1. L’urgenza della questione del limite: il «di fronte» da salvare
Negli atti del Convegno internazionale tenutosi a Napoli nel 19991 ben tre interventi sono dedicati al tema del limite in Jaspers. Si tratta dei saggi: Comprendere ed esistere. “Limite” e “comunicazione illimitata” in Karl Jaspers di Donatella Di Cesare, Il concetto di limite nel Nachlass sulla Logica filosofica di Silvia Marzano e infine Consapevolezza del limite e responsabilità dell’esistere di Angela Giustino. Ad essi vanno aggiunte le riflessioni di Reiner Wiehl sull’ethos della differenziazione, che è anche ethos della limitazione, che anima il pensare jaspersiano.2 Nel rendere merito ai contributi di questi illustri jaspersiani, è lecito interrogarsi sul motivo di tale insistenza e sul significato di un’ulteriore ripresa del tema del limite.
Ebbene, solo all’interno dell’orizzonte tematico disegnato dalle feconde riflessioni jaspersiane intorno al concetto di limite sono pensabili l’uomo, l’esistenza e le sue possibilità, e la trascendenza stessa. Ed è proprio intorno al concetto di limite che si gioca la battaglia, o la lotta amorosa, tra ragione e fede.
Del resto la questione del limite continua a dar da pensare per chi, lungo il sentiero tracciato da Jaspers, ritiene compito primario della riflessione filosofica pensare ulteriormente il nesso che lega i concetti di limite e possibilità. Un dar da pensare che tuttavia non esaurisce l’esigenza di logon didonai, cioè di render conto, mediante categorie intellettuali, della realtà dell’esperienza del limite. Ed è stato proprio Jaspers, con il pensiero ma anche con la stessa vita, a convincerci dell’ineludibilità di tale riflessione e dell’urgenza di ulteriori approfondimenti, nel tentativo di trovare sempre nuovi paradigmi di dicibilità del limite (ovvero di dicibilità dell’umano).
Limite e possibilità in effetti costituiscono un circolo (che potremmo anche definire ermeneutico) in cui un concetto si capovolge nell’altro senza tuttavia esaurirsi, ma lasciando non pochi fecondi residui; e solo nella compresenza di entrambi, pur nella loro reciproca differenza, qualcosa accade per il pensiero che indaga senza pregiudizi.
A me pare si possa pensare il rapporto tra limite e possibilità sotto tre differenti prospettive: una prospettiva ontologica che apre al pensiero del paradosso, una prospettiva etica che apre alla comunicazione e infine una prospettiva esistenziale che apre a quella che, con un’espressione dello stesso Jaspers, potemmo chiamare la «via della sofferenza» (Weg des Leidens). Sulle prime due esiste già uno scandaglio storico notevole; mi soffermerò pertanto sulla «via della sofferenza».
Un secondo motivo per cui, a mio avviso, merita tornare sul concetto di limite è la singolare consonanza tra materia e forma che in esso avviene. Al concetto di limite infatti accade quel che capita al suo contenuto: entrambi hanno la ventura che non ci si soffermi su di loro, ma che si vada sempre di là di essi: del limite non si può parlare se non come del limite “di” qualcosa. E come esso è tale solo in quanto cede, più o meno immediatamente, il posto a ciò che lo segue, così il concetto di limite è subito superato, e per un certo verso riempito, dal genitivo che lo segue. È pertanto inevitabile che si parli del limite (o dei limiti) del finito, della filosofia, dell’uomo o del comprendere, etc. .3
Ora, soffermarsi sul tema del limite vuol dire spostare il fuoco dell’attenzione dal complemento di specificazione al soggetto, ossia rendere soggetto il limite. Ma questa è un’operazione destinata al fallimento, giacché il limite per sua natura sfugge a ogni tentativo di determinazione, dal momento che è esso stesso termine che delimita. Qualcosa di simile accade anche al soggetto propriamente detto, cioè all’uomo: entrambi sono qualcosa che non può essere ridotto a oggetto, ma che può essere chiarito solo negli effetti delle sue azioni e delle sue delimitazioni, nelle relazioni che in esso sono poste e che esso stesso consente.
Posto sotto questa luce, per così dire laterale, e per un certo verso prima ancora della distinzione tra Grenze e Schranke, tra frontiera consapevole e barriera proibitiva ovvero tra «passaggio ad un Altro» (Übergang in ein Anderes) e «passaggio al Medesimo che già era» (Übergang in dasselbe, was woher war) per usare le espressioni del Nachlass sulla logica filosofica,4 il limite diviene cifra del trascendere.5 Se mi soffermassi sul genitivo che lo segue, infatti, è come se portassi a compimento quell’azione di über-hinausgehen (di andare oltre) che in ultima istanza essenzia il filosofare stesso. Compimento che coinciderebbe di certo con qualcosa (sia esso nella direzione dell’Altro e della trascendenza significata dal termine Grenze, sia nella direzione del Medesimo e del finito significato dal termine Schranke), ma che tuttavia comporterebbe una perdita non di poco conto: la perdita del limite, appunto, e quindi anche delle possibilità che il limite dischiude (pur nella forma del dislocarle di là di se stesso), poiché esso non è più il Medesimo, ma, allo stesso tempo, non è ancora l’Altro. Del resto, la filosofia di Jaspers vuole essere una filosofia del finito non ignara però della trascendenza: egli non intende compiere fino in fondo quel salto che tuttavia sempre annuncia e prepara, e assume come sua dimora quel luogo, per così dire penultimo,6 che è il sito della filosofia come esercizio dell’andare oltre, del trascendere appunto, rimanendo tuttavia ancorato alla storicità quale principio ineludibile di ogni filosofare possibile.
La filosofia del finito di Jaspers è quindi cosa ben diversa dalle barriere (o limitazioni) del finito. Il pensiero infatti non chiude il soggetto, al contrario ne prospetta un «al di là» da salvare. Un discorso intorno al limite del finito, corre il rischio di divenire infatti discorso intorno al finito (il Medesimo), o discorso intorno a ciò che finito non è (l’Altro). Invece l’indagine intorno al limite tiene fermo alla «soglia enigmatica» (rätselvolle Schwelle; PH II 41; 511) che unisce e divide il finito dal suo oltre, l’esistenza dalla trascendenza, il Medesimo dall’Altro, e nel traguardare oltre il limite è capace di pensare insieme, appunto, limite e possibilità.
