Nell’essere umano la sua imperfezione, la sua apertura, la sua libertà e le sue illimitate possibilità sono il fondamento stesso del suo essere ammalato (AP, it. 9).1
Per scelta di campo teoretica — che si chiarificherà però solo seguendo gli esiti delle sue stesse vicende esistenziali — Jaspers ha sempre rifiutato la formulazione di teorie pedagogiche stricto sensu.2 E tuttavia la sua intera esistenza si è realizzata come costante prassi educativa e il suo filosofare è stato un continuo dialogo con i grandi maestri, i quali hanno rappresentato le sponde di un fecondo con-filosofare sulla via della ricerca di ciò che ha valore per tutti. Mentre rifiutava ogni esposizione sistematica di dottrine pedagogiche e quindi ogni forma di pianificazione a causa dell’inafferrabilità dell’esistenza nella sua totalità,3 Jaspers ha sempre ricercato, al tempo stesso, il confronto e il dialogo con quei pensatori che definisce espressamente «educatori». Ed è questo, tra gli altri, il caso paradigmatico di Nietzsche.
Nel suo saggio su Nietzsche4 Jaspers legge il filosofo di Röcken appunto come educatore, ripercorrendo così il sentiero che questi aveva già tracciato interpretando Schopenhauer sue Inattuali. Queste letture dispiegano un gioco di specchi e di rimandi che può aprire interessanti spazi per la chiarificazione dei temi dell’esistenza, della comunicazione, della cura. Si tratta inoltre di un doppio rimando in cui le osservazioni di Nietzsche su Schopenhauer e quelle di Jaspers su Nietzsche possono fare da guida nella comprensione del pensiero e dell’agire di Jaspers stesso.
1. Schopenhauer come educatore, anzi come «liberatore»
Nella terza Inattuale Nietzsche delinea la figura dell’educatore come un liberatore:
[…] la tua vera essenza non sta profondamente nascosta dentro di te, bensì immensamente al di sopra di te, o per lo meno di ciò che tu abitualmente prendi per il tuo io. I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivelano qual è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualche cosa di assolutamente ineducabile e implasmabile, ma in ogni caso difficilmente accessibile, impacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere niente altro che i tuoi liberatori (S 290; 168).5
Compito dell’educatore, per Nietzsche, è liberare l’essenza profonda e «difficilmente accessibile» del io allo scopo di rivelare l’io a se stesso nelle sue possibilità. Non si tratta pertanto di un processo di educazione o plasmazione, ma di una rottura la quale apre possibilità sopite nell’io. È una rottura dolorosa, ma carica di positività non evidente: colui che non educa ma libera è l’autentico medico di cui ha bisogno l’età moderna, dice Nietzsche (cfr. S 294; 172), perché è capace di quell’autentica cura che consiste nello smascherare gli idoli cui uomini incapaci di camminare da soli si appigliano come a stampelle.
La rottura con la tradizione, con gli idoli, le ovvietà e le illusioni del proprio tempo porta l’uomo alla liberazione attraverso la posizione dell’io nella inattualità della propria responsabilità. Tale liberazione avviene così nella lotta principalmente con se stessi e nella serenità che ne deriva in caso di vittoria (sulla propria pigrizia che secondo Nietzsche è il vizio che maggiormente accomuna gli uomini — cfr. S 287; 165).
L’educatore è innanzitutto un testimone (nel senso etimologico di “martire”) che sperimenta nella propria carne la rottura che apre lo spazio per la libertà e le consente così di venire all’evidenza nella sua possibilità. Egli quindi incarna il paradigma di uomo: in lui autorelazione ed eterorelazione vengono a coincidere. O, meglio, in lui l’autentica e feconda eterorelazione si fonda sulla sincera autorelazione — cioè può liberare solo per il fatto che lotta, una lotta amorosa peraltro, per liberare se stesso.
L’educatore pertanto è portatore delle seguenti virtù: onestà, serenità, fermezza:
onesto perché parla e scrive a se stesso e per se stesso, sereno perché ha vinto con il pensiero ciò che è più difficile, e fermo perché così deve essere (S 298; 176).
Lo stesso Nietzsche ha incarnato nella propria esistenza la missione dell’educatore come martire, testimone di rottura e liberazione per la restituzione dell’io a se stesso:
Io stimo tanto più un filosofo quanto più egli è in grado di dare un esempio […]. Ma l’esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemente con dei libri (S 298; 177).
Ora, per Nietzsche, ma anche per Jaspers come vedremo, essere d’esempio vuol dire resistere al mondo contemporaneo e solo nature di ferro come Beethoven, Goethe, Schopenhauer o Wagner lo sono state: eremiti e resistenti, anche se in modo differente. Questi grandi, campioni di fermezza e liberazione, sono coloro che hanno vinto la tirannide nel proprio petto:
la filosofia schiude all’uomo un asilo dove nessuna tirannide può penetrare, la caverna dell’intimo, il labirinto del petto: ciò indispettisce i tiranni (S 301; 180).
Ma questi eremiti hanno una spina nella carne: sanno che appaiono diversi da come sono. Cercano verità e onestà ma sono circondati da equivoci e fraintendimenti. Malinconici quindi per natura, diventano a volte vulcanici e minacciosi: escono dalle caverne (dall’Aventino delle loro coscienze) e le loro parole risuonano come esplosioni in cui loro stessi rischiano di perire.
Questi grandi educatori — (r)esistenti6 — vivono a pieno il rischio (Wagnis) dell’esistenza: un rischio che per Nietzsche ha tre teste: l’isolamento, il disperare della verità e l’incomunicabilità (cfr. S 302; 181).
Quanto al rischio dell’isolamento e della solitarietà, esso è il paradosso ma anche il destino di chi vuole avventurarsi lungo il sentiero della verità che unisce (per usare la splendida espressione di un commosso Hans Saner al termine del suo Jaspers del 1970).7 Come sa bene Nietzsche, il destino dei maestri è quello di essere eccezioni, che se vogliono illuminare il cammino degli uomini devono disporsi al di fuori della strada, come fari arroccati su vette isolate e difficili da raggiungere. E tuttavia, «proprio questi solitari hanno bisogno di amore; richiedono dei compagni di fronte ai quali sia lecito essere aperti e semplici come con se stessi» (S 302; 180) — Il pensiero va a Gertrud Mayer, moglie di Karl Jaspers, come vedremo.
Il secondo rischio, quello di disperare della verità, è invece privilegio di chi è contagiato e soffre di kantite (per parafrasare un’espressione utilizzata dallo stesso Nietzsche in riferimento a Hegel),8 cioè di ogni pensatore che, come lo stesso Jaspers, si incammini lungo il sentiero trascendentale aperto da Kant (S 302; 181). Ecco per esempio come Heinrich von Kleist, citato dallo stesso Nietzsche, descrive questo morbo in una appassionata lettera:
recentemente, ho fatto la conoscenza della filosofia kantiana; e adesso debbo comunicarti un pensiero, perché mi permetto di non temere che esso ti sconvolga così dolorosamente e profondamente come ha sconvolto me: noi non possiamo decidere se ciò che chiamiamo verità sia veramente verità, oppure ci paia soltanto tale. Se le cose stanno così la verità, che noi qui accumuliamo, dopo la morte non è più niente ed ogni sforzo di acquistarci una proprietà che ci segua anche nella tomba è inutile. Se la punta di questo pensiero non colpisce il tuo cuore, non sorridere di un altro, che da ciò si sente profondamente ferito nella sua più sacra intimità. Il mio unico, il mio supremo fine è scomparso e non ne ho più alcuno (citazione in S 303; 181-182).
