Almanacco di filosofia, «Micromega», 2 (2000), Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2000.
Stimolato dalla pubblicazione dell’enciclica pontificia Fides et ratio, il dibattito filosofico in Italia sul rapporto tra fede e ragione si è animato con il contributo delle voci più autorevoli. L’Almanacco di filosofia di Micromega ne è un esempio degno di nota. I venti e più articoli che compongono il volume rappresentano altrettante prospettive per il pensiero laico del «religioso». Sono solo tre, infatti, (oltre ai due inediti di Søren Kierkegaard e di Thomas Jefferson) gli interventi di pensatori dichiaratamente credenti: quello del cardinal Joseph Ratzinger «quintessenza dell’ortodossia cattolica» (La verità cattolica), di Bruno Forte (O Dio o il «nulla») e di Enzo Bianchi (La fede è un rischio).
Il testo d’apertura è di Norberto Bobbio che in un bilancio filosofico e personale propone una testimonianza sui grandi temi dell’esistenza e della fede. Il suo intervento (Religione e religiosità) si muove sul filo della distinzione, non tra credente e non credente, bensì «tra chi prende sul serio questi problemi e chi non li prende sul serio» (p. 8). La ragione filosofica, per Bobbio, è conscia della sua limitatezza ma non per questo insensibile alle impellenti questioni del mistero, della morte e della sofferenza; anzi, l’abissalità di tali problemi la umilia. Un’umiliazione, però, che viene accettata dal filosofo.
La domanda filosofica fondamentale che l’autore ripropone, perché l’essere e non piuttosto il nulla?, non trova pertanto la risposta consolatoria della fede, ma, allo stesso tempo, rifiuta la semplicistica elusione della domanda, come priva di senso, operata da certa filosofia analitica. Il pensiero quindi permane in quello stato di sospensione tra dubbio e verità che è la «religiosità» di colui che sa di non sapere.
Si tratta in definitiva di pensieri sulla morte e l’immortalità pervasi dal profondo senso dell’imprescindibilità ma anche dell’inesauribilità della ricerca e, allo stesso tempo, dalla coscienza della personalità della scelta di chi, di fronte al mistero, decide di non credere ma non per questo di dare scandalo.
I restanti interventi sono articolati in quattro sezioni: cristianesimo e verità (J. Ratzinger, M. Cacciari, E. Bianchi, B. Forte), il sacro e la polis (R. Esposito, L. Kolakowski, G. Vattimo, S. Givone, M. Gauchet), contro la fede (U. Galimberti, M. Sgalambro, C. A. Viano, S. Argentieri) e la religione dei filosofi (F. Savater, F. Volpi, O. Franceschelli, G. Girello, P. Zellini). Aprono e chiudono la raccolta i saggi di Paolo Flores d’Arcais (Dio esiste?) e Erri De Luca (Salmo secondo, ovvero Elogio del massimo timore). Riprendiamo, per questioni di brevità, solo i saggi più rappresentativi di Gianni Vattimo e Sergio Givone.
Il breve, ma denso, intervento di Gianni Vattimo (Cristianesimo contro metafisica, pp. 132-139) propone di interpretare i duemila anni di storia del cristianesimo come un progressivo dissolversi e, in definitiva, un rovesciarsi del motto «amicus Plato sed magis amica veritas». L’incipit è dostoevskiano: nei Demoni lo scrittore russo sceglie l’amicizia di Cristo anche contro la verità. Ebbene l’intera storia europea viene pensata da Vattimo alla luce di questa possibilità, certamente eccezionale nella cristianità, come un preferire sempre più l’amicizia alla verità. La nietzschiana morte di Dio si viene a iscrivere quindi nell’orizzonte evangelico della morte del Cristo che, a sua volta, segna l’inizio della morte della verità metafisico-obiettiva dei greci (e del dio morale di Nietzsche) in quella tensione che è già presente nelle riflessioni di Agostino. La dissoluzione della verità obiettiva apre quindi lo spazio per innumerevoli legami di amicizia o, pascalianamente, ragioni del cuore. Il ruolo centrale riservato dalla riflessione filosofica contemporanea all’Altro è letto quindi da Vattimo in parallelo con il passaggio heideggeriano dall’essere all’evento e, nella predicazione cristiana, dalla Verità alla Caritas.
Nel contributo di Sergio Givone (Giobbe non manda avvisi di garanzia a Dio, pp. 140-146) la giustizia di Dio e l’innocenza di Giobbe si modulano in un’impossibile dialettica dal duplice possibile esito: quello della teodicea (rappresentato dagli amici di Giobbe) e quello del pensiero tragico (Giobbe stesso). La teodicea chiama in causa Dio stesso quale garante (e in un certo senso colpevole) della superiore affermazione del bene sul male. Ma la giustificazione del male e/o la giustificazione di Dio stesso, che permette il male, trova una pietra di scandalo nella sofferenza inutile (Voltaire e Dostoevskij insegnano). Il pensiero tragico, al contrario, non chiama in causa Dio né tenta di giustificarlo, ma si pone nell’orizzonte del suo silenzio, il silenzio di Dio. L’esperienza tragica di Giobbe insegna che il male non è imputabile a Dio, anche se Questi ne è l’origine (nel vincere il male, allo stesso tempo, lo pone). Solo l’uomo, al contrario, può volere il male e come tale realizzarlo nel mondo. Dunque, afferma Givone, «l’uomo è nel suo diritto quando rivendica l’innocenza o almeno la sproporzione fra colpa e pena e tuttavia solo l’uomo è in ultima istanza colpevole del male. Si possono sostenere due tesi così diverse, e in fondo antitetiche? Si può. Si deve. Il pensiero tragico lo fa» (p. 144).
Neppure dopo Auschwitz Giobbe accuserebbe Dio della sua assenza, del suo silenzio. Egli sa infatti (e con lui il pensiero tragico) che non può giustificare dall’alto il male né rispedire al mittente l’imputazione di colpevolezza, ed il suo strazio (tutto da pensare, in prospettiva filosofica) sta proprio nella fervente attesa di una risposta (da parte di Dio) che sa che non può arrivare. Dio non risponde. «Il suo silenzio e forse il suo stesso essere nulla coincidono con il suo (non) essere (se non) là» (p. 146).
Laddove non ci fosse il male, non ci sarebbe alcuno spettatore muto, alcun Silenzio, alcun Dio. D’altro canto, se non ci fosse Dio, non ci sarebbe alcuna risposta al male. La paradossalità del pensiero tragico, che è però anche la sua possibilità, risiede tutta in questa ambiguità.