Recensione a Francesco Roat, Miti, miraggi e realtà del ritorno

Francesco Roat, Miti, miraggi e realtà del ritorno, Moretti & Vitali, Bergamo 2020.

L’uomo esce di casa ogni mattina, pronto ad affrontare tutto ciò che di inatteso gli riserverà la giornata che sta cominciando. Deve procurarsi il necessario per sostenere se stesso e la sua famiglia, coltivare le relazioni produttive già avviate, prendere decisioni dalle quali dipendono la sua vita affettiva e la sua situazione finanziaria. Uscendo di casa ha un’idea piuttosto vaga dei rischi che sta per correre. Se crede nella civiltà e nel progresso, può sentirsi fortunato e concepire la sua esistenza più sicura, meno aleatoria del suo antenato cacciatore/raccoglitore. Il ritorno a casa è di solito l’epilogo della giornata. Anche se scandite da andata e ritorno nella stessa dimora, le giornate non possono dirsi uguali, così l’uomo che è uscito di casa al mattino non è lo stesso che rientra la sera. Non c’è ritorno dell’uguale. Mutano le circostanze, le combinazioni, le esperienze e la stessa vita psichica evolve, si arricchisce e si complica un giorno dopo l’altro. Al di là delle apparenze, dunque, la vita delle persone è dominata dall’irreversibile. Lungo i mesi, gli anni, i decenni, assistendo al proprio invecchiamento l’uomo prova un sentimento di perdita irreparabile. Il sole sorge ogni giorno, ma neppure la stella che ci dà luce e vita è sempre la stessa. Sappiamo che anche il sole a un certo punto si spegnerà, molto prima della scomparsa dell’umanità. Indipendentemente dal successo che ha coronato i nostri sforzi, non può mancare qualche errore o svista o debolezza di cui ci rammarichiamo e che ci induce a immaginare che, se potessimo ricominciare da capo, quegli errori non si ripeterebbero. Dunque abbiamo in mente un nuovo inizio dove immaginiamo di poter ritornare per ripartire come se fosse la prima volta. Senza rendercene conto, pretendiamo di ripetere l’irripetibile: l’inizio. La ripetizione è una categoria centrale nella vita di ciascuno e nella natura stessa. Che cos’è l’evoluzione se non lo sforzo di ripetere qualcosa che avvertiamo come malriuscito, un po’ come l’atleta che cerca di migliorare il suo risultato intensificando gli allenamenti e partecipando a più edizioni della stessa gara? Repetita iuvant è un metodo di apprendimento e consolidamento allo scopo di perfezionare un comportamento fissandolo in un abito pressoché immutabile, prevedibile e stabile nel mutare delle circostanze. La poesia imparata a memoria alle elementari, ancora così presente alla memoria che risulta facile e immediata la sua recitazione senza esitazioni o errori, non ci dà forse la sensazione di essere ritornati indietro nel tempo, a quell’infanzia dalla quale temevamo di esserci allontanati per sempre? Il sentimento di una perdita irreparabile di ciò che siamo stati, dei luoghi che abbiamo frequentati e della felicità che abbiamo vissuta prende il nome di nostalgia – sentimento paradossale, slancio inderogabile che anela all’impossibile sapendolo tale. La nostalgia non è forse tanto più forte quanto più certa è l’impossibilità che ritorni ciò di cui proviamo la mancanza? La ricerca ossessiva di un passato che non può ritornare può delinearsi come desolata patologia psichica, tanto più che se il ritorno dell’identico potesse compiersi perfettamente, l’uomo rimarrebbe deluso e ne sarebbe inorridito se tale condizione di immutabilità lo avvinghiasse in una stasi eternamente immota. La nostalgia, contrassegno di un essere umano attraversato dalla contraddizione, inquieto e sradicato tanto più quanto più cerca il radicamento, aspirante all’identità quanto più anela al cambiamento, pascalianamente proteso a smentire ogni sua definizione, ogni formula che pretenda di circoscrivere una sua propria essenza – la nostalgia è una nobile follia, sospesa e indecisa tra due poli: l’abbandono della propria origine e il ritorno a essa: l’abbandono soltanto sarebbe smarrimento inconcludente, il ritorno definitivo segnerebbe l’annullamento di se stessi. Infatti l’uomo vive nella differenza, nella contraddizione mai risolta tra essere se stesso e un altro: non solo se stesso, non solo un altro.

