Filosofia della verità. Nota in margine al volume di Franca D’Agostini, Introduzione alla verità

Franca D’Agostini, Introduzione alla verità, Boringhieri, Torino 2011.

Non si è mai discusso tanto di verità come nelle epoche in cui essa è in crisi. La nostra epoca è una di queste. Tutti vogliono sapere la verità sul prossimo, ma si guardano bene dal farla trapelare, così nuda e cruda, su se stessi. Un certo esibizionismo spudorato di chi frequenta i social network non deve trare in inganno, giacché il modo migliore di nascondersi alla vista del prossimo è quello di mescolarsi conformisticamente agli usi del tempo. Oggi la moda della trasgressione pregiudica ogni trasgressione della moda, l’infrazione del conformismo è conformistica, ma pur sempre rassicurante. Qualità e valori indiscutibili — verità, autenticità, identità — passano in secondo piano rispetto al problema ritenuto più urgente, quello del riconoscimento. Ora, ogni riconoscimento presuppone un soggetto che è riconosciuto e uno che riconosce. E può essere riconosciuto chi possiede un’identità riconoscibile, ma oggi ci si accontenta della sola identità che deriva, tautologicamente, dal fatto di essere riconosciuti su qualche palcoscenico, reale o virtuale; alla fatica di costruire se stessi e di lavorare alla propria unicità si preferiscono scorciatoie mediatiche e interazioni fittizie, pur di avere la sensazione del riconoscimento. Tutto questo riguarda da vicino la verità, su cui ci si interroga quando sorge il sospetto o la possibilità della menzogna. Infatti la verità deve importare a qualcuno che possa contare su di un’esistenza propria e non solo riflessa o virtuale. Inoltre la nozione di verità presuppone l’esistenza di una realtà indipendente dai molteplici punti di vista che su di essa diversi soggetti possono esprimere. Il riconoscimento è possibile solo in ragione del fatto che il soggetto riconosciuto esiste prima del riconoscimento stesso; e questo è sufficiente a dimostrare che i modi molteplici in cui esso appare non possono coincidere con ciò che egli è in se stesso. Ciò che il soggetto è in se stesso, la sua identità indipendente dal fatto di essere riconosciuta in diversi momenti e circostanze, è indispensabile per comprendere il fatto stesso del riconoscimento. Senza il riferimento a un’identità sommersa e mai coincidente con le sue apparizioni o manifestazioni, i diversi soggetti formerebbero un guazzabuglio indistinto, poiché le uniformi modalità di percezione non danno conto dell’intrinseca irripetibilità di ogni segmento dell’esperienza individuale relativa a individui o eventi.

Ogni giorno si rinnovano attestazioni nostalgiche riguardo la verità, la dea più amata e detestata dai comuni mortali, quasi a compensare i ripetuti, talora dolosi talora involontari tradimenti che si consumano continuamente ai suoi danni. Una certa letteratura filosofica ha adottato come professione il discredito della verità, accumulando ragioni che ne raccomandano l’esclusione dall’orizzonte mediatico ed epistemologico. Curiosamente, la negazione dell’esistenza di una verità oggettiva e condivisa viene posta come condizione della stessa democrazia, come se lo scetticismo relativizzante fosse il miglior antidoto alla minaccia rappresentata da “metafisici dogmatici”, ancora affezionati alla nozione di oggettività, respinta come paravento ideologico del totalitarismo. Eppure, per gli esseri umani, qualunque sia il mezzo con cui si scambiano ipotesi e punti di vista, la verità è un presupposto fondamentale e la sua determinazione rimane pur sempre il fine ultimo e l’esigenza imprescindibile di tutti coloro, e sono la maggioranza, che rinunciano all’autolimitazione solipsistica. Perciò non si può che essere d’accordo con il programma che Franca D’Agostini enuncia nell’Introduzione al suo saggio, illustrando i fraintendimenti da cui è necessario sgombrare il campo: per cominciare, l’idea che la verità sia una prerogativa dei dogmatici, delle Chiese o dei Partiti e che quindi essa sia inutile o pericolosa; la difficoltà di comprendere che la verità non è un concetto qualsiasi, ma un concetto-condizione, uno della nota triade trascendentale unum (o esse), verum, bonum, e che quindi è impossibile farne a meno, come dimostrano le proposizioni “la verità è relativa” oppure “la verità non esiste”, manifestamente autocontraddittorie. Riconoscere l’innegabilità o l’irriducibilità della nozione di vero non implica alcuna adesione al dogmatismo. L’ubiquità trascendentale della nozione di vero non significa che possiamo conoscere e stabilire la verità su qualsiasi cosa. Non c’è ragionamento che non contenga un riferimento implicito alla verità e nessuna indagine di carattere etico o politico o di altro genere, può prescindere dalla condizione di verità. La verità è espressamente chiamata in causa quando persistono dubbi da risolvere o incertezze da colmare. Verità e realtà sono nozioni imprescindibili ed esigenze irriducibili in qualsiasi contesto, come dimostra l’avversione incondizionata verso la menzogna, la finzione, l’illusorietà di tutto ciò che ci riguarda direttamente. Non possiamo separare etica, logica e metafisica, come vorrebbe una certa filosofia del Novecento, tutta impegnata a proclamare, più che a dimostrare realmente, la necessità di emancipare la filosofia da compromissioni metafisiche e ontologiche. L’esperienza concreta di fatti ben documentati, spesso richiamata come vigile supervisore e censore di ogni forma di conoscenza, si è dimostrata insufficiente rispetto alla complessità delle connessioni di logica, etica e pragmatica; e l’antimetafisica si è rivelata una forma implicita di metafisica non dichiarata. L’arte propone delle finzioni, riconoscibili come tali e ben distinte dalla fattualità della vita: se così non fosse, non avrebbe senso distinguere l’arte dalla vita e le interpretazioni dai fatti di cui esse sono, appunto, interpretazioni.

“Vero” è un predicato, al pari di qualsiasi altro: indica una proprietà, come “intelligente” o “verde”. Sappiamo che in alcuni casi la proprietà indicata da un certo predicato può rivelarsi inesistente o non posseduta da un determinato oggetto. Quindi si dovrà stabilire preliminarmente, spiega D’Agostini, a quali oggetti possiamo applicare il predicato “vero” e quale proprietà essi devono possedere per essere chiamati “veri”. Ci sono diverse teorie sulla verità: teorie robuste che definiscono il significato di “vero”, teorie non robuste che negano l’esistenza di requisiti dell’essere vero simili a quelli fisici che valgono per l’essere rosso o certi tratti comportamentali che identificano la proprietà di essere intelligente (p. 36). Vi sono poi teorie metafisiche ed epistemiche: le prime concepiscono il predicato “vero” come riferito a qualcosa che esiste in se stesso, le seconde lo considerano in rapporto a noi esseri umani. In questo secondo caso stabilire che cosa significa la verità per gli esseri umani non comporta alcuna pretesa di oggettività in senso metafisico. Proprio questa distinzione tra l’approccio epistemico e quello metafisico comporta una divergenza sul piano logico: infatti, avverte D’Agostini, se ci si limita a considerare il significato di “vero” come ciò che è vero per noi, si dovrà fare i conti con la conseguente violazione del principio di non contraddizione, giacché numerose proposizioni “per noi” non sono né vere né false (p. 37). La logica dunque parrebbe giustificata unicamente in base al presupposto dell’esistenza di qualcosa che è vero in sé. Solo se esiste qualcosa che è vero in sé, il non vero equivale al falso, tertium non datur.

Il significato di “vero” in determinati contesti fa riferimento all’autenticità (vero oro, vero amico, ma anche vero e proprio inferno, una vera e propria catastrofe, un vero bugiardo). Il predicato “vero” si dice in senso proprio delle proposizioni, ma per trasposizione può essere impiegato per indicare una certa cosa o una sua proprietà. Se con Frege distinguiamo tra enunciati e proposizioni, possiamo riconoscere portatore di verità in senso stretto la proposizione, che possiamo enunciare e comprendere solo in riferimento a qualcosa di realmente esistente, comunque inteso, anche se non immediatamente percepito. Tuttavia, nonostante la sua apparente fondatezza, la teoria della verità come corrispondenza è stata oggetto di critiche note, di cui D’Agostini presenta e discute il repertorio:

  1. L’obiezione del regresso della verità, già formulata dagli scettici antichi e ripresa da Kant e Frege, mostra che, non potendo risalire a tutti gli accertamenti degli accertamenti necessari per stabilire la verità di una determinata proposizione, la verità non può essere accertata;

  2. una seconda obiezione è il diallele o circolo della verità, anch’essa nota agli scettici antichi e ripresa da Frege e Kant. Austin ne ha dato una formulazione utile in questo contesto: se p è vera perché corrisponde a uno stato di cose e uno stato di cose è reale se corrisponde a p, definiamo circolarmente la verità in base alla realtà e la realtà in base alla verità;

  3. quale corrispondenza potrà mai esserci tra cose eterogenee come fatti e proposizioni, i discorsi e gli stati di cose tra cui dovrebbe esserci corrispondenza? Possiamo istituire una corrispondenza tra due serie di oggetti, ad esempio una nave e il suo modello in scala 1: 10. 000, oppure tra due rappresentazioni, vale a dire tra cose omogenee.

  4. Wittgenstein propone di considerare la proposizione come immagine dei fatti, ma opportunamente D’Agostini si chiede che cosa raffigurano proposizioni come “non c’è un bicchiere sul tavolo” o “se p allora q”; Francis Bradley ha limpidamente esposto il problema osservando che l’accordo tra verità, conoscenza e realtà risulterà sempre problematico se partiamo dal presupposto che questi tre termini siano originariamente separati (pp. 52-53);

5 nessuna proposizione sussiste come entità singolare corrispondente a un singolo stato di cose, ma semmai vi corrisponde insieme ad altre proposizioni, probabilmente a tutte le altre proposizioni, in qualche modo, donde il termine olismo, impiegato per indicare l’obiezione di Quine, secondo la quale «le nostre asserzioni sul mondo esterno affrontano il tribunale dell’esperienza non individualmente, ma come un tutto unico» (p. 53);

6 infine, la questione riguardante la natura e l’esistenza dei fatti sembra la più difficile e complicata; se pensiamo ai fatti partendo dalle proposizioni con cui li pensiamo, abbiamo certamente qualche difficoltà a individuare fatti condizionali, universali o negativi, sulla falsariga di enunciati condizionali, universali e negativi.

Si tratta di capire se le proposizioni, ossia i pensieri strutturati ed esprimibili in enunciati, siano quod cognoscimus oppure, invece, quo cognoscimus. In altri termini solo la realtà intenzionata è oggetto di conoscenza, mentre le proposizioni sono il veicolo, lo strumento con cui conosciamo. La teoria corrispondentista ha il difetto fondamentale di istituire una relazione simmetrica tra fatti e proposizioni, immettendosi fatalmente in un vicolo cieco, infatti la distinzione tra quod cognoscimus e quo cognoscimus può valere anche per la struttura degli enunciati, indipendentemente dal loro riferimento alla realtà. Ma è la pragmatica del linguaggio negli usi discorsivi che ci riporta all’asimmetria della relazione linguaggio/realtà, per cui la lingua è strumento di conoscenza e può divenire oggetto di conoscenza solo in senso secondario e per analogia. Il paradosso evidente consiste nel fatto che oggetto di conoscenza non è la lingua, seppure visibile, ma la realtà, chiaramente invisibile, quindi il rimando proposizionale ad essa sembra dover sfociare nel diallele o nel regresso all’infinito.

La teoria della verità come corrispondenza presuppone che esista una realtà separata dal pensiero, ma nel pensiero non afferriamo nulla che non sia già pensiero: se la distinzione tra il pensiero e la realtà in se stessa è possibile solo all’interno del pensiero, se tutto ciò che esiste è innanzi tutto un pensato e dunque sarà un pensato anche ciò che è posto al di fuori del pensiero stesso, siamo posti dinanzi alla necessità di un dilemma stringente, perché da un lato non possiamo rinunciare alla distinzione fondamentale tra l’essere in sé e l’essere per noi, dall’altro risulta velleitario e aporetico collocare l’in sé al di fuori del pensiero; e se l’in sé è interno al pensiero, perde ogni ragion d’essere e consistenza la distinzione tra la realtà in sé e la realtà per noi, tra la realtà esistente, ma non pensata e la realtà pensata e non esistente. La teoria della verità come corrispondenza deve fare i conti da una parte con una corrispondenza controllabile ma precostituita nel pensiero, e dall’altra con una corrispondenza sì autentica, ma problematica, con una realtà inaccessibile. Nella misura in cui la realtà è accessibile al pensiero, è pensata e dunque non è più esterna al pensiero; e nella misura in cui rimane esterna al pensiero (condizione questa affinché si dia una corrispondenza sintetica e non tautologica), quella realtà risulterà inaccessibile, vanificando ogni possibilità di corrispondenza. L’aporia, del resto, è inevitabile, poiché per definizione ciò che renderebbe effettiva la corrispondenza — la realtà in sé — la rende insieme inverificabile. Naturalmente la stessa realtà potrebbe esistere in se stessa e insieme essere pensata, ma tra le due, per definizione, non sappiamo quale rapporto ci sia, essendo la prima ignota.

