Salvatore Natoli, Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1999.
La questione fondamentale che muove il testo di Salvatore Natoli (ordinario di Filosofia teoretica alla Seconda Università Statale di Milano) è la seguente: «Che cosa ne sarà del cristianesimo nella fine della cristianità?». Nell’era della secolarizzazione, o forse già dopo, il confronto con il cristianesimo permane un’esigenza inevitabile, visto il segno indelebile che questo ha lasciato, e continua a lasciare, nella nostra era. La posizione dell’autore è quella di un non-cristiano (se le definizioni ancora valgono) che si propone di leggere il cristianesimo nella sua versione residuale e profana, quale oggi, a suo avviso, si dà. Ma allo stesso tempo Salvatore Natoli non esclude la possibilità di credere negli oggetti della fede cristiana — la resurrezione dei corpi, la vita eterna — che non lo persuadono ma che, per questo, lo interessano. Il testo è pertanto un confronto con il cristianesimo del terzo millennio, con le sue contraddizioni, la sua «paradossalità», con la perennità del suo messaggio e la quotidianità della sua ricezione. «Molti oggi dissolvono l’onnipotenza di Dio nella sua impotenza», afferma Natoli, e ne fanno un «compagno fedele nella nostra sventura» (p. 9). Che ne è allora di Cristo? Si chiede l’autore, «Cristo è al di là dei secoli o ogni secolo ha il suo Cristo?» (p. 8).
Ne segue una «lettura profana del credo» (p. 49) in cui l’anelito alla salvezza, il paradosso dell’incarnazione, l’azione del consolatore (il paraclito), il linguaggio della rivelazione e il concetto stesso di salvezza vengono a modulare, nelle cinque parti che compongono il testo, un’etica del finito in cui il messaggio cristiano permane, profano, anche dopo il presunto disfacimento della cristianità. Etica del finito che è essenzialmente etica del dono, della responsabilità, dell’apertura alla reciprocità.
Principali compagne di viaggio in questa rilettura della Scrittura sono le riflessioni di Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein e Freud.
Così, mentre all’innato anelito dell’uomo alla salvezza rispondeva, nell’era cristiana, la donazione fino alla morte — e alla morte di croce — di Cristo, dopo la secolarizzazione permane la possibilità del dono all’altro, o ad Altri: «l’uomo crocifisso rimane per tutti gli uomini figura esemplare anche se non è Figlio di Dio, se nessun Dio esiste. In ogni caso Gesù indica agli uomini una via superiore, testimonia che è possibile quello che in genere e per lo più sembra impossibile: trasformare l’amor sui, l’amore di sé, in dono» (p. 26).
In qeust’ottica «Cristo diventa momento e cifra di una modulazione simbolica, uno dei dispositivi tramite cui il genere umano nel tempo ha dato senso alla sua storia» (p. 29). Allo stesso modo, il mistero dell’incarnazione, letto come l’annientarsi di Dio, diviene cifra dell’assoluta rinuncia all’amor sui: proprio l’annientamento è infatti l’apertura incondizionata alla reciprocità. È questo, del resto, il senso profano del paraclito, del consolatore: scoprire, nella vita e nella sofferenza di ogni giorno «la grandezza della condivisione» (p. 71). «La verità dell’incarnazione è data dal fatto che Gesù inaugura la possibilità di una donazione incondizionata. Gli uomini possono ad ogni momento e sempre ripetere il suo gesto: darsi per intero agli altri. La carità è dunque un modo per dar seguito all’incarnazione, per sperimentare il divino nell’uomo. Se ne può dunque secolarizzare il modello» (p. 49).
L’uomo, dismesse le vesti di fine dell’universo, è quindi chiamato a motivare la sua esistenza, ha cioè la possibilità, e quindi il dovere, di «essere all’altezza della propria morte» (p. 51).
Tale etica del finito non vuole però mettere capo a una semplicistica «retorica dei buoni sentimenti» (p. 52), in quanto il messaggio cristiano «non cessa d’essere eversivo neppure nella sua trascrizione profana» (p. 52). «Il dono di sé — quando è estremo — è così improbabile da esigere l’incarnarsi di un Dio. E Dio s’incarna davvero ogni qualvolta gli uomini diventano capaci di dono» (p. 53). Non si tratta allora di conseguire mete definitive, ma «d’accamparsi bene sulla terra, nel tempo ad ognuno assegnato. Bisogna saper “dimorare”, saper “transitare”, sapersi “congedare”» (p. 66).
Infine la dialettica tra linguaggio e rivelazione (che trascolorano l’uno nell’altra nella tensione all’indicibile che accomuna sacro e profano) e le considerazioni sulla secolarizzazione dell’innata tensione alla salvezza (interessante è la distinzione tra secolarizzazione della salvezza, propria del moderno, e secolarizzazione dalla salvezza o secolarizzazione della secolarizzazione, propria del contemporaneo) chiudono le riflessioni di questo libro che, più che un confronto con il cristianesimo (come recita il sottotitolo) pare essere un costante sforzo di aprire e tenere aperto lo spazio, nell’attualizzazione delle nozioni fondamentali del cristianesimo, in cui credenti e non credenti possano rinvenire una comune eredità.