Ines Testoni, L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death education, Prefazione di Emanuele Severino, Bollati Boringhieri, Torino 2015.
Ricco e stimolante, questo volume affronta il tema decisivo del morire in tutti i suoi aspetti e momenti, attraverso l’esame di una vastissima letteratura e la discussione delle misure e dei protocolli con cui diverse istituzioni nazionali e internazionali hanno provveduto a regolamentare i comportamenti di tutte le persone coinvolte attorno al decesso di un congiunto − evento percepito come aberrante e insieme ineluttabile, atteso eppure mai accettato, voluto talvolta a beneficio di chi soffre indicibilmente, eppure negato con ostinazione talvolta psicotica. L’ambivalenza del lutto consiste nel suo essere fine e insieme inizio, un presente in cui risulta difficile cucire il passato che non vuole passare con un futuro che sopraggiunge con prepotenza, con un’alba nuova che vuole sorgere. Come conciliare la voragine esistenziale provocata dalla scomparsa del defunto con la necessità di riprogettare il proprio futuro? Attraverso quella che potremmo chiamare «memoria critica», la stessa che, sul piano collettivo di ciascun popolo, spingeva Nietzsche nella Seconda Inattuale (Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben − Sull’utilità e il danno della storia per la vita) a deplorare il danno subito dalla vita ad opera dell’eccesso di erudizione storica. L’uomo deve sapere dimenticare, non solo ricordare. Se l’elemento storico diventa dominante, la vita si interrompe. Per vivere nel pieno senso del termine, bisogna dimenticare e persino perdere la coscienza. Se vuole agire, l’uomo deve riconoscere solo il diritto di ciò che sta sorgendo ed essere ingiusto verso il passato. L’uomo deve riconoscere l’importanza del passato, ciò che deve a tutto ciò che lo ha preceduto e alle persone che lo hanno amato, ma non cadere nell’idolatria di ciò che è stato, come accadrebbe in un lutto che ristagna patologicamente nella raffigurazione psicotica dello scomparso come fisicamente ancora presente. Storicità e astoricità, ricordo e oblio sono ugualmente necessari, ricordava Nietzsche nella Seconda Inattuale, per preservare la salute dei singoli e dei popoli: «La conoscenza del passato in tutti i tempi non è desiderabile che quando è al servizio del futuro e del presente, non quando serve a indebolire il presente, non quando sradica le energie del futuro». La fissazione patologica sul ricordo che blocca la progettualità delle persone e dei popoli poggia su di un equivoco: si rimugina il ricordo dello scomparso come se dalla cura con cui la sua figura è trattenuta, conservata, tutelata dipendesse la sua permanenza e fosse necessaria e sufficiente a impedire l’annientamento che, in caso contrario, inghiottirebbe il caro defunto che fosse abbandonato e dimenticato. Ma ciò che è stato cessa di essere solo perché noi non ce ne occupiamo? Basta il ricordo dello scomparso a garantire la continuità della sua permanenza tra i mortali?
La salvezza dalla morte è il pensiero dominante di ciascun essere umano e di ciascun popolo. La storia delle diverse civiltà illustra la varietà dei modi in cui gli uomini di ogni epoca hanno cercato di proteggersi dalle minacce di distruzione individuale e collettiva provenienti dagli altri popoli, dalle malattie, dagli eventi atmosferici e in generale da catastrofi letali. Nelle diverse civiltà la resistenza alle singole aggressioni è stata sempre anche tentativo di superamento del pericolo estremo, la morte. Si può dire che l’ineluttabilità della morte fisica, della quale uomini e popoli hanno dovuto prendere atto, è stata compensata dall’ideazione delle diverse forme in cui il sogno necessario dell’immortalità ha trovato espressione. La sopravvivenza può essere intesa in senso materiale come prolungamento dell’esistenza fisica ottenuto mediante l’impiego di tecniche speciali (imbalsamazione, crioconservazione); oppure in senso simbolico (segni della passata esistenza del defunto, la sua fama celebrata in pubblico o in privato); oppure ancora in senso spirituale (immortalità dell’anima, che sopravvive in una sfera totalmente altra dalla dimensione corporea). Ma qualunque sia la forma in cui la sopravvivenza è pensata e celebrata, il culto dei morti è praticato con l’intenzione di impedire che il defunto sia annientato, ne omnis morietur. Orribile e inconcepibile è per ogni essere umano l’idea di una cancellazione radicale di se stesso e degli altri uomini, come se la morte vanificasse lo sforzo e l’impegno con cui i viventi portano il fardello dell’esistenza. Solo chi si è macchiato di crimini orrendi sembra degno di essere messo a morte: l’inflizione della pena capitale è la dichiarazione non solo della sua morte fisica, ma anche simbolica e spirituale, affinché nulla e nessuno debba poter ricordare il criminale del quale si decreta l’oblio in perpetuo. L’idea di fondo è allora quella per cui solo la vita buona è degna di essere salvata dalla morte e dall’oblio. Ma nonostante il fatto che la morte annientante sia concepita come giusta punizione per i malvagi assoluti, gli esseri umani che meritano di sopravvivere alla dissoluzione fisica non possono farcela da soli e hanno bisogno dell’aiuto di Dio o della Tecnica, le due potenze alle quali nel corso della storia gli uomini si sono affidati per raggiungere la salvezza.
Dio e la Tecnica, ricorda Emanuele Severino nella Prefazione al volume di Ines Testoni, sono i due modi essenziali in cui l’uomo ha cercato di conseguire la salvezza dalla morte. Tutti i popoli hanno educato se stessi alla morte. Il mito, la religione e la stessa filosofia sono stati forme di meditazione sulla morte e di ideazione dei modi in cui è possibile conseguire la salvezza. Nell’attuale situazione di contesa di due diverse modalità di educazione alla morte, al centro delle quali stanno Dio e la Tecnica, convivono due forme di educazione: «Quella che facendo leva su Dio ignora i motivi che hanno condotto alla volontà di sostituire Dio con la Tecnica; e quella che facendo invece leva sulla Tecnica ignora che la Tecnica ha lo stesso intento di Dio, di essere cioè il Rimedio contro la morte e il dolore – cioè ignora la dimensione che essa vuole superare e da cui vuole prendere le distanze» (p. X). A giudizio di Severino il saggio di Ines Testoni è perfettamente consapevole della contesa che oppone Dio e la Tecnica rispetto al Rimedio contro la morte che ciascuno dei due proclama di essere. In ambito anglosassone l’educazione alla morte (Death Education) assume un’importanza crescente. L’autrice affida alla filosofia e non alla religione il compito di indicare il senso autentico della morte. Ma a quale filosofia? Certamente non alla filosofia della tradizione e neppure alla filosofia che fonda e legittima la volontà della Tecnica di infrangere ogni limite e negare ogni valore imposto dalla tradizione, affermando in varie forme la “morte di Dio”. Al centro del saggio della Testoni, commenta Severino, è l’idea che Dio e la Tecnica si fronteggiano su un terreno comune a entrambi e alla stessa attività educativa.
Severino ricorda al lettore che in Platone l’educazione (paideia) è una tecnica e come ogni tecnica è produzione, cioè trarre dal non essere una determinata forma: la conoscenza della verità. La poiesis è insieme agire divino e agire tecnico, creazione e produzione, il cui tratto fondamentale è far passare le cose dal non essere all’essere. Dio e Tecnica sono artefici della «formazione» del mondo. L’educazione degli umani da parte di altri umani è azione creatrice dell’educatore. «In seguito, con la “morte di Dio” e della verità, la pedagogia pone come scopo della creatività educativa non più la verità (che afferma Dio), ma la stessa «libertà creatrice» di chi viene educato» (p. XII). La creazione ex nihilo non è solo l’atto divino che fa venire alla luce il mondo, ma è il modo in cui, secondo la tradizione, ogni cosa viene all’esistenza. E tutto ciò che proviene dal nulla è destinato a dissolversi nel nulla. Nella tradizione l’uomo era salvato dall’annientamento mediante la fede e la promessa di continuare a esistere felicemente in Dio in eterno. La morte di Dio ha tolto all’uomo questa speranza, lasciandolo nel terrore della morte. Il solo rimedio al nulla in cui ciascuno sente di essere destinato a sprofondare è nasconderlo e agire come se non fosse. Ma si cerca un riparo, un rimedio, avverte Severino, proprio «perché si è convinti dell’assoluta inevitabilità e innegabilità della nullità dell’uomo e delle cose, e questa convinzione è la nutrice di ogni terrore». La cultura dell’Occidente si fonda sulla convinzione che l’annientamento sia il destino di ogni cosa; ormai estesa all’intero pianeta, essa è «la forma originaria dell’angoscia estrema che ha finito con l’avvolgere le masse» (p. XIII).