La tesi coerentista sostiene che una certa proposizione è vera solo se è coerente con un insieme di proposizioni riconosciute come vere. Che la distanza della terra dalla luna è di circa 384. 400 km, non lo crediamo vero in base a una corrispondenza o a una verifica diretta, ma perché ci fidiamo delle misurazioni laser effettuate dagli scienziati del settore. Sia il coerentismo idealista che quello empirista ammettono l’impossibilità di stabilire una corrispondenza tra una credenza e lo stato di cose corrispondenti ponendosi da un punto di vista esterno alla credenza stessa. Il coerentismo idealista si richiama all’olismo, per cui nessuna credenza è vera in se stessa, ma sempre come parte di un sistema di credenze. Per il coerentista empirista le proposizioni si confronteranno con proposizioni, i giudizi con giudizi, essendo assurda la pretesa di fare riferimento a una presunta realtà in se stessa (pp. 56-57). La teoria coerentista presenta qualche problema. Joachim sostiene che la verità richiede completezza, ma nota Russell, «se nessuna verità parziale è completamente vera, allora anche “nessuna verità parziale è completamente vera” è completamente vera», dato che si tratta evidentemente di una verità parziale (p. 59). Ma poi è tutto da vedere che cosa si debba intendere con “coerenza”: accordo intersoggettivo, non contraddittorietà oppure vero e proprio monismo, per cui ogni giudizio è vero in rapporto a tutti gli altri della stessa teoria? E se lo stesso criterio si applicasse al pluralismo delle teorie, ne conseguirebbe che nessuna teoria è vera in se stessa, ma solo in relazione alle altre. Il che non significa misconoscere le differenze sostanziali tra una teoria e l’altra, ma riconoscere che il significato di una teoria, la sua accettabilità e consistenza sono messi alla prova dal confronto con tutte le altre, e fare i conti con le loro obiezioni.

La teoria pragmatista della verità prevede che una proposizione p è vera se assumere p permette di conseguire il successo sperato o si rivela efficace per scopi pratici o scientifici. Come ricorda D’Agostini, possedere la verità per un pragmatista significa possedere strumenti di azione, per cui qualcosa è vero perché è utile. La determinazione della verità riguarda il futuro: quando si pone un problema di verità, questo accade perché siamo in attesa di verificare la fondatezza o attendibilità di una certa ipotesi; e solo un certo risultato pratico ci permetterà di stabilire che quell’ipotesi risulta essere stata vera o falsa. La verifica diretta mediante il raffronto con la realtà non solo non è possibile che in rari casi, ma non è neppure necessaria, perché di fatto viviamo a credito: la maggior parte delle nostre credenze le crediamo vere (o crediamo di sapere che sono vere) esclusivamente perché ci fidiamo delle nostre fonti d’informazione. Le verità eterne, o universali e necessarie, sono anch’esse tali in virtù dell’utilità che presentano; come tutte le verità, sono costruite linguisticamente per ragioni di utilità pratica.

Anche il concetto di vero come “utile” presenta non poche difficoltà, e anzi potrebbe presentarne di maggiori rispetto alla nozione di verità. Inoltre, scrive D’Agostini, «“utile” è comunque un predicato diverso da “vero” semplicemente perché può essere vero qualcosa di profondamente inutile anzi controproducente, mentre può essere utile credere in qualcosa che è totalmente falso» (p. 65). L’osservazione è importante, ma rimette in gioco la questione del significato di vero e utile, infatti presuppone non la coincidenza, bensì una differenza essenziale tra i significati dei due termini “utile” e “vero”. Se dico che qualcosa può essere utile pur essendo una credenza falsa, è solo perché conosco il significato di vero e utile come termini ben distinti, quando invece così non è. Per alcuni l’intersezione di vero e utile è vuota, talché le due nozioni si escludono; per altri l’intersezione non è vuota e quindi non si può escludere che una credenza possa essere insieme utile e vera; infine per altri ancora, i pragmatisti, vero e utile sono semplicemente coincidenti (esisterebbe una corrispondenza biunivoca tra gli elementi dei due insiemi). Al pragmatista non interessa il vero, ma l’utile; egli crede in tal modo di aver risolto il problema della verità, ma l’ha solo aggirato. Infatti quante cose sono utili nello stesso senso per individui diversi? Che cosa è l’utile in sé?

Affine al pragmatismo è l’esistenzialismo, che proietta nel futuro la verità. Entrano in gioco così le condizioni e le implicazioni legate al concetto di verità, in particolare la libertà — in Heidegger l’apertura — che lascia apparire l’essere come è. D’Agostini cita Sull’essenza della verità (1943) di Heidegger in cui si sostiene che l’essenza della verità è la libertà. La verità come disvelarsi e autorivelazione ha come condizione la libertà. Quindi il luogo della verità, per Heidegger, non è l’asserzione cui si conviene il predicato “vero”, bensì l’azione dell’Esserci, l’apertura dell’essere umano, che è libertà. Ma, si chiede D’Agostini, come può Heidegger sfuggire allo stesso pregiudizio logico che denuncia, per il quale “vero” e “falso” si applicano a enunciati dichiarativi? (p. 69). D’altra parte Heidegger può avere inteso dire che “vero” e “falso” non convengono originariamente ed essenzialmente a enunciati dichiarativi.

Per alcune teorie non robuste della verità “vero” non è un predicato in senso stretto, ma un operatore che enfatizza determinati enunciati. Tarski nel suo Sul concetto di verità nei linguaggi formalizzati (1933) specifica quello che egli stesso chiama il criterio di adeguatezza materiale per la verità, la cui adozione dovrebbe consentire di aggirare le difficoltà del criterio aristotelico, che si fonda sulla corrispondenza di un enunciato con la realtà. Tarski enuncia così il suo criterio: l’enunciato “p” è vero se e solo se p. Tarski insomma stabilisce un’equivalenza tra un enunciato e l’asserto che ne dichiara la verità, tra “è vero che p” e “p”. La conseguenza sarà che il predicato di verità è dispensabile (p. 71). Secondo Tarski il predicato V è ubiquo nel nostro linguaggio, solo che può essere esplicito o implicito, espresso o espunto. Per superare le antinomie come quella del mentitore (dovute secondo Tarski alla caratteristica del linguaggio di essere chiuso), il logico propone l’introduzione della regola per cui il linguaggio deve essere aperto, cioè non deve includere il proprio predicato di verità; si dovrà quindi far valere una rigorosa distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio. La stratificazione del linguaggio proposta da Tarski (“p è vero nel metalinguaggio se e solo se p non è vero nel linguaggio oggetto”) è volta a impedire le antinomie.

Il deflazionismo riguardo la nozione di verità presenta due versioni: ridondanza e minimalismo. Tarski propone la prima versione, Paul Horwich la seconda. Secondo Horwich il predicato “vero” è utile come indicatore (dico che un certo discorso pronunciato da un tale è vero evitando di ripeterlo enunciato per enunciato) o generalizzatore (come quando sostengo che tutto quel che dice il papa è vero). In tutti gli altri casi si può prescindere dal termine “vero”. Ma a ben vedere, commenta D’Agostini, la proposta di Horwich, apparentemente brillante, suscita serie obiezioni. Infatti V nell’accezione da lui difesa può voler dire due cose diverse: sono d’accordo con quel discorso oppure quel discorso è vero, nonostante io non sia d’accordo. E allora di nuovo siamo alle prese con la questione riguardante il senso in cui diciamo che qualcosa è vero in se stesso. D’Agostini richiama la soluzione data da Austin, il quale respinge come insufficiente la concezione deflazionista di V, negando come inaccettabile l’equivalenza di “p” e “è vero che p”. L’esempio di Austin è il seguente: Jones viene processato per calunnia per aver detto che Smith è un ladro ma esce vincitore dal processo: allora era vero che Smith è un ladro. Subito dopo Smith viene processato in seguito a una denuncia per furto, e viene condannato: dunque Smith è un ladro. Tra i due enunciati “è vero che Smith è un ladro” e “Smith è un ladro” la differenza è netta secondo Austin (p. 80). Nel primo caso il processo dissolve l’accusa di calunnia e quindi nega che sia falso, cioè afferma che è vero che Smith è un ladro, per logica inferenza. Nel secondo caso il processo stabilisce che Smith è un ladro. Ma anche in questo secondo caso si potrebbe osservare che, secondo il processo di primo grado, è vero che Smith è un ladro, mentre potrebbe non esserlo più se si facesse un altro processo, di secondo grado. È difficile sostenere che il richiamo esplicito alla verità sia un orpello dispensabile. Affermare il vero di p può a) esprimere la volontà di negare la falsità di p, b) confermare la verità di p messa in dubbio in precedenza, c) sostenere che p è vero in se stesso oppure d) chiarire che si è d’accordo con chi sostiene che p. Se la distinzione tra ciò che è vero per noi e la verità in se stessa, così come tra ciò che appare vero e ciò che è vero non fosse universalmente condivisa, non avrebbe alcun senso il ricorso al “ridondante” “è vero che”, il cui uso fa emergere significativamente la distinzione suddetta. La distinzione tra ciò che è vero per noi e ciò che è vero in sé è il miglior antidoto contro il dogmatismo, oltre che contro il relativismo. La distinzione è di metodo, non di contenuto. Il dogmatico è colui che difende una verità particolare, storicamente determinata e fissata, come assoluta verità in sé, facendo passare per eterne configurazioni contingenti e acquisizioni provvisorie. L’equivoco può essere evitato solo ammettendo un relativismo metodologico che si accompagna al riconoscimento di una realtà indipendente dai soggetti impegnati nel perseguimento della verità. In tal modo si può evitare di confondere la coerenza con il dogmatismo: coerente è la disponibilità ad abbandonare la propria posizione se si rivela errata, dogmatica è la difesa pervicace di una forma storica e relativa della verità come se fosse assoluta. Cambiare idea riconoscendo i propri errori è un omaggio alla verità in sé e il miglior antidoto al relativismo. La malafede consiste nel rinfacciare a qualcuno di aver cambiato idea, accusandolo di incoerenza con se stesso, mentre la sola vera incoerenza è quella di non riconoscere il proprio errore e quindi negare di fatto l’esistenza di una verità in sé.

La nozione di verità come corrispondenza presuppone il riferimento a una qualche realtà extralinguistica, nel senso che se non ci fosse qualcosa che rende vera una certa proposizione, essa non sarebbe neppure falsa, ma priva di senso. La domanda giusta allora non è se esista un ordine del genere, ma solo se sia possibile farne esperienza non linguistica. Qualsiasi realtà extramentale diventa mentale — relativa al soggetto conoscente — non appena sia conosciuta. Che debba esserci qualcosa che rende vera una certa proposizione, è un’esigenza condivisa da autori di diverso orientamento quali Russell, Austin, James, Bradley: «L’idea preliminare, scrive D’Agostini, è che la verità è ontologicamente fondata: impossibile parlare di verità senza ammettere l’esistenza di qualche realtà che renda vero quel che si dice essere vero» (p. 81). Ma esaminando il significato di “rendere vero” ci si accorge ben presto che esso implica una teoria sulla realtà e quindi una metafisica. Se è lecito ammettere, con D’Agostini, che vero non sia solo un concetto semantico o epistemico, dalla nozione di verità ontologicamente fondata sorgono tuttavia seri problemi, come l’esistenza di fatti negativi che rendono vere proposizioni negative. È certamente bizzarra l’idea che “Socrate non c’è” sia reso vero dall’assenza di Socrate, come scrive D’Agostini. Ma possiamo chiederci se sia legittimo parlare di fatti negativi. Quale fatto potrebbe rendere vera (o falsa) la proposizione “il mondo non esiste”? E quale fatto rende vero che il mondo esiste? Inoltre quale fatto può rendere vera una proposizione quale: “il movimento è impossibile”, oppure “tutte le cose sono uno”? Inutile prendersela troppo con la logica, il fatto è che la stessa possibilità di concepire la totalità degli enti o entità puramente astratte, come quelle della logica o della matematica, espone all’impossibilità di riscontrare fatti corrispondenti, per definizione.

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Contro l’epistemicismo, per il quale la verità richiede conoscenza (procedure di dimostrazione, controllo, verifica), il realismo aletico sostiene che p è vero o falso indipendentemente dal fatto che qualche essere intelligente ne sia a conoscenza. I sostenitori del realismo riconducono la verità al suo significato classico. D’Agostini non si limita a rispolverare un luogo comune della storia della filosofia laddove coglie nell’irriducibilità la caratteristica più straordinaria della nozione di verità. Ed effettivamente risulta impossibile disfarsi della verità: se diciamo che “non c’è verità alcuna”, allora ammettiamo che, incontrovertibilmente, “è vero che non c’è verità” o inversamente, non è vero, quindi non si può sostenere che “non c’è verità”. Ne conseguirà anche, aggiungiamo noi, che “è vero che non è vero che non c’è verità”; da cui “è vero che non c’è verità”; e quindi, per autocontraddizione, “c’è verità”. Insomma ci sono tesi che sviluppano un’autocontraddizione per il solo fatto di sostenerle: ad esempio non posso sostenere che nulla esiste, dal momento che l’affermazione presuppone l’esistenza del sostenitore della tesi e della tesi medesima; impossibile, anche, sostenere che niente è bene, perché se dico questo, ammetto che sia bene pensarlo, nel senso di giusto e veritiero (pp. 95-96). Ma anche dire che tutto è vero è impossibile, come spiega Aristotele nel IV libro della Metafisica, perché chi sostiene che tutto è vero, dovrà riconoscere come vera anche la tesi opposta contraria, che qualcosa non è vero. Così si contraddice sia chi dice che tutto è vero, sia chi sostiene che niente è vero. L’impossibilità di affermare che tutto sia vero o niente sia vero obbliga a riconoscere che alcune proposizioni sono vere e altre sono false, proprio perché l’essere vera o falsa di una proposizione presuppone il riferimento a una realtà corrispondente che sussiste in modo separato e autonomo rispetto a qualsiasi enunciazione. L’enunciato non crea la realtà, ma la rappresenta; e qui entra in gioco la verità dell’enunciato, a seconda di come rappresenta la realtà. Tolta l’indipendenza della realtà — la sola misura della verità — l’enunciato potrà corrispondere solo a se stesso, né si potrà dire che esso enuncia qualcosa intorno a qualche soggetto. L’autocontraddizione che nasce dal fatto di affermare che tutto è vero o che niente è vero, è il segno inequivocabile dell’impossibilità di rimuovere la realtà come decisore della verità, indipendente dall’enunciato stesso. Per questo concordo con la critica serrata che D’Agostini conduce alla tesi per cui non esiste alcuna realtà oggettiva indipendente dal soggetto che enuncia qualcosa su di essa. La tesi del giovane Nietzsche, che il linguaggio è menzogna, si può confutare osservando che, se “le parole sono menzognere”, lo saranno anche le parole che Nietzsche usa per sostenere la sua tesi, perciò non abbiamo motivo di credergli.

