è ciò che sta pronto, che coglie la forma, che è modello all’anima; è l’a-priori della relazione, il Tu innato”, Il principio dialogico, cit., p. 29. ↩︎
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J. Ratzinger, La via della fede, Ares, Milano 2005, p. 26. ↩︎
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“Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura”. Tommaso, Summa Theologiae, I q. 29, a. 3. ↩︎
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“La persona è un’attività vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione”, E. Mounier, Il personalismo, Roma 1964, p. 12. L’ordinamento della persona è, perciò, “costituito da un duplice movimento, in apparenza contraddittorio, in realtà dialettico, volto all’affermazione di assoluti personali che resistono ad ogni riduzione, e ad edificare un’unità universale del mondo delle persone.” Ibid., p. 54. ↩︎
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Ibid., p. 44s. ↩︎
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Lc. 10, 25-37. ↩︎
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Mt 22, 37-40. “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici. Non vi chiamo più servi […] ma vi ho chiamati amici” (Gv 15, 12-15). ↩︎
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Si veda V. Possenti, Filosofia e Rivelazione, Roma 2000, pp. 96-97. ↩︎
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L’argomento del linguaggio privato lo si trova nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein (par. 243-351). Esso critica la posizione Cartesiano del Cogito con l’affermazione che se puoi pensare al tuo atto di pensare, devi già star parlando un linguaggio pubblico. Devi già fart parte di un sistema comunicativo. Questo indica che il fondamentale è dalla parte del linguaggio esterno, non da quello del linguaggio interno, che risulta successivo. Vedi R. Scruton, La filosofia moderna, La Nuova Italia, Firenze 1998, pp. 53-58. ↩︎