Francesco Roat, Religiosità in Nietzsche. Il vangelo di Zarathustra, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2017.
Lou Andreas-Salomé pubblicò una biografia intellettuale di Nietzsche nel 1894, quando ormai l’autore di Così parlò Zarathustra era sprofondato nelle tenebre della follia. Nella sua ricostruzione della vita e del pensiero di Nietzsche, Andreas-Salomé adottava lo stesso criterio interpretativo che l’amico filosofo aveva a sua volta sostenuto a proposito dei sistemi filosofici in generale: essi potevano valere come “documenti personali” dei rispettivi autori. In tale prospettiva quindi il valore della filosofia di Nietzsche non si doveva cogliere nello spessore teoretico e neppure nella vis dialettica, bensì solo nella forza interiore della sua personalità. Del resto, se letta con le categorie consuete, la sua filosofia esibiva vistose contraddizioni, come l’abbandono di Dioniso e del dionisiaco, in Umano troppo umano, e la sua sostituzione con Socrate e il socratismo (tanto vituperati nella prima fase della sua ricerca) quali custodi della verità e pietre miliari del progresso, nonché vittorie della ragione sugli istinti e sull’ebbrezza vitale.
La filosofia di Nietzsche era una mappa che rifletteva il suo temperamento di solitario assediato da sofferenze fisiche ricorrenti, nel quale convivevano «un musicista di grande talento, un pensatore dallo spirito libero, un genio religioso e un poeta nato».1 L’opera di Nietzsche era stata l’espressione di un potentissimo sentimento religioso, nel quale si davano la mano «sacrificio di sé e autoapoteosi, crudeltà che vuole l’annientamento e brama di autodivinizzazione, infermità dolente e convalescenza vittoriosa, ebbrezza di fuoco e fredda consapevolezza».2 Andreas-Salomé fondava la sua esposizione della filosofia di Nietzsche dal punto di vista di una psicologia della religione, che permetteva di penetrare a fondo il senso della sua opera e il suo rapporto con la sofferenza e l’anelito all’autobeatificazione. Era questa la chiave giusta per intendere anche l’opera che Nietzsche scrisse quando ormai era sulla soglia della follia, Così parlò Zarathustra? Era la tormentata nostalgia per il Dio perduto l’impulso alla divinizzazione di se stesso? Nietzsche non aveva mai superato il precoce distacco dalla fede cristiana, ma la forza e l’originalità della sua opera si dovevano in gran parte a quella separazione. Solo nell’ultima fase della sua filosofia si impone l’impulso fondamentale che guida la sua ricerca: tutte le filosofie sperimentate lungo un cammino accidentato sono dei surrogati di Dio, scrive Andreas-Salomé, ausili che lo aiutino a rinunciare all’ideale di un Dio fuori di lui. Il tormento di Nietzsche e il fallimento del suo sforzo, sarebbe testimoniato dalla sua lotta contro la religione e la fede in Dio. Dilaniato dal «conflitto di avere bisogno di Dio e, tuttavia, di doverlo negare»,3 Nietzsche disegna il profilo mistico dell’Oltreuomo, cercando di identificarvisi. Ma è lo stesso autore della Nascita della tragedia – condannato a diventare «una figura doppia, per metà uomo malato e sofferente, per metà superuomo redento e sorridente»4 – a rendersi conto che il suo esperimento è fallito, che il nuovo oggetto di culto non ha valore neppure per lui, giacché Dio, al pari dei suoi surrogati, non è altro che una vittima sacrificale. Ma come riportare Dio sulla terra? E se Dio è sulla terra, come riconoscerlo? E se fossero tutt’uno con questo Dio immanente l’autore di Così parlò Zarathustra, Zarathustra stesso e l’Oltreuomo?