Secondo D’Agostini l’irriducibilità di vero si può collegare al funzionamento dello schema T, con i due movimenti, capture e release. La tradizione attribuisce a Protagora la confutazione della tesi che “tutto è vero”, che si svolge nei seguenti passaggi: 1. Tutto è vero; 2. È vero anche che qualcosa non è vero; 3. Dunque qualcosa non è vero (release) . La confutazione che “niente è vero” (sostenuta in via ipotetica da Gorgia), in Aristotele assume la forma seguente: 1. Niente è vero; 2. Non è vero che niente è vero; 3. Dunque qualcosa è vero (release). D’Agostini ricorda anche un altro modo di confutare il nichilista: 1. Niente è vero; 2. È vero che niente è vero (capture); 3. Dunque qualcosa è vero (pp. 97-98). Secondo D’Agostini le procedure di confutazione del nichilismo si basano sul movimento di scomparsa/ricomparsa di “vero” negli enunciati. Possiamo aggiungere che i due movimenti di capture e release sono la conseguenza del fatto che nessun enunciato avrebbe senso e quindi non potrebbe essere detto né vero né falso se non fosse in rapporto con una realtà indipendente; il movimento di capture corrisponde quindi al risveglio del rapporto che sempre sussiste implicitamente tra enunciato e realtà. Se dico “è vero che” non mi riferisco solo all’enunciato (ad esempio “tutto è vero”), bensì alla relazione tra l’enunciato e la realtà. Nell’esempio riportato la realtà è rappresentata dagli enunciati in genere, di cui si dice che sono tutti veri, per poi precisare che, essendoci tra questi anche l’enunciato contrario che qualcosa non è vero, la corrispondenza di “tutto è vero” con la realtà fa difetto. Il movimento di capture non sarebbe giustificato se “è vero” riguardasse solo l’enunciato di cui predica la verità. Se così fosse “è vero” sarebbe un vuoto pleonasmo, che non aggiungerebbe nulla al valore di verità dell’enunciato stesso. La ragione per cui “è vero” rappresenta una differenza importante consiste nella sua funzione di portare l’attenzione sul rapporto tra l’enunciato e la realtà di riferimento, per verificarne la consistenza. L’equivoco peggiore, a questo punto, sarebbe quello di mettere al bando la discussione filosofica per la semplice ragione che esiste una realtà oggettiva, esterna e indipendente dal soggetto che indaga la realtà, come se il suo accertamento fosse compito esclusivo della scienza. Pessima sarà dunque la filosofia che, per giustificare lo spazio dell’argomentazione filosofica e la legittimità della teoresi, pone surrettiziamente la condizione dell’inesistenza di una realtà indipendente, come se l’indagine filosofica reclamasse l’esistenza del solo soggetto. Ma se esiste solo il soggetto e se qualsiasi posizione è per principio soggettiva, come facciamo a saperlo? Non è forse vero che non avrebbe senso l’uso di termini quali “soggettivo” o “parziale” se non fosse disponibile una sfera complementare dell’oggettività e della totalità? L’indagine sulla verità è un processo di accertamento continuo, che non può fare a meno di presupporre una realtà indipendente dal soggetto, ma non ancora nota. Sappiamo che deve esserci una sfera autonoma e a se stante, ma sappiamo anche che la sua verifica è possibile solo partendo dal soggetto. Ecco che cosa giustifica la discussione, il confronto tra diversi soggetti impegnati nella ricerca sul significato dell’unica realtà. Se non esistesse nulla al di fuori del soggetto, non potremmo neppure comparare tra loro le diverse teorie sulla realtà (negata) per stabilire che si tratta di differenti interpretazioni, tutte legittime. Se non ci fosse una realtà esterna, non potremmo neppure negarne l’esistenza partendo dalla molteplicità delle prospettive. Anzi, se non ci fosse una realtà esterna indipendente, una molteplicità di soggetti mancherebbe di quel riferimento ad unum che ne è il fondamento: una pluralità di soggetti senza alcun criterio d’ordine interno potrebbe essere giustificata solo dalla possibilità di riferimento a un quid che valga per tutti.

Lo stesso Aristotele, avverte D’Agostini, sostiene che l’argomentazione antiscettica confuta ma senza dimostrare. Così, sostenere con argomenti l’irriducibilità di vero non significa dimostrare l’utilità del medesimo o che sia un predicato che indichi una qualche proprietà reale. Se “vero” fosse privo di riferimento come “causa di sé” o “quadrato rotondo”? Se così fosse, ci troveremmo nella strana situazione di non poterne fare a meno (p. 101). Il predicato “vero” non si applica a fatti, ma a proposizioni, quando esiste uno stato di cose che corrisponde al contenuto della proposizione e la rende vera. Ma come identifichiamo lo stato di cose se non attraverso un’altra proposizione? L’idea che si possa proseguire all’infinito senza mai incontrare uno stato di cose se non nella modalità proposizionale non confuta l’esistenza di una realtà indipendente, ma semmai la presuppone come criterio esterno di riferimento. Sta di fatto che, come sottolinea D’Agostini, Vero è dispensabile e ubiquo: possiamo farne a meno e non menzionarlo mai; e tuttavia non c’è asserzione che non lo contenga implicitamente. La stessa considerazione vale per tutti i super concetti trascendentali: «In tutti i casi, non sarà possibile dichiarare, o anche solo pensare, che non c’è V, o che non c’è realtà, o che niente è bene: perché se lo diciamo, potrà essere vero o falso che non c’è verità, e che le cose stanno in modo tale che non ci sono cose, e che è bene dire che niente è bene» (p. 102). Tarski e Quine, richiamati da D’Agostini, concordano nel ritenere che Vero è un predicato che il linguaggio usa per riferirsi a se stesso, non appartiene al livello linguistico o a quello fattuale. Questo spiega perché sia invisibile: il rapporto tra fatti e proposizioni non è visibile, può essere solo pensato e ragionato. Vero presenta dunque il carattere di riflessività che si può riscontrare anche in altri concetti fondamentali, come ad esempio realtà: «Nel parlare di “realtà” io mi sollevo dalla considerazione dei singoli enti reali per guardare a ciò che hanno in comune; nel pensare al bene non considero tanto le azioni, ma le relazioni che esse hanno con noi, individualmente e collettivamente» (p. 104).

Rimane significativo che il predicato “vero” sia richiamato per rispondere a qualcuno che mette in dubbio le nostre affermazioni oppure, in forma negativa, per contestare le affermazioni che qualcuno sta facendo. Certezza ed evidenza immediate non hanno alcuna necessità di richiamarsi al “vero”, che dunque interviene per ripianare dubbi e incertezze o, in forma negativa, per demolire contenuti apparentemente incontestabili. Per questo “vero” è bifronte e inquietante, rassicura e terrorizza. Apre la strada alla dimostrazione o alla confutazione, dunque all’esposizione di argomenti che convalidano una proposizione discutibile o disarcionano definitivamente il cavaliere che portava trionfante il vessillo di una certa tesi. L’uso del predicato “vero”, positivo o negativo, è necessariamente preceduto dal dubbio o da una difficoltà di connessione. Esempio: qualcuno mi dice di esser stato a Roma il giorno prima, ma se sono sicuro di averlo visto a Trento nelle stesse ore in cui lui asserisce di essere stato a Roma, posso chiedergli di spiegarsi e costringerlo ad ammettere che la sua asserzione non era vera. Non ho bisogno di accertare la sua presenza a Roma, mi basta istituire una relazione tra diversi asserti e un dato di fatto della mia esperienza diretta per inferire con certezza che lui a Roma non il giorno prima non c’è stato. La coerenza è una metaregola della comunicazione in generale, da cui non si può prescindere nel modo più assoluto. Possiamo pensare concordemente la stessa cosa, al di fuori di qualsiasi scetticismo programmatico, in virtù del fatto che non possiamo pensare né agire senza rispettare regole comuni, tra cui quella che nega la possibilità che qualcuno possa trovarsi in due luoghi diversi nello stesso istante.

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Se prendiamo in considerazione la logica e la semantica di Vero, possiamo osservare che non ci sono solo enunciati veri o falsi in senso esclusivo, ma anche enunciati né veri né falsi (es.: “La serie dei numeri primi è infinita”) che fanno riferimento a uno stato di cose che non conosciamo); enunciati veri e falsi insieme (es.: a. l’enunciato b è vero; b. l’enunciato a è falso: se a è vero, allora b è vero e quindi a è falso; dunque a è vero e falso insieme); la classe di enunciati veri e falsi insieme nell’ermeneutica psicoanalitica o religiosa o filosofica o nel simbolismo onirico (es.: un dente che cade è un parente che muore, ecc.); enunciati quasi veri o veri se sono soddisfatte certe condizioni definitorie (l’impiego di predicati dal significato vago, come “ricco”, “giovane”, ecc., comporta la costruzione di asserti quasi veri o veri da un certo punto di vista); enunciati probabilmente veri (gli enunciati relativi alla vita ordinaria e alla scienza sono solo probabilmente veri). A questo elenco di D’Agostini aggiungerei enunciati che sono impropriamente veri dal momento che fanno riferimento non a un sapere ma alla fede. La maggior parte degli enunciati delle varie scienze sono tenuti per veri in base al presupposto metodologico che il loro contenuto potrebbe essere verificato, direttamente o indirettamente, da esperimenti di laboratorio o osservazioni empiriche. Nessuno pensa che il movimento della terra intorno al sole sia una mera credenza, alla quale ciascuno è libero di credere o non credere: fino a prova contraria, noi sappiamo e sappiamo di sapere che il nostro pianeta si muove in un certo modo intorno al sole. Le verità di fede non solo non possono essere empiricamente dimostrate da un qualche esperimento, ma respingono qualsiasi contaminazione con la sfera del sapere profano, che dichiaratamente trascendono. Le verità di fede sono credenze destinate a rimanere tali, per chi non crede. Per chi crede, nulla è più vero, incontrovertibilmente vero, di ciò in cui crede. Sono enunciati veri o falsi a seconda dell’orientamento religioso e, per le stesse persone, veri solo finché o a partire dal momento in cui essi credono. Le professioni di fede esprimono qualcosa che è oggettivamente un atto di fede (quindi in senso stretto asserti non suscettibili di essere stabiliti come veri o falsi) ma che soggettivamente sono assolutamente, apoditticamente veri). Nella professione di fede certezza e verità coincidono.

Paradossi e antinomie, secondo Tarski, Russell e altri logici, sorgono solo se il linguaggio fa riferimento a se stesso e se valgono le leggi logiche di non contraddizione e terzo escluso. Una delle due condizioni è sufficiente per far sorgere l’antinomia: dato che è impossibile fare a meno del principio di non contraddizione, per evitare l’insorgere di antinomie si dovrà fissare la regola per cui il linguaggio non deve parlare di se stesso; si dovrà quindi escludere l’autoriferimento. D’Agostini mostra che il divieto dell’autoriferimento non funziona sempre, come nel paradosso di Yablo, dove nessun enunciato si riferisce a se stesso, ma nonostante questo emerge una contraddizione simile a quella del mentitore (p. 137). D’Agostini mostra che l’impossibilità di violare la legge di non contraddizione, principium firmissimum, si fonda su tre piani: 1. Sul piano epistemico la legge di non contraddizione è una norma di razionalità per la quale non è possibile essere razionali e credere che p e insieme non-p. Per un dialeteista (sostenitore della doppia verità) però questo è possibile se esiste un’evidenza che p e non-p. A questo punto, con D’Agostini ci si chiede se esiste davvero questa evidenza, se la contraddizione sia reale o se non sia dovuta a un errore di valutazione. 2. Infatti sul piano ontologico o metafisico la legge di non contraddizione esclude che esistano realmente e che possano essere attestate evidenze di contraddizioni. D’altra parte i dialeteisti sostengono che la legge di non contraddizione è una regola fondamentale che ammette eccezioni come la norma “non uccidere” che in guerra si autosospende (p. 151). L’esempio a dire il vero risulta problematico, poiché ci si potrebbe chiedere se chi uccide in guerra stia violando la regola di non uccidere, oppure ne abbia adottata un’altra, quella prescritta dal codice militare. Un altro esempio classico è quello delle armi avute in prestito: se vengo a sapere che chi mi ha prestato le armi nel frattempo è andato completamente fuori di senno e il termine prescritto del prestito è scaduto, devo restituire le armi al legittimo proprietario oppure trattenerle, in considerazione delle mutate circostanze, ma violando la regola che impone la restituzione di ciò che si è avuto in prestito a tempo debito? Anche qui, evidentemente, non restituendo le armi adotto una regola di precauzione che potrebbe rivelarsi lungimirante: non mettere un uomo nella condizione di poter nuocere a sé o ad altri. 3. La legge di non contraddizione vale anche sul piano logico, stabilendo, con Aristotele, che nessuna proposizione può essere vera e falsa nello stesso tempo e sotto un medesimo rispetto. I dialeteisti però non accettano il principio per cui le violazioni della legge di non contraddizione si collocano fuori della logica e vanno quindi corrette. I dialeteisti sostengono che si tratterebbe in tal caso di snaturare il linguaggio nelle sue forme logiche in ossequio a una regola la cui validità oggettiva non è così solida come si pretende, se si considerano casi come il paradosso di Yablo. Il linguaggio e la logica sono una creazione dell’uomo e quindi non sono intoccabili, sostengono i dialeteisti; ma questo non implica necessariamente che la legge di non contraddizione sia una creazione umana, relativa e modificabile. Non è forse vero che i dialeteisti, nel sostenere questa loro tesi, si arrabbierebbero molto se qualcuno li accusasse di dire e non dire la stessa cosa insieme? Essi negano la validità assoluta della legge di contraddizione, di cui fanno uso nell’atto stesso in cui la negano; la respingono e la invocano insieme. Affermando e negando insieme la stessa cosa forniscono un esempio concreto di doppia verità, ma non sarebbero contenti se qualcuno lo rilevasse, asserendo che essi sostengono e negano insieme la stessa cosa. Ma già Aristotele nel IV libro della Metafisica aveva avvertito che ammettere la violazione del principio di non contraddizione è del tutto assurdo, giacché senza di esso non è possibile dire alcunché.

