Che cosa dunque ci grida mai questa avidità e questa impotenza se non che esistette altra volta nell’uomo una vera felicità, di cui non gli resta ora che il segno e la traccia del tutto vuota, e che egli tenta inutilmente di riempire con tutto ciò che lo circonda, cercando dalle cose lontane il soccorso che non ottiene dalle presenti, ma che tutte ne sono incapaci, poiché questo abisso infinito può essere colmato solo da un oggetto infinito e immutabile, cioè da Dio stesso.
(B. Pascal, fr. 138)
Ad un primo approccio può sembrare difficile accostare le due figure di Jean-Paul Sartre e René Girard. Sartre, com’è noto, è il caposcuola dell’esistenzialismo ateo francese, e la sua produzione filosofica — iniziata con i saggi di impostazione fenomenologia negli anni Trenta del Novecento — culmina nella sua prima grande opera, L’essere e il nulla,1 pubblicata a Parigi nel 1943. Girard, di una generazione più giovane, compie i primi studi ad Avignone, sua città natale, laureandosi nel 1941 e, dopo un breve periodo trascorso a Parigi, si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti, dove risiede tuttora. Due percorsi differenti, che approdano ad esiti teorici differenti. Eppure emerge, secondo noi, un nesso profondo tra l’ontologia sartriana esposta ne L’essere e il nulla e la teoria girardiana del desiderio mimetico. Ciò che intendiamo sostenere è che la riflessione condotta da Girard sull’esistenza umana e sul desiderio sia profondamente debitrice nei confronti dell’esistenzialismo sartriano. Le convergenze tra le due prospettive possono essere sintetizzate in tre nuclei tematici: la concezione della realtà umana come mancanza d’essere, il desiderio come progetto di riappropriazione di quello stesso essere e la riflessione sul problema della libertà.
1. Mancanza ontologica, malafede, misconoscimento
Ne L’essere e il nulla Sartre si interroga sullo statuto ontologico della coscienza, del per-sé, al fine di chiarirne le dinamiche, sia sul piano funzionale sia su quello esistenziale. L’essere della coscienza è un «essere il cui essere è in questione nel suo essere»; ciò implica che l’essere della coscienza non coincide con se stesso come una piena adeguazione, propria soltanto dell’essere-in-sé.
L’in-sé è pieno di sé e non si potrebbe immaginare pienezza più totale, adeguazione più perfetta di contenuto a contenente: non c’è il minimo vuoto d’essere, la minima fessura per la quale il nulla possa infiltrarsi.2
Al contrario, la coscienza non è in-sé, non è mai coincidenza con se stessa; il sé rappresenta dunque una distanza ideale entro l’immanenza del soggetto, sempre scomposto tra essere e coscienza di essere: esso è un modo di non essere la propria coincidenza, di sfuggire l’identità, e Sartre lo definisce come presenza a sé. La presenza a sé, contrariamente a quanto si è spesso pensato, non indica la pienezza d’essere, ma, al contrario, una separazione dell’essere in rapporto a se stesso.
Se è presente a sé, significa che non è del tutto sé. La presenza è una degradazione immediata della coincidenza, perché presuppone la separazione. Ma se ci domandiamo: che cosa separa il soggetto da sé, siamo costretti a riconoscere che non è niente.3
Sartre scopre così che il nulla si insinua nel più intimo della coscienza, in quanto nulla d’essere e potere nullificante insieme. Ciò che l’esame dell’essere della coscienza ha rivelato è che essa si investe, nel suo essere, di una nullificazione: è nella nullificazione che la coincidenza dell’in-sé si sgretola nella dissociazione propria del per-sé. A ben vedere, tuttavia, il per-sé non può sostenere la nullificazione senza determinarsi come carenza d’essere. Non è un essere esteriore che ha espulso l’in-sé dalla coscienza, ma è il per-sé che si determina continuamente a non essere l’in-sé: ciò significa che il per-sé non può fondare se stesso che partendo dall’in-sé. Fra tutte le negazioni, «quella che penetra più profondamente nell’essere, quella che costituisce nel suo essere l’essere di cui (= in relazione a cui) essa nega insieme con l’essere che nega, è la mancanza.»4
La mancanza non appartiene all’in-sé, che è pura positività, ma appare nel mondo col sorgere della realtà umana. Essa presuppone che esista un mancante, un esistente a cui manca il mancante ed una totalità disgregata dalla mancanza, la quale sarebbe ristabilita dalla sintesi del mancante e dell’esistente, che chiameremo il mancato. Sartre giunge pertanto alla conclusione che la realtà umana sorge come presenza a sé e al mondo percependosi come propria mancanza, vale a dire come essere incompleto: essa si coglie come la totalità singolare di cui manca e che essa è al modo di non esserla. Le analisi ontologiche condotte da Sartre pervengono ad un punto cruciale: la realtà umana è mancanza, in quanto si costituisce originariamente come la caduta dell’in-sé — ovvero la pienezza dell’essere identico a sé, che non ha bisogno di nulla — nel per-sé — l’essere che si dà soltanto nella forma della coscienza sempre scissa e contingente nella sua radicale infondatezza.