Ma evidentemente tale cultura non può fornire alcun rimedio contro l’angoscia per la morte, perché dovrebbe combattere il terrore dell’annientamento con lo stesso terrore. Sia religiosa o laica, la cura dell’angoscia non può avere successo. Il farmaco che dovrebbe guarire è insieme il veleno che causa e mantiene la malattia. La consapevolezza di tale fallimento rende particolarmente difficile il compito di qualsiasi azione educatrice, compresa la Death Education. Ines Testoni prende atto di questo fallimento, ma al tempo stesso l’allieva di Severino sa che l’annientamento di tutto ciò che esiste non è l’evidenza incontrovertibile, non è la verità innegabile indipendente dai punti di vista e dalle condizioni in cui si trova il soggetto, ma è solo una fede antica e persistente. La Death Education assume un nuovo significato se si comprende che il divenire degli enti – il loro uscire dal nulla e dissolversi in esso – non è l’evidenza innegabile, ma lo smarrimento della verità. Tra il curare l’angoscia con e senza questa consapevolezza che la verità degli essenti non è il loro essere nulla, la differenza è decisiva. Il superamento della fede nella nullità degli essenti permette di afferrare definitivamente, come verità incontrovertibile, l’eternità di ogni essente non come conseguenza del fatto che ogni essente esiste originariamente in Dio o perché la sua materia è eterna o l’energia dell’universo debba mantenersi in una quantità costante, ma per il semplice fatto che ogni essente è l’essente che è e dunque non può non essere né in passato né in futuro. Nella prospettiva della filosofia di Emanuele Severino, l’autentica educazione alla morte si pone al di là del nichilismo dell’Occidente. L’educazione alla morte diviene così consapevole dell’impossibilità di ogni educere (nel senso di trarre qualcosa dal nulla), perché l’educazione in generale e quindi anche l’educazione alla morte può consistere solo nel manifestarsi, nell’educando, della verità dell’essente: il suo essere eterno, così come è eterno tutto ciò che si manifesta. L’educazione alla morte alla luce della verità incontrovertibile dell’eternità degli essenti non può consistere nel far passare dal nulla all’essere la verità che si vuole introdurre nell’educando: «Proprio perché ogni essente è eterno, anche il senso autentico della verità appare eternamente nell’uomo, sì che l’autentica educazione alla morte è un provare ad agire con la speranza che anche in chi viene “educato” sopraggiunga il linguaggio, più o meno espresso, che testimonia ciò che gli sta eternamente dinanzi – cioè sopraggiunga l’evento che in qualche modo cor-risponde alla volontà di “educare”» (p. XIV). La fede religiosa invece aderisce a contenuti che sono appresi non in quanto il seguace li abbia da sempre dinanzi a sé, ma solo perché essi sono rivelati all’uomo da Dio a un certo punto della storia. Nella prospettiva religiosa l’uomo potrebbe anche rimanere all’oscuro per sempre dei contenuti essenziali per la conoscenza della verità che solo Dio possiede.
Anche la Tecnica riposa sulla fede di essere la verità e la felicità. La differenza tra fede e verità autentica è che la prima può essere smentita, mentre la seconda è incontrovertibile. La verità degli essenti, di ogni essente, è il loro essere eterni. Ma il presupposto della Tecnica, avverte Severino, è la negazione di ogni eternità. La tecno-scienza non è solo negazione della verità autentica, ma non conosce né la morte né l’angoscia per la morte. L’errore fondamentale delle concezioni che si sono sviluppate lontano dal senso autentico della verità consiste nel ritenere che il principio di non contraddizione non riguardi la verità, ma abbia solo un significato pratico. La contraddizione del dolore è la forma più comune in cui la contraddizione è per lo più intesa. Il dolore è la conseguenza della volontà di far diventare altro le cose e se stessi. Ma diventare altro è impossibile e vana è la volontà che vuole l’impossibile. Il dolore è l’esperienza del mancato conseguimento dell’impossibile. Il dolore è un’esperienza rifiutata e accettata. Da una parte il dolore viene negato, dall’altra viene accettato. Infatti «il rifiuto del dolore è, insieme, il riconoscimento dell’esistenza dell’esperienza rifiutata» (p. XVI). Si riconosce l’esistenza del dolore proprio perché si vuole che finisca. Sono certo che esiste il dolore che provo e sono certo che non esiste. Ora, spiega Severino, l’essere certi non è altro che il volere ciò di cui si è certi. Si vuole che l’esperienza rifiutata esista e insieme non esista. L’esperienza del dolore è insieme accettata e rifiutata. Si è costretti a volere e a non volere la stessa esperienza del dolore. Ciò che si vuole e si rifiuta è la stessa cosa: il dolore è contraddizione. La morte in quanto annientamento è l’esperienza più dolorosa, è il dolore per antonomasia.
Nel corso della storia la morte è sempre stata insieme riconosciuta e negata nella sua esistenza. L’esperienza della morte ha sempre procurato il dolore supremo, al quale si è cercato di porre un rimedio. Ma è impossibile, avverte Severino, che a coloro che sono in contraddizione la contraddizione appaia separatamente dalla sua negazione da parte della coscienza che si contraddice. Le filosofie che si fondano sulla contraddizione del dolore nel senso indicato sono lontane dal destino della verità, perché non danno accesso alla verità dell’essente. L’educazione alla morte, la cura dell’angoscia per la morte è forse possibile per le filosofie che ignorano il senso autentico della contraddizione e del suo toglimento? Anche la tecno-scienza ignora la contraddizione su cui si fonda. La volontà di far diventare altro è la certezza che una cosa sia e insieme non sia ciò che è. La contraddizione non è abolita dal potere di far scomparire determinate esperienze. Infatti nascondere la morte è una forma di negazione che non toglie la contraddizione di fondo. La tecno-scienza ha un carattere ipotetico e non può non sapere che un determinato intervento che elimina il dolore, a un certo punto può perdere efficacia. L’unico rimedio contro la morte che la tecno-scienza conosca è quello di nasconderla, di fingere che non sia, pur riconoscendola come il dolore estremo. Ma finché la cultura, scientifica e non, si muove sulla base della contraddizione per cui si nega la verità degli essenti (che essi sono ciò che sono), quindi si afferma l’esistenza della morte come annientamento e insieme la si nega in varie forme, ogni educazione alla morte non produrrà il risultato sperato: il superamento del terrore, che è dolore, che è contraddizione. Possiamo sperare che un ravvedimento cognitivo alla luce della verità degli essenti e nella direzione del «destino della verità» sia sufficiente per estirpare quella contraddizione che è alla radice del dolore supremo? Se così fosse, la persuasione che ogni cosa è eterna si mostrerebbe come la verità che ogni essente ha da sempre dinanzi come l’autentica evidenza, in opposizione alla falsa evidenza dell’annientamento, che si trova alla radice di ogni «creazione» ed «educazione». Alla luce della filosofia di Severino, le esortazioni «Diventa ciò che già sei» e «Impara ciò che già sai» possono rappresentare sia un esercizio di autoeducazione alla verità sia il superamento della contraddizione in cui consiste la sofferenza estrema dei mortali.
Nel capitolo introduttivo al volume Ines Testoni prende avvio dalle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte di Freud, in cui il padre della psicoanalisi, ricordando che il compito fondamentale di ogni vivente è quello di sopportare la vita, propone di modificare il vecchio adagio Si vis pacem, para bellum nel seguente: Si vis vitam, para mortem. Per sopportare la vita, bisogna disporsi ad accettare la morte. Si tratta di capire che cosa intendesse Freud con le “illusioni” che aiutano a sopportare la vita. Il percorso dell’autrice si propone di affrontare la questione riguardante le implicazioni della Death Education e deve quindi affrontare il rapporto tra illusione e significati attribuiti alla morte. Testoni sa bene che la coscienza della necessità di imparare a morire per saper vivere risale a Platone, il quale nel Fedone concepisce la filosofia come preparazione alla morte. La filosofia è conquista della verità intelligibile che si potrà afferrare tanto più facilmente e stabilmente quanto maggiore sarà la libertà dai condizionamenti della natura sensibile. La filosofia promuove perciò un esercizio di ascesi e distacco dal corpo in questa vita, che anticipa e prepara il distacco definitivo dell’anima dal corpo che avverrà con la morte fisica. Sapendo che con la morte l’uomo (la sua anima) accede alla vera conoscenza e alla vera vita, la vita sensibile perde il valore che invece presuppone il terrore della sua perdita. Se l’esistenza del corpo sensibile è un ostacolo alla conoscenza della verità soprasensibile, allora la morte fisica è una liberazione e una conquista. Così il terrore della morte è rovesciato in anelito e l’idea di abbandonare il corpo mortale non sarà più fonte di disperazione ma motivo di conforto e di gioia: la morte rappresenta, platonicamente, il compimento di un processo di autoeducazione filosofica all’ultimo distacco, all’ultima nascita.