I dialeteisti rispondono agli argomenti di Aristotele osservando, come fa Priest, che la disamina aristotelica fa riferimento a una prospettiva che non si limita ad ammettere alcune contraddizioni, ma mette in conto che sia possibile contraddirsi sempre e comunque. I dialeteisti invece riconoscono solo alcune doppie verità, e non ammettono che tutto sia vero e falso; e Aristotele non si misura con la posizione dei dialeteisti, di cui sostanzialmente riconosce l’esistenza. A questo punto però, prosegue D’Agostini, sorge il problema noto per cui, ammettendo anche solo poche contraddizioni, tutto risulterà vero; e se tutto è vero, tutto è contraddittorio, giacché per ogni p vera sarà vera non-p. In conclusione, se si ammette una sola doppia verità, derivano infinite verità e quindi infinite contraddizioni. L’argomento a sostegno di questa conclusione è il teorema dello Pseudo-Scoto, per il quale da una contraddizione può derivare qualsiasi proposizione. Il compito dei dialeteisti non è solo quello di dimostrare che il teorema dello Pseudo-Scoto non può essere valido, ma anche quello di chiarire il significato della negazione, visto che per i dialeteisti non-p non esclude p. D’Agostini riporta e discute le risposte che i dialeteisti danno alle questioni sollevate. Per quanto riguarda l’argomento dello Pseudo-Scoto, che si può sintetizzare nell’espressione “p e non p, dunque q”, i dialeteisti ritengono che sia del tutto privo di senso. La sola ragione per la quale l’inferenza dello Pseudo-Scoto, che dal punto di vista della logica della rilevanza non ha alcun senso, funziona, spiega D’Agostini, è l’applicazione del sillogismo disgiuntivo, che vale solo se p è vero e non p è falso, cioè se vale la legge di non contraddizione. «Se invece p ha due valori, ossia appunto è vero e falso, la formula “p o q” sarebbe vera anche se q fosse falso. Questo ci dice che per giustificare l’ECQ (ex contradictione quodlibet) ci occorre aver già accettato la legge di non contraddizione, e perciò l’ex contradictione quodlibet non può essere invocato per salvare la LNC (legge di non contraddizione) » (p. 155). La questione della negazione è la seguente: quale rapporto deve esserci tra p e non p, se devono poter essere compatibili? A questo proposito Priest distingue due modi di intendere la negazione: 1. Come cancellazione, nel senso che non p cancella il contenuto di p e ne prende il posto; 2. Come complementazione, nel senso che non p ha un contenuto che è il complemento di p. Da una contraddizione intesa nella prima accezione non deriva niente, perché essa consiste nel porre e nel togliere qualcosa ripristinando quindi la situazione di partenza. «Nel caso del mentitore però è difficile usare la metafora della cancellazione; quel che sta facendo il mentitore è precisamente un mettere-togliere simultaneo: cancella quel che sta dicendo, e dice quel che cancella» (p. 156). Se intendiamo la negazione come complementazione, negare p significa assumere tutto ciò che non è p, quindi prendere insieme l’intero universo. In questo senso affermare una contraddizione significa prendere una cosa e poi metterle accanto tutto quello che la cosa non è, cioè tutto il resto. Di conseguenza il contenuto di una contraddizione sarà tutto. Lo Pseudo-Scoto afferma proprio questo: da una contraddizione segue qualsiasi cosa. Tuttavia, obietta D’Agostini, «il mentitore rimane ancora inspiegato, nell’ottica della negazione-complementazione: non si può ragionevolmente dire che chi dice di mentire dica tutto» (p. 156). Quindi, ricapitolando, dalla negazione intesa come cancellazione non deriva nulla, mentre dalla negazione intesa come complementazione deriva tutto. Esiste una soluzione intermedia, che Priest preferisce, per cui “p e non p” ha un contenuto parziale, come qualsiasi proposizione e il contenuto di una contraddizione in tal modo può essere qualificato come parziale. Se sto attraversando la soglia di una stanza posso dire di essere dentro e fuori: non dico tutto ma neppure nulla. Non dico che i cavalli volano o che un uomo è una trireme. Secondo la teoria dialeteista, «la negazione è l’artificio logico che evidenzia la relazione di contraddizione tra due enunciati, ma va distinta di principio dall’operazione che consiste nell’accettare o rifiutare un certo contenuto epistemico. Nell’accettare che l’enunciato del mentitore á sia vero e falso io non sto accettando-e-rifiutando á, ma sto assumendo tanto á quanto la sua negazione» (p. 157).

A questo punto però, avverte D’Agostini, il dialeteista ha il compito di spiegare quali doppie verità si debbano mettere in conto. Anche ammettendo che esistano evidenze di contraddizioni, come i paradossi della forma “á se e solo se non á”, sono solo queste le doppie verità o ve ne sono altre? D’Agostini distingue tre posizioni nella logica paraconsistente: 1. Le contraddizioni sono nella conoscenza o nell’esperienza, ma non nella realtà (paraconsistenti deboli); 2. Le contraddizioni ci sono, ma solo in mondi possibili; 3. Le contraddizioni esistono nella realtà attuale (dialeteisti). I dialeteisti riconoscono che si devono specificare il contesto e la modalità di tali contraddizioni. Non posso entrare e uscire da una stanza, ma se entro c’è un momento di durata infinitesimale in cui mi trovo fuori e dentro. Le contraddizioni vere sono poche: il mentitore e tutti gli enunciati che si riferiscono a confini e situazioni di passaggio. Ad esempio l’enunciato “X è dentro la stanza” è vero e falso nell’istante in cui X si trova sulla soglia (p. 158).

In una prospettiva antirealista “è vero che p” non significa asserire l’esistenza di uno stato di cose corrispondente a p, ma semplicemente assicurare che p è una credenza giustificata; p è vero in quanto è confermato/dimostrato. Ma se il senso è questo, avverte D’Agostini, “non è vero che á” non equivale a “è vero che non-á”: il fatto di non aver confermato á non implica che abbiamo confermato non-á. La posizione antirealista determina conseguenze rilevanti nell’ambito della logica, secondo una proposta teorica che va sotto il nome di intuizionismo, l’orientamento filosofico cui ha dato vita Luitzen Brouwer. D’Agostini ricostruisce e discute le conseguenze che Michael Dummett trae dalle implicazioni filosofiche dell’intuizionismo. La tesi di Dummett si basa sulla distinzione tra la verità intesa in senso realistico e la verità in senso logico-epistemico. Le due concezioni danno origine a logiche diverse. Dummett è convinto che gran parte dei problemi nell’uso di “vero” dipendano dall’adozione dogmatica della logica classica fondata sul realismo. La tesi filosofica dell’intuizionismo è che la conoscenza, e in particolare la conoscenza matematica, sia essenzialmente costruttiva; tesi che si richiama a Kant, per il quale gli oggetti matematici dell’aritmetica e della geometria sono interamente costruiti in base alle intuizioni pure; le forme a priori hanno per Kant un ruolo decisivo anche nella costituzione degli oggetti sensibili, composti di una forma e di una materia, per cui Kant parla appunto di intuizioni sensibili. Per l’intuizionismo gli oggetti matematici (numeri, funzioni, enti geometrici) sono costrutti delle nostre intuizioni pure, quindi non ci sono realmente (p. 161). Sul piano logico la tesi di Dummett comporta una differenza importante rispetto al realismo, infatti “vero” non potrà dirsi in senso fattuale, ma solo in base a una metodologia inferenziale e costruttivistica, dal momento che non esiste alcuna realtà data in se stessa. Alla domanda: esiste la radice di due? Si può procedere costruendo un triangolo rettangolo con i cateti che misurano 1 e quindi vedere chiaramente che l’ipotenusa è data dalla radice di due. Dunque è vero che esiste la radice di due, dove “vero” significa “dimostrato” o “confermato per costruzione o ricostruzione” (p. 162). Ci sono tuttavia proposizioni che non sono dimostrate (come “la serie dei numeri primi è infinita”), così come non sono dimostrate le loro negazioni. L’intuizionista concluderà che siamo in presenza della violazione di uno dei principi della logica classica, tertium non datur, per il fatto che si tratta di proposizioni che, non essendo state dimostrate o confermate, non sono né vere né false. Per un realista invece una certa proposizione è sempre vera o falsa, che lo sappiamo o non lo sappiamo. Per un realista vale sempre la regola del terzo escluso, perché per lui il valore di verità di p non dipende dal suo riconoscimento da parte di un soggetto. L’intuizionista invece vi dirà che, essendo non dimostrato il valore di verità di p, p non è né vero né falso. Solo che per il realista “dimostrato” significa “trovato”, mentre per l’intuizionista significa “costruito”, determinato da un’operazione che può essere eseguita oppure no.

L’intuizionista introduce un terzo valore di verità per una proposizione che non è stata ancora dimostrata. Se p non è stato dimostrato non sarà né vero né falso. Ma se fosse stata dimostrata la sua indimostrabilità? Quante sono le proposizioni di cui si può dimostrare l’indimostrabilità? “Dio non esiste” è indimostrabile, mentre esistono numerose prove dell’esistenza di Dio. L’indimostrabilità di “Dio non esiste” si può ottenere ricordando che, per definizione, Dio è invisibile. La dimostrazione dell’indimostrabilità dell’esistenza degli enti non sensibili sembra dunque scontata. Se “Dio non esiste” fosse dimostrata indimostrabile, un realista direbbe che, in se stessa, tale proposizione deve essere vera o falsa; un intuizionista obietterà che, proprio perché indimostrabile, dunque non suscettibile di una costruzione razionale, la stessa proposizione non è né vera né falsa. Infatti la dimostrazione dell’indimostrabilità di p non è una dimostrazione che riguardi direttamente il contenuto di p. D’altra parte Dio c’è o non c’è. L’intuizionista può giustificare le sue riserve nel caso della matematica, dato il presupposto da cui parte, che la realtà degli oggetti matematici è costruita, quindi il contenuto delle proposizioni non ancora dimostrate non esiste di fatto. Ma dinanzi all’indimostrabilità? Proprio l’intuizionista, in base al suo presupposto, dovrebbe assegnare il valore di verità falso a p, se p si rivela indimostrabile: non solo l’oggetto corrispondente non esiste a priori, ma è acclarato che non può neppure essere costruito. Per il realista le cose stanno diversamente: Dio esiste o non esiste indipendentemente dal fatto di poterlo dimostrare, quindi p, “Dio non esiste” nel nostro esempio è vero o falso: anche se potessi dimostrarlo non aggiungerei nulla al valore di verità di p, conformemente all’esistenza o non esistenza di Dio. L’esistenza di Dio è qualcosa che sussiste o meno in se stessa, al di là delle procedure utilizzabili per dimostrarla. L’intuizionista decide che p è vero se può costruirne l’oggetto, quindi l’impossibilità accertata di costruirne l’oggetto dovrebbe essere sufficiente per decidere che p è falso. L’intuizionismo mantiene una certa plausibilità in matematica, ma se p si riferisce al mondo esterno e la nozione di verità dev’essere oggettiva, la soluzione terza del “né vero né falso” non regge. Il non vero non implica il falso solo se la realtà è costruita e non semplicemente riconosciuta.

D’Agostini osserva che le due posizioni del realista e dell’epistemicista non sono necessariamente incompatibili. Si può ammettere che ci sia una realtà esterna non ancora conosciuta perfettamente. D’Agostini esamina un caso della vita quotidiana in cui la combinazione di epistemicismo (per cui vero equivale a giustificato) e di realismo (per cui se una proposizione è vera, allora le cose stanno esattamente nel modo corrispondente al contenuto di p), conduce a una vera e propria aberrazione. Partiamo dal presupposto che io non conosca il mio vicino di casa. Mettiamo che p sia: “il mio vicino è una brava persona”. Avremo allora: 1. Non so se p; 2. Dunque p non è giustificato e non è vero (per l’equivalenza di vero e giustificato); 3. Se non è vero p, allora non p (rilascio); 4. Se non p, allora è vero che non p (cattura); 5. Ma se è vero che non p, allora non p è giustificato (per l’equivalenza di vero e giustificato); 6. Sono autorizzato a credere che il mio vicino di casa non sia una brava persona. Tuttavia, commenta D’Agostini, l’inferenza da “non ho ragioni per credere che p” a “ho ragioni per credere che non p”, è un esempio di fallacia ad ignorantiam (p. 165).