Il terzo e ultimo rischio è l’indurimento morale (S 307; 185): quel deserto esistenziale e relazionale in cui il resistente, solo e privo dell’appiglio della verità, rischia di vivere nell’assenza di comunicazione, come «una pietra gelida».
Il primo rischio (la solitarietà) è un destino, il secondo (la kantite) è una possibilità da attraversare senza per questo cadere nella rinuncia, il terzo (l’incomunicabilità) è invece una perenne lotta da vincere. Mi piace vedere già tracciata qui, in questo rischio a tre teste, tutta la lotta del filosofare jaspersiano.
Ma Nietzsche ha Schopenhauer. È lui che lo guida fuori dalla caverna dello scettico disperato e della gelida pietra dell’assenza di comunicazione, in alto verso le cime della contemplazione… tragica.
Secondo una singolare analogia con la dialettica spiegare/comprendere che troveremo nello Jaspers psicopatologo, per Nietzsche Schopenhauer è la cura contro questi rischi dell’esistenza e della (r)esistenza, e in particolare contro la disperazione della verità: con un’immagine pittorica Nietzsche afferma che laddove le scienze si preoccupano di non perdere la tela e i colori che compongono il quadro dell’esistenza, grazie all’insegnamento di Schopenhauer «soltanto colui che ha ben fermo negli occhi il quadro generale della vita e dell’esistenza potrà servirsi delle singole scienze senza danneggiarsi» (S 304; 182).
L’idea del quadro-tutto e non la tela o il singolo colore è quel che conta. Mentre le scienze, così come le filosofie accademiche, scavano, dubitano, contraddicono e pesano pro e contro, l’educatore (r)esistente si prende gioco di questi professori e, mostrando l’uomo-tutto, dice: “questo è il quadro di tutta la vita e qui si impara il senso della vita! ”.
Si chiede allora Nietzsche: cosa ha permesso a Schopenhauer di superare la visione accademica del mondo e dell’esistenza? Ebbene, Schopenhauer era sì un genio ma anche e soprattutto un uomo: un uomo molto umano, nelle sue paure e nelle sue misantropie, che ha scoperto dentro di sé i segni rivelatori del genio; ma soprattutto un genio che si sapeva finito come un uomo:
ciò che nel suo essere era imperfetto e troppo umano ci porta proprio, nel senso più umano, vicino a lui, perché noi lo sentiamo come sofferente e compagno di sofferenza e non soltanto nell’altezza orgogliosa del genio (S 306; 185).
Ma la questione per Nietzsche si ripropone a un livello superiore: tutto quanto fin qui detto, in fondo, è un’idea; e può un’idea educare? (cfr. S 320; 200). La risposta è e deve essere positiva, anche se tragicamente positiva: nell’azione sofferente su di sé e nell’urto contro i limiti del proprio io l’idea viene all’esistenza e diviene vita attiva.
Ecco quello che altrove ho chiamato il limite che unisce.9 Schopenhauer ha lottato contro se stesso e contro il suo tempo per il limite, per tenere aperta la ferita del limite, come unico spazio, lo spazio di una soglia, in cui è possibile ancora qualcosa per l’uomo autentico. Ma questa possibilità è data nello spazio della impossibilità, della incapacità riconosciuta e non rifiutata. L’educatore è tale perché ha tenuto fermo a fallimento, al naufragio, come (unica possibile) esperienza feconda. Ancora di più: l’educatore ha insegnato a tener fermo al pessimismo come metodo per giungere a un amore che non può essere insegnato, ma solo scoperto nel proprio dolore, l’amore per la verità. Certo non si tratta della verità come possesso esclusivo, ma della verità fragile da conquistare e percorrere come un cammino o una vocazione.
In un tempo marchiato dalle tre schiavitù (momento, mentalità, moda), ove la verità se non produce stipendio non è vera, il grande educatore supera il presente e sulla tela della propria esistenza ri-dipinge il proprio io (cfr. S 308; 186) e con l’azione, la vita e la testimonianza dimostra che l’amore per la verità c’è ed è possibile, anche se è qualcosa di terribile e di violento (cfr. S 365; 245-246).
Come ha fatto? Ci chiediamo di nuovo. Con l’imperfezione e la sofferenza del suo proprio essere uomo. Questa è la grande lezione di Schopenhauer (per Nietzsche).
2. Nietzsche come educatore
Io sono particolarmente colpito da Nietzsche come educatore, — scrive Jaspers — perché, indicando il futuro, egli fornisce a chi gli si accosta un insostituibile impulso che, per quanto privo di una precisa e definitiva determinazione, non può comunque essere messo in discussione quanto alla sua origine, e resta assolutamente valido per chi una volta vi abbia preso parte (N 458; 412 — corsivi miei).10
Premesso che a tutti i «grandi filosofi» portano sulle spalle l’impegno e la responsabilità di essere «nostri educatori» (N 453; 408), in cosa consiste questo impulso indeterminato di Nietzsche come educatore? Ebbene, esso sta nella relazione che obbliga a instaurare con il suo pensiero, un obbligo che però libera: perché nella relazione che impone si sviluppa per noi la coscienza dell’essere che noi stessi siamo e possiamo essere. L’indeterminatezza sta nell’indifferenza quanto al contenuto, poiché al grande educatore non interessano le conoscenze che può trasmetterci né le nostre aspettative su di queste, quanto piuttosto la possibilità di attivare un pensiero cosciente e una conseguente azione responsabile su noi stessi e sugli altri.
Faremmo certo un cattivo uso del pensiero e dell’esistenza stessa dell’educatore, scrive ancora Jaspers, quando accettassimo le sue opinioni come qualcosa di valido e di vero. Valido vuol dire che può essere appreso e utilizzato nella vita di tutti i giorni; vero vuol dire conforme alla nostra ragione e al nostro sapere. Se accettato come valido e vero, alla lunga il suo insegnamento correrebbe il rischio di diventare «ovvio», cioè conforme alla nostra fede, e quindi di perdere la sua spinta propulsiva, tanto più forte quanto più indeterminata, e il suo essere impulso per l’io.
Ecco già tre grandi categorie esistenziali, che emergono dal cattivo uso dell’insegnamento esistenziale dell’educatore, e disegnano il campo di lotta del filosofare jaspersiano: valido — vero — ovvio… che nell’interpretazione jaspersiana sono azione (prassi) — ragione (sapere) — fede.
Questi sono i tre ambiti nei quali noi ci rapportiamo ai grandi e nei quali possiamo rinvenire un buon uso del loro insegnamento, ma solo se non vi ci disponiamo passivamente.