Lou Andreas-Salomé è la capostipite di una serie di interpreti del pensiero di Nietzsche, i quali hanno privilegiato la presenza nella sua opera di un’esigenza profondamente religiosa, che Roat nel suo saggio Religiosità in Nietzsche vede culminare nella figura di Zarathustra ed espressa da una sorta di “trascendenza immanente”. Indicando nell’Oltreuomo il senso della terra e invitando i suoi seguaci a rimanere fedeli alla terra, Zarathustra intende la trascendenza in modo diametralmente opposto alle religioni tradizionali e in modo particolare alla fede cristiana. Dopo aver rinnegato il Dio cristiano della sua personale educazione, Nietzsche cerca un surrogato, che trova nell’Oltreuomo insegnato da Zarathustra. Identificandosi con Zarathustra, Nietzsche non poteva non sentirsi chiamato a interpretare personalmente e drammaticamente la figura dell’Oltreuomo. La religiosità non va identificata con il teismo. Del resto non va dimenticato che Nietzsche non adduce argomenti per negare l’esistenza di Dio, ma sostiene che Dio è morto. Si potrebbe dire che è morto il Dio del cielo per consentire la nascita del Dio della terra. Proclamando la morte di Dio, Nietzsche non ha in mente un’argomentazione che possa dimostrare la non esistenza di Dio, ma prende atto che la trascendenza di Dio è divenuta obsoleta, così come si è dissolta l’idea di una verità incontrovertibile e assoluta alla quale gli esseri umani si sono affidati nelle epoche precedenti. Non ha alcun senso dimostrare che Dio non esiste: «Oggi, scrive Nietzsche nell’aforisma 95 di Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, si mostra come ha potuto avere origine la fede nell’esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza» (p. 143). Roat sottolinea il profilo di mistico e homo religiosus di Nietzsche, il cui obiettivo non è di erigere una nuova metafisica, né di propugnare un’originale ontologia, ma annunciare «un inedito, quinto vangelo, da contrapporre ai quattro cristiani. Il suo è un autentico kerigma, l’annuncio di un nuovo modo di porsi nei confronti del mondo, degli avvenimenti, del Dio giudaico-cristiano» (p. 13), di cui l’autore di Così parlò Zarathustra decreta la morte, la scomparsa di fatto dalla scena della modernità. La religiosità di Nietzsche, precisa Roat, è del tutto indipendente da qualsiasi teoria sul mondo, metafisica o concezione della realtà basata sulla rigorosa distinzione tra vero e falso, oggettivo e soggettivo. “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, è la parola d’ordine che l’ermeneutica del Novecento ha fatto propria, contro ogni oggettivismo, in nome di un disimpegno ontologico a volte di comodo, spesso strumentale e ideologico.
Sulla base di un’indagine rigorosa dell’opera di Nietzsche, compresi i Frammenti postumi, Roat ricostruisce i vari aspetti e momenti dell’attitudine religiosa del filosofo amico di Lou Andreas-Salomé – religiosità la cui testimonianza principale si trova in Così parlò Zarathustra. Del resto, osserva acutamente Roat, Nietzsche associa la fede a qualsiasi convinzione, qualunque sia il campo d’indagine (logica, matematica, fisica, ecc.) ma anche relativamente alla propria esistenza (il senso della vita, i valori ai quali aderire, gli scopi individuali e collettivi). Ma il Glauben dello Zarathustra fa riferimento a un credere che non si può spiegare nei termini di una concettualizzazione discorsivo-razionale. Nietzsche insomma, avverte Roat, innova profondamente il metodo filosofico, abbandonando lo stile teoretico-logocentrico per un dire “poetico-poietico”: «Per una parola che tende all’apertura verso quell’eccedenza che avvertiamo implichi ogni cosa verso cui si rivolga il nostro sguardo: non più indagatore ma contemplativo e creativo» (p. 15). Non chiama forse se stesso, il Nostro, nei biglietti della follia, giullare e poeta (Nur Narr! Nur Dichter!)? Nietzsche avrebbe scritto nell’Anticristo che il Vangelo è morto sulla croce a causa di una falsificazione fatale: la credenza nella redenzione ad opera del Cristo. Il vero cristiano è allora colui che vive come Gesù, morto sulla croce. Il cristianesimo originario non si riconosce in un credere, ma in un fare. Cristo ha insegnato che l’uomo sulla terra può aspirare a una vita divina, ma la nobiltà di Gesù, la sua superiorità, non poteva essere tollerata dai discepoli, i quali si vendicarono divinizzandolo; e nell’intera teologia cristiana da Paolo in poi Nietzsche vede la prosecuzione e l’affinamento di una vendetta, con il corollario dello svilimento e negazione della vita, del risentimento verso ogni manifestazione di forza, salute, gioia sensuale.