Si può osservare che l’inferenza è possibile per l’equivalenza di vero e giustificato, senza la quale il fatto che p non sia giustificato implica che neppure non p è giustificato. C’è un solo modo in cui le cose stanno, il che non esclude che lo stato delle cose sia inaccessibile, al di là delle diverse procedure conoscitive messe in atto per determinarlo. Tra p e lo stato delle cose il rapporto è anche temporale. La verifica di una corrispondenza tra p e lo stato delle cose al quale fa riferimento si può concepire come confronto simultaneo tra p e lo stato delle cose. Se dico che piove mentre sta piovendo, è facile che io possa far passare per vero p mediante la corrispondenza con lo stato delle cose, in tempo reale, per così dire. Ma se lo stato delle cose è un insieme di eventi accaduti in passato, l’allineamento simultaneo non è possibile e quindi avrò l’onere di dimostrare, con l’aggiunta di altri riferimenti e testimonianze, che p è vero. Tuttavia, le testimonianze che si riferiscono al passato non sono mai inconfutabili e p può essere giustificato, senza tuttavia che la sua verità possa essere sostenuta con certezza. Se lo stato delle cose è futuro, p non è vero né falso, può tuttavia essere giustificato induttivamente o in base a una certa teoria circa la natura della realtà. In ogni caso, che domani piova oppure no, si potrà verificare solo domani. A posteriori, si potrà dire che p era vero o falso, in base ai fatti; e ora possiamo dire che p, se pioverà, sarà vero o falso. Quel che non possiamo dire, è che p sia vero adesso, se i fatti ai quali si riferisce devono ancora accadere. In sostanza, se i fatti sono passati o futuri, p potrà essere solo giustificato e il grado di giustificazione dipenderà da ricordi e testimonianze dei soggetti coinvolti. Solo in relazione ai fatti che accadono ora, nel presente istantaneo, possiamo mostrare che p è vero o falso, ma solo per un istante. Ad esempio in questo momento sto parlando ed è vero che sto parlando. “Essere vero” quindi riferito a p potrebbe significare “essere vero adesso in rapporto al presente stato di cose” in riferimento a p. Quindi quando diciamo che p è vero sosteniamo che in un certo tempo t era vero che p in rapporto a un determinato stato di cose, che ora è irreversibilmente passato. Dire che p è vero adesso quindi non è possibile, a meno che non possiamo verificare una connessione con lo stato di cose che è sotto i nostri occhi. Tuttavia, anche ammettendo che la verità di p sia sostanzialmente inverificabile, non si può negare l’esistenza passata di uno stato di cose tale che, se fosse completamente accertabile o fosse presente, renderebbe vero p. In tal modo possiamo superare l’equivalenza di vero e giustificato.

Quando si affronta il tema della verità non si può trascurare la vaghezza. La vaghezza è assenza di precisione sul piano della semantica nominale. Il sorite, antico paradosso che si rifà al cumulo, o mucchio, è un esempio di indecidibilità che deriva dalla vaghezza di determinati termini. Il cumulo di sabbia (quanti granelli ci danno un cumulo?), il calvo (con quanti capelli un uomo non è più calvo?) sono esempi noti fin dall’antichità. Oggi la tolleranza delle minime variazioni si presenta per termini come quello di persona: quando un embrione inizia ad essere persona? Tutte le questioni di bioetica — nascita, morte, naturale, artificiale, cura, accanimento terapeutico — nascono dalla difficoltà di stabilire un confine oggettivo e condiviso. Nonostante la logica detta fuzzy — la soluzione proposta da Zadeh, un ingegnere elettrico degli anni settanta, che assegna cinque valori di verità tra 0 e 1, tra falso e vero — D’Agostini con Rosanna Keefe sostiene che la vaghezza è intrinseca al nostro linguaggio e che non potrà mai essere eliminata del tutto (p. 170), come mostrano le situazioni di confine: sano/malato; giovane/vecchio, ecc. Una volta stipulata una convenzione, il valore di confine apre a due possibilità: l’enunciato è una doppia verità e quindi ha ragione sia chi lo afferma, sia chi lo nega; oppure non sappiamo se l’enunciato sia vero o falso e quindi hanno torto entrambi.

Le enunciazioni della vita quotidiana si basano per lo più su inferenze induttive, in contesti nei quali chi enuncia non ha il pieno controllo della situazione. D’Agostini invita a distinguere tra due tipi di inferenza, a seconda che abbiamo o non abbiamo la conoscenza della totalità del contesto in rapporto al quale facciamo le nostre inferenze. Un esempio del primo tipo è un normale mazzo di carte di cui conosciamo perfettamente i componenti; un esempio del secondo tipo è un mazzo di carte di cui non conosciamo perfettamente né le caratteristiche, né l’articolazione, né se sia finito o infinito. In questo secondo caso le inferenze non sono sicure e i calcoli relativi sono sempre rivedibili, ma non possiamo dire che non sia legittima alcuna inferenza relativa al mazzo di carte, dato che possiamo osservare comunque la frequenza con cui si presentano determinate combinazioni e rimane sempre aperta la possibilità di stabilire un ordine matematico tra le carte, in modo che certi risultati diventino necessari. La fisica moderna si fonda esattamente sulla correlazione tra i risultati matematici e le osservazioni sperimentali (p. 181).

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Rimane sempre aperta la questione fondamentale del rapporto tra etica e ontologia. Come stanno le cose del mondo? Esiste una realtà indipendente verificabile da chiunque? Esistono verità e conoscenza nell’etica? Il realismo sostiene che la realtà (materiale, spirituale o di altro tipo) esiste indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo. La tesi realista è metafisica, secondo D’Agostini, giacché riguarda il modo d’essere dell’essere. La tesi empirista invece è epistemologica, poiché riguarda la conoscenza: essa sostiene che l’evidenza empirica è la base della conoscenza e di ogni nostra credenza. Il concetto di esperienza è tuttavia ampio e può includere le idee, l’immediatezza sensoriale, o anche la memoria e la storia (p. 191). Sono possibili quindi vari tipi di empirismo, a seconda dell’accezione in cui è intesa l’esperienza. Ma l’essenziale è che per l’empirismo in genere non si possa sostenere l’esistenza di una realtà che vada oltre l’esperienza, comunque intesa, che possiamo certificare. Eppure la stessa consapevolezza dei limiti e della varietà delle nostre esperienze dovrebbe di per sé rappresentare la premessa di una logica conclusione riguardo l’esistenza di un mondo esterno indipendente dal modo e dalla misura in cui riusciamo a produrne delle rappresentazioni. Realismo ed empirismo possono coesistere benissimo e non si vede quale alternativa abbia l’empirismo rispetto alla posizione di complementarità necessaria con il realismo: Kant docet. E questo lo riconosce anche D’Agostini, che parafrasa Kant così: «Tutto incomincia con la realtà che agisce sui nostri sensi, dunque con la nostra ricettività, ma non tutto si riduce alla ricettività, c’è anche la spontaneità creativa e “costitutiva” del soggetto» (p. 194). La combinazione di realismo ed empirismo ha avuto molti eredi, il più autorevole dei quali è stato Husserl, che si è adoperato, partendo da Kant, ad approfondire i meccanismi della costituzione trascendentale della nostra attività conoscitiva. Un empirista può essere antirealista e un realista antiempirista. Il semicostruzionismo kantiano può essere un modo persuasivo di comporre la disputa, dato che il predicato Vero si applica non alla realtà in sé, ma alla semicostruzione preliminare che risulta dall’interazione tra la mia soggettività trascendentale e la realtà esterna. Tuttavia, avverte D’Agostini, esiste una difficoltà fondamentale, che riguarda l’esistenza di una realtà in sé non solo indipendente, ma anche separata dalla conoscenza e quindi inaccessibile, essendo in sé e non per noi. D’Agostini si chiede se Kant abbia chiarito questo punto fondamentale: esiste davvero una realtà in sé? Come Dio secondo Locke (per il quale possiamo dimostrare l’esistenza di Dio, ma non la sua essenza, e lo stesso vale per l’essenza di qualsiasi altra cosa), per Kant l’esistenza di una realtà indipendente dal soggetto che fornisca la materia alle forme a priori mettendo la soggettività trascendentale nella condizione di operare, è una deduzione necessaria, così come è una deduzione necessaria l’inconoscibilità della cosa in sé, dal momento che, per definizione, la realtà che conosciamo è un costrutto, una combinazione di forma e materia (e questo Kant lo fa valere già nell’estetica trascendentale, quando discute dello spazio e del tempo come forme a priori della sensibilità). Sostenere che la cosa in sé è direttamente conoscibile, significherebbe contraddire lo stesso impianto della filosofia kantiana. Perché dovrebbe esserci contraddizione tra l’indipendenza e l’inaccessibilità della realtà? La realtà che conosco con l’esperienza non è qualcosa di ultimo e immediato, ma un costrutto. E se non ci fosse nulla di indipendente, la realtà conosciuta sarebbe solo quella costruita solipsisticamente dal soggetto, dotato di strutture conoscitive a priori (intuizioni pure, schemi, concetti, categorie), le quali non possono essere concepite che come una realtà oggettiva, anche se questa è solo presunta, giacché per definizione non possiamo accedere a tali strutture per capire che cosa sono in se stesse. La filosofia kantiana non giustifica il disarmo della ragione e la relativizzazione della verità. I cattivi interpreti di Kant hanno inteso che la cosa in sé si sottrae all’abbraccio della conoscenza, che di volta in volta dovrà accontentarsi di non-verità, essendo la cosa in sé inaccessibile.

Come D’Agostini fa osservare, il disarmo scettico in rapporto alla verità risale alla filosofia antica. Sesto Empirico rappresenta una fonte straordinaria, certamente la più importante, per la ricostruzione dettagliata degli argomenti degli scettici. Quali erano gli argomenti decisivi addotti dagli scettici per dimostrare che la verità è inconoscibile? Da Enesidemo ad Agrippa a Sesto Empirico, i tropi scettici si riducono essenzialmente a tre: pluralità (per ogni proposizione p affermata come vera si possono addurre possibilità contrarie) , regresso all’infinito (per giustificare p ricorro a q, per giustificare q devo introdurre r, che a sua volta ha bisogno di una giustificazione e così via all’infinito) e circolo (diallele, quando q giustifica p e p giustifica q). Lo scettico enuncia quindi l’epoché, la sospensione del giudizio, che consiste nel non affermare né negare alcunché. Con quali argomenti lo scettico potrà difendere l’epoché? Non certo con quelli ordinari, che ricadrebbero nel trilemma ricordato e darebbero luogo all’autoconfutazione. Una prima soluzione è quella proposta da Sesto Empirico, per cui le tesi scettiche vanno intese come purganti, che tolgono se stessi insieme alle impurità dell’organismo. Lo scettico non mira a enunciare delle verità, fa uso della verità, ma solo per disfarsene; il suo scopo non è la teoresi, ma la pratica della vita, il vivere bene e senza passioni, posto che i giudizi sono all’origine di quelle. E poiché la filosofia come attività teoretica è inconcepibile senza l’argomentazione, lo scettico, demolendo ogni possibilità dell’argomentare in generale, abolisce la stessa filosofia come attività intellettuale, togliendole ogni ragion d’essere, almeno nella misura in cui i tropi scettici non sono confutati. Ma, daccapo, se qualsiasi confutazione è assoggettata inesorabilmente ai tropi scettici, il solo modo per salvare la teoresi filosofica consisterà nel rovesciare la posizione dello scettico, ad esempio dimostrandogli che la sua tesi è insostenibile per qualche motivo. Già Aristotele e poi Hegel hanno mostrato che lo scettico non fa quel che dice di fare, perché è impossibile vivere senza giudicare e preferire una cosa a un’altra. A questo punto, ricorda D’Agostini, la seconda mossa dello scettico consiste nel presentare una versione moderata di scetticismo, per cui si deve sospendere il giudizio non in senso assoluto, ma solo in rapporto alle cose non evidenti. Quando però si tratta di indicare quali sono le cose non evidenti, se riguardano questioni di gusto o di valore o credenze religiose, sorge il problema di stabilire se e come una teoria delle cose non evidenti ricade nel trilemma e se la stessa teoria riguarda cose evidenti oppure no (p. 202). Lo scetticismo moderato quindi sembra oscillare tra l’irrilevanza e l’autocontraddizione. D’Agostini fa osservare giustamente che, a questo punto, se lo scettico cerca di stabilire quali sono le cose non evidenti in rapporto alle quali è doveroso sospendere il giudizio, allora si deve ammettere che abbiamo di fronte un filosofo vero e proprio che dirige la sua indagine sulle questioni fondamentali dell’etica e dell’ontologia. Possiamo quindi riprendere la posizione espressa da Hegel nello scritto del 1802, Rapporto dello scetticismo con la filosofia: lo scettico radicale non è nemico della ragione filosofica, che si alimenta di scetticismo. Il trilemma confutatorio dello scettico è per Hegel assolutamente vero, giacché rappresenta le tre forme in cui si sviluppa il dialogo critico. In un saggio del 2007, Scetticismo. Una vicenda filosofica, Mario De Caro ed Emidio Spinelli, sostengono che lo scetticismo antico, equivalente alla prassi sofistica e a quella socratica, esprime l’esigenza intellettuale di una ricerca incessante che metta in movimento qualsiasi tesi o posizione, ma in funzione di un’indagine che mira in ogni caso alla determinazione della verità. In questo senso lo scetticismo è l’essenza stessa dell’indagine filosofica, il suo motore necessario. Lo scetticismo moderno e contemporaneo, invece, secondo i due studiosi, indica non la mobilizzazione di verità acquisite, ma il dubbio conclusivo (non transitorio), artificiale (limitato all’ambito filosofico come artificio tecnico) e radicale (assoluto) (p. 205).