I grandi filosofi come Nietzsche hanno il loro valore proprio in quanto «ci conducono all’origine» di noi stessi, verso quella trascendenza che noi stessi siamo (N 453; 408). Questa origine consiste nel divenire-sé, e da essa non ci separa un salto ma un cammino! Del resto, la verità non è un nostro possesso esclusivo, noi siamo esseri temporali, viviamo nel diaframma del tempo che scompone ogni possesso rendendolo fugace e sempre da riaffermare, quindi la verità è il nostro cammino.11 Un cammino da percorrere non in solitaria, ma insieme a coloro che lo hanno già percorso — ciascuno a suo modo — e che l’hanno indicato con il loro pensiero e la loro esistenza.
Nietzsche, secondo Jaspers, è «l’ultimo filosofo» che può agire così su di noi perché egli ci conduce «fino alle origini e ai limiti dell’uomo» (N 453; 408 — corsivo mio). Egli è il più vicino a noi, il più comprensibile e quindi anche il più frainteso.
E infatti, tanto la volgare ebbrezza quanto la serietà della ricerca si nutrono dell’esperienza nietzschiana come uomo e come scrittore, e ciascuna a buon diritto, a suo modo. E tuttavia:
Egli diventa educatore non già con insegnamenti dottrinari e asserzioni perentorie, o in forza di una norma che rimanga stabile, o come possibile modello d’uomo da seguire e imitare, ma in virtù del fatto che noi siamo da lui interrogati, e in tale modo facciamo la prova di noi stessi (N 454; 408 — corsivo mio).
Il vero educatore non dà qualcosa, ma chiede qualcosa. Interpella. La sua chiamata è rafforzata dalla testimonianza e dal martirio, offerto e quindi anche richiesto. E questa è la verità che possiamo essere, attraverso un movimento (Bewegung): muovendoci insieme a lui noi impariamo a plasmare la nostra umanità, a educare noi stessi, a curare il nostro io tentando possibili valutazioni, aumentando la nostra sensibilità ai valori. Così «veniamo condotti ai limiti, e dunque all’origine di una coscienza indipendente dell’essere» che noi stessi siamo (N 454; 409).
Questo non vuol dire che dobbiamo semplicemente seguire la guida, ma appunto curare ed educare noi stessi. Nietzsche come guida è solo una montagna andata in frantumi, e noi a raccogliere i cocci che sono i frammenti di un senso che non è più, e che propriamente non è mai stato. Ecco che noi siamo chiamati a costruire una dimora con i frammenti di un qualcosa che non è mai stato costruito. Filologi a partire dal silenzio e quindi anche creatori, siamo chiamati a ricostruire un senso da frammenti di un senso mai edificato. Ecco il Nietzsche dinamite, che è maestro. Quindi:
«Niente ci è dato in modo già definito, ma solo nella misura in cui siamo noi stessi a conquistarlo» (N 454; 409 — corsivo mio).
Una conquista che può avvenire attraverso ricerca e studio (di Nietzsche, dei suoi testi, della sua esistenza; ma non solo) che richiede la serietà del turbamento (Ernst der Betroffenheit) e lo sforzo paziente del pensiero unificante. In particolare la serietà sta nel fatto che il gioco in cui pare perdersi Nietzsche non è un gioco: è un sentire che pensa. Non un semplice riflettere, ma un tentare e sperimentare in base alle nostre possibilità. Fino all’immane forza — ma è forza di (r)esistenza — che ci vuole per dire «io non posso!».
Ecco la grandezza di Nietzsche come educatore: egli ci conduce lungo il cammino di una educazione indiretta e la sua stessa esistenza è per noi impulso all’autoeducazione (che se vuole essere autentico non può che rimanere indeterminato alla sua origine, per lasciare quindi spazio alla responsabilità dell’io che lo accoglie). Con la cura e l’autoeducazione infatti siamo chiamati a far emergere da noi stessi ciò che è veramente in noi, ciò che è sopra di noi è ci trascende come interior intimo meo, ma è il nostro più proprio. E questo non viene fuori nella sola riflessione, giacché non è solo idea, ma nella lotta incessante con noi stessi, nella prassi, nell’azione, nell’autoeducazione appunto, nella cura e nella vita attiva.
E tuttavia rimane aperta la questione su come sia possibile una simile lotta. Su quali siano gli strumenti e i metodi per raggiungere una «affinata sensibilità filosofica» che possa portare l’io, nell’autoeducazione, verso il «fuoco purificatore della verità». Ebbene, la risposta di Nietzsche è allo stesso tempo chiarissima e sconvolgente:
Quando ogni affermazione si trasforma nel suo opposto, e nel movimento tutto ciò che è vero diventa semplice possibilità e dunque può anche essere falso, non c’è salvezza senza il lavoro e la forza del pensiero. Soltanto grazie a un’intensa autoeducazione è possibile cogliere, nel flusso dispersivo e così infinitamente variegato dello spirito incantatore di Nietzsche, le sue effettive connessioni, senza estrapolare nulla di arbitrario. È proprio la mancanza di una esposizione sistematica che impone al lettore un proficuo e istruttivo lavoro mentale, perché deve cercare di collegare tutto ciò che incontra (N 454-455; 409).
Quando il potere diventa l’«io non posso!» e quando l’incapacità e il limite diventano invece possibilità autentiche… questo si chiama autoeducazione e cura.
Se quel che dico pare evanescente, come già faceva Nietzsche chiedo al lettore di non essere «frettoloso»: gli chiedo la pazienza di attendere qualche riga e vedrà uno uomo e una donna, Karl e Gertrud i loro nomi, sull’orlo del baratro liberamente scelto di fronte all’inferno nazionalsocialista. E allora si chiarirà cosa vuol dire che potere è dire «io non posso! ».
Con Nietzsche è molto facile estrapolare qualche frase in modo arbitrario. E tuttavia, la mancanza di esposizione sistematica è invito a un lavoro attivo di ricostruzione a partire dai frammenti di un discorso mai fatti (come quanto sto tentando in queste righe, tra Schopenhauer, Nietzsche e Jaspers come educatori). La rapidità del suo pensiero abbatte la smania del lettore frettoloso che fraintenderebbe di certo. Al contrario ottiene il risultato di educare a un pensare accorto e riflessivo, disposto alla fatica dell’idea, ma anche all’azione che dà realtà all’idea, incarnandola.