Francesco Roat ha esplorato con magistrale finezza alcuni luoghi del ritorno che appartengono alla tradizione occidentale. Orfeo desidera così ardentemente riportare in vita Euridice che scende agli inferi per convincere le divinità d’oltretomba a lasciar partire con lui anche la sposa. L’amata sposa diventa irrinunciabile nel momento in cui lo sposo si rende conto che riportarla in vita è impossibile. Sul mito di Orfeo si sono esercitati gli interpreti: a che cosa allude il voltarsi indietro di Orfeo che, violando la prescrizione degli dei proprio quando ormai Euridice è quasi salva dall’oltretomba, vanifica tutta la fatica e i rischi corsi nella temeraria discesa all’Ade? Tanto che, riguardo a questo troncamento, Roat, riprendendo e sviluppando la tesi di Adriana Cavarero, si chiede se davvero Orfeo desiderava il ritorno di Euridice oppure «la sua velleità/volontà era mossa appena dalla brama di dar corpo a una mancanza? Se il desiderio è sempre desiderio d’altro (vedi Lacan), di ciò che ci manca e non abbiamo ancora, non è senza senso pensare che egli fosse mosso da un miraggio, dalla voglia di un fantasma impalpabile/inafferrabile. Egli sarà pur personaggio simbolico della poesia d’amore, nondimeno Orfeo dà inizio a una concezione amorosa, che avrà il suo culmine durante il secolo XIX, per cui la donna amata finisce con l’esser sempre assente, forse – peggio ancora – ricercata proprio in quanto tale, in quanto irraggiungibile figura immaginaria, in quanto morta» (p. 31). Si può anche insinuare, con Pavese, che il pianto di Orfeo disceso agli Inferi non avesse a che fare con la nostalgia per Euridice, «ma con quella nei confronti dell’Orfeo di un tempo, che nel lutto aveva smarrito se stesso e solo tramite il ritorno solitario a casa si sarebbe finalmente ritrovato» (p. 37). Se si crede che l’ordine del mondo sia divino, la pretesa di infrangere l’impossibilità che il morto ritorni in vita risulta sacrilega e blasfema. Ulisse incarna il carattere enigmatico, contraddittorio e inafferrabile del desiderio umano, che vuole e non vuole la stessa cosa. Prigioniero di Calipso, Ulisse non è determinato a partire; vuole e insieme non vuole ritornare, ma proprio per questo il suo sentire è simile a quello di ogni essere umano, per il quale l’oggetto desiderato o la meta agognata sono irrinunciabili finché sono ancora fuori portata, finché persistono gli ostacoli che si frappongono al loro raggiungimento. Ma non appena la conquista comincia ad apparire certa l’interesse ardente di prima si affloscia. Denis De Rougemont e René Girard ben sapevano che questa ambivalenza degli esseri umani è dovuta alla natura del desiderio umano, che è tanto più forte quanto più difficile è accedere all’oggetto. Il desiderio di rivedere i propri cari defunti prende corpo e si realizza seppure solo in parte: Ulisse nella terra dei morti vorrebbe riabbracciare la defunta madre Anticlea, ma lei è solo un’ombra, come un’ombra è Euridice nell’Ade. Roat cita un passo di Norman Fischer che coglie il significato profondo di questi ritorni: «Quando incontriamo nostra madre o nostro padre nella terra dei morti, la connessione con loro si fa più chiara e più intensa di quanto non lo fosse quando erano in vita, anche se rimane incompleta» (p. 49). Ma il desiderio del ritorno, proprio perché contraddittorio e ambiguo, è destinato prolungarsi in una delusione, anche se in seguito a un rinnovato congedo lo stesso desiderio riprende l’intensità precedente, in una sorta di movimento pendolare. Citando Jankélevitch, Roat scrive che «l’indomani stesso del ritorno, la delusione ha preso il posto della nostalgia» (p. 55). Se Ulisse incarna la nostalgia come desiderio di ritornare, Penelope dà corpo alla nostalgia come ardente attesa di chi deve ritornare e tesse una tela di giorno che poi disfa di notte, consapevole che ogni cosa è destinata a esaurirsi, a decadere, a morire. Il tema del ritorno è così fondamentale sul piano antropologico, psicologico e filosofico che nessuna letteratura, dai greci a oggi, può aver omesso una qualche trattazione del tema del ritorno nei più diversi contesti. Roat segnala la figura di Edipo, eroe tragico che, alla fine di grandi sofferenze, riesce a rappacificarsi con se stesso, morendo lontano da Tebe, ad Atene, e riconquistando nella cecità una chiara visione delle passioni e dei vizi degli esseri umani: «Un mancato ritorno definitivo in patria che si traduce nel pacato, quasi dolce ritorno alla terra» (p. 73).