L’interpretazione che Girard fornisce della realtà umana richiama in maniera sorprendente quella di Sartre.5 Com’è noto, l’antropologia girardiana è attraversata nella sua interezza da un tema di fondo, attorno al quale ruota ogni altro concetto: il tema del desiderio mimetico. In sintesi Girard sostiene — sin da Dostoevskij dal doppio all’unità6 — che l’uomo è essenzialmente un essere che desidera. Come ogni desiderio, il desiderio dell’uomo possiede un oggetto desiderato; tuttavia, la natura del desiderio umano è mimetica, tende cioè ad imitare il desiderio altrui. L’ altro di cui di volta in volta il discepolo imita il desiderio si chiama modello o mediatore: il discepolo si precipiterà pertanto sull’oggetto che il modello gli indica, o a parole, o col fatto di desiderarlo egli stesso. Desiderando entrambi lo stesso oggetto, essi diverranno ben presto rivali. Scrive Girard: «L’oggetto non è che un mezzo per raggiungere il mediatore. È all’essere del mediatore che mira il desiderio.»7 Se il desiderio si mostra quindi come desiderio d’essere, alla sua origine non può che esserci una mancanza d’essere: il soggetto esperisce il proprio essere come una perenne assenza, un qualcosa di cui manca e che deve assolutamente recuperare. Ciò che il desiderio ha di mira è la coincidenza dell’individuo desiderante con se stesso, in altre parole la pienezza d’essere, lo stato in cui ogni desiderio cesserebbe per lasciare il posto alla felicità e all’autosufficienza. Scopriamo così una profonda sintonia tra le prospettive di Sartre e Girard: entrambi caratterizzano l’esistenza umana come mancanza ontologica, come mancata coincidenza con se stessi e progetto di recupero di quella pienezza d’essere che spegnerebbe ogni desiderio. Tuttavia se nell’ontologia sartriana la mancanza d’essere è una struttura immediata del per-sé, in Girard essa non è che un’illusione, una menzogna che relega l’uomo nel «sottosuolo mimetico» e lo rende schiavo del proprio desiderio.
Secondo Sartre, la percezione del proprio essere come mancanza getta l’uomo nell’angoscia. Tuttavia, quasi sempre la coscienza assume un particolare atteggiamento nei confronti dell’angoscia: la fugge, cercando di distogliere lo sguardo e negare il non-essere da cui l’angoscia stessa sorge. Sartre definisce questo comportamento malafede. La struttura della malafede differisce da quella della menzogna per due motivi: in primo luogo, la coincidenza, nella malafede, del mentitore con colui a cui si mente sottrae la dualità che è alla base della menzogna, e, in secondo luogo, colui che è in malafede deve avere coscienza della propria malafede, poiché l’essere della coscienza è coscienza di essere, dunque deve essere in buona fede almeno nell’essere cosciente della sua malafede: ma allora tutto il sistema psichico si dissolve, e la malafede si mostra come un fenomeno evanescente. Infatti, se tento deliberatamente di mentirmi, fallisco miseramente, poiché sono cosciente di mentire a me stesso, non ho più a mio vantaggio la dualità ontologica tra me e l’altro da poter sfruttare per mentire ad un’altra persona: nella malafede, la menzogna è distrutta dalla coscienza che ho di mentirmi. Dunque la malafede non può che oscillare continuamente tra la buona fede e il cinismo, tra la piena coscienza del mio progetto di mentire a me stesso e i rari momenti in cui credo di riuscire in quello stesso progetto.