Un’educazione indiretta quindi. Non siamo vasi da empire, ma uomini capaci da chiamare all’autoeducazione, e alla cura di sé prima e poi dell’altro, l’unica cura che funziona. E nulla educa più dell’esperienza del limite nel riconoscimento che nonostante l’uomo abbia per sua natura un io capace… «io non posso!».12
Così come Hegel non sarebbe un buon educatore se nell’assoluto si perdesse l’immanente forza del negativo e ci si limitasse alla conciliazione onnivora dimentica della tragedia del venerdì santo speculativo. Ugualmente non si comprenderebbe Nietzsche, che Jaspers riconosce come tutto contraddittorio: ogni affermazione è smentita da un’altra con pari dignità e serietà, se si prendono le sue affermazioni solo come belle figure retoriche. A ben vedere, entrambi rischiano di cadere in un bel pensare estetizzante che attrae e svia i deboli e i male intenzionati. Ma colui che pensa di trovare una verità senza tensione interiore (innere Spannung) è destinato a fallire, come colui che ritiene di poter semplicemente conciliare le opposizioni nella dialettica. Estrapolando qualche frase si può far dire tutto a Nietzsche (ma anche a Hegel). E tuttavia, è nella tensione tra i paradossi che si sviluppa la possibilità dell’uomo. Non si capirebbe Nietzsche se non nello sforzo infinito, come il “cattivo infinito” fichtiano (che però pare essere l’unico possibile), di costruire un senso che però non è il suo, ma il nostro.
E qui il contributo di Nietzsche giunge al suo limite: le contraddizioni non servono per superare o ingannare sofisticamente gli altri. Le contraddizioni del pensiero, insolubili come le antinomie della ragione kantiana, sono invece inviti a uscire dal pensiero, inviti ad agire.
Chi crede di poter acquisire la verità senza una tensione interiore e senza opposizioni, è disarmato di fronte a questo pensiero […]. Solo chi è solito cogliere ciò che è contraddittorio, e il cui pensiero è diretto dalla continuità della sostanza, non è disarmato di fronte alla verità (N 455; 410).
La grettezza di chi soccombe a formule e regole logiche, e la sofistica di chi con qualche sentenza di Nietzsche giustifica il proprio disimpegno (Unverbindlichkeit) esistenziale sono qui messe fuori gioco.
Solo l’esistenza comprende l’esistenza che è che può essere, perché solo lei possiede le chiavi per decifrare l’enigma che l’esistenza è a se stessa.13 E questo vuol dire che per comprendere i grandi bisogna essere grandi (r)esistenti in prima persona, ma anche che per educare e per curare bisogna esistere e resistere, sempre in prima persona. Ed è quello che ha fatto Karl Jaspers, come testimonia la sua biografia.
3. Jaspers come educatore
Il 2 maggio 1942 Jaspers scrive nel suo diario (malato cronico, è avvezzo a tenere una cartella clinica della propria coscienza):14
La mia filosofia non sarebbe nulla se fallisse in questo passo decisivo (2 maggio 1942; SW 201).
La situazione è nota: Jaspers ha le ore contate. Il regime lo ha inserito nella lista dei pericolosi. La libertà di pensiero, da sempre affermata e praticata come una fede filosofica che non conosce ostacoli, è ciò che più spaventa la dittatura; prima o poi andrà estirpata. Non ancora sessantenne ma già da sempre malato nel corpo (di una malattia cattiva, non evidente e invalidante, ma latente e umiliante: chi lo incontra potrebbe dire benissimo che non è malato, che ci sono molte cose che lui può fare…) e incerto sulle possibilità che la salute mantiene aperte ma comunque spiritualmente sempre sano,15 Jaspers è chiamato a incarnare un’esistenza attiva che si fa doppia (r)esistenza, nel suo corpo e nel suo tempo. Entrambi gli appartengono, strumento e orizzonte del suo essere al mondo, sono quello che lui è; ma entrambi lo sovrastano, lo trascendono, gli prospettano frammenti di esiti sconosciuti.
Egli vive nella «consapevolezza della radicale incertezza», come scriveva nel diario già agli inizi dell’aprile 1939 (cfr. 1 aprile 1939; SW 196). Non solo per le sorti della Germania, che nell’estate del 1942 saranno oramai chiare a molti, ma per la singola esistenza di un uomo e una donna la cui sorte non è affatto al sicuro: i loro nomi sono Karl e Gertrud, si amano dal 1907 e hanno deciso che la loro vita ha senso solo se li vede insieme.
Già dal 1939 gli amici Hans Pollnow e Heinrich Zimmer affermavano che il mondo intero «attende il gesto della partenza» per Parigi (15 marzo 1939; SW 188),16 ma un pungolo nella carne trattiene Jaspers alla sua origine: per «l’unicum del mio genere di malattia non c’è da attendersi immedesimazione né riconoscimento, perché nessuno ne è al corrente e perciò nessuno lo capisce» (ib.).17
Il grande filosofo vive la piccolezza della sua (r)esistenza di fronte all’isolamento, all’incomunicabilità, ed è sull’orlo della resa e della disperazione della verità (a questa sua situazione emotiva pensavo quando rileggevo le pagine di Nietzsche): Jaspers chiama tutto questo realtà «evidente», ma anche realtà «invalicabile» cui venire a capo nella sua intrascendibilità (cfr. 15 marzo 1939; SW 188). Evidente e invalicabile… Ecco la realtà del limite, della situazione limite, dell’esperienza vissuta della finitezza.
L’incertezza viene quindi alla parola: «io non posso dire che non abbandonerei la Germania…» (27 maggio 1939; SW 196).18 Del resto, l’esperienza della malattia insegna che il contrario di vivere non è morire ma non vivere. Karl e Gertrud, in un paese straniero, malati, senza la koinè familiare della lingua tedesca, profughi… questo è non-vivere.
Di fronte a quest’idea, che amici e conoscenti non possono capire e ritengono altezzosità e orgoglio teutonico (l’orgoglio di non voler chiedere aiuto), Jaspers non può nulla — murato vivo nella diaspora casalinga dal silenzio che gli impone la situazione limite della sua malattia. E allora scrive (togli loro tutto, ma ai grandi (r)esistenti restano sempre idee e penne: non può nulla, allora scrive):19
non la vita come esistenza a ogni costo, ma l’esistenza che diviene fertile (27 marzo 1939; SW 195) .
Non la vita come valore irrelato ma il vivere, l’esser-vivo, cioè il progettare, il relazionarsi con ulteriorità prossime ma difficili, e soprattutto con l’ulteriorità interiore che è la trascendenza che l’io stesso è a se stesso. Ed ecco quindi che il senso dell’esistere si incarna nella concreta ed effettiva possibilità del trascendimento:
La vita è possibile soltanto se si fonda sulla trascendenza (1º aprile 1939; SW 196).
Certo, la vita da esule potrebbe attuare per Jaspers quel trascendimento esistenziale come realizzazione dell’idea altrimenti astratta del suo pensiero: potrebbe essere quell’ensarkosis, quell’incarnazione dell’altrimenti (solo) puro logos, quella Verwirklichung che Feuerbach assumeva come prospettiva per il pensiero dopo la grande avventura dell’idea hegeliana.
All’estero, affidati unicamente a noi stessi, [senza diritti da tedeschi, senza la lingua comune] diviene forse più vero nella sua terribilità che all’uomo non rimane che il suo Dio. È un nichilismo universale che non va vissuto, ma che quando è reale e vero può forse compiere il passo più profondo verso la trascendenza. Ma questo è così difficile dubbio! (17 marzo 1939; SW 192).
E tuttavia Jaspers non può. Trascendere per lui vuol dire altro: vuol dire restare, (r)esistere.
