Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale, prefazione di Vincenzo Fano, Mimesis, Milano-Udine 2012.
Sulla copertina del volume di Paolo Taroni domina la riproduzione fotografica dell’opera di Marcello Landi, L’ombra del tempo sostiene il mondo, 2002, opera inedita realizzata a pastelli, carbone e fumo su raso intelaiato + coprolito in rilievo; dimensioni: 130 x 130. «Il quadro, spiega la didascalia, rappresenta una sorta di mappamondo ricavato da una conchiglia su raso iridescente. Il fumo rappresenta il piedistallo su cui si regge il mondo e indica la relatività del fondamento e — insieme — l’ombra del tempo, cioè il mistero del tempo la cui definizione sfugge e si confonde, come il fumo nell’aria, ma la cui essenza — come quella del tempo — è la trasformazione incessante e il continuo mutamento e movimento. Il fumo sostiene il coprolito, di cui non si conosce la provenienza, probabilmente africana, né la datazione precisa, sebbene risalente ad alcuni milioni di anni fa. La presenza di un oggetto naturale cosí remoto intende rendere l’opera il quadro piú antico, pur essendo vicino al presente, e indica simbolicamente la natura precedente il tempo dell’uomo e della storia, quando non poteva esistere alcun “concetto” di tempo. La domanda che l’opera vuole porre è la seguente: esisteva un tempo prima che esistesse l’uomo a viverlo, percepirlo e concepirlo? » (Taroni, p. 4).
In un volume ponderoso, che supera le settecento pagine, l’autore prende in esame le diverse concezioni del tempo dai presocratici fino ai nostri giorni. Lo fa con brio ed eleganza, oltre che con la consolidata competenza di uno studioso ormai di lungo corso, che ha dedicato alla tematica temporale numerosi studi e saggi. Un’opera come questa di Paolo Taroni presuppone non solo una preparazione filologica di ampio respiro in ambito storico-filosofico, ma anche le competenze pluridisciplinari della psicologia, della fisica, della matematica e dell’epistemologia. Non sembri facile né scontato il fatto di saper attraversare paesaggi concettuali eterogenei, dai Presocratici ad Einstein, cogliendo gli elementi di continuità e di discontinuità tra le diverse interpretazioni del fenomeno temporale, senza trascurare il contesto teorico e la peculiare tradizione filosofica in cui si colloca la riflessione sul divenire temporale!
La riflessione sul tempo è difficile e complicata come ogni atto di coscienza. Noi viviamo per lo più di automatismi e di abitudini apprese. Ed è bene che, normalmente, gran parte dei nostri apprendimenti primari se ne stia nell’inconscio, giacché portarli a coscienza, divenirne consapevoli incepperebbe l’esecuzione delle abilità corrispondenti. Una riflessione consapevole sul fatto che stiamo pedalando non ci rende più abili o attenti o reattivi al mutamento del terreno che stiamo percorrendo in bicicletta, ma potrebbe anche farci scivolare e cadere. Viviamo nel tempo come camminiamo sulla terra ferma o nuotiamo nel lago. Di solito ci basta sapere dove siamo oppure che ore sono. Se ci chiediamo quanto tempo ci rimane da un certo momento alla conclusione di un evento al quale stiamo partecipando, vuol dire che non siamo a nostro agio. Ad esempio stiamo assistendo a un film che ci annoia o disturba, non vediamo l’ora che finisca, quindi calcoliamo il tempo da qui alla fine. Una volta usciti dalla sala cinematografica, siamo sicuri che la vita riprenderà il suo corso gioioso, faremo cose interessanti senza rifletterci su, senza chiederci quando finirà ciò che stiamo vivendo in quel momento, oppure saremo costretti a estendere la nostra insoddisfazione all’intera esistenza? Se siamo anima e corpo perfettamente adattati alla vita non percepiamo qualcosa come il tempo che scorre. In tale condizione di felicità esistenziale il tempo è vissuto e noi siamo dentro la sua corrente, come potremmo essere alla guida di un’automobile che ci porta dove vogliamo. E se le cose vanno bene, non pensiamo né al tempo né all’automobile. La coscienza si mette in moto quando l’organismo avverte un disagio: la riflessione sul tempo è la spia di un disagio esistenziale, la conseguenza della dilatazione della coscienza, sempre più invadente, curiosa, problematica, critica, proprio nella misura in cui il soggetto ha perduto la sintonia con la realtà del mondo. Il senso di efficacia che di solito è trasmesso dall’inconscia esecuzione di normali attività della vita quotidiana, una volta inceppato, promuove la riflessione della coscienza sul divenire e sul tempo.