Finito e infinito quindi, come poli antagonisti ma uniti nel limite, sono per l’esistenza, ognuno a suo modo, quella Trascendenza cui questa sta “di fronte”. L’espressione «di fronte» (angesichts) ricorre innumerevoli volte nelle opere di Jaspers ed è indice di un chiaro atteggiamento filosofico: pensare il limite vuol dire tener fermo a questo di fronte, ossia mantenere aperta la distanza che consente il dispiegarsi delle possibilità per il pensiero e per l’esistenza. Allo stesso modo vanno intese altre espressioni come “da lontano” (aus der Weite) e “attraverso” (quer), anch’esse frequenti e non ignare del limite, al punto che il compianto Giorgio Penzo — cui va il nostro affettuoso ricordo e omaggio — le indicava come categorie della “Trasparenza” (Durchsichtigkeit), la quale a sua volta è intesa da Penzo come interpretazione della Trascendenza.7
2. Lo statuto ontologico del limite: il paradosso
Il compito che mi sono posto, in questa come in precedenti occasioni,8 è quello di approfondire il tema del limite non tanto nella forma (peraltro già ampiamente sviluppata) di una descrizione genetica delle riflessioni che da esso scaturiscono, bensì con lo scopo di coglierne varianti alternative ad esso, frammenti interrotti ma dotati di possibile fecondità e attualità teoretica. Per far questo, mentre procede la pubblicazione delle opere complete di Jaspers, di appunti e inediti, non ho timore, in questa sede, di intraprendere la via opposta, ossia di tornare indietro a Filosofia e se possibile ancora oltre, a Psicologia delle visioni del mondo, nella consapevolezza che il pensare il prima alla luce del poi è un’altra modalità dell’indagine filosofica non priva di feconde possibilità, e nell’intento di recuperare tra pagine già lette e universalmente note pensieri che danno ancora da pensare.
In prima approssimazione quindi, a me pare che in Jaspers il limite sia qualcosa non da superare, lasciandolo semplicemente dietro di sé («il Medesimo che già era»), ma nemmeno da tenere davanti a sé come prospettiva sempre di là da venire («l’Altro»), ma piuttosto esso sia qualcosa da “abitare”, ovvero dilatare e scandagliare in tutte le sue pieghe. La filosofia di Jaspers è, nelle sue molteplici sfaccettature, un unico grande e reiterato tentativo di dire il limite da più prospettive (quella medica, quella scientifica, quella psicologica, quella filosofica, quella teologica, quella politica…), giacché esso non è, a meno che non vi si indugi.
Un approccio alla questione del limite in Jaspers non può che svolgersi peraltro all’interno di un orizzonte concettuale ben definito, in cui la questione del limite in senso lato — ossia di ciò che fa da ostacolo, resistenza, etc., ma anche di ciò che dischiude, come la soglia — è fuor di dubbio centrale e ripetuta. Muovendo dal pensiero kantiano, ma oltre Kant, la riflessione filosofica in Jaspers ruota intorno a quello che già per Fichte era l’urto (Anstoß) contro una resistenza allo stesso tempo trovata ed esigita, subita e desiderata. Urto che non vuole essere inteso come semplice dialettica interna al soggetto, ma che allo stesso tempo rifiuta la riduzione a mero fenomeno patologico (in senso kantiano) e quindi a una dialettica esterna che veda questi solo passivo.9
Il dire il limite disegna un contesto di opposizioni: dentro/fuori, interno/esterno, soggetto/oggetto, Medesimo/Altro… E tuttavia, Jaspers vuole rifuggire dal gioco della determinazione reciproca di soggetto e oggetto (proprio del pensiero che non sa né può andare oltre le categorie dell’intelletto), come pure dal circolo hegeliano di esterno-interno già esistenzialmente smentito dalle riflessioni del Victor l’Eremita di Kierkegaard. Al contrario, compito del pensiero pare essere quello di chiarire, approfondire, descrivere il limite che divide i termini contrapposti (esistenza e trascendenza, in primis) in modo da poterli pensare comunque insieme. E solo un pensiero aperto al paradosso è capace di pensare uno insieme ciò che nel limite è opposto.10
Il paradosso è per il pensiero quel che per l’esistenza è esperienza vissuta del limite. La sintesi operata dal pensare avviene mediante l’estensione della soglia per cui i termini contrapposti divengono in essa, e solo in essa, qualcosa di reale. Tuttavia tale pensiero sintetico rimane dilaniato tra i corni dell’esigenza e dell’incapacità, e la sintesi-imperfetta rimane costantemente a rischio di naufragio (o nella sterilità del circolo o nell’impossibilità di una deduzione totale). Ne emerge quindi l’insufficienza epistemologica di una dottrina teoretica e la necessità, già presente in Kant e nello stesso Fichte, di una torsione dell’indagine verso il pratico e l’etica. È infatti nella prassi dell’esistenza che il limite trova la sua piena valenza: come per Fichte, del resto, il superamento esistenziale non comportava l’annullamento del non-io ma del solo non, consentendo così la realizzazione (pur sempre incompleta) di quell’infinito terreno che è compito dell’umanità; così per Jaspers il superamento esistenziale del limite e il suo paradossale (per il pensiero) mantenimento, comporta la manifestazione dell’essere più autentico. Nelle prime pagine di Filosofia si legge: «Ciò che esteriormente è determinazione e limite, interiormente è manifestazione dell’essere autentico» (PH, I 16; 127) .11
3. Lo statuto etico del limite: libertà e comunicazione
Il finito è tale in quanto ha limiti. Ma non saprebbe del limite se non sapesse già dell’infinito. Già Descartes nelle Meditazioni metafisiche aveva colto questa inevitabile connessione tra finito e coscienza dell’infinito. Ora, anche il limite non è nulla se non nella coscienza che di esso l’uomo può avere, sebbene nella coscienza esso sia già per un verso superato. In questo senso limite, coscienza del limite e suo superamento paradossalmente coincidono.12
Il sapere che il finito ha di sé è il suo stesso essere finito e allo stesso tempo il suo trascendimento. Ora, tale sapere può essere connotato negativamente o positivamente: come sapere di un limite esterno e di una determinazione ovvero come ambito di una possibilità. Se il finito, nella coscienza che ha di sé, si limitasse esclusivamente a constatare i propri confini (se cioè si concentrasse esclusivamente sul «Medesimo che già era»), si ridurrebbe inevitabilmente a mero esser-ci, in una situazione di sostanziale «vuoto esistenziale».13 Qualora invece tali confini fossero intesi non come esclusioni ma come possibilità, il finito diverrebbe punto di partenza per un cammino di comprensione aperto nel mondo (cfr. PH, I 16; 127-128). Proprio l’esperienza del limite rappresenta pertanto quell’istanza che può suscitare l’aspirazione a trascendere il limite stesso e aprire all’esserci le vie dell’esistenza.14 Ma questa aspirazione non potrà che permanere sempre al grado di possibilità, senza mai cioè realizzarsi pienamente. L’uscita dal mondo per l’uomo che in esso si trova a vivere, infatti, non può che connotarsi con i caratteri di un particolarissimo «reingresso nel mondo» (PH, I 35; 148), poiché la situazione storica si presenta per l’uomo come origine imprescindibile, limite invalicabile che l’io si porta dietro anche quando tenta di trascendere il mondo.