La differenza fondamentale tra Platone e Freud, come avverte Testoni, è che per il primo la certezza razionale e filosoficamente argomentata che la vita continua oltre la fine apparente non è una delle possibili soluzioni del problema del terrore della morte, non è uno stratagemma che permette di superare l’angoscia, mentre per il secondo quella stessa persuasione raggiunta con argomenti apparentemente così impeccabili, è solo una delle tante illusioni consolatorie che gli uomini nel corso della civiltà hanno elaborato per fronteggiare il dolore. Se per Platone il contenuto della credenza nell’immortalità è l’unica verità possibile e indubitabile, per Freud il valore delle forme culturali con cui gli esseri umani cercano di superare la paura della morte non risiede nel contenuto specifico, ma solo nell’efficacia con cui si ottiene il risultato di placare il dolore in vista della morte, intesa come annullamento. Se in Platone la vera e unica certezza è l’immortalità, in Freud l’annientamento definitivo è l’evidenza indubitabile della morte, che tuttavia può essere rimossa e dimenticata grazie alla fede. In questa prospettiva, il contenuto della fede è indifferente, perché il suo valore strumentale è inscindibile dalla sua natura illusoria. Attenzione però: in Platone il rimedio è infallibile perché la filosofia si propone come procedimento razionale che legittima l’adesione alla verità disvelata. In Freud invece il rimedio è prima smascherato come inganno dell’inconscio e l’immortalità come vana aspirazione all’immortalità, poi lo stesso rimedio viene rilegittimato come illusione, benefica e necessaria per sopportare l’esistenza. Può funzionare come rimedio efficace una credenza che è stata smascherata come illusione? Può ottenere l’assenso una credenza di cui si è compresa l’assenza di fondamento? La coscienza del carattere illusorio del rimedio non dovrebbe metterlo fuori gioco come rimedio? In Platone domina la persuasione dell’immortalità dell’anima, che apre al superamento del dolore procurato dalla visione della morte come annientamento, rivelatasi erronea agli occhi della riflessione filosofica. In Freud invece domina l’idea dell’annientamento come evidenza ineludibile, che può solo essere rimossa e occultata da una credenza che la nega. L’evidenza dell’annientamento dovrebbe quindi essere negata dalla credenza illusoria che rassicura il vivente con la promessa della salvezza.
La persuasione che gli enti sono niente è il fondamento anche della filosofia di Platone, ma la dottrina delle idee – il Rimedio che mette al riparo dalla morte perché ne dimostra l’impossibilità, essendo l’anima una delle idee incorruttibili – non è certo intesa dallo stesso Platone come finzione: è il contenuto incontrovertibile antitetico all’evidenza opposta del divenire. In Freud al contrario la morte come annientamento completo e irreversibile è la verità incontrovertibile, l’evidenza innegabile. Per difendersi dal terrore della morte gli esseri umani hanno fatto ricorso alla religione, ma senza rendersi conto che il valore della religione non risiede nella sua verità intrinseca, bensì nel sollievo soggettivo che può assicurare agli esseri umani, che così si illudono di poter esistere oltre l’apparente annientamento. L’uomo freudiano appare così un ossimoro, in contraddizione con se stesso: deve affermare l’annientamento per comprendere il carattere illusorio del rimedio, ma deve anche negare l’annientamento per conferire al rimedio l’efficacia risolutiva di cui ha bisogno per vivere. Un uomo in conflitto con se stesso. Quale educazione alla morte sarà mai possibile sulla base di questa contraddizione? Si potrebbe sostenere che il problema riguarda solo le persone colte e senza una fede solida, mentre gli sprovveduti continuano a vivere in buona fede in piena adesione ai contenuti della religione. Sappiamo tuttavia, con Severino che l’idea dell’annientamento definitivo non è un’evidenza razionale, ma una fede, mentre per Freud è la verità ultima, che tuttavia si deve nascondere mediante gli insegnamenti consolatori delle religioni e delle teosofie. Sia l’evidenza del divenire (il nichilismo per cui gli enti sono niente), sia la verità del rimedio (l’immutabile che è fatto intervenire come riparo, come bastione in grado di arginare il dissolversi degli enti nel non-ente), sono fedi, che in ogni caso non possono risolvere il problema della sopportazione del dolore della morte, il quale trova un’efficace risposta nella riflessione essenziale per cui gli enti, tutti gli enti, non provengono dal nulla e non sprofondano nel nulla, ma semplicemente sono ciò che sono nel destino della verità. Questa dovrebbe essere la via che conduce al risveglio cognitivo sulla morte mediante la Death Education, di cui Testoni è fine esploratrice.
Gli studi sulla percezione della morte hanno il merito di aver raccolto una grande quantità di dati che attestano ciò che è noto da sempre: che l’uomo tende a evitare, negare o dimenticare tutto ciò che gli ricorda la sua natura mortale. Il successo delle varie culture nel corso della storia è stato determinato dalla capacità di fornire baluardi in difesa della vita. Le rappresentazioni della morte si accompagnano per lo più a un ritualismo strategico il cui significato è essenzialmente apotropaico: si tratta di resistere all’idea della perdita di senso della vita presente, delle aspirazioni e dei traguardi raggiunti, allorché siano vanificati dal pensiero della fine di ogni essere umano e del mondo stesso. Da alcuni decenni, avverte Testoni, i progressi della medicina, oltre ad aver allungato i tempi della vita in buona salute come pure quelli della malattia terminale, hanno modificato quelli che un tempo erano considerati come i confini naturali tra la vita e la morte. Il rapporto tra vita-morte-tecnica si è così complicato da escludere che si possa mantenere la dicotomia che poteva valere fino alla fine dell’800 tra la competenza sul corpo e quella sull’anima, riconosciuta rispettivamente alla medicina e alla religione. Infatti «dopo l’assunzione sociale dei principi di autodeterminazione e di alleanza terapeutica o consenso informato, secondo le indicazioni della World Health Organization, della Convenzione di Oviedo, delle Medical Humanities e delle leggi che a esse si sono conformate nei Paesi occidentali, non possono ormai più essere le autorità religiose o mediche a stabilire, in base al significato che esse attribuiscono al rapporto salvezza/salute, come intervenire sulla vita delle persone» (p. 7). Divenuto ormai un soggetto autonomo e responsabile di se stesso, propenso all’autodeterminazione, ciascun individuo mira a utilizzare liberamente tutte le terapie che il progresso continuo della scienza medica gli mette a disposizione. Il consenso informato è la conseguenza della nuova definizione del malato come depositario di diritti inviolabili: nessun intervento terapeutico o di altro genere potrà essere effettuato su di lui a sua insaputa e senza che egli abbia fornito il suo esplicito consenso.
Il problema della morte può essere aggirato considerando che il decesso mette fine a tutto, troncando qualsiasi esperienza del soggetto vivente (nel senso del genitivo soggettivo e oggettivo). Che la morte sia solo annientamento su cui non vale la pena di argomentare e interrogare, è già stato detto da Epicuro con una concisione difficilmente superabile. Ma il punto è, avverte Testoni, che questa concezione è una fede tra le altre, non una certezza che debba gettare nello sconforto. Senza ricorrere alla concezione dell’immortalità dell’anima che salva l’uomo al prezzo di un dualismo indebolito da molte incoerenze, si può benissimo mostrare che l’idea della morte come annientamento non è un’evidenza ultima e indiscutibile, ma un’apparenza contraddittoria. Tuttavia, spiega Testoni, è indispensabile acquisire una conoscenza approfondita delle diverse posizioni intorno alla morte, per comprenderne le diverse implicazioni psicologiche ed esistenziali. Siamo ciò che crediamo di essere: se crediamo di essere mortali, la nostra sofferenza sarà un inferno. Ma si può credere senza sapere oppure credere sapendo ciò in cui si crede, così che nel secondo caso non si tratta neppure di un credere, ma di un avere dinanzi a sé l’evidenza incontrovertibile per cui l’essente, ogni essente, è.
I progressi della medicina hanno incoraggiato l’infantilismo di chi si illude di poter prolungare indefinitamente la propria vita cambiando qualche pezzo di tanto in tanto come si farebbe con un’automobile. Il giovanilismo assume tratti grotteschi: la smania di rimanere eternamente giovani non ha nulla a che vedere con la persuasione che l’essente è eterno, poiché nel destino della verità è compresa anche la storicità dell’essente e ciascun essere umano è esposto alla malattia e alla morte che deve imparare ad accettare senza precipitare nel terrore dell’annientamento. Si tratta di pensare intensamente che ogni momento della nostra vita è l’apparire di un eterno. Ai nostri morenti, che il sistema sanitario tende ad affidarci sempre più a lungo abbreviando il più possibile la degenza ospedaliera, dobbiamo imparare a parlare con serenità, utilizzando il loro linguaggio. Se il paziente spera di salvarsi mediante la Tecnica, cadrà nella disperazione se si accorgerà che, a un certo punto, la tecno-scienza ha esaurito la sua capacità di prolungare l’esistenza. Se invece affida a Dio la propria salvezza, forse è il caso di seguirlo nel suo percorso di fede e di rinforzarlo se vacilla, per il suo bene. Bisogna trovare le parole adatte a ciascun malato, preparandosi a mutare atteggiamento e linguaggio se il paziente dovesse abbandonare la credenza a lungo seguita e cadere nello sconforto. La meditatio mortis accompagna tutta la storia dell’uomo. Chi assiste il morente dovrà a sua volta morire, anche se l’assistito è già dentro l’evento che l’assistente può vedere da lontano, inquadrandolo attraverso le manifestazioni del morire nel suo assistito. L’intera vita può essere spesa nell’esercitarsi ad accettare pienamente la morte per non averne paura. L’obiettivo dell’ars moriendi come della Death Education è lo stesso: apprendere a non aver paura della morte che genera il coraggio di rischiare la vita al servizio di un ideale superiore. La paura della morte può infatti assumere una proporzione catastrofica e portare alla paralisi psicofisica con effetti invalidanti. Il paziente soffre a tal punto a causa della propria morte futura, che sviluppa la paura di vivere, una sorta di stasi catatonica che lo esime dall’agire costruttivo. La consapevolezza di dover morire non può diventare un ostacolo alla vita stessa. Perciò dobbiamo imparare non solo a morire ma anche a vivere: né vivere nella negazione/rimozione della morte, né abbracciare la condizione del morente cessando di vivere in pienezza.