Per capire il senso in cui lo scetticismo è essenziale alla filosofia, D’Agostini trae da Hegel alcune riflessioni. In primo luogo il metodo scettico — la ricerca (sképsis) — caratterizza la filosofia, che indaga anche i presupposti e tutto mette in discussione; la ricerca filosofica si presenta con una radicalità che non appartiene né alla scienza né alla religione. Inoltre Hegel spiega che lo scetticismo si pone a un livello “superiore” alle tesi contrapposte. La posizione dello scettico sarebbe meta-metateorica, nel senso che, nell’interpretazione di Hegel, «lo scettico-filosofo ci dice come funziona il nostro rapporto con le teorie, come dobbiamo valutarle, e come incontriamo successi e fallimenti nel valutarle» (p. 206). Lo scettico-filosofo insomma ci dice come funziona la verità, come dialetticamente e oggettivamente si svolge il pensiero nella costruzione delle teorie. In terzo luogo, il trilemma non è un ostacolo alla discussione su qualsiasi argomento controverso, giacché la pluralità di ipotesi non è un limite ma una risorsa, il regresso si arresta quando i disputanti raggiungono un accordo e il circolo non desta alcuna preoccupazione quando esprime l’interconnessione delle nostre credenze. Il trilemma è da prendersi sul serio in situazioni eccezionali di totale disaccordo tra i disputanti. Lo scetticismo quindi non va inteso come la prova del fuoco alla quale la filosofia si sottopone risultando infine perdente e decretando la propria fine, ma come la battaglia che la stessa filosofia si riserva di combattere per affermare positivamente il proprio ruolo nella ricerca della verità. Lo scetticismo non è la prova del fallimento nella ricerca della verità e della fine della filosofia, al contrario la critica radicale della verità conduce a una riabilitazione della verità e a una riaffermazione della validità della ricerca condotta con il metodo scettico. Il nichilismo è l’interpretazione puramente negativa dello scetticismo. D’Agostini suggerisce una connessione, neppure tanto nascosta, tra il nichilismo del senso comune, come resa e complicità con il potere criminale, e il nichilismo filosofico, un atteggiamento distruttivo generale che si esprime in proposizioni la cui conseguenza è la rassegnazione all’impotenza e la rinuncia all’intelligenza del vero e alla prassi secondo giustizia.

“Niente è vero”, “Non esiste realtà”, “Non ci sono principi né valori”, “Niente ha senso” sono enunciazioni del nichilismo a tutto campo. Al nichilista non importa sapere che si autocontraddice nel dire che “non esiste alcuna verità”, se pretende di asserire qualcosa di vero e non privo di senso, perché il suo obiettivo è solo quello di distruggere e togliere valore e senso a tutto, compreso quello che dice lui stesso. Il nichilista non nega la verità, ma la stessa filosofia, il sapere in generale e l’esistenza di se stesso. Il nichilista infatti rifiutando l’autocontraddizione di “nulla esiste” (perché se fosse vero che nulla esiste non esisterebbe neppure il soggetto che lo enuncia), respinge l’unica obiezione inconfutabile alla sua tesi e preferisce il suicidio inteso come autoannientamento. Il nichilista estremo fa dell’autocontraddizione una prova dell’inconfutabilità della propria tesi: se la conseguenza di “nulla esiste” è che non esista neppure il soggetto che enuncia questa proposizione, ebbene, sia pure che non esista il soggetto che enuncia la proposizione; se la proposizione non esiste perché manca chi la enuncia, questo è una prova del fatto che nulla esiste, senza bisogno di dirlo, giacché per dirlo si dovrebbe enunciare l’impossibilità di farlo. Per il nichilista, che nulla esiste non è confutato, ma dimostrato dall’autocontraddizione del soggetto che lo enuncia. Per il nichilista è l’obiezione alla sua tesi che risulta contradittoria; infatti dal suo punto di vista rinfacciargli che, se fosse vero che nulla esiste, non esisterebbe neppure lui, significherebbe affermare surrettiziamente l’esistenza di qualcosa partendo dalla proposizione “nulla esiste”, la quale non dice affatto che devono esistere la stessa proposizione e il soggetto che la enuncia. Se non ci fosse nulla, prosegue il nichilista, se fosse vero che nulla esiste, non ci sarebbero neppure la proposizione e il soggetto che la enuncia. E se fosse così, nessuno potrebbe dimostrare niente, neppure che non c’è niente o che deve esserci qualcosa. Se partiamo dal presupposto che qualcosa deve esistere, conclude il nichilista, allora potrà valere l’obiezione allo scettico, come se fosse in gioco la sua stessa esistenza, che egli stesso non potrebbe mai negare. Ma la proposizione “nulla esiste” può benissimo non essere enunciata da alcun soggetto, e pur tuttavia essere vera in se stessa. “Nulla esiste” vuol proprio dire che nulla esiste e che nessun presupposto di esistenza è compatibile con il contenuto di questa proposizione. In fondo il nichilista stabilisce il primato meontologico rispetto a ogni discorso possibile: il nulla precede ogni discorso o teoria del nulla, compresa qualsiasi considerazione metateorica. Evidentemente il nichilista non pretende di dimostrare con argomenti razionali che nulla esiste, ma si limita ad affermare l’indimostrabilità della tesi opposta, che qualcosa esiste. Quindi, se l’obiettore pretende di coglierlo in contraddizione con argomenti razionali, il nichilista può mostrare che a contraddirsi è lo stesso interlocutore che volesse dimostrare qualcosa di indimostrabile. L’indimostrabile, che non può essere dimostrato, sarà necessariamente vero, secondo il nichilista. Il quale non pretende di dimostrare, ma di mostrare che nulla esiste. Che nulla esista è vero, anche facendo a meno del mostrare e di qualcuno che mostri; infatti la verità è tale in quanto sussiste in se stessa, senza bisogno di un soggetto che la enunci. Per il nichilista la verità di “nulla esiste” possiede tutti i requisiti della realtà in sé, in quanto esprime la perfetta coincidenza di verità e realtà, nel senso di uno stato di cose che sussiste indipendentemente dal soggetto che lo riconosce. Che nulla esiste può essere vero senza che sia realmente esistente qualcosa come il soggetto o la proposizione stessa: il nichilismo è coerente solo in virtù del suo realismo negativo, per il quale in principio c’è il nulla, che azzera ogni differenza di soggetto e oggetto, di forma e materia, e inghiotte preventivamente qualsiasi proposizione che lo riguarda.

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D’Agostini denuncia l’inconsistenza antifilosofica del nichilismo ricordando con Wittgenstein che “chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare” (p. 208). Si deve riconoscere tuttavia che il nichilismo si propone come un’esperienza che è impossibile dimostrare, perché ha la certezza di sé anteriore a qualsiasi enunciazione o ragionamento. L’indimostrabilità di tale esperienza non è una dimostrazione che nulla esiste, ma solo la rivelazione di qualcosa che si illustra da sé. Per questo il nichilista può rovesciare il tavolo e sostenere che a contraddirsi è il suo confutatore, il quale pretende di dimostrare ciò che il nichilista si limita a illustrare nella sua immediatezza e indimostrabilità. “Nulla esiste” non è una proposizione, ma un’esperienza: possiamo confutare razionalmente un’esperienza? Di qui l’errore di chi pensa di confutare lo scettico avvertendolo che si contraddice. Se volesse trarsi d’impaccio definitivamente, lo scettico, trascinato suo malgrado nell’argomentazione dialettica, potrebbe sempre fare un’opzione: dopo aver appreso che la verità di “nulla esiste” e la sua stessa esistenza di scettico sono incompatibili, potrebbe uscire di scena preferendo la non esistenza. E se lui non esiste, anche tutto il resto può essere azzerato dalla non esistenza. Non possiamo confutare un’esperienza, né col ragionamento né con un’altra esperienza. Indubbiamente il nichilismo è antifilosofico e rappresenta bene il risultato della trasformazione della via scettica, risorsa metodologica per il filosofare, in attività fine a se stessa.

In Nietzsche, come ricorda D’Agostini, il nichilismo è un modo d’essere di uomini che si preparano al passaggio verso un’altra umanità. In generale si può riconoscere nel nichilismo l’espressione della volontà di distruggere tutti i presupposti, di azzerare tutto, ma non allo scopo di contemplare il nulla, bensì per dare inizio a un nuovo mondo, per rifondare la realtà. Il nichilista sgancia la sua furia demolitrice per togliere di mezzo tutta la tradizione sedimentata, tutta la storia passata, giacché la realtà che nega non è che la concrezione e la rivelazione permanente di un lungo passato e di una vetusta tradizione culturale. Togliersi di dosso il peso del passato: a questo mira realmente il nichilista, che contrappone il pensiero all’azione, li dichiara reciprocamente incompatibili, mettendo al bando la conoscenza in nome dell’azione, della prassi, della volontà di potenza. Il fine dunque è la prassi, la filosofia nella sua radicalità essenzialmente scettica è un’attività provvisoria e distruttiva, per restituire alle persone una totale libertà di azione, di esperienza e di lotta. Sì, di lotta, perché un’azione vitalisticamente intesa che può finalmente fare a meno di principi, di valori, di razionalità, in ultima analisi: di verità, potrà appellarsi unicamente alla forza e alla ricchezza materiale per ottenere ragione, per avere la meglio, per sopravvivere nella moltitudine di soggetti impegnati a combattersi con la stessa logica di esclusione. Ogni uscita dalla filosofia si rivela pericolosa e ambigua. Il nichilismo è la distruzione a priori di ogni presupposto del filosofare, la pretesa di sostituire la filosofia con la vita stessa, nell’illusione che la verità coincida perfettamente con la realtà in se stessa, senza bisogno di alcuna mediazione teoretica, come se il pensare fosse un ostacolo alla verità e alla vita, che si vogliono immediatamente coincidenti. All’estremo opposto del nichilismo però non troviamo la ricerca filosofica, bensì lo scetticismo come pratica filosofica di analisi formale dell’argomentazione, come indugio compiaciuto e permanente nel labirinto delle antitesi, delle autocontraddizioni e delle antinomie. Se il nichilismo discredita e abbandona definitivamente la teoresi filosofica nell’illusione di immettersi completamente nella corrente della vita e dell’esperienza, lo scetticismo filosofico coltiva il progetto di rimanere definitivamente all’interno della filosofia, praticando di conseguenza l’astensione da ogni prassi e contatto diretto con la realtà, come se la filosofia fosse un “vizio assurdo” da cui evadere risulta impossibile, se si applica il principio di ragione sufficiente. Nel primo caso la verità è cercata fuori della filosofia, nel secondo all’interno della filosofia e negli artifici del pensiero. Ma la verità non è una proprietà dell’argomentazione, né del mondo là fuori. Il solo senso plausibile in cui parliamo di verità è quello che mette in relazione rappresentazione e realtà, pensiero e azione, teoria e prassi. Ecco perché nichilismo e scetticismo sono opposti. La filosofia deve preparare alla vita (e alla morte) e dunque non può certamente ridursi a ruminare senza interruzione teorie e ragionamenti, tesi, obiezioni e controbiezioni, senza diventare insensata. Sono due i modi in cui la filosofia perde il suo senso: rinunciando alla scepsi e rimanendovi rinchiusa. Il solo modo di rinunciare alla filosofia senza contraddirsi, come vuole il famoso argomento aristotelico, è quello di mettere a tacere la lingua e la ragione. La vera rinuncia alla filosofia non è il rifiuto di filosofare, è quell’abbrutimento che consiste nella rinuncia al pensiero. All’estremo opposto troviamo una pratica filosofica chiusa in un verbalismo autarchico e in una compiaciuta tergiversazione scettica che non raggiunge mai la vita e la realtà del mondo. Una filosofia autentica persegue l’intelligenza della realtà attraverso il pensiero, allenandosi a tenere congiunti senza confonderli i due poli di coscienza e mondo, soggetto e oggetto. Una filosofia che rinuncia a confrontarsi con l’esperienza è un pensiero senza contenuto, un soggetto senza oggetto.

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D’Agostini, accogliendo un’indicazione di Franco Volpi, concede al nichilismo un compito terapeutico, quello della liberazione non dai valori, ma dei valori dalle rigide convenzioni; se inteso in questo senso, il nichilismo sarebbe l’esercizio di una critica filosofica volta a smascherare le versioni ufficiali e pubbliche del Vero, del Giusto, ecc., allo scopo di preservare l’autenticità dei valori da qualsiasi contaminazione delle circostanze contingenti. D’Agostini cita quale esempio di epistemologia radicale, nel senso di un riabilitato nichilismo, il saggio Elusive Knowledge (1996) di David K. Lewis, il quale sostiene che la teoria della conoscenza distrugge la conoscenza, nel senso che mobilizza apparati teorici e li infrange per raggiungere progressivamente una migliore comprensione della realtà — una realtà che è sempre in evoluzione e irriducibile agli schemi del pensiero scientifico, che la filosofia ha il compito appunto di smantellare, tesi sostenuta già da Pavel Florenskij. Secondo Lewis, per sapere oltre ogni dubbio che p è vera, dovrei aver escluso tutte le possibilità alternative, condizione impossibile da soddisfare, perché per ogni p che ritengo vera possono esserci infinite altre proposizioni, vere a mia insaputa, che implicano non-p. Quindi non abbiamo mai conoscenza vera, pur avendo una gran quantità di informazioni vere in molti settori. Si deve ammettere allora che molte possibilità contrarie non possono essere escluse, ma possono essere ignorate. Le alternative rilevanti si possono determinare in base ad alcune regole metodologiche (attualità, credenza, somiglianza, affidabilità).