Così come si è visto a proposito della mancanza d’essere, anche la nozione di malafede ha notevolmente influenzato la riflessione girardiana sull’esistenza. Infatti, mediamente l’uomo si trova nella condizione del misconoscimento del proprio desiderio. Infatti, affinché il meccanismo di autogenerazione del desiderio — che, pur cambiando dopo ogni sconfitta oggetto, tende a ricostituire il rapporto triangolare col mediatore — possa funzionare correttamente, è necessario che il soggetto ignori il meccanismo stesso, ricadendoci ogni volta. Si tratta di un autoinganno volto a nascondere l’assurdità del desiderio mimetico, di uno stato di cecità e torpore di fronte alla violenza che governa i rapporti umani. Insomma, il comportamento primario dell’uomo nei confronti del suo desiderio mimetico è sostanzialmente volto a nasconderlo, a considerarlo normale, in armonia con gli altri individui, del tutto estraneo a qualsiasi conflitto o rivalità violenta. Qualora la rivalità emerga e si faccia esplicita, il soggetto mette in atto delle vere e proprie tecniche di dissimulazione;8 pertanto, il misconoscimento della mimesi si precisa come un atteggiamento conscio che si determina in mille modi diversi al fine di nascondere al soggetto stesso l’illusorietà del suo desiderio. Il misconoscimento della mimesi violenta è una forma di menzogna verso se stessi, una determinazione originaria della coscienza a coprire la verità. Possiamo così definire il misconoscimento come un atteggiamento di malafede. Come quest’ultima, non possiede la struttura della semplice menzogna, ma è menzogna verso se stessi: scopriamo così che la malafede e il misconoscimento si determinano entrambi come tentativi di nascondere al soggetto la propria condizione esistenziale e la propria infondatezza.
2. Desiderio ontologico e desiderio mimetico: i conflitti con l’Altro
Secondo Sartre, la realtà umana si determina come desiderio d’essere, come volontà di ricostituire quella totalità originaria di in-sé e per-sé che essa è al modo di non esserla: l’uomo desidera riappropriarsi del fondamento del proprio essere, che il nulla gli ha sottratto condannandolo ad uno stato di «mancanza ontologica». Dobbiamo porre pertanto, alla base della realtà umana, un violento impulso — che non è un Trieb di natura psichica, ma ontologica, in quanto radicato nel più intimo strato dell’essere dell’uomo — teso alla riconquista di quell’unità originariamente perduta tra l’essere e la coscienza.
Dove viene cercata tale unità? Nell’altro. Se vogliamo cogliere il senso dell’essere dell’uomo, dobbiamo porre altresì la questione dell’esistenza degli altri e quella del mio rapporto ontologico con l’essere degli altri. Tale analisi è necessaria per un saggio di ontologia, dal momento che il rapporto tra il per-sé e l’in-sé è sempre rapporto di fronte ad altri. Il per-sé, in quanto nullificazione di sé, si concretizza temporalmente come fuga verso: supera, infatti, la sua fatticità verso l’in-sé che sarebbe se potesse essere il fondamento del suo essere.9 Data la natura del per-sé, il sorgere dell’altro lo colpisce in pieno: per mezzo dell’altro, la fuga viene solidificata in un in-sé. In altre parole, per l’altro io sono irrimediabilmente ciò che sono, e la mia stessa libertà è un dato del mio essere; così l’altro mi cristallizza nella mia fuga, che diviene fuga prevista e considerata, fuga data. Tuttavia, tale fuga cristallizzata non è mai la fuga che io sono per me, in quanto la solidificazione è avvenuta dal di fuori: io esperisco l’oggettività della mia fuga come una alienazione che non riesco a conoscere e dalla quale non posso fuggire. Dinanzi alla mia fuga oggettivata dall’altro, posso assumere due atteggiamenti opposti:
Io posso tentare, in quanto fuggo l’in-sé che io sono senza fondarlo, di negare l’essere che mi viene conferito dal di fuori; cioè posso rivolgermi ad altri per conferirgli a mia volta l’oggettività […]. Ma, d’altra parte, in quanto altri come libertà è fondamento del mio essere-in-sé, posso cercare di riprendere questa libertà ed impossessarmene, senza toglierle il suo carattere di libertà: se infatti io potessi assimilare questa libertà che è il fondamento del mio essere-in-sé, sarei a me stesso il fondamento. Trascendere la trascendenza d’altri, o, al contrario, assorbire in me questa trascendenza senza toglierle il suo carattere di trascendenza, questi sono i due primi atteggiamenti che io prendo di fronte ad altri.10
Sartre analizza dettagliatamente questi due atteggiamenti, che conducono, da un lato, dall’amore al masochismo, e, dall’altro, dal desiderio sessuale al sadismo. In entrambi i casi Sartre conclude che si tratta di atteggiamenti costitutivamente votati alla sconfitta, poiché nessuno di essi è in grado di portare a compimento il proprio progetto di restaurazione della coincidenza originariamente perduta tra essere e coscienza.