Qui come vittime noi siamo a casa nostra, innocentemente sacrificati, però circondati e raccolti dal genius stesso, profondamente sofferente, che qui muore con noi e tuttavia è eterno (16 marzo 1939; SW 191).
Il trascendere si fa interiore, non formale ma esistenziale. Come nella sua Metafisica Jaspers non compie quel salto nella trascendenza ché consisterebbe per lui nella perdita della finitezza, del tempo e della storia e, in una parola, dell’esistenza stessa; così nella sua vita egli non può abbandonare la propria origine.20 Diviene quindi martire dell’ingiusta sofferenza di molti. Ma per far questo deve assumere al suo interno un nuovo limite da trascendere, questa volta, pienamente e con decisione: quello tra vivere e morire.
Io posso rimanere qui soltanto se sono pronto, a un determinato momento, a morire con Gertrud (17 marzo 1939; SW 192).
Se il limite esterno (il confine con l’estero) è invalicabile, (peraltro per un «altro» limite interno, cioè la malattia), valicabile e da valicare è invece il confine interno tra vita e morte. Se la costante tensione del vivere (e del filosofare) è il trascendere, Jaspers, murato nella solitudine della diaspora casalinga, può ancora trascendere nella possibilità della morte, purché essa sia scelta e non subita.
Il suicidio è un intervento, rimanere in vita no (16 marzo 1939; SW 190) .
La vita diverrebbe una patologia, nel senso letterale e kantiano del termine, più grave della malattia che lo affligge e lo determina. E Jaspers, determinato a non subire, sa che il confine tra vivere e morire (non tra vita e morte come determinazioni sostanziali della vita, ma vivere e morire come atti esistenzialmente autentici) corre nella solitudine della propria coscienza: è un limite tutto interiore.
Intimo come l’unica cosa di cui vale ricercarne il senso, come afferma Albert Camus,21 il suicidio è quindi una prospettiva per l’esistenza solitaria ma non isolata. Anzi è proprio la possibilità della condivisione che fa emergere il limite alla luce della massima chiarezza esistenziale. Come Maria von Wedemeyer può scrivere al suo amato Dietrich Bonhoeffer:
Ho tracciato con il gesso una linea intorno al mio letto all’incirca della grandezza della tua cella. Ci sono un tavolo e una sedia, così come mi immagino. E quando sto seduta qui credo quasi di essere con te. Se solo lo fossi veramente (26 aprile 1944).22
Così Karl Jaspers può incarnare l’esperienza del limite che unisce:23
Ma il fondamento delle nostre azioni deve rimanere che non ci separiamo l’uno dall’altra (17 marzo 1939; SW 194).
A più di un anno di distanza, quando la tragedia oramai è alle porte, al punto che viene da sorprendersi del fatto che tardi così lunghi mesi, Jaspers (r)esiste nel suo tener fermo il limite che unisce:
Gertrud torna continuamente al proposito di voler morire da sola, di non voler annientare contemporaneamente me — la tormenta la mia morte, non la sua. Vuole da me il permesso di poter lasciare questa terra da sola.
Ma non posso tollerare che lei muoia senza di me. I poteri che la costringono a morire uccidono anche me. Questa è solidarietà assoluta» (16 novembre 1940; SW 198).
Anzi, le annotazioni sempre più rare si concentrano sull’esperienza vissuta del limite che disegna una originale filosofia del finito:
Sperimentiamo i confini entro cui le considerazioni che mirano a uno scopo vengono meno (21 novembre 1940; SW 199 — corsivo mio).
Noi possiamo vivere soltanto dove siamo — oppure dobbiamo morire. La mia malattia, la sua età e la sua salute sofferente sono delle barriere (ibid. — corsivo mio).
Ancora più di un anno dopo ritorna, con più forza se possibile, la possibilità reale, anticipata nell’idea, del suicidio che «non è più suicidio se è la dignitosa anticipazione della pena capitale» (14 agosto 1942; SW 201):
Dio non vuole qualsiasi miseria: egli conduce l’uomo in situazioni che quest’ultimo deve spezzare con il proprio agire, in modo da non dovere sprofondare in una vita di impotenza assoluta fino alla perdita della dignità nella sofferenza. Esiste questo limite, oltre il quale il suicidio non è più un vero suicidio. È importante solo non ingannarsi riguardo a questo limite per restrizioni depressive della prospettiva o per un anelito alla morte. Dove il limite è chiaro, l’uomo difficilmente si congeda dalla vita. Infatti vorrebbe vivere e poter portare a compimento ciò che gli è possibile, vorrebbe rimettere la morte al volere divino e non intervenire autonomamente. Ma rimanere in vita una volta giunti al limite reale sarebbe come una colpa — da non pronunciare mai giudicando gli altri, ma di fronte a se stessi nell’esperienza fondamentale (14 agosto 1942; SW 202 — corsivi miei).
4. L’ethos umanitario come sentimento dell’asimmetria
Il contributo unico di Jaspers come educatore consiste proprio nell’esperienza vissuta della fragilità umana, della sua finitezza e della fecondità della consapevole assunzione di responsabilità del limite consaputo: nella capacità di dire «io non posso!». Che è una variazione esistenziale sul tema del naufragio (delle pretese categorializzanti dell’intelletto) su cui tante pagine sono state scritte. Ebbene l’ethos umanitario è proprio l’atteggiamento, la tonalità riflessiva ma anche emotiva, di colui che sperimenta una situazione di squilibrio ed è chiamato a dare una risposta, perché l’indifferenza non è una opzione possibile.24
La testimonianza e il martirio25 offerti da Jaspers sono anche per questo con più forza richiesti a chi ne legge le cifre nell’esistenza. Lo stesso vale per il martirio di Bonhoeffer e dei tanti anonimi (r)esistenti del secolo scorso: grandi educatori silenziosi che chiamano alla responsabilità non già stabilite né disponibili, perché l’uomo è affidato a se stesso — e questo è il fondamento della sua fragilità, ma anche della sua grandezza.
Questa difficile risposta ha il nome di cura, che si dispiega con più forza in dürftiger Zeit, quando la legge della quotidianità è sospesa e il suicidio diviene effettiva possibilità. È un paradosso, certo, ma Jaspers preferisce la libertà del paradosso alla gabbia d’acciaio, in qualsiasi forma essa si presenti.
Ebbene, la libera possibilità di assumere come possibilità anche il suicidio, è quello stesso atteggiamento che altrove, nelle opere dedicate alla professione medica raccolte nel testo italiano Il medico nell’età della tecnica,26 Jaspers chiama appunto ethos umanitario.
Ripeto: l’ethos umanitario è l’atteggiamento emotivo e razionale con cui l’io si rapporta a una situazione di squilibrio, a un urto — ché vivere vuol dire impattare con un urto. Ebbene, la medicina e l’esperienza della sofferenza sono altrettante esperienze di urti che urgono e chiedono risposte personali. Il medico (Jaspers) si fa filosofo. Non è evoluzione, ma salto; accorato tentativo di trovare un senso laddove il limite non è chiaro.