Mettiamo che qualcuno sostenga che p e un altro che non p e che entrambi adducano argomenti convincenti, tali che potrebbero dare loro ragione. Il paradosso consiste nel fatto che, secondo logica, la verità di p implica la falsità di non p, mentre qui p e non p sembrano entrambe vere. Possiamo accettare due verità opposte, in nome della tolleranza e partendo dall’apparente indecidibilità tra p e non p? La violazione del principio di non contraddizione può vestire i panni della politica ed essere acclamata come virtù suprema di apertura, tolleranza, benevolenza. Il relativismo è l’accettazione di una pluralità di posizioni, diverse tra loro e spesso incompatibili, la cui coesistenza si pensa che non abbia alternative in un sistema democratico e liberale. Per di più, alle tesi accolte in nome del pluralismo democratico non si chiede il passaporto di validità degli argomenti addotti da coloro che le sostengono, semplicemente sono ascoltate e accettate per il semplice fatto che esprimono una posizione di qualcuno. Tutte le opinioni si equivalgono, hanno diritto di cittadinanza, in base al principio della libertà di pensiero, di stampa e diffusione delle proprie idee da parte di chiunque. Il relativismo sembra quindi inevitabile. Del resto la contraddizione tra p e non p potrebbe essere irrilevante, se si potesse dimostrare che p escludendo non p, oppure che non p escludendo p. Se p sta per “la terra è un pianeta più grande di Giove” e non p sta per “il pianeta terra è più piccolo di Giove”, certamente la verità di non p spazza via p senza controversie di sorta. Se accettassimo entrambe in nome del pluralismo, cadremmo nel ridicolo. Infatti pretendiamo di poter verificare, empiricamente o per via argomentativa, quale delle due, se p o non p, sia vera. Lo stesso non accade per posizioni che riguardano l’etica, i rapporti sociali, la politica, dove il relativismo ammette qualsiasi posizione, purché non sia criminale in qualsiasi modo, senza preoccuparsi del conflitto per incompatibilità che sussiste tra tesi opposte. In determinati settori ciascuno può far valere qualsiasi posizione e quindi agire di conseguenza (ad esempio riguardo alle scelte sessuali, all’uso di droghe, ecc.), senza che gli sia imposto l’obbligo di dimostrare di aver ragione. A chi sostiene p e a chi sostiene non p nell’ambito dei diritti umani non è richiesta alcuna giustificazione o dimostrazione, perché si parte dal presupposto che la sua tesi debba essere rispettata e accolta come vera, in nome della libertà originaria della persona. Ma la teoria delle molte verità, avverte D’Agostini, equivale a sostenere che “tutto è contraddittorio” e “tutto è vero”: una posizione già difesa dai sofisti greci, ma autocontraddittoria, perché se fosse vera implicherebbe anche che esiste qualche p vera la cui negazione è falsa (p. 219). Avremmo in sostanza una teoria che implica la propria negazione. Bisogna quindi distinguere, ma con quale criterio di selezione? Dato che il pluralismo delle tesi può comportare anche la differenza massima, cioè l’opposizione e il conflitto, deve essere possibile ridurre a due le alternative, qualunque sia il numero di proposizioni asserite. In rapporto alla conoscenza e alla vita associata, spiega D’Agostini, è importante verificare quali tesi sono incompatibili con p, una volta che p sia stata accettata e convalidata in quanto indiscutibile (p. 221). A questo punto è fin troppo facile osservare che su fatti evidenti si può trovare un accordo mediante una verifica. Ma quando si tratta di valutare gli stessi fatti, mettendoli in relazione a valori, il disaccordo può essere insanabile. Nessuno dubita che Saddam Hussein è stato giustiziato mediante impiccagione, ma può esservi disaccordo insuperabile riguardo alla pena di morte che gli è stata inflitta e alla pena di morte in generale. Sulla base di una verità fattuale unanimemente riconosciuta, è possibile esprimere valutazioni contrastanti ovvero interpretazioni. Il ruolo dell’interpretazione è rilevante, ma non tale da occupare tutto il campo, spazzando via tutti i fatti, come vorrebbe l’ermeneutica di Gianni Vattimo. Le interpretazioni presuppongono qualcosa che non lo sono, così come le valutazioni fanno capo a descrizioni di fatti oggettivamente intesi. Nell’esempio citato, la pena di morte inflitta a Saddam Hussein è un fatto oggettivo. Il giudizio è soggettivo: è stato giusto infliggerla a Saddam? Ma il valore di riferimento, la giustizia, è formalmente lo stesso, declinato nelle diverse, talora opposte accezioni (ritorsione/vendetta, risarcimento del danno, rieducazione/perdono) La diversità dei giudizi è anche la conseguenza del modo in cui i giudizi sono formulati, secondo la loro struttura di rapporto soggetto-predicato. Ogni giudizio stabilisce un rapporto sintetico tra entità differenti, come un certo fatto e un certo valore, i cui concetti sono separati. Qualcosa di simile accade nel giudizio estetico, che stabilisce ogni volta un rapporto tra un certo valore, la bellezza, e un certo oggetto, l’opera d’arte; e i giudizi differiscono da un soggetto all’altro per la semplice ragione che l’idea di bellezza non contiene analiticamente i concetti delle opere d’arte ritenute belle. Ciò che è bello, come ciò che è giusto o buono non lo è analiticamente, ma sinteticamente: nessun concetto di un oggetto contingente è contenuto a priori in una nozione più ampia. Solo l’esperienza soggettiva introduce l’elemento che fa la differenza; e nella misura in cui le esperienze soggettive sono simili, avremo giudizi convergenti, ma senza universalità in senso proprio, giacché quella è possibile solo con i giudizi analitici, la cui verità prescinde dai singoli soggetti. Un’osservazione va fatta a integrazione dell’analisi di D’Agostini: la proprietà o la forza non sono valori in sé, ma solo dei dati di fatto in chi li possiede. Invece il diritto di proprietà o l’inviolabilità della proprietà è un valore nel senso che esprime il diritto di ciascuno a vedersi riconosciuta l’integrità personale in tutte le sue estensioni e determinazioni. Il diritto all’autodifesa è quindi universale; l’inviolabilità della proprietà vale per tutte le concezioni di natura ideologico-politica, comprese quelle che prevedono la soppressione della proprietà privata; in questi ultimi il diritto di proprietà rimane un valore assoluto, ma ristretto alla sfera fisico-corporea e spirituale. La lealtà è un valore in qualsiasi regime o sistema, solo che può subire ampliamenti o restrizioni a seconda della situazione sociopolitica in cui è richiesta o fatta valere: un regime dispotico prevede infatti la delazione come autentica forma di lealtà al potere costituito, l’opposto accade nei sistemi liberali, dove si mette in primo piano la tutela della persona e la lealtà tra individui. Qualunque sia la questione affrontata, si può osservare che la difesa della propria posizione viene condotta in diversi contesti in base ad argomenti che fanno appello a valori universali, ma applicati in base a diverse accezioni.

D’Agostini cita l’esempio di Martha Nussbaum, la quale sostiene che il divieto dell’uso del burqa nei luoghi pubblici, è un provvedimento ingiusto, perché discriminatorio, imposto da alcuni stati europei con il pretesto della sicurezza e con l’argomento che il burqa sarebbe espressione dell’oppressione maschile. Anche qui vediamo che il disaccordo riguarda giudizi di valore, fermo restando che la non discriminazione, la sicurezza e l’emancipazione dal potere maschile sono comunque confermati come valori assolutamente condivisi, sia da chi condanna sia da chi approva il provvedimento riguardante il burqa. Il disaccordo non riguarda né il provvedimento relativo al burqa come dato di fatto, né i valori fondamentali in rapporto ai quali alcuni condannano, altri approvano quella misura restrittiva. Può essere di aiuto al superamento del disaccordo la consapevolezza che ciascuno deve avere del carattere controvertibile del proprio giudizio di valutazione, in rapporto alla necessità di tener conto anche del giudizio degli altri. Il disaccordo sui giudizi di valore non è tale da implicare che uno dei due è in errore; la differenza di valutazione non è un errore in sé, lo è se il giudizio riguarda l’esistenza o non esistenza di determinati fatti o circostanze oggettive. Ad alcuni uomini piacciono le bionde, ad altri le more: c’è forse un difetto di comprensione dell’idea di bellezza negli uni o negli altri? No, semplicemente un’innocua differenza di gusto, certamente non una contraddizione nel senso della logica. Per questo è discutibile la tesi di D’Agostini riguardo ai giudizi di gusto, dove il disaccordo, a suo avviso, comporterebbe vere e proprie contraddizioni; e si tratterebbe quindi di adattarsi all’idea di dover ammettere che una proposizione sia vera e anche la sua negazione. La logica sarebbe allora in conflitto con la tolleranza della differenza? Proviamo invece a distinguere tra giudizi d’esistenza e giudizi di valutazione: i primi possono essere veri o falsi, i secondi né veri né falsi, dacché essi fanno valere un’interpretazione, un punto di vista, che come tale non può proporsi come suscettibile di essere vero o falso. Come ho già fatto osservare, il disaccordo tra giudizi di valutazione è fisiologico e insuperabile (naturale e necessario, si potrebbe dire): qui non esiste contraddizione in senso stretto, ma solo contrasto e idiosincrasia, il che non impedisce la pacifica convivenza, almeno nella maggior parte dei casi.

I giudizi che chiamo d’esistenza riguardano i fatti, la realtà indipendente dal soggetto; l’antirealismo interpreta l’indipendenza nei termini di inaccessibilità. Le ragioni per cui questo accade sono poche, secondo D’Agostini: la molteplicità delle immagini o punti di vista dello stesso oggetto può creare l’illusione o credenza ingiustificata che esista un oggetto in sé, differente dalle prospettive in cui è conosciuto e quindi assolutamente inconoscibile; la difficoltà di stabilire se sia vero ciò che ci sembra vero; la solitudine dell’io, per cui ogni esperienza è solo sua, non condivisibile, assunto che è all’origine del fenomenismo, la teoria secondo la quale accessibile è solo l’apparenza, non la realtà in se stessa. La distinzione tra apparenza e realtà all’origine della posizione antirealista, è tuttavia il risultato di un’inferenza, non è empiricamente fondata, come invece si è indotti a credere. Se veniamo a sapere che a un Tizio, conosciuto come persona onesta, è attribuito un crimine x, aggiungiamo un “in realtà Tizio ha commesso x”, come se la seconda forma di conoscenza del medesimo soggetto ci offrisse quel che lui è veramente. Ma può essere che la prima e la seconda e tutte le altre apparizioni di quel soggetto siano rappresentazioni successive, tutte attendibili e incoerenti tra loro, della stessa persona. Non abbiamo alcun bisogno, a rigore, di stabilire una realtà dietro l’apparenza, tranne la necessità di ordine pratico di fissare l’identità stabile del soggetto con cui abbiamo a che fare. Per quanto riguarda la solitudine del soggetto e l’incomunicabilità della sua esperienza, si può osservare che se la solitudine del soggetto fosse una condizione assoluta, non avrebbe quel nome e quel significato. Possiamo definirci soli nella misura in cui siamo consapevoli delle mosse che possiamo effettuare per uscire dalla nostra condizione di solitudine, cui non siamo condannati. Deve esserci quindi una condizione di non solitudine rispetto alla quale “solitudine” acquista un significato preciso.

I sostenitori del primato dell’interpretazione, per cui i fatti non esistono, combattono l’ontologismo con l’accusa di metafisica. Sì, perché la cultura della non verità, per usare l’espressione di D’Agostini, aborrisce la metafisica, che vede ovunque si parli di verità, realtà, fatti, oggettività, essere, ecc. Il relativismo antimetafisico pretende di dissolvere ogni riferimento preciso, ogni senso univoco e ogni oggettività possibile. Se esiste una realtà indipendente, allora sarà intrinsecamente inattingibile: così taglia corto l’antimetafisico e antirealista (come Putnam, Rorty, Vattimo) per il quale ci sono tante verità, vale a dire punti di vista quanti sono i soggetti sul pianeta. Ma, tanto per intenderci, non c’è peggior metafisico di chi perora la causa dell’antimetafisica. In fondo l’antirealista sostiene una visione del mondo, a parte il fatto che alla sua pretesa si può rivolgere la vecchia e consueta obiezione: se la proposizione “ci sono molte verità” è una di quelle verità, allora tra queste ci sarà anche la sua negazione. Dunque sostenere che ci sono molte verità implica necessariamente che esista una sola verità, quella che viene enunciata riguardo l’esistenza di molte verità. Anche mettendo il veto all’autoriferimento, l’esistenza di molte verità dipende da una sola proposizione la cui verità è incontrovertibile. Infatti la stessa proposizione con la quale poniamo il veto all’autoriferimento stabilisce qualcosa di incontrovertibile, che viene fatto valere universalmente e invariabilmente.

D’Agostini riporta la tesi di Putnam, per cui l’ontologia è “un cavallo morto”. In polemica con Quine, Putnam sostiene che cercare un fondamento metafisico dell’etica o della matematica è sbagliato, perché non c’è una sola realtà; inoltre l’ontologia presuppone che ci sia un solo significato del termine “esiste”, mentre la storia della scienza dimostra che non è così; infine chi si comporta come se vi fosse una realtà indipendente, non si rende conto che sta cavalcando un cavallo morto da un pezzo, il “cadavere maleodorante” dell’ontologia (p. 247). Con D’Agostini possiamo obiettare che la tesi di Putnam, per cui non c’è un solo modo in cui stanno le cose e che non esiste una sola realtà, indipendente dal soggetto, è a sua volta una tesi ontologico-metafisica. Ci troviamo di fronte a un esempio di circolarità procedurale: in base a un’ontologia preliminare, assunta acriticamente, Putnam esprime il suo giudizio di condanna dell’ontologia tradizionale. Con Kant si deve ricordare che la metafisica ha un carattere inevitabilmente problematico; inoltre una dichiarata rinuncia alla metafisica comporta l’adesione a un dogmatismo metafisico che taglia corto, senza discutere, con qualsiasi questione riguardante un qualche tipo di esistenza delle entità della vecchia metafisica. «È solo una certa concezione dell’essere, conclude D’Agostini, (del modo d’essere dell’uomo, e del mondo), assunta inconsapevolmente e dogmaticamente, che ci permette di dire che la correlazione tra discorsi e realtà è impropria o addirittura, come sostiene Putnam, “pericolosa”» (p. 251).