L’esperienza del limite è pertanto congeniale al filosofo, il quale se non si pone nella prospettiva del suo trascendimento propriamente non filosofa; ma allo stesso tempo, laddove tenta di superare il limite, corre il rischio di essere frainteso ovvero di fraintendere l’oggetto per la trascendenza: la filosofia «come pensiero trascendente sta al limite», dice Jaspers (PH, I 39; 153), vale a dire la filosofia si trattiene là dove il mondo come totalità del reale disponibile per l’intelletto si dissolve dispiegando così spazi aperti per possibili salti metafisici (cfr. PH, I 44; 158).
L’esperienza del limite apre all’esperienza dell’Altro, e questa a sua volta rivela l’urgenza della comunicazione. Ma questo passaggio (limite-altro-comunicazione) non è lineare né senza difficoltà. Esperire il limite non è già ipso facto esperire l’Altro, perché l’Altro è Altri (per usare l’espressione levinassiana), non il mio-limite. Ugualmente, quando sperimento l’Altro il limite è già passato, perduto. E quindi fare esperienza dell’Altro come limite non vuol dire fare esperienza dell’io, del Medesimo. Sarebbe egualmente improprio ridurre l’altro a mio-non-io e ridurre il mio io a limite-dell’altro.
È vero però che il mio limite è esposto al limite dell’altro e allo stesso tempo resiste e cede grazie alla forza del non-essere (né il Medesimo né l’Altro). E tuttavia, si tratta di un non-essere che tende all’essere — all’essere del Medesimo o all’essere dell’Altro, a seconda della direzione prospettica da cui il limite è colto. Ed è proprio l’effettiva possibilità di questo non-essere, che costituisce l’autenticità dell’esistenza possibile e fa delle riflessioni di Jaspers dei pensieri davvero fecondi.15
Tanto l’io quanto l’altro, tanto il soggetto quanto l’oggetto sono determinazioni che sfuggono al pensiero e per questo Jaspers afferma che l’Io come esistenza possibile sta al limite. E dice l’Io, non il Medesimo né l’Altro, giacché nonostante il soggetto sia solo una categoria dell’intelletto (contrapposta all’oggetto) è pur sempre quello che io sono. Come tale l’uomo non va oltre sé, si supera solo rimanendo in sé e in definitiva è limite a se stesso (cfr. PH, I 56; 170) .16
Ebbene, lo stesso cattivo infinito fichtiano (ossia l’indefinito superamento del limite) è il limite del finito, e «in questo limite […] si rende presente l’essere da un’altra origine» (PH, I 103; 222) .17 Proprio l’impossibilità del superamento del limite fonda la possibilità del trascendere nello spazio della possibilità, ossia del transitare dall’essere nel modo del semplice esserci all’esistenza come mondo della libertà rimanendo comunque sulla soglia del limite (cfr. PH, I 103; 222). Del resto, è proprio questa la natura antinomica dell’esistenza: quella d’esser da un lato situata nell’esserci e dall’altro rinviata alla trascendenza, ma allo stesso tempo il non poter stare in nessuno dei due. Finitudine e apertura infinita si modulano quindi in modo unico e paradossale18 e l’esperienza del limite converte l’esserci in esistenza, la chiusura in apertura e nell’abisso della libertà.