La scuola è il luogo in cui dovrebbe essere praticata l’educazione al morire. I programmi ministeriali della scuola italiana, però, lamenta Testoni, prevedono che solo nelle scuole dell’infanzia sia prevista, come recita la normativa, una «riflessione sui grandi interrogativi posti dalla condizione umana (ricerca identitaria, vita di relazione, complessità del reale, bene e male, scelte di valore, origine e fine della vita, radicali domande di senso)» (p. 13). Sembra che il legislatore reputi il periodo dai tre ai cinque anni la sola età in cui si possono affrontare temi tanto rilevanti. Testoni si augura che il MIUR rimedi presto a questa anomalia. Illustri tanatologi sostengono che l’educazione alla morte può rendere più maturi e responsabili. Possiamo osservare che il luogo naturale per l’educazione al morire è rappresentato dalla filosofia, il cui insegnamento è stato esteso a tutti gli indirizzi della scuola media superiore. La prevenzione primaria (memento mori) consiste nell’insegnamento e nella comprensione del significato della morte e della finitudine senza rimozioni o censure, in un confronto aperto con tutte le fasce di età. Quanti comportamenti autolesionistici sono dovuti all’angoscia e allo smarrimento esistenziale, all’incapacità di far coesistere e accettare la vita e la morte insieme? La prevenzione secondaria (ars moriendi) riguarda la presa di coscienza delle modalità del morire e di come accompagnare il morente. I familiari di un malato terminale per lo più sono privi delle competenze necessarie per farsi carico del congiunto e aiutarlo nel percorso irripetibile che porta oltre il limite del visibile. La prevenzione terziaria riguarda invece il lutto di chi rimane, e ha come obiettivo di evitare che la morte del familiare inneschi nei dolenti un processo patologico di resa alla disperazione e alla depressione grave (p. 15).
Il Novecento registra una lunga serie di Death Studies sul tema della Death Education, di cui Testoni fornisce un censimento ragionato e una discussione critica aggiornatissima. Indubbiamente il processo di laicizzazione della civiltà occidentale ha reso obsoleti i dispositivi delle religioni tradizionali, senza tuttavia sostituirli con metodi efficaci di educazione alla morte e accompagnamento del morente nel suo viaggio verso l’ignoto. La tanatologia si giustifica anche in ragione della necessità di colmare una vistosa lacuna. Educare alla morte significa insegnare a sopportare la perdita, volta per volta, di ciò che ci è stato più caro al mondo nel corso della nostra esistenza. La morte è un evento unico, irripetibile e irreversibile, tuttavia è possibile esperire il distacco in cui consiste gradualmente e per analogia, ad esempio con la disintegrazione del proprio giocattolo, il decesso del cane o del gatto, l’abbandono della persona amata, la morte dell’amico, infine la perdita dei genitori, del consorte o addirittura dei figli. L’educazione alla morte deve sviluppare la capacità di compensazione dei dolenti e aiutarli a ristabilire nel tempo il loro equilibrio interiore. Le misure adottate dalle diverse tradizioni per sopportare la fine che fa della vita una «strada senza uscita» sono essenzialmente credenze messe a disposizione dai miti e dalle religioni con la funzione di orientare i comportamenti degli esseri umani inserendoli in progetti basati sul presupposto di una qualche forma di sopravvivenza post mortem; oppure la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte come sorte definitiva e senza sbocco ulteriore è servita per giustificare l’esaltazione del sacrificio, della punizione cruenta, delle guerre sanguinarie. Oggi la stessa persuasione della fine senza ritorno e senza rimedio sospinge spesso gli individui alla ricerca della massima felicità possibile intesa come soddisfazione edonistica al riparo dei colpi della sorte avversa.
Un argomento rilevante affrontato dai Death Studies è la determinazione della morte come disintegrazione. Quando avviene esattamente il decesso? In alcune culture arcaiche, scrive Testoni, il decesso si considerava completato solo con l’integrale disfacimento del corpo. Oggi, al contrario, la morte è decretata in base ad altri parametri. La pratica del trapianto, che presuppone la possibilità di prelevare gli organi da un corpo vivo, ha indotto e giustificato l’adozione del criterio rappresentato dalla cessazione delle funzioni cerebrali. Le tecniche di rianimazione permettono di mantenere attiva la respirazione e la circolazione, nonostante la cessazione delle attività cerebrali. In Italia la legge n. 578/93 identifica la morte con «la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo» (p. 21). Se la morte è la cessazione di ogni attività cerebrale, possiamo dire che si identifica nel cervello l’organo fondamentale le cui condizioni decidono se il soggetto è morto o vivo. Cessazione di ogni attività cerebrale significa scomparsa della mente, se concepiamo la mente una funzione del cervello e nulla più. Ma sul rapporto mente-cervello esistono diverse teorie, monistiche e dualistiche, di cui Testoni presenta un quadro ragionato e aggiornato. Le concezioni dualistiche, che hanno l’intento di combattere il riduzionismo tipico del monismo materialistico, «rappresentano il tentativo di spiegare i termini della differenza tra dimensione mentale e dimensione cerebrale», e tutto questo lavoro teorico «dà l’idea di quanto sia difficile stabilire a priori che la legge sappia con certezza di che cosa si sta parlando quando indica la morte del cervello per definire la morte della persona, oppure quando afferma che la vita di un ammalato è insopprimibile perché permane la sua coscienza sebbene il suo corpo e il suo cervello siano paralizzati, e quindi non in grado di rispondere alla sua intenzionalità» (p. 27). Le teorie riguardanti il rapporto mente-cervello testimoniano la difficoltà del pensiero occidentale di pensare l’identità e in particolare l’identità della persona. L’idea che l’uomo consista in due dimensioni antitetiche, corporea e incorporea, mortale e immortale, genera le aporie insuperabili messe in luce da Severino, il quale ha mostrato che il riduzionismo e l’eliminativismo sono contraddittori, poiché mirano a rendere conto dell’identità partendo da due parti opposte e irriducibili, che tuttavia cercano di ridurre l’una all’altra. Ammettere l’esistenza delle due dimensioni, poi ridurre l’una all’altra, significa negare che esista quella che è appena stata riconosciuta come esistente (p. 29).
Le diverse teorie dualistiche sono compatibili con le visioni metafisico-religiose che indicano nell’anima il principio identitario della persona che sopravvive alla dissoluzione del corpo; le teorie monistiche di tipo materialistico invece circoscrivono l’identità della persona alla sua esistenza biologica. Le forme principali di rappresentazione del rapporto tra identità individuale e morte nelle culture del pianeta sono, secondo Testoni, l’annientamento totale, secondo cui non solo gli individui sono destinati all’estinzione completa, ma anche la Terra e il cosmo; l’idea di permanenza parziale di un principio di identità desoggettivato o depauperato, riconducibile a vita diminuita (Ade greco, sheol ebraico), a esistenza terrestre invisibile, come nelle culture arcaiche, a separazione dell’anima dal corpo e metempsicosi, a immortalità corporea, come dimensione biologica (clonazione), all’idea di permanenza della traccia soggettiva nella memoria storica priva dell’identità individuale autocosciente; la permanenza di un principio di identità essenzialmente soggettivo (anima, spirito), secondo la visione platonica e cartesiana; eternità, secondo la concezione filosofica di Emanuele Severino, il quale intende l’eternità come inerente all’identità dell’essente, il cui essere è identico all’eternità, poiché l’essere non può essere l’altro assoluto in cui il nulla consiste (pp. 31-32).
L’esistenza del principio di identità psichico (anima o spirito) non può essere dimostrata dalle esperienze di premorte, prodotte da condizioni patologiche ma non irreversibili, come l’arresto delle funzioni cerebrali oltre che cardiache, in pazienti colpiti da un trauma o affetti da una malattia. Tutti i soggetti dopo l’uscita dal coma forniscono una descrizione molto simile: uscita dal corpo, tunnel, serenità, luce e fusione con il tutto, talvolta incontro con persone care. Una minoranza riporta esperienze di angoscia dovute all’incontro di entità persecutorie. Nonostante il successo che incontra la letteratura che divulga queste esperienze di premorte, avverte Testoni, esse si spiegano «come esito dell’attività cerebrale subcorticale, che diviene saliente quando l’attività corticale sia ridotta o assente». Perciò tali esperienze soggettive non autorizzano alcuna inferenza circa la realtà degli oggetti percepiti e dei luoghi visitati. L’esperienza è reale, ma non si può affermare che lo sia la sua referenza. «Se siamo convinti che un soggetto psicotico o sotto effetto di sostanze psicoattive sia inattendibile quando parla delle proprie visioni, non ha senso stabilire che lo stato di chi si trova in condizioni di anossia cerebrale sia invece credibile» (p. 33). Le convergenze transculturali delle esperienze di premorte dimostrano soltanto una prevedibile unitarietà e coerenza della fisiologia del sistema nervoso in determinate situazioni. I tentativi di esplorare il trascendente metempirico per via empirica sono dunque destinati al naufragio. Appare perciò insuperabile la contrapposizione tra la visione scettica delle teorie riduzionistiche e materialistiche da una parte e il dualismo dall’altra. Qual è il principio della personalità, il fondamento dell’identità della coscienza? La materia cerebrale che si dissolve con la morte oppure una sostanza immateriale distinta e irriducibile alla materia, cui si deve riconoscere un destino indipendente?