Tuttavia, mentre il nostro inconscio è adeguato a vivere e operare nel tempo, la nostra coscienza non incontra lo stesso successo a pensarlo. Lo dimostrano le aporie e i paradossi che nella storia del pensiero, a più riprese, hanno costretto le teorie filosofiche sul tempo a dichiarare fallimento o, comunque, a ridurre fortemente le loro pretese esplicative. Forse l’insuccesso è dipeso dal fatto che la coscienza, prima di tutto, è mistero a se stessa. E un mistero dovrebbe riuscire a spiegarne un altro? Oppure possiamo anche dire che la coscienza è una disfunzione o la conseguenza di una disfunzione dell’organismo nel suo rapporto con la realtà e il tempo. E che la riflessione sul tempo cerca di ricomporre un’armonia perduta, di ricostruire un nuovo adattamento, di natura concettuale, al flusso temporale. Ma innanzi tutto, la coscienza si trova a dover fare i conti con l’oggettivazione — separazione e distacco — del flusso temporale, pur continuando, di fatto, a farne parte. Non è già questa una contraddizione? Poi, rappresentandosi il divenire temporale come conditio sine qua non di qualsiasi movimento, può chiedersi se possa esistere il tempo senza il movimento, quel movimento di cui il tempo, secondo la nota definizione aristotelica, sarebbe la misura secondo l’ordine del prima e del poi. Una più attenta riflessione obbliga allora a riconoscere che la misura presuppone il misurante, nel nostro caso l’anima. Senza l’anima il tempo non sarebbe percepito, ma non si può dire che il tempo abbia un’esistenza esclusivamente soggettiva. Risulta difficile sostenere un soggettivismo che non riconosca alcuna realtà al tempo in sé, dal momento che il soggetto deve poter concepire una temporalità oggettiva, che prescinda dalla durata della sua vita effimera. Ancora, il tempo non può essere pensato come un processo che ha inizio e fine, perché stabilito un inizio, dobbiamo pensare a un prima, e stabilita una fine, dobbiamo supporre un dopo. Se il tempo corrompe ogni cosa, è a sua volta corruttibile oppure invece eterno e incorruttibile? E se fosse corruttibile, non avendo natura propria indissolubile, di che cosa sarebbe imitazione? E l’imitazione potrà essere difforme dal modello pur continuando a esserne imitazione fedele? La tentazione poi di concepire il tempo come non essere, per togliere di mezzo tutte le contraddizioni che lo rendono inafferrabile, si presenta più volte nella storia del pensiero, da Parmenide agli scettici a John McTaggart. Il passato non è più, pur essendo stato futuro e presente; il futuro non è ancora, ma sarà presente e passato; il presente è stato futuro e sarà passato, ma non ha durata: non è forse questa una dimostrazione dell’irrealtà del tempo?