L’urto (Anstoß), già nella sua versione fichtiana, è l’incontro con un non-io che per un certo verso è esterno, e come tale è sentito come ostacolo estraneo e inatteso che costringe l’io a ripensarsi in vista di un nuovo equilibrio; per un altro verso è interno e già da sempre mio, ché non avrebbe la capacità di creare rimbalzi interiori, reazioni vitali se fosse davvero solo estraneo. Anzi proprio se interiorizzato, l’urto diviene più devastante e fecondo allo stesso tempo. Al punto che spesso esso si presenta senza l’irruzione effettiva di un altro, ma solo con la presa di coscienza di una estraneità interiore27 che urge più di qualsiasi limite esterno. Basti pensare a quanto scriveva un ventunenne Karl Jaspers sull’orlo del suicidio per colpa della malattia polmonare cronica: nel diario alla data del 31 dicembre 1904:
Sono un uomo morto. Insopportabile per la maggior parte degli uomini. Niente più consenso spirituale con un qualsiasi amico, nessun amore per una donna, nessuna produttività — ha ancora uno scopo per me vivere? … Che fare! Trarre dalla pianta cresciuta deforme quanto è in qualche modo possibile, inserirla nel contesto delle persone sane e fare in modo che contribuisca in piccola parte a ciò che i sani fanno facilmente e in misura maggiore. — Ma la possente inclinazione a pormi da malato in contrasto con il mondo dei sani, ad assumere come principio la malattia, a considerarla come una vita particolare e differente che va accettata allo stesso modo? Come si deve chiamare questo? — recitare la parte (31 dicembre 1904; SW 169).
La malattia quando il corpo diventa gabbia e la dittatura quando la società diventa gabbia sono situazioni-limite che chiamano al filosofare prima e il filosofare alla scelta poi: l’idea all’azione.
Ecco quindi che l’ethos umanitario è anche e soprattutto l’atto con cui l’uomo torna a se stesso e diviene così finalmente se stesso. È atto di responsabilità, risposta, di cui la domanda era la questione etica fondamentale, il disperato «Che fare?! ».
Ebbene, a me pare che a quarant’anni di distanza quel disperato interrogativo abbia trovato nell’esperienza vissuta del limite sperimentato nel suo doppio bordo, interno ed esterno, una risposta non ortodossa né organica alla tradizione umanitaria e illuminista che da Rousseau e Kant in poi pone il fondamento di ogni forma di vita sociale nel concetto di uguaglianza. Intendo dire che Jaspers nella propria esistenza traccia il sentiero di un ethos umanitario di tipo non orizzontale28 (fondato appunto sull’uguaglianza e sulla reciprocità delle relazioni umane, e in fondo sulla regola aurea, che è anche precetto evangelico: non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te). La «solidarietà assoluta»29 tra Karl e Gertrud si fonda infatti su di un tipo di ethos umanitario verticale, che non deriva dal principio rappresentato dal terzo articolo della nostra Costituzione italiana, ma dall’esperienza della differenza e dell’asimmetria. Gertrud dice «io non posso» (vivere nella Germania nazista) mentre Karl sa che potrebbe, se solo volesse rinunciare alla condivisione assoluta con la moglie. L’uguaglianza, e la conseguente pari dignità, è sancita dalla ragione ma non dai fatti. Essa del resto è (solo) un’idea, e il fatto che la Germania sia stata nazista dimostra che l’uguaglianza doveva essere legge universale ma poteva anche non esserlo — come è accaduto.
Qui l’esempio educatore di Schopenhauer, Nietzsche e Jaspers (ma potrei aggiungere anche quello di Victor Frankl e del suo homo patiens)30 diviene rivoluzionario: quando il filosofo dice che l’uomo è un essere razionale e su questo fonda il proprio sistema, l’esperienza vissuta della finitezza umana fa dire che l’uomo può essere razionale — è un’idea — ma può anche non esserlo. Quando il sociologo dice che l’uomo è un animale sociale e su questo fonda il suo mestiere, qualcosa fa dire che l’uomo può essere sociale, ma può anche non esserlo. E se è vero che l’uomo è uomo a prescindere da quello che fa, che ha, dalla qualità e dalla quantità, dalla modalità e dalle relazioni della sua vita… ebbene, se egli dovesse essere privato di questi «accidenti» non ne resterebbe che… un’idea, appunto. Niente!
Ecco quindi l’esperienza del «nichilismo universale», invalicabile dice Jaspers (non il professore filosofo pubblico, ma l’uomo Karl pietrificato dalla paura della sofferenza, della solitudine, dell’assenza di comunicazione), che emerge solo nelle situazioni-limite, come quelle sperimentate tra nazismo e malattia:31 il nazismo è stato annientamento (Vernichtung), e la (r)esistenza (Widerstand), al contrario, è stata il tener fermo a quel niente che può ancora qualcosa se solo può ancora affermare, come novello Bartleby, «io non posso!».
Seguendo la lucida testimonianza-martirio di Jaspers dell’annientamento dell’io privato dei suoi caratteri accidentali, proviamo ora a indugiare ancora brevemente sull’asimmetria, sul limite invalicabile che corre tra io e non-io, tra idea e realtà; sul fatto che nessuna reciprocità, nessuna sostituzione vicaria mi farà mai prendere i panni dell’altro e che qualora mi mettessi dal punto di vista dell’altro forse compirei uno dei più gravi atti di egoismo, perché farei dell’altro un altro io, quando invece la vita mi insegna ogni giorno che non c’è amplesso che possa annullare la verginità dell’altro. Una verginità, un’originalità, un’unicità che finisce sempre per riemergere, stupirmi, spiazzarmi… e affascinarmi.
Come ho cercato di affermare altrove,32 la regola aurea pare non reggere, soprattutto nei confronti della situazione-limite della sofferenza nella cui asimmetria l’io sente il privilegio di essere fuori questione, al sicuro sullo scoglio di Lucrezio mentre gli altri ancora annaspano, ma anche il pudore di essere lì o, come Jaspers, la colpa di essere sopravvissuto. Ma allora, l’altro diviene mio giudice e maestro: il suo non potere abbatte (non annienta) il mio potere e l’«io non posso!», nel sentimento dell’asimmetria, nell’ethos che tiene fermo allo scandalo di questa differenza che urge, diviene il limite che unisce. La sofferenza, lo ripeto, sentita più che compresa o superata concettualmente, può essere il limite che unisce.
L’ethos umanitario orizzontale era l’espressione, legittima e per certi versi doverosa, della ragione che calcola condivisioni, limiti, mosse d’uguaglianza. Ora l’ethos umanitario verticale costringe la ragione a pensare l’asimmetria.
Goethe ci dà un immagine chiarificatrice della grande sfida della ragione nei confronti dell’alterità. Quando Faust ha evocato lo spirito ma ancora ne ignora l’identità demoniaca, si rivolge a lui tutto eccitato: parlami, spirito, sono Faust, uguale a te, io sono simile a te, isòtheos. La risposta, agghiacciante e bellissima, rimarca il chorismós, la differenza incolmabile: «Tu somigli allo spirito che comprendi, non a me».33 Io non sono quello che tu comprendi.