Il rapporto limite-libertà è approfondito ulteriormente dal binomio esistenziale tentativo-decisione. Con l’ausilio dell’intelletto che determina il proprio oggetto, infatti, la volontà sperimenta i propri limiti, ossia riconosce che ciò che si pone come proprio fine ultimo non è ultimo in assoluto, dal momento che essa non può oltrepassare in alcun modo l’onnicomprensività che la include, ma è solo un penultimo che rinvia a un oltre.19 Come un sapere non è nulla se non si esprime in enunciati di volta in volta determinati, così anche l’esistenza si dissolve se non realizza la necessità di scegliere a partire da se stessa, ossia se non agisce coscientemente all’interno dei propri limiti. È proprio nella consapevolezza dell’inderogabilità (Unaufhebbarkeit) di questi limiti che «l’esistenza raggiunge la sua profondità» (PH, II 161; 635) .20
La coscienza del limite trasforma il semplice esserci nell’origine consapevole di un futuro incerto: la decisione nella libertà e nella sospensione data dai limiti del finito apre lo spazio per il trascendimento della situazione stessa in una prassi responsabile dispiegantesi non al di sopra, ma nella mancanza di un fondamento obiettivo. Come tale, il risultato di questa prassi filosofica non potrà mai essere un enunciato valido universalmente, bensì un’esperienza che si potrà vivere e dire solamente ricorrendo a un linguaggio paradossale (cfr. PH, II 162; 635) o alla grammatica della «fede filosofica».21
4. La «via della sofferenza»: il limite che unisce
Paradosso, libertà e comunicazione sono altrettanti modi di dire il limite. Ma esistenzialmente il limite si dice “sofferenza”.22 «L’elemento comune a tutte le situazioni-limite è questo, che esse suscitano una sofferenza» (PW, 247; 287). Ancora un passo indietro, come si era anticipato. Queste parole di Psicologia delle visioni del mondo23 delineano il tema, esistenzialmente ineludibile, della sofferenza. «Il soffrire — scrive Jaspers — non è una situazione limite fra le altre; tutte le situazioni limite, dal punto di vista soggettivo, divengono sofferenza». Si tratta cioè di un trascendentale esistenziale24 che accompagna ogni esperienza umana.25
Il tema della sofferenza ha stimolato pagine toccanti in autori come Scheler, Heschel, Frankl, Levinas, Jonas, Pareyson. Proprio quest’ultimo pare schierarsi con Jaspers contro Hegel: non è tanto il limite come negazione ad essere il motore della storia, quanto piuttosto il limite come sofferenza. La negazione infatti è urto (Anstoß) che chiude il soggetto in sé, come del resto l’intera concezione dell’idea hegeliana: la negazione, scrive Pareyson in Ontologia della libertà, «non è la molla del progresso ma il cammino della perdizione». Al contrario la sofferenza ha i caratteri dell’idea kantiana: nella sua gratuità-assurdità essa è «l’energia nascosta del mondo, la sola capace di fronteggiare la tendenza distruttiva e di vincere gli effetti letali del male».26
Ma come si è giunti a questa interpretazione? Da Jaspers, appunto: la sofferenza è quel limite che, una volta esperito, spinge l’esistenza a reagire (e a vivere) in diversi modi o a rimanere inerme e a subire (e a morire) ma anche in questo caso in differenti modi.
Riprendendo le analisi di Max Scheler ne Il senso della sofferenza del 1916,27 Jaspers coglie quattro possibili atteggiamenti esistenziali nei confronti della sofferenza (rassegnazione, fuga, eroismo e atteggiamento metafisico-religioso), che sono altrettante interpretazioni esistenziali del concetto di limite. Questi atteggiamenti si muovono tra due estremi: da un lato il cavaliere kierkegaardiano dell’infinita rassegnazione (Agamennone, Giobbe) e dall’altro il cavaliere della fede (Abramo). Nel mezzo vi sono il nichilismo e l’eroismo come vie d’uscita pur sempre possibili.28
Ma Jaspers va oltre Kierkegaard. «La sofferenza prende un nuovo carattere per l’uomo, nella sua qualità di situazione, — scrive ancora Jaspers in Psicologia delle visioni del mondo — quando la si concepisce come un fatto supremo, un limite, un fatto inevitabile. La sofferenza non è più una singolarità, bensì appartiene alla totalità» (PW, 251; 292). Nel suo carattere di trascendentale esistenziale, la sofferenza diviene il discrimine che pone le condizioni tanto per l’autosignificanza del soggetto (ancora il Medesimo), quanto del salto in direzione della trascendenza (di nuovo l’Altro). Ed è questo quel che Jaspers pare intendere con due espressioni che mi piace in questa occasione affiancare e commentare brevemente: la «dolcezza dell’esserci» (Süße des Daseins — PH, II 225; 701) e le «prigioni della finitezza» (Gefängnisse des Endlichen — VE 12; 25).
Esse sono le due facce del limite, e, conseguentemente, della situazione umana. Da un lato l’io si trova nel mondo come nella propria dimora, ma dall’altro si sa sbilanciato verso una ulteriorità che lo segna nell’intimo. Un aspetto non esclude l’altro, anzi nell’esperienza del limite l’uno si rovescia nell’altro e la paradossalità della situazione umana sta proprio in questa dicefalia: il limite è il mio non-io che tuttavia è per me.29 Per l’uomo l’esserci non cessa d’esser dolce anche quando ne rivela drammaticamente la finitezza e si scopre come prigione, ma allo stesso tempo nessuna dolcezza è in grado di far dimenticare l’angustia della situazione che l’io porta sempre con sé, oltre ogni possibile trascendimento. Ancora di più: se la dolcezza dell’esserci non si rovescia in prigione angusta, se cioè non si mette in moto quella tensione all’infinito che lo essenzia, l’io non realizza quella particolare e-mergenza che è il suo stesso esistere. Privilegiare ora la dolcezza ora l’angustia comporterebbe immediatamente la perdita dell’umano; in tale errore incorre tanto la religiosità del debole quanto la forza del nichilista. Cogliere, invece, dilatando ancora una volta la soglia del limite, tanto la dolcezza quanto l’angustia nella loro paradossale coincidenza è proprio del pensiero che, sporgendosi sull’abisso della libertà, si apre al tragico e realizza nell’istante quell’impossibile (e incomprensibile) unità di finito e infinito, esistenza e trascendenza, che è l’uomo stesso.
Questo perché Jaspers riconosce che la sofferenza non è l’unico elemento che accomuna tutte le situazioni-limite, ma vi è anche qualcos’altro: «Un elemento comune è anche, per altro, che esse danno origine a un dispiegamento delle forze cui s’accompagna una gioia d’esistere, di avere un senso, di crescere» (PW, 247; 287). Proseguendo la lettura del passo di Psicologia delle visioni del mondo, si legge: «Gioia e sofferenza sono avvinte l’una all’altra inevitabilmente. Ambedue sono qualcosa di supremo, di sopraffacente, di insuperabile, di coessenziale alla nostra situazione. Dicendo sofferenza, noi intendiamo sempre uno solo dei due aspetti, enunciamo l’elemento di valore negativo. Ma forse si potrebbe anche tentare una raffigurazione dell’elemento di valore positivo, della gioia, dell’elevazione, del senso. C’è tuttavia una differenza. Per la considerazione che osserva passivamente, la situazione limite è, in tanto in quanto colpisce la totalità del mondo dell’esistenza, pur sempre il fatto supremo; l’elemento positivo appartiene invece alla vita attiva, che è in grado di valutare, di trovare che una cosa è importante, di anteporre una cosa a un’altra, di sperimentare e creare un ordinamento gerarchico di valori, di sviluppare le forze delle idee e di progredire dalla situazione antinomica a una sintesi infinita».