Anche nel caso del problema dell’alterità, il nesso tra la prospettiva sartriana e quella di Girard è profondo. Qual è, secondo Girard, l’esito del progetto di appropriazione dell’essere del modello? Il soggetto riesce ad assorbirlo, ad essere come lui, assurgendo alla felicità e pienezza ontologica tanto desiderata? Dal momento che modello e discepolo desiderano lo stesso oggetto, si creerà tra loro una rivalità violenta. Nel contesto dell’analisi della tragedia greca, Girard scrive:
La rivalità verte sulla divinità stessa, ma dietro alla divinità non c’è che la violenza. Rivaleggiare per la divinità è rivaleggiare per niente […]. Nella misura in cui la divinità è reale, non è una posta in gioco. Nella misura in cui la si considera una posta, essa è un’illusione che finirà per sfuggire a tutti gli uomini senza eccezione.11
Attraverso l’esempio della rivalità tragica per il possesso della divinità, Girard scopre che l’oggetto del desiderio è del tutto inconsistente ed illusorio: una volta raggiunto, esso è niente. L’oggetto che credevamo essere la condizione necessaria per il nostro ingresso iniziatico nel paradiso della pienezza d’essere è un puro nulla, un’illusione, un vuoto di significato che traeva il suo senso soltanto dal desiderio e dalla rivalità col modello-ostacolo.12 Tuttavia, attraverso il fallimento del suo progetto di «riconquista ontologica», il soggetto non coglierà l’assurdità del desiderio mimetico, ma si limiterà a cambiare oggetto, o, al massimo, a cambiare mediatore. Questo processo continuo e incessante, nel quale tutti — nella più totale reciprocità e indifferenziazione — sono discepoli e modelli, costituisce il desiderio umano come struttura permanente dell’esistenza: questo è ciò che Girard definisce desiderio metafisico, tale in quanto ha perso ormai ogni riferimento all’oggetto concreto e si alimenta autonomamente dei rapporti mimetici ai quali gli uomini si abbandonano nella speranza di colmare la propria mancanza ontologica. I rapporti tra l’individuo e l’altro, dunque, si configurano, in tutte le loro forme, come l’attuazione del progetto del primo di impossessarsi dell’essere del secondo; questo meccanismo autogenerantesi si regge su un duplice misconoscimento originario, che è, in primo luogo, misconoscimento della comune condizione umana, il quale provoca nell’uomo la convinzione di essere l’unico escluso dalla pienezza d’essere, cacciato dal paradiso terrestre, e, in secondo luogo, è misconoscimento della violenza che governa i rapporti mimetici. Il primo effetto di tale meccanismo è che tutti gli uomini si trovano, gli uni rispetto agli altri, in uno stato di completa indifferenziazione e reciprocità; tutti sono discepoli e modelli allo stesso tempo, tutti esperiscono nella solitudine la propria mancanza e vogliono strappare il proprio essere agli altri: ognuno dipende radicalmente dall’altro, in un vortice mimetico che assomiglia, in tutto e per tutto, ad un girone dantesco.