Il quinto vangelo di Zarathustra riporta Dio sulla terra. Gesù è stato il primo e ultimo vero cristiano, prototipo dell’Oltreuomo di cui Zarathustra si fa portavoce. La maledizione del cristianesimo consiste nell’aver diviso l’uomo da se stesso mediante il peccato, il dualismo di vita terrena e celeste, il risentimento e l’invidia dei miserabili calunniatori della vita e della salute. Anziché demonizzare la terra attribuendo valore esclusivamente alla vita ultraterrena, come accade nel cristianesimo deviato e pervertito dalla preferenza accordata a tutto ciò che è “debole, vile, malriuscito”, come leggiamo nell’Anticristo, Zarathustra divinizza l’uomo che rimane fedele alla terra, che fa di se stesso e del suo simile un dio: homo homini deus. È vero che Nietzsche si proclama Anticristo, ma solo per gridare la sua avversione al Cristo paolino, al Dio inviato dal Padre celeste a riscattare gli uomini dal peccato mediante il sacrificio della croce, contrapposto al Gesù autentico, che Nietzsche ammira come l’uomo più nobile mai esistito. La vera vita, la vita eterna, è quella vissuta nell’amore senza eccezioni o sottrazioni tra gli uomini che sono tutti figli di Dio. L’insegnamento dell’Oltreuomo si rivela così una rivoluzionaria esegesi antipaolina del cristianesimo, che identifica ed esalta il vero cristiano non mediante una fede, ma attraverso un agire nobile: non resistere al male, non discriminare i forestieri, non adirarsi con nessuno, non umiliare nessuno. La perversione della fede ha condotto al sacrificio espiatorio dell’innocente per i peccati degli uomini, ridotti a massa damnationis.
Se il fraintendimento dell’autentico insegnamento orale e pratico di Gesù è all’origine smaterializzazione di Dio in un’entità celeste e remota, Zarathustra s’incarica di riportare il cristianesimo alle sue origini. Tale interpretazione, che Roat sostiene con una lettura filologica puntuale dell’opera di Nietzsche, risulta scandalosa in tutte le direzioni: per le Chiese cristiane, che incarnano il cristianesimo denunciato da Nietzsche come pervertito, ma anche per i cultori del ritorno al paganesimo, che vedono in Nietzsche il pioniere che ha aperto la strada a un riscatto definitivo dalla pastoie della tradizione cristiana. Può risultare scandaloso parlare di religiosità di Nietzsche a un uditorio abituato alle litanie contrastanti sul significato della morte di Dio. Ma il saggio ardito e controcorrente di Roat dimostra che la questione è insieme complicata e semplice. Complicata a causa della magnificenza scintillante e provocatoria del linguaggio di Nietzsche, non priva di ambiguità, equivocazioni e larvate contraddizioni; semplice, se si guarda in profondità al rapporto tra l’esegesi dell’Anticristo e l’insegnamento di Zarathustra. In Nietzsche si fa strada un’interpretazione del cristianesimo autentico come antisacrificale, sulla linea dell’esegesi di René Girard in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Zarathustra ammonisce che non c’è alcuna redenzione dal e nel sangue, ma solo la conseguenza del disprezzo del corpo e della terra. E la mortificazione del corpo imposta da una morale falsa e repressiva del castigo a priori, non è forse all’origine di una corruzione fatale del corpo imprigionato nella distorsione di un dualismo tra rinuncia e dissolutezza, che ignora la semplice innocenza dei sensi (Unschuld der Sinne)? (p. 43). I parallelismi che Roat coglie tra il vangelo zarathustriano e i testi Zen mettono in chiaro una concezione della salvezza che fa perno sul distacco dal mondo e insieme sulla sua benedizione. Il discepolo di Zarathustra non si lamenta della propria sorte, perché sa guardare con distacco a quella vita la cui finitezza autosufficiente lo appaga e lo distoglie dall’immaginazione malata di un’altra vita; benedice se stesso e la terra vivendo divinamente quaggiù. Zarathustra sa che difficilmente sarà compreso, data la distorsione-perversione del cristianesimo paolino, basato sulla redenzione dal peccato e sulla fede nella resurrezione in Cristo. Infatti, scrive Roat, «l’amore per l’esistenza, secondo Zarathustra, comporta l’accettazione equanime della morte ossia di ciò che soltanto in una visione dicotomica e dualistica sembra essere l’antitesi della vita: rappresentare il suo annichilimento. Qui invece la volontà d’amore (Wille zur Liebe) comporta necessariamente/parallelamente una paradossale volontà di morte (zum Tode); non certo per masochismo/nichilismo, ma solo per il fatto che – mi si consenta la reiterata citazione – “Amare e perire” (Lieben und Untergehen) sono: “cose che s’accordano dall’eternità” (das reimt sich seit Ewigkeiten)» (p. 73).