Pensare questa relazione impossibile, pensare l’asimmetria è la sfida più alta per il pensiero. Non giustificare l’asimmetria, ma iscriverla all’interno di un orizzonte, la vita, che dà scacco alla ragione. Questo è il lascito di Schopenhauer, Nietzsche e Jaspers come educatori.
Di qui, da questa compressione o depressione, da questo vuoto e da questa impossibilità, può nascere il filosofare. Ma anche la riflessione autenticamente politica, o quella relazione di cura (empatica ma non sostitutiva) che è all’origine della cura e della medicina. E infatti Jaspers si muove tra questi campi dell’umano sempre con assoluta legittimità e competenza che gli vengono dall’essere umano e sofferente insieme.
Come lo spirito per Faust così l’amore di una vita o la patologia come compagna di vita, o infine la patria martoriata come orizzonte intrascendibile per Jaspers sono relazioni asimmetriche, impossibili ma insuperabili, che chiamano alla responsabilità l’ethos umanitario (nella sua tonalità verticale) dell’io (r)esistente.
Si comprende allora il senso del rifiuto di Jaspers di ogni formulazione pedagogica da manuale. Si chiarisce anche il senso di quell’espressione che ha dell’incomprensibile e che infatti Jaspers cerca di spiegare con migliaia di pagine: l’esistenza è umgreifende. Solo l’esistenza ne chiarisce il senso in un solo sguardo: l’incomprensibile-totalità-comprensiva che è l’io, che è il mondo, che è la Trascendenza stessa è la difficile traduzione teoretica del semplice e impossibile atto dello stare di fronte a qualcosa che urge, nella necessità e nell’impossibilità di rispondere. Qualcosa o meglio qualcuno di in-comprensibile ma sempre prossimo, a costo della vita che altrimenti sarebbe non-vivere. Come Gertrud per Karl.
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E di seguito: «Per l’uomo è vitalmente impossibile avere, come per gli animali, una originaria perfezione. Egli deve acquistarla quale forma della propria vita, poiché non è compiuto sin dall’inizio ma è affidato a sé stesso». ↩︎
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Un tentativo di raccogliere le sue riflessioni sul tema è confluito in Was ist Erziehung. Ein Lesebuch, a cura di H. Saner, Piper, München 1977. In italiano sono apparsi i seguenti testi sul tema: I limiti dei piani pedagogici (Von den Grenzen pädagogischen Planens, in «Basler Schulblatt» 1952; ristampato poi in K. Jaspers, Philosophie und Welt, Piper, München 1963, pp. 28-38) e Libertà e autorità (Freiheit und Autorität, in «Atti» della conferenza svizzera dei presidi delle scuole superiori; ristampato anch’esso in K. Jaspers, Philosophie und Welt, Piper, München 1963, pp. 41-64). Entrambi nella raccolta a cura di Antonio Ponsetto Verità e verifica. Filosofare per la prassi, Morcelliana, Brescia 1986 (pp. 23-31 e pp. 33-53). ↩︎
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In Von den Grenzen pädagogischen Planens si legge: «Dobbiamo guardarci non dal pianificare in sé, ma da un falso spirito di questo far piani e da un pianificare che vuole coinvolgere anche l’inafferrabile» (trad. it., p. 25). ↩︎
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K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Walter De Gruyter, Berlin 1936 (19744); trad. it. parziale (pp. 16-21, 365-367, 392-400, 401-410) in La mia filosofia, a cura di R. De Rosa, introduzione di N. Bobbio, Torino, Einaudi 1946, pp. 49-88; trad. it. integrale (di cui nel testo cito le pagine dopo quelle dell’edizione tedesca di riferimento) Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, a cura di Luigi Rustichelli, Mursia, Milano 1996. Si veda in particolare il paragrafo finale dal titolo Die Aneignung Nietzsches, pp. 449-460; trad. it., L’assimilazione di Nietzsche, pp. 404-414. ↩︎
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L’opera di Nietzsche è citata con la sigla S seguita dal numero della pagina dell’edizione tedesca a cura di Karl Schlechta, Werke in drei Bänden, Hanser Verlag, München 1954 (vol. I, pp. 287-365) e dal numero della pagina della traduzione italiana a cura di S. Giametta e M. Montinari (Einaudi, Torino 1981). ↩︎
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Mi piace mettere la r tra parentesi, come ho già fatto altrove, per esprimere il carattere conflittuale ed essenzialmente resistente dell’esistenza, e, allo stesso tempo, il carattere esistenziale di ogni atto umano (cfr. C. Fiorillo, Il “cattivo soggetto” e le domande dell’ermeneutica, in questa rivista, 12 (2010), disponibile sul web <https://mondodomani.org/dialegesthai/claudio-fiorillo-09>). ↩︎
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«Es ist das letzte Paradox dieses paradoxen Denkers, daß er es allein wagte auf die Wahrheit hin, die verbindet», Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1970, p. 157. ↩︎
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«Wer einmal an der Hegelei und Schleiermacherei erkrankte, wird nie wieder ganz kuriert» (F. Nietzsche, Unzeitgemäße Betrachtungen, I: David Strauss, der Bekenner und der Schriftsteller (1873), in Nietzsche Werke: Kritische Gesamtausgabe, hrsg. G. Colli e M. Montinari, III, 1 Walter de Gruyter, Berlin 1972, p. 187; trad. it., Considerazioni Inattuali I, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg., vol. III, tomo I, p. 48). ↩︎
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Cfr. C. Fiorillo, Die einende Grenze: Paradoxon, Kommunikaiton, Leid, in AA. VV., Glauben und Wissen. Zum 125. Geburstag von Karl Jaspers, a cura di A. Hügli, C. Chiesa e S. Wagner in “Studia philosophica” 67 (Schwabe Verlag, Basel 2008), pp. 109-124; traduzione riveduta e ampliata in questa rivista (anno 12, 2010) col titolo Il limite che unisce: paradosso, comunicazione, sofferenza. Il concetto di «limite» in Karl Jaspers, disponibile su World Wide Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/claudio-fiorillo-10>. ↩︎
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Sul rapporto Jaspers—Nietzsche e dedicato il terzo capitolo di AA.VV., Karl Jaspers, Philosopher among Philosophers. / Philosoph unter Philosophen, Königshausen & Neumann, Würzburg 1993, con contributi di E. Arriagada-Kehl, R.S. Corrington, R.L. Howey, K. Gorniak-Kocikowska. Cfr. inoltre R.L. Howey, Heidegger and Jaspers on Nietzsche. A critical examination of Heidegger’s and Jaspers’ interpretation of Nietzsche, M. Nijhoff, The Hague 1973. O. Meo, Motivi psicopatologici nell’interpretazione jaspersiana di Nietzsche, in AA.VV., Karl Jaspers. Filosofia — Scienza — Teologia, cit., pp. 170-182; G. Penzo, Verità e libertà nei filosofi dell’esistenza. Nietzsche, Heidegger e Jaspers, in AA.VV., Verità e libertà oggi, Ed. Massimo, Milano 1999, pp. 118—131; K. Salamun, Karl Jaspers und Friedrich Nietzsche. Zur Nietzsche-Rezeption von Jaspers, in «Jahrbuch der österreichischen Karl-Jaspers-Gesellschaft», 13 (2000), pp. 9—25. ↩︎