Da questa analisi comparata, possiamo dedurre che la concezione dell’esistenza umana in Girard è legittimamente leggibile in continuità con quella sartriana, probabilmente in misura molto maggiore di quanto Girard stesso riconosca nei suoi testi. Tuttavia, resta un elemento irriducibile della prospettiva girardiana che non può essere ricondotto o accostato all’ontologia di Sartre: il desiderio mimetico. Esso emerge e differenzia le due prospettive in ciò che concerne l’attuazione del progetto di recupero dell’essere originariamente perduto; ma, innanzitutto, costituisce un formidabile strumento ermeneutico in grado di spiegare
i primi processi di ominizzazione nel mondo animale fino alle raffinatezze dello snobismo di cui si dilettava Marcel Proust, [possiede] una capacità eccezionale di confrontare e illuminare gli uni con gli altri i domini più diversi, i comportamenti animali e la storia dei miti, le analisi freudiane e le grandi opere letterarie della nostra civiltà, dalla Genesi a Dostoevskij.13
3. Il problema della libertà
La via d’accesso alla comprensione dell’agire umano ci è fornita dalla descrizione sartriana del per-sé come essere libero. L’uomo è libero perché non è sé, ma presenza a sé, ossia coscienza di sé. L’in-sè non può essere libero, dal momento che la libertà è il nulla che è stato nell’intimo del per-sè e che lo costringe a farsi anziché ad essere. Ecco perché la realtà umana è azione: il per-sé è costretto continuamente a scegliersi e decidere per le sue possibilità, poiché nulla gli viene dall’esterno — e tanto meno dall’interno — che egli possa limitarsi ad accettare. La realtà umana è abbandonata senza il minimo aiuto all’insostenibile necessità di farsi essere: così la libertà non è un essere, ma un agire. L’uomo è condannato ad essere libero. La conseguenza essenziale di tutto ciò è che l’uomo, non potendo rinunciare a tale libertà e infondatezza, è responsabile del mondo intero e di se stesso in quanto modo d’essere. Infatti la libertà dell’uomo non è un essere, ma un fare, vale a dire un’azione tesa alla determinazione delle sue possibilità; tuttavia, ogni azione si svolge sullo sfondo di un mondo che non è mai staticamente dato, ma si modifica costantemente in base alle sue azioni libere. In tale prospettiva, è posta fuori gioco la nozione di costrizione, poiché nessuna costrizione ha la minima presa sulla libertà: non ci sono scuse, ciò che mi capita «me lo merito».14 Poiché ogni avvenimento del mondo non può mostrarmisi che come occasione — messa a profitto, mancata, rimpianta, ecc. — o meglio, come possibilità, e poiché anche gli altri non sono che occasioni e possibilità, la responsabilità del per-sé si estende sul mondo intero come mondo popolato. È in tal modo che il per-sé si coglie nell’angoscia, cioè come un essere che non è fondamento né del suo essere, né dell’essere degli altri, né degli in-sé che formano il mondo, ma è costretto a decidere il senso dell’essere, in lui e ovunque fuori di lui. Chi realizza nell’angoscia la sua condizione di essere gettato in una responsabilità che si ritorce persino sul proprio abbandono, non ha più né rimorsi, né rimpianti, né scuse: non è più che una libertà che si scopre da sola ed il cui essere risiede in questa scoperta stessa.
Tentare di definire il concetto di libertà in Girard non può che creare un certo qual imbarazzo, dal momento che nelle sue opere questo tema non è mai toccato apertamente, o meglio, non è affrontato nel modo sistematico che ci aspetteremmo, ad esempio, in un saggio filosofico. Tuttavia, il tema della libertà umana è ben presente nel suo pensiero, come libertà che svolge un ruolo decisivo nei confronti del destino del mondo e di tutto il genere umano. Esiste una dimensione delle ricerche girardiane nella quale lo svelamento dei meccanismi violenti, che reggono normalmente i rapporti tra gli uomini, conduce alla domanda su che cosa l’uomo possa fare per uscire dal circolo assurdo della mimesi e del desiderio metafisico. Si impone dunque, per l’umanità, una scelta: condannare la specie umana all’autodistruzione, perpetuando i meccanismi del sacro violento, che tuttavia sono sempre meno in grado di riportare la pace entro le comunità, oppure decidere per una palingenesi dell’umanità, che si configura come rinuncia alla violenza e completo smantellamento del sistema sacrificale.
In un articolo15 su Dostoevskij, Luigi Pareyson insiste su una distinzione, a nostro parere fecondissima, all’interno del concetto stesso di libertà: tale distinzione pone ai due estremi la nozione di libertas minor, intesa come libertà quotidiana nel mondo, che però è anche sempre possibilità di cadere nel male e nel peccato, e quella di libertas maior, concepita come scelta radicale del soggetto — che scopre la propria finitezza ed inconsistenza ontologica — per Dio. Ora, sebbene le prospettive di Girard e Pareyson siano profondamente diverse, e pur approdando entrambe ad un esito religioso, secondo noi questa distinzione può benissimo essere mantenuta anche in Girard. Infatti nel suo pensiero sono rinvenibili due livelli differenti di libertà: il primo relativo al soggetto desiderante, il quale sceglie liberamente i propri oggetti del desiderio, o meglio, i propri mediatori, e altrettanto liberamente passa da un desiderio all’altro, da un modello all’atro, da una sconfitta all’altra, e il secondo relativo alla scelta — per il desiderio metafisico o per la salvezza di sé e del mondo — che il soggetto stesso deve compiere, e dalla quale dipende il destino dell’umanità.