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Nella quarta parte del volume D’Agostini esamina l’uso del predicato Vero in alcuni contesti particolari, mostrando come il concetto di Vero diventi esplicito quando la verità non è riconosciuta e persiste una situazione d’incertezza e di contraddizione tra i diversi discorsi sulla verità. D’altra parte l’argomentazione scettica mette alla prova la nozione e l’esistenza della verità. La storia della filosofia mostra come l’esercizio della ragione filosofica sia essenzialmente una versione dello scetticismo. L’obiezione ai concetti fondamentali di vero, giusto, buono viene posta allo scopo di mostrare la loro inconfutabilità. Se tutto è vero, allora niente è vero e quindi qualcosa non è vero. La riflessività dei concetti fondamentali permette di confutare definitivamente il relativismo, che pretende non esservi alcuna verità o giustizia.

Il rapporto della verità con la politica e la religione è certamente problematico e non esente da equivoci. Chi abbraccia una fede aderendo acriticamente al dogma costituito si espone al conflitto che nasce dalla duplice esigenza di mantenersi fedeli al credo prescelto e al tempo stesso di metterlo in discussione e di riformarlo, al limite di abbandonarlo, qualora l’esperienza e nuove conoscenze obbligassero una mente razionale alla revisione critica dei contenuti precedentemente condivisi. La verità è un principio guida, un’aspirazione mai completamente soddisfatta, non una dottrina chiusa e immobile. Se il sapere riguarda la realtà e se non c’è realtà al di fuori dell’esperienza, allora anche la verità del sapere si costruisce nel tempo. La verità che si costruisce nel tempo è un mettere alla prova, vivere e rivivere ciò in cui si crede, rinnovandone ogni volta il senso. Un sistema di credenze rimane sterile se è concepito astrattamente, nella sua univocità semantica, come un insegnamento immobile, quasi che il discente avesse quale suo unico compito quello di impadronirsene con l’intelletto. Al contrario, l’essere vero è un diventar vero, un inverarsi di insegnamenti che sono vissuti ogni volta come nuovi. Il rapporto con la verità degenera e decade in una falsità imbellettata se si limita alla venerazione di una teoria già archiviata come inconfutabile, mentre la vita evolve e va oltre assumendo nuove forme. Il rapporto autentico con la verità è ogni volta un’esperienza che coinvolge il cuore e la sensibilità: il significato della dottrina rimane lo stesso, ma il suo senso è ogni volta diverso. Di volta in volta, l’applicazione dello stesso principio — ad esempio: “essere occasione di riscatto o liberazione per il prossimo” — può dar luogo a comportamenti opposti; in un caso la fedeltà al principio può comportare l’elargizione di un bene materiale (quando quell’aiuto possa rappresentare per il beneficiario la sola possibilità di acquisire maggiore libertà e autonomia), in un altro caso la stessa fedeltà al principio ricordato potrebbe consigliare il rifiuto di qualsiasi adempimento in tal senso (se l’aiuto concesso nel caso specifico non favorisse l’emancipazione autentica, ma accentuasse la dipendenza e la passività del potenziale beneficiario).

La ricerca autentica della verità ha indotto Simone Weil a dichiararsi favorevole alla soppressione dei partiti politici. D’Agostini riporta l’argomento esposto da Simone Weil nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici, per cui i seguaci di un partito si trovano presto nell’impossibilità di rimanere fedeli al programma politico e al tempo stesso rispettare la verità che emerge da nuove evidenze. Alla domanda su quale sia il modello dei partiti politici europei, che difendono una posizione utile alla conquista e al mantenimento del potere, Simone Weil risponde: la Chiesa Cattolica, che nella sua lotta contro l’eresia avrebbe introdotto “il meccanismo di oppressione spirituale e mentale proprio dei partiti” (p. 272). In tal modo l’adesione a un partito obbliga a venir meno al dovere di prendersi cura della propria libertà di pensiero e di seguire una ricerca personale. L’obbligo di credere nel dogma, se assecondato, assicura una condizione di schiavitù spirituale e una negazione della verità nel senso autentico del termine, quello che è in relazione con la costruzione della propria persona. Ecco la sfida: essere se stessi attraverso gli altri, essere uno e molti, portarsi fuori e rimanere all’interno di se stessi, rinnovarsi ad ogni nuova esperienza e tuttavia non rinnegarsi, sapendo che non si è una totalità immobile e indipendente, ma neppure una marionetta mossa dai fili del burattinaio. Il bisogno di appartenenza e stabilità è soddisfatto dalle chiese e dai partiti, ma al tempo stesso rimane irriducibile un’esigenza di autonomia critica rispetto alla verità, senza la quale le persone non esisterebbero, mentre chiese e partiti manifesterebbero tutta la loro natura totalitaria. L’obiettivo della critica filosofica di Simone Weil quindi, secondo D’Agostini, è stato quello di mantenere vivo il senso della verità, in rapporto alla politica e alla religione. I partiti e le chiese non hanno interesse a escludere lo spirito critico e a punire il dissenso, giacché la storia dimostra che il dogmatismo autoritario apre fatalmente la strada alla dissidenza e alla secessione. La verità è sempre emergente, è sempre in cammino, come la vita stessa. L’apertura alla verità non va confusa con lo scetticismo relativizzante che, come è stato osservato, è un atteggiamento mentale insieme dogmatico e autocontraddittorio. Dogmatismo e autocontraddizione che troviamo anche nei programmi di partiti e chiese.

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Ricapitolando le conclusioni della sua ricerca, D’Agostini enumera le caratteristiche della nozione di verità. In primo luogo la sua dispensabilità: invece di dire “è vero che Dio esiste” posso dire “Dio esiste”, senza alcun cambiamento di significato; ma quando la verità di un enunciato è messa in discussione, allora la prima formulazione diventa inevitabile, e può precedere l’esposizione di una prova di verità (nel nostro esempio, le prove dell’esistenza di Dio). Altra caratteristica del concetto di vero è la sua ubiquità: qualsiasi asserto può essere pronunciato senza alcun riferimento alla verità di ciò che viene asserito. Ogni nostro asserto postula la verità di quanto viene detto, di qualsiasi cosa si tratti. Persino un enunciato la cui falsità è universalmente riconosciuta si presenta postulando il proprio esser vero, prima di essere smascherato come falsificazione intenzionale oppure come errore involontario. Come rileva D’Agostini, a questa caratteristica si può ricondurre la refrattarietà alla confutazione propria dei superconcetti (essere, bene, vero) il loro essere anelenctici: «Impossibile dire che “nulla esiste”, perché per dirlo occorre esistere; impossibile dire niente è bene, perché allora deve comunque essere bene (veritiero, giusto) dirlo, impossibile dire che la verità non esiste perché allora deve essere vero che la verità non esiste» (p. 333). E dato che l’innegabilità non è un mero gioco sintattico privo di contenuto, la caratteristica della trasversalità di Vero sottolinea il riferimento ai fatti, sulla cui verità può essere trovato un accordo, in base a varie testimonianze. La nozione di vero mostra così la sua inaggirabilità qualunque sia l’argomento oggetto di discussione: è sempre sui fatti che si decide la verità, tutti cercheranno di capire quale sia la proposizione che aderisce alla realtà dei fatti, quella che corrisponde a come stanno le cose. Ora, sul fatto che ci sia un modo in cui stanno le cose, molto si è discusso e opposte sono le conclusioni. Potrebbe non esserci alcun modo indipendente dall’interpretazione del soggetto. Oppure potrebbe esserci una realtà indipendente, sia essa data per conoscibile o inconoscibile. Il concetto di vero è strettamente correlato all’esistenza di una realtà indipendente, giacché se non esiste una realtà in sé, il valore di verità della proposizione che l’afferma e di quella che la nega diviene per ciò stesso indecidibile e non varranno più i principi di contraddizione e terzo escluso. L’uso del linguaggio ci presenta proposizioni che non sono né vere né false, oppure vere e false al tempo stesso. D’Agostini ricorda che, secondo alcuni, non ci sono proposizioni né vere né false, tranne quelle il cui valore di verità non può essere deciso a causa di nostri limiti conoscitivi (ad esempio un certo evento che accade su Marte, ma di cui non sappiamo nulla, neppure se accade, può esprimersi in una proposizione che, di conseguenza, non sarà né vera né falsa). Inoltre, accettando la proposta del dialeteismo, possiamo ammettere che in taluni casi certe proposizioni siano vere e false al tempo stesso: l’argomento vale per le situazioni di confine, come quando diciamo che, attraversando il confine dall’Italia alla Francia e per il tempo in cui non siamo più in Italia e non siamo ancora in Francia, è vero e falso che siamo in Francia. Se la situazione descritta è inverificabile, allora la proposizione che la descrive è vera e falsa. Se fosse vera la tesi che esiste una realtà indipendente e inaccessibile, allora la nozione di vero sarebbe priva di senso. Ma si tratta appunto di dimostrare che la realtà indipendente è inaccessibile. Se ammettiamo che ogni nostra percezione della realtà è determinata dalla situazione corporea, psicologica e ambientale in cui ci troviamo di volta in volta e che quindi ogni realtà conosciuta è qualcosa di particolare, legato al qui e ora e alle proprietà della nostra persona, allora la realtà, nella misura in cui è indipendente, è anche inconoscibile. Il limite della soggettività percettiva riguarda il singolo individuo nei suoi diversi stati (dormiente, sveglio, malato, sano, giovane, vecchio, maschio, femmina, ecc.), ma coinvolge anche le differenze tra gli individui della stessa specie e persino quelle tra le abilità percettive di specie diverse. Come è noto gli scettici antichi hanno elaborato tropi ingegnosi per illustrare il limite insuperabile rappresentato dalle diverse modalità conoscitive strettamente dipendenti dalla costituzione soggettiva. Ma gli argomenti dello scettico sono metodologicamente utili per approdare a un realismo critico, non per retrocedere a un nichilismo rinunciatario. D’Agostini sottolinea la coerenza del nichilismo con la cultura della non verità. Senza ripetere le autocontraddizioni delle tesi nichiliste, si può osservare che l’affermazione dell’esistenza di una realtà indipendente non è incompatibile con una vasta pluralità di posizioni percettive e teoriche su di essa, come ciascuno di noi può sperimentare facendo esperienze diverse, ogni giorno o in momenti differenti del tempo, della medesima realtà. Il che dimostra che le modalità soggettive non sono un ostacolo assoluto alla conoscenza della realtà, al contrario offrono buoni motivi per comprendere che ogni nostra conoscenza può essere oggettiva e incompleta, approssimata eppure in crescita costante.

La verità, come tutti i trascendentali, entra in gioco quando, scetticamente, qualcuno insinua il dubbio, si dichiara in disaccordo, mette in discussione e chiede di capire meglio il significato dei termini impiegati dall’interlocutore. Sollevo la questione della giustizia quando osservo qualche violazione di ciò che io ritengo essere la giustizia. Chiedo spiegazioni sulla nozione di bene quando metto in discussione un giudizio ascoltato su qualcosa che sarebbe bene, ma che per me è l’esatto opposto. «Tutti i superconcetti filosofici, conclude D’Agostini, sono strutture critico-scettiche, costituiscono in un certo senso nomi di problemi, e servono precisamente a orientare i ragionamenti in casi di perplessità e divergenze» (p. 338). I superconcetti sono i principi guida del pensiero critico, le armi alle quali la coscienza critica ricorre per difendersi dalla violenza, dalla sopraffazione, dall’ingiustizia del mondo. Dunque è un grave errore, secondo l’autrice, assegnare i superconcetti (vero, essere, buono, giusto, bello, ecc.) alle istituzioni della scienza, della religione, della politica, dell’arte; ma, aggiungiamo noi, neppure a individui concreti o a qualsivoglia entità del mondo, perché i trascendentali non designano qualità di cose esterne alla mente, essi sono elementi dell’attività del pensiero. In epoca moderna il nichilismo appare la conseguenza del crollo di istituzioni politiche e religiose che erano identificate con i superconcetti. Nella fase postilluministica, la coscienza individuale ha subito quel crollo delle istituzioni come smarrimento dei superconcetti. Liberata dal giogo di istituzioni che si annunciavano come incarnazioni dei superconcetti, la coscienza individuale ha vacillato a lungo disorientata perché priva di stampelle rappresentate dalle istituzioni. La vastità inaudita del sapere congiunta all’assenza di criteri d’ordine e di orientamento, avrebbe predisposto la coscienza comune al nichilismo scettico (p. 339). Lo scetticismo non è riuscito a demolire la nozione di verità, al contrario l’arma che le puntava alla tempia ha prodotto effetti opposti: la verità si è rivelata indistruttibile in vari modi, come mostra l’impossibilità di asserire senza contraddizione la verità di “io non esisto”, giacché evidentemente se fosse vero che non esisto, non potrei asserire alcunché. E questo dipende dal fatto che i superconcetti appartengono al lavoro del pensiero, non alla realtà e l’attività dello scettico non è altro che puro pensiero pensante. L’attività di pensiero dell’io conferma l’esistenza di un essere pensante che dubita dei trascendentali per confermarli. E tuttavia, liberata dal giogo di poteri falsificatori della verità e del bene, rivelatisi vuoti simulacri, la coscienza comune ha dovuto affrontare il calvario scettico ritrovando in se stessa l’origine e il vero significato dei superconcetti. Il confronto tra soggetti in disaccordo ma tutti convergenti nell’interesse comune di una ricerca del bene e della verità, è un esercizio di filosofia e di cittadinanza democratica.