Il saggio di Testoni non attribuisce al riduzionismo il valore di una verità indubitabile e rimane dunque aperta la possibilità di pensare che in qualche modo l’esistenza possa continuare oltre la morte. Non è possibile vivere senza il terrore della morte, che tuttavia può essere risolto mediante contromisure di vario tipo. Lo stesso riduzionismo è costretto ad ammettere l’utilità delle rappresentazioni illusorie che fanno riferimento a un’identità permanente e trascendente, che sopravvive alla morte fisica. Guai se credessimo che la nostra morte sarà l’annientamento radicale del nostro essere: cesseremmo all’istante di agire, ci mancherebbe la motivazione persino per respirare. La credenza, per quanto illusoria, in una qualche forma di sopravvivenza alla morte fisica potenzia la capacità di agire e di fare degli esseri umani, così che porranno essi stessi le premesse della loro immortalità, poiché saranno ricordati per le imprese cui avranno dato corso e per le opere che avranno lasciato. Quanto più sono convinto che «non omnis moriar», tanto più febbrile sarà il mio impegno nel tempo di vita che mi è concesso e tanto più a lungo sopravvivrò alla mia morte. L’illusione si rivela quindi una scommessa che si può vincere. La convinzione della sopravvivenza oltre la morte è la condizione a priori della moralità. Se sopravvivrò in qualche forma, sarò giudicato senza appello e non mi sarà data una seconda possibilità.
Testoni espone criticamente la Terror Management Theory, la quale ha fatto propria la prospettiva darwiniana di Freud e di buona parte della psicologia sociale. L’umanità ha dovuto affrontare il problema del terrore della morte e della consapevolezza di dover morire, e difendersi dall’angoscia che in ogni momento rischia di insinuare la rinuncia a vivere. Gli esseri umani hanno dovuto adottare una serie di strategie, rappresentazioni e comportamenti necessari per sopravvivere. In ogni momento della loro esistenza le persone sono raggiunte da segnali della loro precarietà e questo li pone nella necessità di reagire con misure simili a quelle con cui cercano di far fronte alla dissonanza cognitiva: in questo caso elaborando o meditando su concezioni che li mettano al riparo dalla rappresentazione minacciosa della morte. Senza adeguate contromisure, la volontà di vivere viene sopraffatta e il soggetto rischia di scadere in uno stato di inerzia passiva accompagnata da un sentimento invincibile di assurdità (la nausea). «La dissonanza del voler lottare per vivere, spiega Testoni, sapendo che comunque bisogna morire viene dunque combattuta attraverso la costruzione capillare di apparati simbolici che mantengono impegnato il pensiero umano per un verso in territori diversi da quelli esistenziali e per l’altro in rappresentazioni che negano la morte: la cultura è il prodotto di tale incessante lavoro» (p. 39). Il sapere di essere mortali subisce un ribaltamento nel contrario allorché le difese distali (miti, religioni e filosofie) e prossimali (costruzione sociale dell’identità, autostima) generano la convinzione di invulnerabilità. L’idea di immortalità rappresenta un baluardo contro l’angoscia e conferisce la sensazione di poter controllare la propria vita mediante un potere di iniziativa capace di conferire senso e prevedibilità agli eventi. L’immortalità sembra dunque la condizione affinché il soggetto affronti la vita in modo attivo, costruttivo e responsabilmente integrato in un gruppo che condivide gli stessi valori e credenze. Le ricerche empiriche condotte dagli studiosi della TMT in senso crossculturale, scrive Testoni, dimostrano che «le minacce all’autostima o ai fondamenti delle credenze condivise aumentano l’accessibilità dei pensieri di morte» (p. 40). Secondo la TMT tutti gli aspetti e momenti della vita sociale si fondano sulla paura della morte: l’odio, l’amore, il conflitto, le guerre, l’intolleranza, ecc. L’odio razziale e religioso è determinato dal panico provocato dalla possibilità di sconfiggere la morte attraverso il corpus di credenze su cui si basa l’autoimmagine e la percezione del valore personale di ciascun membro del gruppo. Individui e gruppi rivendicano la propria unicità mediante gli apparati della cultura, che garantisce la salvezza dalla morte, in opposizione alla naturalità animale, che viene aborrita. L’estetica e il gusto in generale hanno la funzione di conferire unicità e immortalità agli esseri umani, differenziandoli dagli animali, identificati solo dalla specie di appartenenza. L’amore, l’amicizia e le relazioni sociali, come dimostrano i numerosi studi citati da Testoni, sono ausili utili a superare l’ansia di morte, poiché rafforzano sia le difese prossimali (autostima), sia quelle distali (condivisione della Weltanschauung del gruppo).
L’imperativo fondamentale è di contrastare la prospettiva della morte che pesa costantemente come minaccia di annientamento. I successi della ricerca scientifica nella cura di malattie un tempo letali ha favorito la persuasione che l’uomo sia soltanto un animale più complicato delle altre specie che popolano il pianeta; e che non esista alcuna psiche indipendente dal cervello. Questo tuttavia aggrava lo stato di angoscia latente e rende ancora più urgente la fede nella sopravvivenza di un’entità che, irriducibile alla base corporea, sia refrattaria alla disgregazione e testimoni l’immortalità del soggetto. Il conflitto cognitivo tra la persuasione fredda che sa dell’annientamento e il contenuto tanto edificante quanto falso dell’illusione, è prigioniero della discutibile alternativa tra l’idea della morte come fine irreversibile e irrimediabile di tutto, e la morte come inizio di una nuova vita da parte di un’entità vicaria, solidamente ancorata alla trascendenza. Il soggetto appare così in aperta contraddizione con se stesso, poiché è costretto allo scetticismo su ciò che vuole veramente e ad arrendersi all’evidenza in rapporto a ciò che teme più di ogni altra cosa. L’illusione dell’immortalità non guarisce, ma accresce la sua angoscia. La terza possibilità che il dilemma non prende in considerazione è testimoniata dal pensiero dell’essente, che è eterno in quanto essente. Ma tale pensiero richiede una sorta di redenzione dal “peccato originale” di nichilismo dal quale, in senso severiniano, l’intera storia dell’Occidente è condizionata e separata dal destino della verità nelle tenebre dell’errore.
La Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, firmata a Oviedo nel 1997 dal Consiglio d’Europa, è il primo trattato internazionale che disciplina la ricerca scientifica e le applicazioni in biomedicina. Essa fa valere il principio della difesa della dignità umana e detta i criteri con cui si stabilisce quali sono gli usi impropri della medicina (ad esempio vieta la clonazione di esseri umani e regolamenta il trapianto di organi e tessuti). Tuttavia, avverte Testoni, la Convenzione non è stata ancora adottata da importanti paesi europei, quali: Gran Bretagna, Germania, Irlanda, Belgio, Malta e Austria, mentre Francia, Svezia e Svizzera non l’hanno sottoscritto. L’Italia l’ha sottoscritta nel 2001 ma non ha ancora predisposto le procedure di attuazione. «La ragione di questo ritardo, ammonisce Testoni, che crea notevoli disagi nella realtà quotidiana delle strutture sanitarie, dei pazienti e dei loro familiari, è ampia e complessa, ma può essere fatta risalire alla volontà politica di non riconoscere interamente l’autodeterminazione dell’individuo rispetto alla propria vita» (p. 44). Siamo quindi ancora lontani dal modello dell’alleanza terapeutica e dal rispetto dell’autonomia dell’individuo. Testoni indica due circostanze alla base del mantenimento dell’eteronomia: l’idea che la vita sia indisponibile per l’uomo − essendo essa di e da Dio, cui ciascuno deve rendere conto – e il principio che stabilisce il primato dello Stato nelle decisioni che riguardano la vita del soggetto. Non è facile concedere al soggetto una disponibilità illimitata della propria vita, ma non è neppure tollerabile un’ingerenza paternalistica delle istituzioni religiose e mediche che annulli e si sostituisca alla volontà del morente. Tra questi due estremi si colloca la pratica, inconfessata ma sempre contestata, dell’eutanasia in una grande varietà di modi e di sfumature. L’eutanasia, sempre gravata dall’ombra della tentazione criminale e dal sospetto che sotto la maschera nasconda un suicidio o un omicidio, è una questione destinata a suscitare interrogativi che potranno forse ottenere una risposta sul piano tecnico-giuridico, ma sono destinati a rimanere una spina nel fianco di chi sopravvive.