La libertà quotidiana — quella che Pareyson chiama libertas minor — è la pura assenza di costrizione, è la legge del “tutto è permesso” e della hybris dell’uomo che rovescia Dio per sostituirvisi. Girardianamente, è la legge della violenza, del conflitto mimetico tra i rivali che aspirano alla divinità, al kydos — che in realtà non è nulla, poiché trae il suo significato dalla violenza stessa — condannandosi senza distinzione a quell’eterna alternanza della vittoria dietro a cui si nasconde la peggior sconfitta. Ad un primo colpo d’occhio, si potrebbe pensare che non esista libertà maggiore della pura assenza di costrizione, del non essere determinato nelle proprie azioni da alcun elemento esterno; tuttavia l’analisi del desiderio metafisico ci ha mostrato come questa apparente libertà sia piuttosto una schiavitù, la schiavitù del desiderio e delle sue metamorfosi, che inghiottono per sempre l’uomo nel vortice della disperata ricerca di un oggetto che è, in realtà, un puro nulla. Di contro a questa falsa libertà, si apre lo spazio per una libertà di altro genere — quella che Pareyson chiama libertas maior — che allo stesso tempo ricomprende e supera la libertà come pura assenza di costrizione: si tratta della libertà della scelta per la rigenerazione dell’umanità, per la sconfitta della violenza, per la salvezza del mondo.
Ma come si configura questa scelta? Quali sono i suoi termini? Come sappiamo, nelle opere di Girard a partire da La violenza e il sacro, l’analisi del desiderio mimetico si accompagna sempre alla descrizione del meccanismo della vittima espiatoria, il cui sacrificio è il solo mezzo in grado di ristabilire la pace entro la comunità e porre fine alla crisi violenta. Gran parte delle analisi girardiane sono volte proprio alla dimostrazione dell’esistenza, dietro alle istituzioni culturali umane di cui si occupa l’etnologia, della logica sacrificale: i miti, i riti, i testi di persecuzione, nascondono sempre la violenza mimetica e la sua risoluzione nel sacrificio del capro espiatorio. Come è stato possibile scoprire tale logica del sacro, soggiacente a tutte le manifestazioni della cultura umana? Attraverso il messaggio evangelico. I Vangeli hanno trasmesso il messaggio di un uomo, Gesù, che per primo ha smascherato la violenza, ne ha denunciato l’assurdità, e ha prospettato un tipo di esistenza radicalmente diversa, non più fondata sulla mimesi e sulle rivalità violente ma sull’amore fraterno e sulla carità verso il prossimo. I Vangeli hanno perciò inferto un colpo decisivo alla violenza sacrificale, la quale tuttavia non è scomparsa, anzi, si è manifestata ancora una volta nel sacrificio stesso di Gesù, ultimo perfetto capro espiatorio. Ciononostante l’azione demistificatrice dei Vangeli è cominciata e procede inarrestabile, il fondamento violento del sacro è stato svelato, e perciò è destinato a funzionare sempre peggio, causando crisi sempre più gravi poiché sempre meno in grado di godere degli effetti benefici e socialmente riaggreganti che il sacrificio del capro espiatorio sortisce. Il pensiero occidentale è interamente leggibile nel quadro del progressivo svelamento della menzogna del sacro,16 e l’epoca contemporanea — anzi, quella che molti ormai chiamano post-modernità17 — si configura come l’estrema crisi, il luogo decisivo della scelta ormai non più prorogabile ma doverosa e imprescindibile. L’uomo non possiede più le difese che il sacro gli offriva un tempo, ed è gettato in crisi violente alle quali il fenomeno della globalizzazione fa assumere dimensioni planetarie:18 è giunto il momento di scegliere se affondare definitivamente il coltello in una vittima che non ha più nulla — o quasi — di sacro, votando l’umanità all’insensatezza e alla distruzione, oppure decidersi per un’altra esistenza, la quale non si concretizza soltanto come una vaga rinuncia alla violenza, ma è costituita dall’assunzione radicale del messaggio evangelico e della responsabilità — per sé e per gli altri — che ne consegue. La libertà umana si costituisce pertanto come la possibilità che l’uomo possiede — o meglio, che Dio gli offre — per salvare se stesso e il mondo. È l’abisso oscuro e profondo19 dinanzi al quale, oggi più che mai, l’uomo è posto: si tratta per lui di saltarvici irrimediabilmente dentro, oppure aprirsi alla possibilità donatagli e rinunciare radicalmente alla violenza. Non vi sono altre alternative: o si soccombe ai rapporti mimetici e alla violenza indifferenziata, destinata ad acutizzarsi sempre più perché ormai priva della difesa del sacro, o ci si impegna nella rinuncia alla violenza e nella ricerca di un nuovo sapere non-sacrificale. Il primo passo verso quest’ultimo è senz’altro rappresentato da un’analisi radicale della nostra tradizione filosofica, letteraria e mitica, finalizzata a mettere in luce e demistificare definitivamente ogni tentativo di mistificare la verità della vittima.