La realtà del tempo è solo vissuta, non appena esso è fatto oggetto di riflessione sorgono dubbi pressoché insolubili sulla sua natura, proprio in conseguenza della pretesa di poterlo studiare e comprendere prescindendo dalla connessione simpatetica o sintonia con il mondo, come direbbe Minkowski. Il richiamo all’autore di Le temps vécu. Études phénoménologiques et psychopathologiques, 1933 (trad. it., Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, di G. Terzian, Einaudi Torino 1971 e 2004, pubblicato su licenza per Corriere della sera, con prefazione di Vittorino Andreoli, RCS quotidiani, Milano 2011) permette di ricordare, a questo punto, un saggio d’importanza storica fondamentale, dove l’incontro di Bergson e Husserl predispone lo scenario categoriale in cui Minkowski inserisce le sue analisi. L’esordio di Minkowski nell’introduzione è un annuncio significativo: «quello del tempo e dello spazio è il problema centrale della psicologia, della filosofia e direi addirittura di tutta la cultura contemporanea». La fenomenologia di Husserl consente di studiare i fenomeni vitali in se stessi, prescindendo da qualsiasi apparato categoriale o premessa; la filosofia di Bergson, contrapponendo l’intuizione all’intelligenza, il tempo allo spazio, dimostra come il problema del tempo sia per tutti la questione più essenziale e personale. Intuizione del tempo significa essere immersi nel flusso del divenire vitale, mentre l’intelligenza tenta l’impresa di uscire dal flusso temporale per assumerlo a oggetto d’indagine, quindi di rimanervi all’interno e, insieme, di collocarsene al di fuori. Il tempo ci si presenta come fenomeno primitivo, come mutamento incessante. Il pensiero è adatto a pensare l’essere, non il divenire. Il divenire è inaccessibile alla conoscenza, al pensiero discorsivo, proprio per la sua natura refrattaria all’analisi intellettuale. In questo senso il divenire è irrazionale, come dimostrano le tipiche argomentazioni che incontriamo nella storia del pensiero, volte a dimostrare che il tempo è contraddittorio in se stesso. Ma l’argomentazione relativa all’irrealtà del tempo, cui si è accennato sopra, secondo Minkowski «serve solo a dimostrare che il tempo diventa un puro nulla se lo si considera dal punto di vista della logica; essa dice unicamente che il tempo è irrazionale nella sua stessa essenza, che esso viene ridotto a nulla se gli si applicano i principi del pensiero discorsivo e che, di conseguenza, non deve in nessun caso essere affrontato da questo punto di vista» (Minkowski, p. 21). Si dovranno dunque adottare metodi più adatti a cogliere la natura del tempo. Sulle orme di Bergson, Minkowski osserva che la fisica studia la realtà del divenire con la metodologia analitica dell’intelletto, scomponendo il movimento in diversi momenti di stasi, di immobilità, la cui somma, naturalmente, non può darmi alcun movimento. Senza il presente della coscienza non avremmo alcun tempo su cui riflettere: il futuro sarà presente e passato, il passato è stato futuro e presente. Ma la stessa nozione di presente non è originaria. L’azione è nel presente, ma sappiamo di essere nel presente solo mediante una narrazione che si aggiunge quindi all’azione stessa. «Quando dico “è il mio presente”, Io non faccio che una narrazione sia a me stesso sia ad altri della mia azione, nel momento stesso in cui la eseguo. Così il presente è un racconto dell’azione che noi facciamo mentre stiamo agendo. Il presente è un atto particolare che riunisce la narrazione e l’azione. E siccome nel presente c’è narrazione, ciò implica necessariamente fenomeni di memoria. Questo sembra paradossale: come si fa a mettere la memoria nel presente e perché raccontare un’azione nel momento del suo compiersi? Tuttavia questa è un’azione necessaria che permette di unire in un’unica storia completa il presente, il passato e l’avvenire, che di per sé non sono che poesie o fabulazioni. Il presente torna a rendere la memoria più consistente e la riconduce sul terreno pratico dell’azione» (Minkowski, p. 33).