Testoni ricorda opportunamente le varie forme di eutanasia: attiva diretta, quando è provocata dalla somministrazione di farmaci che provocano il decesso; attiva indiretta allorché l’impiego di sostanze per alleviare il dolore abbrevia la vita; passiva quando segue all’interruzione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza del paziente; volontaria, se aderisce alle richieste esplicite sottoscritte in anticipo dal paziente; non volontaria allorché non il soggetto, ma un altro decide per lui; il suicidio assistito può essere attuato con l’aiuto di personale medico che agisce su richiesta del paziente che ha deciso di suicidarsi (p. 45). Al malato va certamente riconosciuto il diritto di vivere con dignità anche le ultime fasi della sua vita, ma potremmo osservare che prodigarsi per offrire al paziente un’ulteriore possibilità di uscita dal tunnel (come nel caso di un coma prolungato) non offende la dignità del paziente; per quanto riguarda il rispetto della volontà che il paziente ha messo per iscritto prima (spesso molto prima) della malattia, non dovremmo dimenticare che l’evoluzione delle conoscenze in campo medico e l’aggiornamento dell’approccio terapeutico non possono escludere che il paziente, se fosse possibile metterlo al corrente delle novità intervenute, muterebbe proposito. In alcuni casi la concreta possibilità di espiantare gli organi per altri pazienti in attesa mette a tacere le perplessità di chi deve operare per il bene del paziente che ha bisogno urgente dell’organo che il morente mette a disposizione. Mors tua vita mea tuaque: il motto latino modificato suona benevolo e rassicurante per il destino del morente: una parte del suo corpo avrà una seconda vita – una specie di sopravvivenza post mortem senza metafisica. Sacrificare una vita per salvarne un’altra pareggia i conti e può mettere a tacere l’obiezione di una coscienza troppo sensibile.
Testoni dà conto dei numerosi studi dedicati alla rappresentazione della morte nell’infanzia, rilevando tuttavia notevoli discordanze tra gli esiti delle diverse ricerche. Secondo alcuni le nozioni di irreversibilità, universalità e cessazione delle funzioni vitali sono rappresentabili solo verso il 14° anno di età allorché si sia completato lo sviluppo del pensiero astratto; altri studiosi invece attribuiscono l’irreversibilità e la cessazione delle funzioni vitali ai bambini dall’età di 4-5 anni, escludendo che la morte possa essere compresa solo da soggetti che abbiano completato l’acquisizione del pensiero operatorio concreto (p. 54). Per quanto riguarda l’evoluzione della rappresentazione della morte nel corso dell’adolescenza gli studi e le ricerche hanno messo in evidenza la connessione tra l’incertezza riguardo il sé – determinata dai cambiamenti che subisce il proprio profilo psicosomatico – e l’angoscia procurata dall’intermittente pensiero della morte. La morte per l’adolescente, nonostante sia percepita come inevitabile e universale, è pur sempre un evento remoto e lontano nel tempo e nello spazio. L’adolescente può adottare comportamenti a rischio sia per esorcizzare il pensiero della morte attenuando l’angoscia che ne deriva, sia per dare espressione al proprio sentimento di onnipotenza e di immortalità: le due ipotesi «potrebbero altresì essere mediate per un verso dall’incapacità di comprendere i reali effetti delle proprie azioni e per l’altro dalla percezione della lontananza della morte e dunque della sua astrattezza» (p. 56). La costruzione di personalità coese e sicure, capaci di affrontare il disagio e la sconfitta (di cui la morte, come perdita radicale, incarna il concetto estremo), dipende dall’azione educativa svolta dalla famiglia e dalla scuola.
Secondo alcuni autori la scuola, divenuta marcatore sociale di insuccesso, va ritenuta responsabile di molte scelte suicidarie da parte di bambini e adolescenti, assieme a difficoltà familiari e a rappresentazioni inadeguate della morte. Si può osservare tuttavia che l’insuccesso scolastico può diventare determinante nelle scelte suicidarie degli adolescenti solo se sono stati educati a far coincidere la propria identità (cognitiva, sociale, esistenziale) con il risultato delle prestazioni scolastiche. Per studenti a una dimensione l’insuccesso scolastico può essere fatale e spingere a comportamenti autolesionistici di vario tipo. Uno studente può sentirsi in trappola se va male a scuola se è stato plagiato, ossia costretto a credersi un io degno di considerazione solo in rapporto alla sua carriera scolastica. Non è stato incoraggiato a sviluppare i suoi talenti (spesso fraintesi dagli educatori come storture o deviazioni), a diventare ciò che sente di essere: gli è stata imposta la camicia di forza della volontà dei genitori, che lo hanno intrappolato nel loro progetto, nel quale tuttavia l’adolescente non si riconosce. L’insuccesso scolastico non può estendersi a insuccesso esistenziale, ma allorché questo accade esso assume la gravità di una messa al bando che può equivalere a una condanna a morte. L’adolescente messo al bando perde l’autostima, sperimenta la morte sociale, che gli fa desiderare la morte fisica come più sopportabile della perdita di considerazione affettiva e valoriale. Gli adolescenti hanno bisogno di essere educati alla morte, ma essi ne sanno molto circa la morte civile, l’emarginazione e la svalorizzazione che subiscono ad opera degli adulti. Essi spesso sperimentano quell’espulsione (vittimizzazione, mobbing, squalificazione) che è il miglior paradigma della morte, essendo più grave della morte fisica. Infatti, se non siamo più quando la morte si presenta, secondo la rassicurazione di Epicuro, continuiamo ad esserci nonostante l’espulsione.
Le ricerche sulle quali Testoni fornisce un prezioso aggiornamento dimostrano in ogni caso che l’educazione alla morte accresce il livello di consapevolezza sul valore e sul significato della vita e rappresenta una delle forme più incisive di prevenzione primaria contro i comportamenti aggressivi, ridimensiona la tendenza a ricorrere a comportamenti violenti, educando al rispetto della propria e altrui vita. Educazione alla vita e alla morte vanno di pari passo, dato che l’obiettivo è quello di generare una sicurezza di base (Erick Erickson) indispensabile ad affrontare le difficoltà della vita e una fiducia nella buona fede degli altri e nella loro positività (Donald Winnicott), oltre all’equilibrio mentale che dipende dalla capacità della madre di rispondere alle esigenze del figlio (Wilfred Bion) (pp. 66-69). Famiglia, scuola e società sono i protagonisti del processo educativo che deve proteggere e orientare senza opprimere né irreggimentare. Non possiamo dimenticare i mass media, poiché dipende da loro la rappresentazione della società civile che contribuisce spesso a erodere, fino a spegnerla in scettica rassegnazione, quella forza espansiva, quella vitalità costruttiva che solo chi ha fiducia in se stesso, nel prossimo e nel futuro può esprimere.
Un aspetto interessante discusso da Testoni è la relazione tra la religiosità e la dimensione psicologico-relazionale in cui i soggetti si sono formati. Kirkpatrick e Shaver hanno proposto due ipotesi al riguardo: «La prima è l’ipotesi della corrispondenza, secondo cui la relazione con Dio dipende dai modelli operativi interni derivanti dal rapporto con le figure di attaccamento: coloro che hanno sviluppato modelli mentali sicuri elaborano un’immagine positiva di Dio e della relazione con lui; coloro che invece hanno maturato uno stile evitante possono risultare agnostici o atei o rappresentarsi Dio come distante e inaccessibile; lo stile ambivalente sviluppa una relazione con Dio emozionale ed eccessivamente dipendente. La seconda è l’ipotesi della compensazione, secondo cui le persone sviluppano un rapporto con Dio come sostituto della figura di attaccamento: può accadere se le relazioni affettive risultano insoddisfacenti, come quando il bambino si trova a dover fronteggiare eventi particolarmente stressanti, avvertendone la pericolosità senza sentirsi adeguatamente protetto» (pp. 86-87). Per entrambe le ipotesi sussistono prove empiriche confortanti. Il fatto che ci sia una relazione circolare tra la relazione con Dio e il rapporto con la figura di attaccamento giustifica l’esistenza della psicologia della religione, ma non autorizza alcun riduzionismo. Il rapporto con Dio non può essere concepito come mero surrogato del desiderio infantile di protezione da parte di una potenza invincibile. Infatti se così fosse coloro che sperimentano un senso di sicurezza derivante da positive esperienze relazionali con le figure di attaccamento dovrebbero allora fare a meno di ogni riferimento mentale ed esteriore alla divinità. È vero secondo Rosalinda Cassibba che «quando nell’infanzia la relazione con figure di attaccamento è stata amorevole, l’immagine di Dio viene percepita come più misericordiosa e meno intrusiva» e che «al contrario quando sono prevalse figure rifiutanti, la rappresentazione di Dio risulta tendenzialmente negativa» (p. 87), tuttavia questa corrispondenza tra l’esperienza relazionale infantile e la rappresentazione del divino rende conto della compatibilità delle due ipotesi appena esposte, ma non autorizza il riduzionismo teorizzato da Freud nell’Avvenire di un’illusione (1927). Infatti il vino ingurgitato può provocare una diplopia nell’ubriaco, senza che gli oggetti da lui percepiti siano effettivamente raddoppiati.