Cristo è risorto. Il credente può indicare testimonianze che attestano la resurrezione del Salvatore: la tomba vuota, la cena di Emmaus, narrata dall’evangelista Luca. Quando i due discepoli riconobbero Gesù nell’uomo che si era accompagnato loro lungo il cammino da Gerusalemme a Emmaus, questi scomparve alla vista. I due discepoli si accorgono che Gesù è ritornato (perciò risorto) solo dopo la sua sparizione, non mentre è ancora presente con loro a tavola, dove hanno un presentimento inconscio: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 32). Possiamo concretamente accorgerci della presenza di qualcuno tra noi solo in seguito alla sua assenza, che a sua volta ci fa desiderare che sia presente. Ogni riconoscimento presuppone un ritorno e ogni ritorno implica un riconoscimento. La resurrezione dei corpi è il ritorno definitivo alla vita dopo la morte fisica. Roat discute la possibilità di interpretare la resurrezione dei morti non come una rianimazione di cadaveri sepolti da lunghissimo tempo, bensì come «la necessità della nascita/rinascita dello/nello spirito di cui parla Gesù a Nicodemo» (p. 96). Infatti nel vangelo di Giovanni si dice che «quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito» (Gv 3,6). In questo sguardo lo stesso Lazzaro non ha bisogno di essere riportato in vita, liberato dai lacci, perché è già libero. «E l’intimazione di Gesù: “lasciatelo andare” sta a indicare che non si tratta di illudersi che Lazzaro possa far ritorno a casa (altrimenti ci sarebbe da accoglierlo, non di permettere che se ne vada via), significa riappacificarsi con la morte, slegare da se stessi il defunto, elaborare definitivamente il lutto, lasciare che: “i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8,22; Lc 9,60), per occuparsi di nuovo e soltanto della vita» (p. 98).

Il figliuol prodigo è una figura del ritorno. Il figlio “scapestrato” dilapida la parte di eredità che pretende dal padre e conduce una vita da vagabondo, finché costretto per vivere a prestarsi come mandriano di porci, decide di ritornare alla casa paterna, dove è accolto e festeggiato con tutti gli onori dal padre benevolo, suscitando la gelosia del fratello, che all’opposto è rimasto fedele alla casa. Roat istituisce un parallelo tra il figliuol prodigo del vangelo e il Wanderer di Rilke, il vagabondo senza progetti e senza direzione e scopo che non sia la perdita di se stesso. Anche il Wanderer dopo una vita dissipata ritorna a casa, ma non si sa se sia rimasto. Rispetto al figliuol prodigo del vangelo, la differenza è profonda: «Se questi, infatti, accoglie l’amore del padre, colui il quale viene qui chiamato “lo straniero” (der Entfremdete) prega i suoi congiunti “che non lo amino”» (p. 108). Rilke lascia intendere che solo Dio avrebbe potuto amare il vagabondo, ma Dio ancora non aveva l’intenzione di farlo. L’attesa che Dio Padre lo ami finalmente è la capacità di sopportare il silenzio di Dio e la mancata risposta alla domanda “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

In Plotino il ritorno all’Uno è la conclusione necessaria dell’intelligenza del mondo e delle emanazioni dell’Uno in cui consiste l’intera realtà. La saggezza conduce a liberarsi dal peso del corpo, alla purificazione quale condizione per il ricongiungimento con l’Uno. La destinazione delle anime, una volta slegate dal corpo, è il divino, la realtà ultima di cui sono parte e da cui hanno origine. L’itinerario dell’anima per ritornare al divino è tratteggiato in modo simile anche nel Simposio da Diotìma sacerdotessa di Mantinea, la quale è evocata da Socrate come colei che gli aveva insegnato i gradi di ascesa dall’amore per la bellezza dei corpi alla contemplazione del Bello in sé. Per raggiungere l’unione estatica con l’Uno, Plotino insegna che è necessario spogliarsi di tutto, persino della ragione discorsiva, affinché l’anima possa congiungersi con l’Uno per una via al di sopra dell’intelletto, con la possibilità di indiarsi, di essere Dio attraverso una unificazione che coincide con la divinizzazione. L’uomo ha origine dall’Uno e il ritorno all’Uno deve rinunciare anche alla teoresi per superare il dualismo di soggetto e oggetto attraverso il ponte che unisce le due sponde fino a farle coincidere in una di esse: l’Uno. Plotino però e il suo ritorno all’Uno, avverte Roat, sono