Ecco come Jaspers interpreta il binomio dolcezza dell’esserci e prigioni della finitezza: la dolcezza si capovolge in sofferenza e le prigioni si capovolgono in vita attiva. E il limite è il luogo di questo capovolgimento. Tanto l’esito religioso quanto quello nichilista paiono pertanto da scartare, poiché rappresentano altrettante elusioni del sentiero che l’esistenza-possibile ha da percorrere come proprio destino: il sentiero che passa attraverso la tentazione della superstizione (scientifica o religiosa) e attraverso la possibilità del nulla per poi giungere allo spazio aperto della libertà e della responsabilità dove solo vi è riposto il suo essere più autentico.
Quanto detto trova conferma nella lucida autoanalisi presentata in Anamnesi del 1938, nella quale egli si presenta come malato nel corpo, ma sempre spiritualmente sano (come scrive Saner).30 Alla sua disposizione al suicidio, alla decisione di non separarsi dalla moglie, alla consapevolezza dei limiti di un soggiorno forzato in terra straniera malato e senza la conoscenza della lingua… Ma allo stesso tempo alla chiara coscienza del proprio compito, delle proprie possibilità. Scrive nel diario il 27 marzo 1939: «Il senso e lo scopo alla fine può essere soltanto: avere lo spazio per rendere oggettivo il pensiero filosofico, che mi è divenuto davvero chiaro solamente in questi anni; — altrimenti non c’è nulla più che possiamo offrire al mondo. — Rendere questa verità immediata rimane l’unico compito: non la vita come esistenza a ogni costo, ma l’esistenza che diviene fertile — col presupposto, l’unico presupposto, che Gertrud e io rimaniamo fedeli, vicini, intimi, che possiamo produrre l’opera soltanto insieme, oppure non lo facciamo affatto».31
La vicenda esistenziale di Jaspers è una duplice esperienza del limite: uno nel corpo (la malattia) e uno nella storia (il nazismo). A quest’esperienza non sono estranee le coeve riflessioni di Dietrich Bonhoeffer stimolate anch’esse dalla prigionia. L’esperienza del limite tocca il suo apice per colui che — come Bonhoeffer nella prigione nazista — si trova a vivere l’interruzione del proprio tempo: egli vive cioè, come l’angelus novus di Klee e Benjamin, un presente in cui la categoria della realtà si coniuga solo al passato. Un passato però che, proprio in quanto irrimediabilmente passato, è dolorosamente presente.32
Come scrive Primo Levi, nel campo di concentramento la memoria non è concessa, ché subito si tradurrebbe in disperazione. E tuttavia Bonhoeffer nel carcere di Tegel sceglie di ricordare, e pertanto di soffrire, nella convinzione che solo sotto il segno della sofferenza vi è ancora uno spazio — e un tempo — possibile per la realtà. Proprio nel suo venir meno il passato diviene «il mio passato»,33 cioè eredità e quindi realtà presente — sebbene sotto il segno dell’interruzione. Il vuoto di ciò che non è più nella presenza richiama un presente nella forma della distanza e della non (più) disponibilità. E tuttavia, il vuoto non è il nulla, e la distanza non annienta il passato, e pur nella sofferenza della separazione qualcosa rimane. E se non è reale ciò che permane, lo è almeno il sentimento di questo permanere.
Si pensi alla poesia Passato che possiamo leggere in Resistenza e resa (datata 5 giugno 1944)34: l’interruzione del futuro carica di un significato decisivo il presente. Ma il presente sotto i riflettori della coscienza, resa più acuta dalla sofferenza, manifesta tutta la sua fragilità. Esso non è che una soglia: il luogo di un costante prendere congedo. E ciò che in esso è reale è solo il passare. Ma l’interruzione del passato è quel limite che unisce. Un limite che si dispiega mediante e oltre la sofferenza come sa bene Maria von Wedemeyer quando scrive al fidanzato: «Ho tracciato con il gesso una linea intorno al mio letto all’incirca della grandezza della tua cella. Ci sono un tavolo e una sedia, così come mi immagino. E quando sto seduta qui credo quasi di essere con te. Se solo lo fossi veramente» (26 aprile 1944).35 Si tratta della sofferenza della separazione che, se trattenuta, unisce. «Le nostre lettere — scrive Bonhoeffer — sono sempre e comunque solo un debole segno della nostra appartenenza» (13 agosto 1944).36 Tener fermo non il passato, che è impossibile, ma il passare del passato e quindi la sofferenza pare essere l’unica possibilità per chi, come Bonhoeffer ma anche come Jaspers, vive tragicamente in dürftiger Zeit.
5. Il limite possibile
Resta allora da chiedersi quali possibilità vi siano per il pensiero, se questo non deve abdicare di fronte al paradosso e alla tragedia che il limite porta con sé. Ebbene, pare che la scelta sia tutta qui: o eludere il limite, cioè negarlo nell’Altro dell’assoluta Trascendenza o nel Medesimo dell’ipertrofia del soggetto chiuso in sé, oppure dilatarne lo spazio, percorrendo la «via della sofferenza» (Weg des Leidens), chiarificandolo, raccontandolo magari,37 e così serbando in lui le possibilità tanto dell’Altro quanto del Medesimo.