Senza dubbio la concezione girardiana della libertà come libertas maior si situa ampiamente nell’orizzonte dell’impegno, oltrechè etico, religioso: senza il messaggio evangelico — dunque senza Dio — non c’è possibilità di salvezza: in ciò consiste la principale differenza tra la prospettiva di Girard e quella di Sartre. Tuttavia la differenza tra le due prospettive è duplice: in primo luogo, laddove Sartre afferma la radicalità della libertà umana come assenza di costrizione, Girard va oltre, caratterizzando tale libertà come desiderio mimetico, e, in secondo luogo, laddove Sartre resta fermo alla libertà radicale — la quale, tutt’al più, può diventare impegno etico o politico nella società civile — Girard prospetta un’altra libertà ed un’altra esistenza salvifica, entro la quale svolge un ruolo decisivo la vicenda cristica. In sintesi, il pensiero di Sartre è tutto schiacciato dal lato della libertas minor, mentre l’esito ultimo della teoria di Girard si gioca entro l’ambito della libertas maior. Ma c’è un ulteriore aspetto del pensiero di Girard che si connette al problema della libertà: la dimensione escatologica. Leggendo i suoi testi si ha infatti l’impressione dell’incombere del giorno ultimo, dell’éschaton, oltre il quale non ci sarà più possibilità alcuna per la salvezza. L’escatologia di Girard, tuttavia, non ricade mai in «trepidazioni isteriche per la fine del mondo»,20 ma insiste sempre sulla possibilità, specificamente umana e razionale, di operare la svolta decisiva per quella che egli chiama la nuova «scienza», che non si identificherà più con l’illusione positivista di poter dominare il mondo attraverso il controllo del dato empirico, ma si configurerà come sapere non violento, non più inteso come possesso ma come ricerca del Senso. Concludiamo con le parole dello stesso Girard:
Ogni violenza rivela ormai quello che rivela la passione di Cristo, la genesi debole degli idoli cruenti, di tutti i falsi dei delle religioni, delle politiche e delle ideologie. Non per questo gli assassini hanno smesso di credere che i loro sacrifici siano meritori. Neppure loro sanno quello che fanno, e dobbiamo perdonarli. È venuta l’ora di perdonarci l’un l’altro. Se aspettiamo ancora, non ne avremo più il tempo.21
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J.-P. Sartre, L’être et le néant, 1a ed, Gallimard, Parigi 1943; trad. it. di G. del Bo (revisione di F. Fergnani) L’essere e il nulla, 1ª ed., Est, Milano 1997. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit. alla nt. 1, p. 112. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit. alla nt. 1, p. 115. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit. alla nt. 1, p. 125. ↩︎
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Lo stesso Girard scrive in una lettera inviatami l’11 marzo 2001: «Sono stato influenzato dalle analisi de L’essere e il nulla sulla libertà, sulla malafede ecc.» ↩︎
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R. Girard, Dostoevskij du double à l’unité, 1a ed. Plon, Parigi 1963; trad. it. di R. Rossi Dostoevskij dal doppio all’unità, 2ª ed. SE, Milano 1996. I primi due grandi testi in cui Girard tematizza approfonditamente il desiderio mimetico sono il saggio su Dostoevskij e Menzogna romantica e verità romanzesca (R. Girard, Mensonge romantique et verité romanesque, 1ª ed. Grasset, Parigi 1961; trad. it. di L. Verdi-Vighetti Menzogna romantica e verità romanzesca, 1ª ed. Bompiani, Milano 1981). Tuttavia, questo tema è già presente in alcuni articoli anteriori a queste opere; per una puntuale introduzione al «primo» Girard critico letterario rimandiamo al testo di M. Bruttini, «Desiderio metafisico» e «malattia ontologica». Il primo Girard critico letterario, tesi di laurea in filosofia della religione, Università di Siena, A. A. 1999-2000, relatore S. Morigi. ↩︎
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R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit. alla nt. 6, p. 49. Si veda anche R. Girard, La violenza e il sacro, trad. it. di O. Fatica, 1ª ed. Adelphi, Milano 1980, pp. 204-205 (tit. orig. La violence et le sacré, 1ª ed. Grasset, Parigi 1972). ↩︎