inattuali perché, come dice bene Giuseppe Faggin, noi oggi «dobbiamo constatare che l’uomo contemporaneo non conosce ansie di ritorni, né di ritorni storici né di ritorni metafisici» (p. 127), ma è ossessionato dalla necessità di andare sempre oltre senza una sosta che non sia provvisoria. A esemplificazione del tema del ritorno in poesia Roat commenta il tema del ritorno nell’opera poetica di Giovanni Pascoli con la teoria del Fanciullino, per la quale la poesia consiste nel recupero della dimensione aurorale dell’infanzia. Il tema del ritorno è presente nel poeta dei Canti di Castelvecchio, ad esempio in La cavalla storna: “O cavallina, cavallina storna / che portavi colui che non ritorna”. La cavalla porta e non riporta a casa il conducente, il padre Ruggero, ucciso in un agguato. Roat scrive che in Pascoli il pensiero della morte è costante e dominante. La morte è un ritorno, seppure all’ignoto da cui si ha avuto origine. E Pascoli sapeva che la religione è il pensiero della morte, senza il quale nulla ci distinguerebbe dalle bestie e la vita sarebbe «un delirio o intermittente o continuo o stolido o tragico» (p. 156). Chiede alla madre defunta se la morte sia un ritorno e a che cosa: alla natura, Dio, a un’eventuale incontro con i propri cari defunti nell’al di là, e se dall’altra parte ci sarà restituito quel che ci è stato tolto quaggiù. L’autore vede in Gregor Samsa, protagonista di La metamorfosi di Kafka, la figura che esprime nel modo più drammatico e drastico il mancato ritorno. Già il titolo suggerisce l’impossibilità o insormontabile difficoltà di un ritorno alla condizione precedente alla trasformazione in insetto. Il mutamento di Gregor è reale, nonostante faccia venire i brividi al lettore e risulti solo un incubo per il protagonista, che è tentato di negarne l’evidenza e per questo cerca di riaddormentarsi. Gregor però non ha alcuna nostalgia della sua vita precedente, fatta di un lavoro alienante e di una condizione familiare deprimente, che lo costringe a «risarcire un imprecisato debito, contratto peraltro non da lui bensì dai genitori» (p. 161). Nonostante cerchi di adattarsi alla nuova condizione, avvertita come irrevocabile, Gregor non l’accetterà mai e decide di uscire di scena per il suo bene e della sua famiglia: «Il protagonista rigetta a tal punto il mutamento avvenuto – non riuscendo né a tornare commesso viaggiatore né a vivere ciò che viene ritenuta da tutti un’indecorosa congiuntura – che finisce per annichilirsi. Il suo mancato ritorno, coniugato a una mancata accettazione di una animalità/istintività mai riconosciuta, produce così una specie di automatico suicidio psico-fisico, favorito dall’infezione» (p. 167). Il ritorno da Auschwitz è una prova schiacciante dell’impossibilità di ritornare alla condizione anteriore all’esperienza indicibile vissuta nei Lager. I sopravvissuti sapevano come Primo Levi che «nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti» (p. 170). Nessuna giustizia umana avrebbe mai potuto estinguere l’infamia di un’offesa irredimibile e guarire dall’odio cupo e silenzioso di quanti erano ritornati dall’inferno. Quale gioia potevano provare i superstiti se il ritorno a casa poteva persino farli sentire paradossalmente in colpa per non essere stati tra i sommersi? Nel suo pregevole saggio, del quale qui abbiamo tratteggiato solo alcuni passaggi tematici, Roat affronta in varie direzioni la questione essenziale della reversibilità di qualsiasi processo. Si potrebbe osservare che, se esiste la freccia del tempo, non si dà alcuna reversibilità neppure sul piano fisico e cosmologico. Sul piano dell’esperienza soggettiva Roat illustra con lucido disincanto il divario tra il desiderio di ritornare indietro nel tempo e riconquistare quella condizione di felicità che a causa del distacco e della lontananza ci è sembrata irrinunciabile, e la constatazione che ci delude ogni volta riguardo l’impossibilità di ritornare pienamente e perfettamente alla condizione vagheggiata. L’uomo, questo essere costantemente in fuga da un presente che non lo soddisfa e che può oggettivare solo allorché se lo è lasciato alle spalle, è proteso verso un avvenire che vive come un ponte o un cunicolo per ritornare a qualche angolo del passato, nell’illusione che in tal modo la sua nostalgia possa finalmente guarire.