Ebbene una possibile risposta, con la quale vorrei concludere, è data dalle parole di Luigi Pareyson, profondo jaspersiano e maestro del pensiero del limite (o dell’ermeneutica della finitezza — ma di un’ermeneutica assolutamente ignara degli artifici della retorica e della sofistica): «Il dolore — scrive Luigi Pareyson, in Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza — è il luogo della solidarietà fra Dio e l’uomo: solo nella sofferenza Dio e l’uomo possono congiungere i loro sforzi. È estremamente tragico che solo nel dolore Dio riesca a soccorrere l’uomo e l’uomo giunga a redimersi ed elevarsi a Dio. Ma è proprio in questa consofferenza divina e umana che il dolore si rivela come l’unica forza che riesce ad avere ragione del male… In virtù di quella consofferenza il dolore si manifesta come il nesso vivente tra divinità e umanità, come una nuova copula mundi; ed è per questo che la sofferenza va considerata come il perno della rotazione dal negativo al positivo, il ritmo della libertà, il fulcro della storia, la pulsazione del reale, il vincolo fra tempo ed eternità… È la sofferenza che mette in crisi ogni metafisica oggettivante e dimostrativa, ogni sistema sollecito soltanto di una totalità armonica e conclusa, ogni filosofia dell’essere unicamente preoccupata del fondamento. Essa sola contiene il senso della libertà e rivela il segreto di quella vicenda universale che coinvolge Dio, l’uomo, il mondo in quella tragica storia di male e dolore, peccato ed espiazione, perdizione e salvezza».38
È la sofferenza, l’esperienza vissuta della nostra finitezza, quella forza che spinge l’uomo a una vita attiva nonostante l’inevitabile urto contro i più disparati limiti. Scrive infatti Jaspers: «Non nel godimento della perfezione compiuta, ma lungo la via della sofferenza, con lo sguardo fisso sul volto inesorabile dell’esserci del mondo, e nell’incondizionatezza del proprio se-stesso nella comunicazione, l’esistenza possibile può raggiungere ciò che non rientra in alcun piano e che, desiderato, diventa assurdo: sperimentare l’essere nel naufragio» (PH, 236; 1184 — corsivi miei).
Ed è proprio la via della sofferenza — la via crucis filosofica — quella che ho cercato di delineare in queste riflessioni, come una particolare forma di quella via ermeneutica dell’esistenza che è il pensiero, sempre fecondo e che merita ancora di essere pensato ulteriormente, di Karl Jaspers.
Il presente saggio è la versione italiana, riveduta e ampliata, del mio intervento presso il convegno internazionale Karl Jaspers: Fede e sapere / Glaube und Wissen (Napoli, 5-7 novembre 2007). Il testo originale è Die einende Grenze: Paradoxon, Kommunikaiton, Leid edito in Aa. Vv., Glauben und Wissen. Zum 125. Geburstag von Karl Jaspers, a cura di A. Hügli, C. Chiesa e S. Wagner in “Studia philosophica” 67 (Schwabe Verlag, Basel 2008), pp. 109-124. Questa edizione on line anticipa l’edizione a stampa degli atti italiani del convegno a cura di G. Cantillo e S. Wagner che vedrà la luce nei prossimi mesi.
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Cfr. Aa.Vv., Filosofia esistenza comunicazione in Karl Jaspers, a cura di D. Di Cesare e G. Cantillo, Loffredo, Napoli 2002. Le opere di Jaspers sono citate nel testo con le seguenti sigle: PH = Philosophie, Springer, Berlin 1932; tr. it., Filosofia, a cura di U. Galimberti, Utet, Torino 1978. VE = Vernunft und Existenz, Wolters, Groningen 1935; tr. it., Ragione ed esistenza, a cura di A. Lamacchia, Marietti, Torino 1971. PW = Psychologie der Weltanschauungen, Springer, Berlin 1919; tr. it., Psicologia delle visioni del mondo, a cura di V. Loriga, Astrolabio, Roma 1950. Tra parentesi è riportato il numero della pagina dell’edizione originale e, dopo il punto e virgola, il rimando all’edizione italiana. Al momento di licenziare il presente scritto, è già disponibile, in versione leggermente ridotta, la sua traduzione tedesca: Die einende Grenze: Paradoxon, Kommunikation, Leid, in Aa.Vv., Glauben und Wissen. Zum 125. Geburtstag von Karl Jaspers, in “Studia philosophica” 67/2008, hrsg. von A. Hügli, C. Chiesa u. S. Wagner, Schwabe Verlag, Basel 2008, pp. 109-124. ↩︎
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R. Whiel, La filosofia dell’esistenza come etica in Karl Jaspers, in Aa.Vv., Filosofia esistenza comunicazione…, ed. cit., pp. 25-40. ↩︎
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Sulla presenza del tema del limite nelle prime opere di Jaspers cfr. G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 25 sgg. ↩︎
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K. Jaspers, Nachlass zur Philosophischen Logik, hrsg. von H. Saner u. M. Hänggi, Piper, München 1991, p. 264. Cfr. S. Marzano, Il concetto di limite nel Nachlass sulla Logica filosofica, in Aa.Vv., Filosofia esistenza comunicazione in Karl Jaspers, ed. cit., pp. 112 sgg. ↩︎
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Cifra cioè di un’azione di per sé impossibile da determinare e fors’anche impossibile da compiere o «cifra della cifra», come rileva Donatella Di Cesare nel saggio citato: «Dato che rinvia al di là, rinvia oltre, il limite può valere come “cifra”; ma poiché è al contempo luogo del naufragio, che per Jaspers è la cifra suprema della trascendenza, il limite può essere considerato la “cifra” che, avendo il privilegio di rinviare alla cifra più elevata dell’assoluto essere-altro, alla cifra della trascendenza, si rivela infine cifra della cifra» (D. Di Cesare, Comprendere ed esistere…, in Aa.Vv., Filosofia esistenza comunicazione…, ed. cit., p. 86). ↩︎
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Cfr. F. Miano, Etica e storia nel pensiero di K. Jaspers, Loffredo, Napoli 1993, p. 75. ↩︎
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Cfr. G. Penzo, Dialettica e fede in Karl Jaspers, Patron, Bologna 19813, pp. 235-272. ↩︎
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Cfr. Karl Jaspers e l’idea di una “fede filosofica”, Leonardo da Vinci, Roma 1999; Fragilità della verità e comunicazione. La via ermeneutica di Karl Jaspers, Aracne, Roma 2003. ↩︎
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Il tema dell’urto ritorna anche all’origine dell’ermeneutica gadameriana, come rileva Di Cesare (cfr. D. Di Cesare, Ermeneutica della finitezza, Guerini, Milano 2004, p. 138). E tuttavia, tanto in questo come in quel caso, l’urto rimane un concetto “laterale” e poco approfondito dalla critica. ↩︎