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Cfr. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit. alla nt. 6, p. 14. ↩︎
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Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit. alla nt. 1, p. 412. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit. alla nt. 1, p. 413. ↩︎
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R. Girard, La violenza e il sacro, cit. alla nt. 7, p. 202. Si veda a tal proposito anche l’analisi girardiana del concetto di kydos (ivi, pp. 212-215). ↩︎
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Nell’elaborazione della nozione di ostacolo Girard riprende il concetto di amore-passione esposto da Denis de Rougemont in L’amore e l’Occidente (D. de Rougemont, L’amour et l’Occident, 1ª ed. Plon, Parigi 1939; trad. it. L’amore e l’Occidente, 1ª ed. Rizzoli, Milano 1977). Per un approfondimento dei complessi rapporti tra Girard e il personalismo di Rougemont (ma anche di Mounier) rimandiamo a S. Morigi, Nervature kierkegaardiane nel pensiero francese del Novecento: da Gabriel Marcel a Denis de Rougemont e René Girard, in «Nota Bene. Quaderni di studi kierkegaardiani», n. 2, 2002, ed. Città Nuova, pp. 101-125, e al già citato (nt. 6) lavoro di M. Bruttini, «Desiderio metafisico» e «malattia ontologica». Il primo Girard critico letterario. ↩︎
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J. Guillet, René Girard et le sacrifice, in «Etudes», 351, Luglio 1979, p. 91-102. ↩︎
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Scrive Sartre: «Così la fatticità è ovunque, ma inafferrabile; non incontro mai altro che la mia responsabilità, per questo non posso domandare “perché sono nato?”, maledire il giorno della mia nascita o dichiarare che non ho chiesto di nascere, perché questi diversi atteggiamenti verso la mia nascita, cioè verso il fatto che realizzo una presenza nel mondo non sono altro che modi di assumere in piena responsabilità questa nascita e farla mia: qui ancora non incontro che me e i miei progetti, in modo che finalmente il mio abbandono, cioè la mia fatticità, consiste semplicemente nel fatto che sono condannato ad essere integralmente responsabile di me stesso». (J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit. alla nt. 1, p. 617). ↩︎
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L. Pareyson, La sofferenza inutile in Dostoevskij, in id., Dostoevskij, 1ª ed. Einaudi, Torino 1993. ↩︎
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Quest’espressione si trova in P. Burzio, Mito, tragedia, romanzo in René Girard, in «Rivista di estetica», n. 29, XXXIV, Luglio 1994, pp. 41-68 ed è stata ripresa da P. D. Bubbio, Il sacrificio intellettuale, 1ª ed. Il Quadrante, Torino 1999. ↩︎
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Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, 1ª ed. Garzanti, Milano 1985. ↩︎
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Nei termini di una crisi violenta «globalizzata» Girard interpreta, ad esempio, il sempre più urgente problema del terrorismo. A tal proposito si veda, ad esempio, Ce que se passe aujourd’hui est une rivalité mimétique dans une escalier planétaire, intervista rilasciata da Girard a Henri Tinq e pubblicata su «Le Monde», 6 Novembre 2001. ↩︎
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Tale concezione della libertà come abisso oscuro e pericoloso emerge chiaramente in L. Pareyson, lezione di congedo tenuta all’Università di Torino il 27 Ottobre 1988, in Filosofia della libertà, 1ª ed. Il Melangolo, Genova 1989. ↩︎
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Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, trad. it. di R. Damiani, 1ª ed. Adelphi, Milano 1983, p. 533 (tit. orig. Des choses cachées depuis la fondation du monde, 1ª ed. Grasset, Parigi 1978). ↩︎
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R. Girard, Il capro espiatorio, trad. it. di F. Bovoli, 1ª ed. Adelphi, Milano 1987, p. 325; tit. orig. Le bouc émissaire, 1ª ed. Grasset, Parigi 1982. ↩︎