La volontà di potenza deve essere interpretata non nel senso di un accrescimento egolatrico del dominio e della potenza dell’io, ma al contrario come emancipazione dall’idolatria della fede nell’aldilà e dalla rinuncia alla vita di quaggiù. La volontà di potenza è tutt’uno con l’amor fati, con l’accettazione della necessità e della finitezza, che una volta rimosso il dualismo metafisico non comporterà alcuna angoscia, alcun senso claustrofobico di un limite da superare nella trascendenza immaginaria della teologia tradizionale. Man mano che si avvicina all’epilogo della sua avventura intellettuale, Nietzsche si mostra sempre più spregiudicatamente e brutalmente iconoclasta, manifestando così la sua insofferenza per la menzogna millenaria che, nella sua prospettiva, ha insozzato la vita nella sua innocenza originaria (questa sì è la macchia del vero peccato originale). La compiuta autosufficienza della vita in questo mondo trova adeguata espressione nella dottrina dell’eterno ritorno (die ewige Wiederkehr des Gleichen) che Roat vede come “proposizione mitopoietica”, in cui la «parola metaforica, allusiva, intuitiva, poetica, arazionale (e non meramente irrazionale), aperta e tesa oltre i limiti della ratio» (p. 94) nega il tempo lineare, senza prefigurare ingenuamente una ripetizione circolare, ma restituendo spessore ontologico all’attimo, al qui e ora. Eterno allora sarà il presente, colmo di gioia, completo e perfetto in se stesso, non tentato dall’inquietudine di uscire da se stesso, ma solo dall’auspicio di poter ripetere il sì all’istante. Accogliendo l’indicazione di Franco Rella, Roat puntualizza che in Zarathustra, a differenza che nel Faust, l’attimo non è fuggente, non è manchevole di nulla, ma è perfetto come il mondo nella sua totalità. La proclamazione dell’eterno ritorno è in sostanza una dichiarazione di lode di ciò che esiste e il disvelamento di una dimensione del tempo sottratta all’alienazione: «L’eterno ritorno, scrive Rella citato da Roat, sta nell’attimo, nella sospensione, nella sincope, nella cesura in cui il tempo passato e il tempo futuro “si contraddicono a vicenda”, “sbattono la testa l’uno contro l’altro”, convergendo proprio in questa contesa, nella sospensione che questa contesa apre nel tempo: sospensione che rappresenta lo spiraglio da cui l’eterno entra nel divenire o meglio in cui il divenire si fa eterno divenire» (p. 123).
Solo un mistico può farsi profeta della religione dell’eterno ritorno. Il sì all’esistenza in cui si risolve la religiosità di Nietzsche può essere il distintivo dell’Oltreuomo, «il quale non soltanto ha imparato a rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta l’eternità, tutto questo, così come esso è stato ed è» (p. 145). La forza e la compostezza eroica dell’Oltreuomo, nel quale Nietzsche si identifica, evocano la mistica di Angelo Silesio o Meister Eckart, che esaltano l’uomo privo di attaccamento, il quale non vuole nulla, non sa nulla e non ha nulla. Ma ancora prima dei grandi mistici, Nietzsche incontra il Nazareno, la cui vita è lode della vita stessa, negazione del sacrificio fine a stesso, del peccato e della penitenza, in una parola: divina, anzi Dio stesso. La fase terminale della speculazione di Nietzsche, nonostante i toni esaltati, burleschi, paradossali risulta perfettamente intelligibile se il “Dioniso contro il Crocifisso” è inteso come presa d’atto di una competizione tra gemelli, con i quali Nietzsche poteva identificarsi quali simboli della medesima accettazione della vita in ogni suo momento di gioia, di sofferenza, di desolazione, di crudeltà e di estasi. Dioniso e il Crocifisso aprono la strada alla trasfigurazione del mondo. Conservando il tono ilare e festoso del poeta folle e buffone, Nietzsche si fa profeta e annunciatore di se stesso quale esempio dell’Oltreuomo insegnato da Zarathustra, manifestando se stesso, la sua vita divisa tra sofferenze inaudite ed esaltazioni gioiose, come «espressione del divino presente nel mondo» (p. 150).