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Mi piace pensare ad esempio, tra gli innumerevoli riferimenti possibili di tale attitudine filosofica, al tema della temporalità (anch’esso è un concetto fondamentale ma allo stesso tempo “laterale” in Jaspers): «io sono solo come esserci temporale - si legge in Filosofia -, ma nel mio me stesso non sono temporale. Mi conosco solo come esserci nel tempo, ma questo mio esserci è per me anche la manifestazione del mio me-stesso atemporale. Questo paradossale dualismo della coscienza della mia storicità esiste solo per il pensiero. Se non penso alla separazione, se non mi muovo in questa direzione, non giungo a chiarezza. La conoscenza oggettiva dell’esserci temporale e il pensiero che si riferisce all’esser-proprio del se-stesso parlano, a livelli differenti, di qualcosa che, nella coscienza esistenziale è originariamente uno» (PH, II 122; 594). ↩︎
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L’intero passo di Filosofia recita così: «Partendo dall’esistenza possibile colgo la storicità del mio esserci che, dalla molteplicità delle realtà conoscibili, giunge alla profondità dell’esistere. Ciò che esteriormente è determinazione e limite, interiormente è manifestazione dell’essere autentico. Chi ama solo l’umanità, non ama nessuno, ama invece chi si volge ad un uomo determinato. Chi è razionalmente conseguente e tiene fede ai patti non è ancora fedele, è fedele invece chi accetta come suo e si riconosce in ciò che ha fatto e nei luoghi che ha amato. Chi vuole l’esatta e definitiva organizzazione del mondo non vuole assolutamente nulla, vuole invece qualcosa chi, nella sua situazione storica, afferra il possibile come suo» (PH, I 16; 127-128). ↩︎
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La coscienza stessa, del resto, che è per sua natura intenzionata agli oggetti, è di per sé un limite per l’uomo che opera nel mondo (cfr. PH, I 12; 124); ma allo stesso tempo, nel momento in cui limitandolo lo determina, diviene anche ciò che gli è più proprio. ↩︎
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Cfr. PH, I 38; 152: «se da parte mia mi limito ad esserci - dice Jaspers -, sono sì capace di godere ciecamente, di affermare brutalmente, ma anche di restare perplesso nella perdita, vuoto nella sazietà, senza punto di riferimento nel succedersi del tempo». ↩︎
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Cfr. PH, I 35; 148: «L’esperienza dei limiti suscita l’aspirazione ad uscire dal mondo». ↩︎
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Sulla forza jaspersiana del non si veda U. Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977, pp. 198 sgg. ↩︎
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Scrive Jaspers: «nella sua inesauribilità l’individuo è il limite» (PH, I 56; 170). Vi sono infatti dei canoni, dei modi del rapportarsi all’altro e dei modi del trascendere stesso che, a loro volta, non possono essere trascesi per l’uomo che possiede una sola forma di sapere. Si tratta dei limiti naturali dell’intelletto e del linguaggio umano i quali, nel momento in cui sono gli unici strumenti del sapere umano, rappresentano anche quelle barriere che determinano la vita, anziché rinviare a qualcosa di là da essa. «Quand’anche mi avvicinassi al limite, non potrei mai oltrepassare, nella conoscenza reale, la datità fattuale e la validità universale» (PH, I 83; 201). Di fronte a questi limiti invalicabili, solo nel silenzio si può avere un ulteriore trascendimento. Non si tratta però del silenzio vuoto di parole, ma di quello sovrabbondante di senso che impone l’interrompersi della parola. ↩︎
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Cfr. PH, I 70; 187: «Il mondo come totalità dell’esserci di ogni singolo individuo nel suo mondo costituiva l’immediatezza di cui io mi rendevo conto solo quando la oltrepassavo. Si raggiungeva così un mondo oggettivo e generale da cui però si ritornava sempre inevitabilmente alla realtà della situazione presente in cui, da un’altra origine, si manifestava un esser-se-stesso dell’esistenza possibile, che, da parte sua, concepiva la totalità di questo mondo come il luogo, mai sufficientemente decifrato, della propria realizzazione nell’assunzione dei compiti». Anche PH, I 240; 361: «La filosofia […] crea di volta in volta da sé il proprio concetto e non è subordinata ad alcuna norma. Se so che cos’è la filosofia, lo so perché ci vivo, non per una definizione». Essa «non è solo conoscenza dei limiti, ma anche coscienza dell’essere che proviene da un’altra origine». ↩︎
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Cfr. D.Di Cesare, Il linguaggio nella filosofia di Karl Jaspers, in K.Jaspers, Il linguaggio. Sul tragico, Guida, Napoli 1993, pp. 11-12. ↩︎
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«La volontà conosce solo quelle determinazioni oggettive che essa può raggiungere, ma da ogni parte incontra dei limiti» (PH, II 158; 631). ↩︎
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Scrive Jaspers: «Nel pericolo di dissolversi come esistenze, si accentua la necessità di scegliere a partire dall’esistenza. Diventa convincente la frase di Hegel “la ragione pensante si risolve, come volontà, nella finitezza”. Dal momento che non possiamo volere la totalità, ma possiamo volere solo nella totalità (perché ogni altro desiderio è vuoto e non possiede alcuna relazione con la realtà), noi ci realizziamo solo quando, nel posto che ci è stato assegnato nella realtà, portiamo a compimento realizzazioni finite e determinate nei loro limiti. Nella consapevolezza dell’inderogabilità di questi limiti, l’esistenza raggiunge la sua profondità» (PH, II 161; 635 - corsivi miei). ↩︎
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Jaspers ritiene di aver colto l’autentico senso del limite: «Il limite svolge così la sua autentica funzione, e cioè quella di essere nell’immanenza, un rinvio alla trascendenza» (PH, II 204; 679). Questo non vuol dire che il limite deve esser annullato, poiché l’esserci è esso stesso limite(e dimora ineludibile: «L’esserci in generale è compreso allora come limite» - PH, II 209; 685), ma che esso deve essere assunto nelle sua valenza determinante e rivolto nel suo senso positivo - laddove invece è proprio di quelle forme di religiosità per uomini deboli il tentare di prolungare la «dolcezza dell’esserci», annullando persino il limite supremo della morte (cfr. PH, II 225; 701). Al contrario, l’esistenza possibile sta “di fronte” alla vita e alla sua stessa fine, nella morte, come di fronte ai propri limiti, all’interno dei quali si dispiega lo spazio aperto delle sue possibilità (cfr. PH, II 226; 703). ↩︎