Proprio perché non originario, mai dato a priori, il presente è il risultato di uno sforzo notevole, che i malati temono e questo spiega perché preferiscano vivere nel passato o nel futuro; i malati di solito non si curano del presente, elaborando una memoria fabulante in cui c’è spazio solo per il passato e l’avvenire. Il presente e il non presente, passato e futuro, condividono una natura comune, presentano una certa omogeneità. Infatti il passato è stato presente, il futuro sarà presente: al tempo stesso il presente è nato dal passato al quale dovrà presto ricongiungersi. Il passato, da cui è sorto il presente per differenziazione, è svanito e tuttavia esiste nel passato, in ciò che un tempo è stato presente. Il presente è costruito mediante una fabulazione memore del passato e al passato lo stesso presente è destinato a uniformarsi costantemente. Lo slancio vitale che ci protende verso lo scopo da raggiungere, è generale e indefinito, non necessariamente accompagnato dalla consapevolezza che esiste un dopo. Lo slancio vitale è vissuto come se l’intero universo fosse proteso a muoversi verso l’avvenire. Anche se lo slancio vitale è la sola cosa che possa dare senso alla vita, in taluni momenti può sopraggiungere il pensiero che l’Io, con tutto ciò che può realizzare, è ben misera cosa rispetto all’universo. L’idea dell’insignificanza di ogni nostra opera, congiunta alla prospettiva inesorabile della morte, può indurre a desistere, può rallentare o bloccare lo slancio vitale. E tuttavia anche il pessimismo è una specie di azione e di impegno, infatti il pessimista, se non è ridotto all’estremo dell’inazione, elabora in sistema comunicabile il suo pessimismo. «Perché in noi non c’è che un desiderio primario, quello di vivere e di agire» (Minkowski, p. 49). L’Io che si espande nel mondo attraverso le azioni e le opere che compie, è spinto da uno slancio personale che non si limita all’Io, ma lo colloca in una posizione e gli conferisce un ruolo all’interno di una realtà molto più grande. Lo slancio personale è affermativo, non necessariamente discorsivo. Il pensiero religioso deriva la sua forza dal fatto di aver dato vita a un insieme di forze divine che sovrastano l’Io, per dare un volto e una fisionomia familiare all’Io, all’universo organizzato di cui l’Io si sente parte e detentore di una funzione. La sorgente stessa della vita rimane dietro la superficie della nostra vita mentale, rimane inconscia, seppure non nel senso che l’inconscio sia il luogo di fatti che si trovano al di sotto della soglia della coscienza e possano tuttavia rendersi accessibili ad essa. La natura dell’inconscio è tale che, in ogni caso, non potrà mai essere rappresentato mediante gli elementi della coscienza, di per sé statici e separati. Lo slancio vitale possiede una forza e una spontaneità che lo rende imprevedibile nella sua evoluzione e nei suoi effetti. Non è forse vero che prevedere tutto significa annientare l’attività stessa, trasformarla in processo meccanico privo di interesse?
Il saggio di Paolo Taroni rilegge la storia della filosofia esaminando le diverse teorie sulla natura del tempo, distinguendo tra un problema ontologico (realtà o irrealtà del tempo) e un problema gnoseologico-epistemologico (se il tempo si possa conoscere, percepire, misurare); e illustrando le posizioni che negano l’esistenza di una dimensione temporale, ridotta ad apparenza illusoria o la considerano un tratto irriducibile dell’esistenza finita, come nell’esistenzialismo. Nessun pensatore ha potuto sottrarsi alla riflessione sulla temporalità, ma nessuno ha dato una risposta definitiva. C’è da chiedersi allora quale sia la ragione del fascino che da sempre esercita la riflessione sulla natura del tempo. La motivazione non è solo di tipo intellettuale, l’aristotelico òrexis tou eidénai: essa coinvolge l’intera esperienza che l’uomo ha della precarietà e finitezza della propria vita, con la previsione della propria morte a venire. Non sappiamo che cos’è il passato e neppure se esiste, così come non sappiamo che cosa sono il presente inafferrabile e il futuro, l’incognita più oscura; eppure «viviamo come se esistessero queste dimensioni, e il desiderio di conoscerle e di sapere in che cosa consistano è l’essenza della ricerca umana del tempo. L’ansia per la conoscenza del tempo ritengo nasca dal desiderio (alchemico, faustiano e tutti gli esempi che la letteratura ha proposto ne sono la testimonianza) di allontanare il termine ultimo del tempo individuale» (Taroni, p. 612). Del resto ogni sapere, si può dire, nasce dal desiderio di conseguire una qualche forma di controllo del fenomeno studiato. Nel nostro caso la conoscenza della natura del tempo, per quanto inevitabilmente aporetica, parziale e ipotetica, contribuisce a renderci familiare il futuro, la sola dimensione del tempo che davvero ci inquieta, o, almeno, ci illude di sapere qualcosa in più riguardo al mistero del tempo — una cittadella che resiste da sempre all’assedio dell’intelligenza.