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Cfr. K. Jaspers, Von der Wahrheit, Pieper & Co. Verlag, München 1947, p. 1. ↩︎
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Sul concetto di «io capace», speculare a quello di «io non posso», si dovrebbe lavorare a lungo. Mi permetto di rimandare alle riflessioni di Ricœur sull’homme capable (cfr. AA.VV., Paul Ricœur. De l’homme faillible à l’homme capable, a cura di Gaëlle Fiasse, Puf, Paris 2008). ↩︎
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Mi permetto di rimandare con questa citazione al mio Fragilità della verità e comunicazione. La via ermeneutica di Karl Jaspers, Aracne, Roma 2003, pp. 285 sgg. ↩︎
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Jaspers era affetto fin dalla nascita da bronchiectasia incurabile, una forma di insufficienza cardiaca che procura costanti difficoltà respiratorie. Cfr. K. Jaspers, Philosophische Autobiographie (Erweiterte Neuasgabe), Piper, München 1977, seconda ed. 1984, p. 12; trad. it., Autobiografia filosofica, a cura di E. Pocar, Morano, Napoli 1969, p. 15. Si veda anche Schicksal und Wille. Autobiographische Schriften (abbr. SW), a cura di H. Saner, Piper, München 1967, p. 20; trad. it., Volontà e destino. Scritti autobiografici, Il Melangolo, Genova 1993, p. 25. Di seguito riporterò molte citazioni dalle pagine del Diario 1939-1942 che nell’edizione originale sono alle pagine 143-163 (in quella italiana pp. 179-204) e per non appesantire i rimandi citerò solo la data dell’annotazione e il numero della pagina italiana. ↩︎
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Cfr. quanto ricorda Hans Saner, amico e curatore delle edizioni delle sue opere, nella prefazione a SW (p. 14). ↩︎
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Cfr. anche K. Jaspers — H. Zimmer, Briefe 1929-1939, in «Jahrbuch der Österreichischen Karl-Jaspers-Gesellschaft», 6 (1993) p. 18. ↩︎
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Che tale reticenza risulterà provvidenziale Jaspers non poteva certo saperlo, né se ne vanterà in seguito alla rapida caduta della Francia (cfr. 16 novembre 1940; SW 199). ↩︎
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E di seguito: «Lo farei se mi venisse offerta senza condizioni un’esistenza degna e moralmente indipendente. Allora porterei avanti la mia filosofia all’estero come tedesco. Ma non lo faccio se finisco per essere moralmente dipendente» (27 maggio 1939; SW 196-197). ↩︎
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Torna ancora una volta quel pensiero di Pascal inciso a fuoco nell’esperienza filosofica della finitezza umana: «Pensiero sfuggito, lo volevo scrivere, scrivo invece che mi è sfuggito» (B. Pascal, Pensées, in Œuvres de Blaise Pascal, a cura di L. Brunschvicg, P. Boutroux e F. Gazier, Paris 1904-1914, n. 372; trad. it. in Id., Pensieri, Opuscoli, Lettere, a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 19903, p. 439. Cfr. C. Fiorillo, Pensiero sfuggito. Variazioni su un tema pascaliano, in AA.VV., Interruzioni, Note sulla filosofia di Ugo Perone, a cura di E. Guglielminetti, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 43-53). ↩︎
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Il giorno seguente scrive: «È fragilità d’animo il fatto che io abbia una così forte tendenza a restare qui, così forti preoccupazioni riguardo all’estero, il fatto che all’estero io esiga la sicurezza della base materiale e quindi la libertà psichica dalle preoccupazioni come condizione per la possibilità di superare tutte le altre difficoltà che io mi aspetto da me stesso? O vi si nasconde la saggezza dell’istinto, che sa cosa posso aspettarmi da me e cosa no? Se questo diventasse chiaro alla mia anima, dovrei passare d’un balzo sopra alla fragilità. Se però io per una presunta comprensione di tale fragilità mancassi il segno delle mie capacità, non sarebbe la più grande follia, ma un fallimento morale» (17 marzo 1939; SW 194). ↩︎
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Cfr. A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942; trad. it., Il mito di Sisifo, a cura di A. Borelli, Bompiani, Milano 20087, p. 7. ↩︎
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D. Bonhoeffer, Brautbriefe. Zelle 92. Dietrich Bonhoeffer — Maria von Wedermeyer 1943-1945, C.H. Beck, München 1992; tr. it., Lettere alla fidanzata. Cella 92. Dietrich Bonhoeffer — Maria von Wedermeyer 1943-1945, a cura di M.C. Murara, Queriniana, Brescia 19953, p. 174. ↩︎
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Cfr. C. Fiorillo, Die einende Grenze: Paradoxon, Kommunikaiton, Leid, ed. cit. ↩︎
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Non a caso, la questione filosofica fondamentale per Camus è, come già ricordato, proprio la questione del suicidio (cfr. A. Camus, Le mythde Sisyphe, ed. cit.). ↩︎
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Il fatto che il martirio non si sia poi consumato non toglie nulla la valore della sua testimonianza. Anzi, come egli stesso affermerà in seguito, forse la sua colpa consiste proprio nell’esser sopravvissuto. ↩︎
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K. Jaspers, Der Arzt im technischer Zeitalter, Piper, München 1986; trad. it., Il medico nell’età della tecnica, a cura di di M. Nobile, Raffaello Cortina, Milano 1991. ↩︎
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L’espressione è di Armando Rigobello, e ben traduce il multivoco termine jaspersiano trascendenza. ↩︎
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Riprendo qui e ripenso alcune riflessioni presentate dal mio maestro, Ugo Perone, L’asimmetria della pietà, in AA.VV., Le passioni della politica, vol. 2, Edizioni Solaris, Roma 2012, pp. 42-54. ↩︎
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Cfr. sopra e appunto del 16 novembre 1940; SW 198. ↩︎
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Torna alla mente il toccante scritto di Emilio Baccarini Homo patiens: il significato etico-antropologico della sofferenza, nel suo La persona e i suoi volti. Etica e antropologia, Anicia, Roma 1996, pp. 187-197. ↩︎
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Sempre Albert Camus, come sappiamo, paragona il nazismo alla malattia della peste. ↩︎
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Cfr. C. Fiorillo, Rischio e responsabilità. Una questione etica tra abilità tecnica ed ethos umanitario, in AA.VV., Il rischio clinico. Metodologie e strumenti organizzativi gestionali, a cura di A. Panà e S. Amato, Esseditrice, Cecchina-Roma 2007, pp. 43-60. ↩︎
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W. Goethe, Faust, vv. 512-513. Per un’analisi più approfondita di questo passo fasutiano rimando al mio Il “cattivo soggetto” e le domande dell’ermeneutica, ed. cit. ↩︎