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Se, come si è detto (cfr. nota n. 5), il limite è cifra della cifra, allora la sofferenza, che è cifra del limite, è cifra alla terza potenza. ↩︎
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Siamo nella parte dedicata alle situazioni limite, nel terzo capitolo intitolato La vita dello spirito. Sul tema del dolore e della sofferenza ritorna varie volte anche Filosofia (si vedano, per esempio, II 230 sgg.; 706 sgg. e anche il paragrafo, ricco di suggestioni, di Metafisica intitolato Sfida e abbandono, III 71 sgg.; 1008 sgg.). Cfr. G. Cantillo. Introduzione a Jaspers, ed. cit., pp. 43-47. ↩︎
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Cfr. E. Baccarini, Homo patiens: il significato etico-antropologico della sofferenza, in Id., La persona e i suoi volti, Anicia, Roma 20032, pp. 249-259. A questo saggio e all’intera ricerca filosofica di Emilio Baccarini devo molto di quel che vado dicendo e per questa a lui va la mia profonda gratitudine. ↩︎
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Nel passo riportato di seguito Jaspers presenta una lunga sequenza di esperienze del limite: «la perpetua e spietata lotta di ogni cosa vivente che ha luogo nella natura a dispetto di qualsiasi stato d’animo di chi riguarda; i terribili dolori fisici che bisogna sopportare in continuazione; essere privati della persona che più si amava; vedere afflitti e annientati gli uomini che più si amavano senza poter fare nulla per loro, vivere con la propria coscienza il tramonto di una cultura, della cultura in generale; volere e non potere (disposizione, povertà, malattia); tutti che si ammalano nello spirito e se ne accorgono; la paura della morte; la disperazione che accompagna la colpa inevitabile; il fare esperienza nichilistica dell’assurdità del mero caso; etc.» (PW, 247 sg.; 288). ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, pp. 475-476. ↩︎
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Cfr. M. Scheler, Vom Sinn des Leides, in Id., Gesammelte Werke, VI, Schriften zur Soziologie und Weltanschauungslehre, hrsg. von Maria Scheler, pp. 36-72; trad. it., Il dolore, la morte, l’immortalità, a cura di A. Rizzi, introduzione di F. Biasutti, LDC, Torino 1983. ↩︎
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a) Una prima modalità esistenziale è la rassegnazione di chi non comprende la sofferenza, e non comprendendo rimane paralizzato (come Giobbe) o si affida al divertissement dei piaceri della vita (e alla dispersione-disperazione esistenziale predicata da Salomone). Ma tra Giobbe e Salomone vi è, ed è questa la possibilità più «positiva ed efficace» per la rassegnazione, colui che si aggrappa a un «credo» e di conseguenza comunque agisce, e agendo almeno esiste. b) Vi è poi la fuga dal mondo, nella convinzione che per l’esistenza sarebbe assai meglio non essere. Sono i casi dell’indifferente apatia e del desiderio del nulla che si traducono, in ultima istanza, nella disposizione individuale verso il suicidio o nella tensione generale all’annullamento del mondo. c) Vi è inoltre l’eroismo proprio di quell’io che diviene senso a se stesso: individuale, unico, titanico, l’eroe non evita la sofferenza né la riferisce al mondo, ma la sente come necessario corollario della propria vita, e della propria forza. d) Infine vi è l’atteggiamento metafisico-religioso che riassume i tre precedenti: la sofferenza è concepita come qualcosa di definitivo, inevitabile, coessenziale alla vita e al mondo. Ma questa si staglia sullo sfondo di un’indicibile (e indimostrabile) certezza di Dio che viene all’espressione in costruzioni di pensiero inevitabilmente determinate le quali possono formulare “giustificazioni” della sofferenza, ma a ben guardare sono paradossali proiezioni immediate della comune esperienza vissuta della sofferenza e del limite (del conoscere, del volere, del potere). ↩︎
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Cfr. le riflessioni di Ugo Perone sul concetto di soglia in Il presente possibile, Guida, Napoli 2005. ↩︎
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Cfr. H. Saner, Prefazione all’edizione italiana di K. Jaspers, Volontà e destino. Scritti autobiografici, Il melangolo, Genova 1993, p. 14. ↩︎
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K. Jaspers, Volontà e destino, ed. cit., p. 195. ↩︎
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Cfr. C. Fiorillo, Il limite che unisce. Dietrich Bonhoeffer e la sofferenza, in: “Rivista di Teologia Morale”, 150 (2006), pp. 259-263 e Id., L’esperienza del tempo come esperienza della separazione in Dietrich Bonhoeffer, in: Aa.Vv., Filosofie nel tempo, a cura di G. Penzo e P. Salandini, vol. III 3, Spazio Tre, Roma 2007, pp. 575-589. ↩︎
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D. Bonhoeffer, Brautbriefe. Zelle 92. Dietrich Bonhoeffer - Maria von Wedermeyer 1943-1945, C.H. Beck, München 1992; tr. it., Lettere alla fidanzata. Cella 92. Dietrich Bonhoeffer - Maria von Wedermeyer 1943-1945, a cura di M.C. Murara, Querinianana, Brescia 19953, p. 174. ↩︎
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Cfr. D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft,Kaiser Verlag, München 1970; tr. it. a cura di A. Gallas, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni Paoline, Milano 19892, pp. 392-395. Anche in Lettere alla fidanzata…, ed. cit., pp. 188-191. ↩︎
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D. Bonhoeffer, Lettere alla fidanzata…, ed. cit., p. 172. ↩︎
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D. Bonhoeffer, Lettere alla fidanzata…, ed. cit., p. 197. ↩︎
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Rimando alle riflessioni di Ugo Perone in Il presente possibile (ed. cit.). ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, ed. cit., p. 478. ↩︎