Secondo la Terror Management Theory la cultura rappresenta un apparato di protezione dal terrore della morte, una difesa distale che ha la funzione di prevenire le conseguenze potenzialmente invalidanti dell’angoscia della fine. La cultura elabora una mappa, stabilisce un percorso, assicura delle condizioni e trasmette la certezza che gli esseri umani sono salvi perché sono protetti da un potere sovrumano che garantisce l’immortalità, in senso letterale (come nelle religioni che promettono la sopravvivenza di un principio soggettivo) e simbolico (la sopravvivenza come permanenza del ricordo sociale del defunto). La sopravvivenza letterale è in prima persona, la simbolica è in terza persona. La prima è più soddisfacente perché rappresenta una continuità possibile tra l’io che teme la morte e l’io che diviene immortale, mentre la seconda è più facile da verificare; la prima è indipendente dalla condotta, mentre la seconda dipende strettamente dalle azioni e dalle opere compiute. La prima è una sopravvivenza ontologica, la seconda etica. La prima implica la seconda (chi ha fede in Dio cercherà di amare il prossimo per lasciare un buon ricordo di sé), mentre la seconda non implica la prima, proprio perché da sola rappresenta una compensazione, un rimedio all’assenza della prima. Studi recenti attribuiscono alla religiosità un ruolo decisivo nel superamento dell’angoscia e nell’evitamento dell’autolesionismo. Più intensa è la religiosità e minore è la propensione al pessimismo, a sentimenti negativi e a comportamenti a rischio per la salute (p. 90). Gli effetti positivi delle fede religiosa per la salute psicofisica dei giovani sono indubbi, con il limite tuttavia di un’educazione alla sessualità in senso autoritario, che condanna identità sessuali alternative (omosessualità, bisessualità, transessualità).
Un aspetto delicato è la modalità di comunicazione della cattiva notizia al paziente affetto da una malattia irreversibile. Testoni discute i diversi modelli procedurali e le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. La fase più delicata è quella in cui il paziente, con la complicità dei suoi familiari, si rifugia nella negazione della realtà. Subentra il lutto anticipatorio, la consapevolezza dell’imminenza della morte propria o del familiare amato, da cui deriva uno stato depressivo che ha una connotazione paradossale, poiché si soffre per una rappresentazione di cui non si comprendono il significato e la portata; e si reagisce negando che il contesto familiare sia mutato. Ci si comporta come in passato, fingendo che non sia cambiato nulla, mentre tutto precipita verso la fine. Le persone coinvolte nel lutto anticipatorio entrano così in una condizione psicotica in cui si potrebbe dire con Lacan che la comunicazione (linguaggio, gesti) è completamente decontestualizzata e quindi vuota e insensata in rapporto alla situazione. «Le persone si rapportano quindi al malato come se egli non fosse grave, mentre se lo rappresentano come se fosse già morto» (p. 109).
I familiari del malato non sono in grado di distinguere tra le proprie sofferenze e quelle del morente; essi credono di agire mossi da pietà e amore, nascondendo a se stessi la gravità irrimediabile dell’evento. Negando la gravità della malattia si illudono di placare così l’angoscia del morente; al tempo stesso la rappresentazione del morente come se fosse già morto serve come rimedio alla propria angoscia (come se fosse un’esercitazione in vista dell’evento che si vuole controllare anticipandolo idealmente), ma si manifesta in azioni concrete che il morente decifra facilmente. Al morente è così inflitta la pena supplementare dell’incoerente tragicommedia che i familiari, in buona fede, sono indotti a recitare. La necessità di un’educazione appropriata al fine di superare l’incompetenza relazionale riguarda non solo i familiari del morente, ma anche il personale medico e infermieristico. Addestrati a evitare ogni coinvolgimento emotivo personale e diretto, gli operatori della sanità risultano inadeguati allorché dinanzi all’ansia e alle attese del paziente rispondono con la congiura del silenzio (p. 111).
La morte di una persona cara è una ferita che non si rimargina mai completamente. La disperazione e l’angoscia che subentrano nei sopravvissuti fanno del lutto una fase delicata, in cui il soggetto elabora personali strategie di reintegrazione del sé, di risanamento e recupero della normalità quotidiana; sullo sfondo, a garanzia del successo della procedura, l’immortalazione del congiunto scomparso compensa la perdita della sua presenza viva e operosa, ma rappresenta anche un’efficace contromisura rispetto al dubbio e al senso di colpa per non aver fatto tutto il possibile per salvarlo. La misura anticipatoria di rappresentare il morente come già morto e il suo decesso come ineluttabile toglie ogni fiducia nella possibilità di fare qualcosa che contribuisca alla ripresa e alla guarigione. Questa rassegnazione, questa inconfessata resa all’inevitabile prima che accada (che dunque non ha ancora dimostrato la sua ineluttabilità), può essere all’origine di un senso di colpa postumo, al quale si risponde riportando in vita immortale il congiunto di cui si era decretata la morte anzitempo. Il lutto deve servire a recuperare se stessi e il deceduto, ristabilendo una continuità che si è spezzata e può affossarsi in uno stallo persistente.
Il lutto anticipatorio e il lutto completo sono stati oggetto di numerosi studi e diversi sono i modelli convalidati che descrivono il lutto completo. John Bowlby individua quattro fasi: la fase iniziale di disperazione acuta e di stordimento; la seconda fase irrequieta e caratterizzata dal bisogno di ritrovare il defunto; la terza fase di disorganizzazione, in cui il soggetto si chiude in se stesso e perde il senso della vita; la quarta fase, di riorganizzazione inizia quando il dolore comincia a scemare e va a compimento l’interiorizzazione del congiunto scomparso. Anche il modello di Colin M. Parkes prevede quattro fasi: «La prima, di calma apparente, è causata dalla negazione della realtà e dalla soppressione delle emozioni, che potranno essere liberate solo quando il dolente riterrà di potere lasciarsi andare; la seconda, caratterizzata dalla ricerca del defunto, da rabbia e ruminazione mentale, presenta talvolta ideazione suicidaria; la terza, determinata dalla consapevolezza dell’inevitabilità del distacco con conseguente disorganizzazione, segna l’inizio dell’accettazione; l’ultima consiste nella ripresa della progettualità esistenziale» (p. 117). Gli studi specifici dimostrano che l’85% dei dolenti riesce a concludere positivamente il lutto mediante il riconoscimento della mutata situazione. Il lutto ristagna in senso patologico nella seconda fase, laddove il soggetto non riesca a porre termine al dolore e agli scompensi che ne derivano: la perdita rimane tale, come l’attesa che il defunto ricompaia sensibilmente. Il processo di accettazione può essere bloccato dal persistere di un rapporto diretto con la figura del defunto, trattato come una presenza reale di cui si cerca la conferma fisica, in uno stato di confusione psicotica. Testoni rileva una discordanza nella vasta letteratura sul lutto patologico: «Per un verso avvalora l’idea che il dialogo con i propri ricordi possa costituire una risorsa, per l’altro evidenza il rischio che ciò diventi terreno fertile per un lutto complicato» (p. 119). Il collegamento costante con il ricordo del defunto può risultare ambivalente (Bowlby), dal momento che può tanto facilitare quanto inceppare il processo di separazione.
Chi ha sperimentato il lutto sa bene che attraverso il ricordo il defunto è fatto rivivere idealmente; chi sopravvive avvertirà sempre l’esigenza di risarcire lo scomparso e insieme se stesso per ciò che è andato perduto. Non è forse vero che chi è dimenticato muore due volte? Ricordare il defunto tuttavia non significa indulgere in modo ossessivo nel ricordo di lui ruminandone continuamente l’immagine. La persistenza del defunto nella vita di chi rimane deve assumere una forma tale che non rallenti o impedisca la prosecuzione della progettualità esistenziale, ma la potenzi arricchendola di significato. Del resto la salute mentale non dipende dalla negazione della presenza del defunto, ma dal suo riconoscimento in varie forme. Nel lutto anticipatorio chi si rappresenta il morente come già morto vuole liberarsi mentalmente di una presenza fisica divenuta intollerabile fonte di angoscia, immaginando che la morte fisica ineluttabile, una volta avvenuta, sarà per lui fonte di serenità e aiuto all’accettazione della scomparsa. Ma l’anticipazione è monca e illusoria, dato che trascura la possibilità di cadere vittima di un’angoscia che deriva dall’impossibilità di accettare quella stessa scomparsa fisica del morente che, prima del decesso, viene immaginata come benefica apportatrice di equilibrio e di pace.
La fenomenologia del lutto complicato è molto articolata: nel lutto assente o negato il dolente cancella la sofferenza; nel lutto congelato il dolore è evitato escludendo l’intero universo emotivo; nel lutto ritardato il soggetto rinvia ad altro momento l’elaborazione dell’accaduto. I sintomi principali del lutto complicato sono un persistente desiderio del defunto, un dolore profondo e un pianto frequente. Il dolente non accetta l’accaduto e rimane prigioniero dell’angoscia di perdita, accompagnata da senso di colpa e da incredulità. In rapporto al proprio destino e ruolo, il dolente nutre il desiderio di morire per ricongiungersi al defunto, si rinchiude in se stesso e gli sembra che la sua vita non abbia più senso; vive in uno stato confusionale, con perdita del senso di identità e della capacità di progettare il futuro (pp. 119-120). Testoni mette in guardia dal rischio di patologizzare il lutto tout court e invita a considerare con molta cautela la diagnosi di lutto complicato, ammettendo che l’elaborazione della perdita e il superamento del dolore ha bisogno di tempi diversi e segue dinamiche personali caso per caso. Certamente il lutto traumatico può essere prolungato oltre misura, laddove la perdita sia avvenuta all’improvviso per cause violente, come nei casi di omicidio, suicidio, disastri ambientali, catastrofi di ogni genere, guerre. Risulta infatti più facile accettare la morte provocata da cause naturali come una malattia. Il lutto traumatico provoca gli effetti di un trauma: «Lo stress subito produce un quadro sindromico in cui prevalgono rabbia, frustrazione, perdita di fiducia nelle persone, confusione, scarsa concentrazione, disperazione, flashback, insonnia, incubi, cui si accompagnano ansia anticipatoria, pensieri intrusivi e terrore per catastrofi imminenti» (p. 120).
Testoni prende in considerazione numerosi altri casi di lutto associati all’insorgere di vere e proprie patologie. La prevenzione terziaria mediante la Death Education può in ogni caso giovarsi della capacità, nel malato e nei suoi familiari, di affidarsi al linguaggio per comunicare le esperienze e i vissuti, cercando di trovare un senso anche nella malattia mortale. Testoni porta l’esempio di Tiziano Terzani il quale ha reso pubblico in alcuni libri-memoria il suo percorso: dapprima lotta per guarire dalla malattia, poi, esclusa ogni possibilità di guarigione, decide di guardare in faccia alla realtà, si misura con il dolore del lutto anticipatorio scoprendo così la via che porta oltre la morte. Il compito della comunità è di promuovere la rappresentazione della morte in vari modi: pubblicizzazione di testimonianze simili a quella di Terzani e istituzione di reti di accoglienza e supporto. Nella nostra società caratterizzata da un pluralismo linguistico, culturale, religioso, rispetto al quale ogni approccio basato sul criterio dell’uniformità e dell’unanimità è destinato a naufragare dimostrando l’insipienza di una anacronistica volontà di controllo, è necessario affrontare il tema del morire, nella piena e matura consapevolezza che «ove la comunità si dimostri attenta al morire, affrontando il tema da posizioni non ideologicamente predefinite, all’interno di un’agorà in cui si discuta del dolore e del senso della perdita, chi muore non è abbandonato e non abbandona nessuno» (p. 128). Non va dimenticato che in tutte le culture della storia il lutto è stato, significativamente, un evento vissuto e assunto dalla comunità nell’intento di risolvere il dolore individuale nella partecipazione solidale del gruppo, come se il fardello del cordoglio fosse più leggero se distribuito su più persone disposte a farsene carico. Soffrire per la morte dei propri cari non è patologico e il cordoglio non va curato come una nevrosi o una psicosi. Tuttavia, avverte Testoni, la tendenza attuale a tacere la morte, a nascondere il defunto e a isolare chi è colpito da un lutto, da parte di una società che ha perduto il senso della comunità, facendo decadere il sostegno e la prevenzione che storicamente hanno sempre funzionato nel senso indicato, può creare difficoltà serie nel processo di superamento del lutto. Di qui l’esigenza di interventi organizzati per compensare la carenza di empatia e solidarietà che la comunità non sa trasmettere, ma anche di interventi di vera e propria psicoterapia (p. 134).
Una grave perdita può provocare una crisi molto grave, fino a mettere in serio pericolo l’equilibrio psicologico della persona, tuttavia può rappresentare anche il passaggio critico verso una nuova fase creativa dell’esistenza. La risposta alla perdita di una persona cara è caratterizzata dai sintomi simili a quelli tipici della depressione maggiore (tristezza, ritiro sociale, disturbi del sonno, apatia, senso di colpa, pianto, rallentamento psicomotorio, riduzione dell’autostima) e della sindrome postraumatica (pensieri intrusivi, evitamento, disturbi del sonno, irritabilità, nervosismo, irrequietezza, difficoltà a concentrarsi) (p. 135). Il lutto si accompagna a un forte senso di colpa nel dolente che rimugina ricostruzioni irrazionali dell’accaduto, nelle quali chiama in causa se stesso quasi fosse responsabile dell’accaduto, per non aver saputo impedire ciò che non era in suo potere perché irreparabile. I dolenti tuttavia non sono malati che debbano essere necessariamente sottoposti a trattamento psicoterapeutico. Testoni, tra le diverse ipotesi di trattamento e percorsi di rielaborazione, mette l’accento sull’approccio multisistemico di Froma Walsh, fondato sul presupposto che «le persone siano dotate della capacità di affrontare le avversità e riprendere il corso della vita con forza maggiore dopo una prova negativa» (p. 136). L’evento luttuoso diventa l’occasione per ridisegnare la mappa delle relazioni tra i sopravvissuti, favorendo la ricostruzione del quadro familiare. Del resto, numerosi studi ed esperienze di supporto di vario tipo mostrano come chi è colpito da gravi lutti possa non solo uscire dallo stato di prostrazione, sconforto e isolamento patologici, ma persino raggiungere una condizione esistenziale migliore di quella antecedente il lutto. La psicologia positiva, scrive Testoni, cerca di far leva sulle potenzialità positive, sulla capacità di superare prove che migliorino la percezione di sé e la qualità delle relazioni umane; invece di concentrarsi sulle limitazioni e patologie del dolente, la psicologia positiva, in base al presupposto che l’uomo sa ricavare vantaggi anche dalla sventura, mira a valorizzare la tensione costruttiva e propositiva che sonnecchia in ciascun essere umano.
Un grave problema è rappresentato dalle situazioni terminali in cui può essere avanzata la richiesta di eutanasia o suicidio assistito, quando vi sia la perdita della funzionalità fisica e l’isolamento sociale. Le condizioni senza via d’uscita per il paziente, in cui vi sia piena consapevolezza da parte del personale medico che ogni ulteriore tentativo di cura è solo una tortura che si infligge, sono le stesse, per lo più, in cui i congiunti possono negare l’irreversibilità della malattia e ancora sperare di trattenere il morente presso di sé e persino di poterlo riabbracciare finalmente guarito. Lo sguardo distaccato del clinico e dello studioso non è lo stesso del familiare; per quanto riguarda il morente spesso nessuno è in grado di stabilire che cosa vorrebbe se potesse parlare, nonostante abbia potuto anticipatamente mettere per iscritto le sue volontà in proposito. È vero che nelle malattie degenerative e nella vecchiaia inoltrata la perdita di funzionalità e l’isolamento sociale sono progressivi e quindi diviene prezioso il supporto offerto da volontari in relazione a eutanasia e suicidio assistito, «per aiutare le persone a definire in che cosa credono e quale significato vogliono attribuire all’ultima nascita che stanno per affrontare» (p. 139).
Ritorna qui il titolo suggestivo del libro, l’ultima nascita, espressione con cui Testoni chiama la morte. Come dimostrano gli studi sulle esperienze di premorte, non è mai tramontata l’esigenza di trovare una qualche conferma del potere di superare la morte rovesciandola nel suo opposto, dove il soggetto è l’anima che lascia il corpo come il bambino esce dal ventre materno. L’uomo ha bisogno di credere nella propria immortalità, sente che la sua vita continua oltre la morte. Abbiamo tuttavia il dovere di non rimanere ancorati a credenze di facciata, tanto più che la cultura del nostro tempo coltiva in sé la persuasione, spesso ipocritamente celata, che tutto diviene e ogni essere umano è destinato all’annientamento. Dato che non vi è alcuna certezza nella dominate visione nichilistica della realtà, sappiamo che forse, se Dio esistesse, potrebbe salvarci. «Ma quel forse non autorizza ormai più nessuno a promuovere politiche che facciano leva sulla speranza, figlia dell’inconsapevolezza, per costruire consenso e potere politico. Perché, dopo Auschwitz, la responsabilità rispetto alle nostre fedi non può più ammettere ingenuità, ovvero ignorare che cosa stiamo nascondendo» (p. 150). Il nichilismo dominante vanifica a monte tutti gli sforzi per far valere principi nei quali, di fatto, più nessuno crede. Il nichilismo a sua volta, come insegna Severino, tradisce la verità fondamentale enunciata all’origine del pensiero occidentale, per cui è impossibile che l’essere non sia. Per questo l’errore di pensare la morte come annientamento si accompagna a rituali che celebrano una speranza incoerente, intimamente coincidente con la disperazione. Di qui il disorientamento morale pur nel concitato adempimento di pratiche stantie e traballanti sull’unica certezza che ogni cosa è contingente e la morte è soltanto disintegrazione di chi prima c’è e poi non c’è più. La filosofia di Severino rappresenta la via d’uscita dalla selva di contraddizioni, illusioni e disillusioni che fanno della vita e della morte un inferno senza senso. Con Severino possiamo finalmente parlare di morte sapendo di essere eterni e preparare la strada a un mondo in cui all’essere umano sia riconosciuta la dignità di un essente e non sia trattato come una nullità, un mero nulla. Come conclude magistralmente Testoni, «il sapere di essere già da sempre salvi, perché l’essere non può non essere, ci destina dunque a un cammino diverso da quello che viene compiuto sotto l’egida del terrore, ove l’esperienza più profonda che autenticamente abita il nostro inconscio è quella percezione di eternità grazie alla quale viviamo giorno per giorno come se non dovessimo mai morire» (p. 152).