Bruno Forte, Il silenzio di Tommaso, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL) 1998.
Un libro sul silenzio. Non un silenzio qualunque, né il silenzio in generale, bensì il fare silenzio, il tacere proprio della ragione che indaga la verità e che fa silenzio di fronte alla rivelazione della Verità stessa, del divino. Non è pertanto un caso che l’attore di questo silenzio (di questo fare silenzio) sia il Dottore Angelico, ossia colui che meglio di chiunque altro incarna la ragione umana indagatrice del Mistero. Ebbene, questa ragione s’inchina di fronte alla pienezza abbacinante del Mistero e, anziché parlare, fa silenzio, si pone in ascolto della parola della trascendenza, o del silenzio della trascendenza. Proprio l’enigma del silenzio di Tommaso fornisce a Bruno Forte (sacerdote e teologo cattolico) il materiale per un’escursione nel campo della poesia.
Brevemente, i fatti. Il 6 dicembre 1273 durante la celebrazione della messa nella cappella di S. Nicola del convento di S. Domenico Maggiore a Napoli, Tommaso cade in estasi: «fuit mira mutatione commotus» (Processus, n. 79, 376), «quasi raptus et in devotione absorptus multis perfundi lacrymis» (Guglielmo Tocco, Hystoria beati Thomoe Aquinatis, cap. 29, 103). A questo rapimento segue il rifiuto di scrivere: «Raynalde, non possum… non possum quia omnia quae scripsi videntur mihi palae respectu eorum quae vidi et revelata sunt mihi» (Processus, n. 79, 376). E Tommaso smette di dettare, come faceva, contemporaneamente a più segretari quella che era la terza parte della sua Summa: il trattato sulla Penitenza. Morirà il 7 marzo 1274 senza aver ripreso a scrivere, ma senza aver smesso di partecipare lucidamente agli uffici della sua condizione di monaco e sacerdote.
Questo l’antefatto: Tommaso prega, Tommaso scrive; la preghiera a un certo punto vince sulla scrittura; e il filosofo tace. Niente di più semplice. Ma è un enigma. Non è un enigma per Tommaso, per cui è tutto chiaro (anche troppo!). L’enigma è per noi che abbiamo bisogno di problemi e che nella ricerca del senso ci troviamo a sottoporre all’indagine della razionalità l’intero ambito dell’umano, dall’esperienza personale all’esperienza religiosa.
Di fronte all’enigma la ragione può tentare di uscirne in diversi modi, ovvero può decidere di rimanerne all’interno, ancora, in diversi modi. Può, quindi, cercare di scioglierlo razionalmente, con il rischio di semplificarlo, o decidere di riproporlo sotto altra veste, ossia di approfondirlo, complicarlo, o anche aggirarlo. Questa è la poesia.
Ebbene, la parola poetica non dà risposte, non scioglie problemi, ma è la riproposizione dell’enigma a un livello diverso. Quello che nella vita è un fatto, seppur enigmatico (Tommaso tace), nell’espressione poetica diventa enigma alla doppia potenza: da un lato il dire un’esperienza personale unica in termini universalmente validi e dall’altro il dire il silenzio, il tacere, il disdire. Ciò che Tommaso non fa, lo fa il poeta a un livello di doppia distanza. L’opera del poeta istituisce infatti un mondo nel quale far abitare il lettore, laddove l’immediatezza del mondo originario è doppiamente lontana. Dire il silenzio, quindi, è più di un interpretare la tonalità emotiva dell’atto di Tommaso; è sostituire all’esperienza mistica il gioco di una lingua che, libera da vincoli logico-conoscitivi, non dice né Tommaso, né Dio ma il silenzio o, appunto, il fare silenzio.
Qui si concentra l’attenzione del filosofo: un dire che si disdica, un dire l’indicibile, è l’ambizione di ogni pensiero che non voglia limitarsi alla semplice descrizione del reale. Ma proprio il supporto della parola doppia poetica fa sì che nelle pieghe della parola possano trovare alloggio pensieri inattesi. È il caso dell’interpretazione che Sergio Givone (ordinario di Estetica all’Università di Firenze) fornisce nella sua Postfazione.
L’intento esplicito di Forte è rappresentare «questo meditante stare sull’ultima soglia» (p. 7) e ciò facendo, cantare «l’estremo abbandono del pensiero indagante» (p. 35), il fare silenzio, appunto, della filosofia. Dalla lettura del testo è possibile evincere quanto segue. Il silenzio pollachòs légetai, si dice in molti modi: il silenzio della finitezza e della morte; il silenzio del pianto e della preghiera; il silenzio della contemplazione e di Dio. All’intersezione di questi tre silenzi si pone il poeta che con la parola doppia, ambigua, dice l’elogio del silenzio (nel senso dell’elogio dell’uomo che di fronte a Dio tace), ma anche l’elogio del silenzio di Dio (nel senso che il dire di Dio supera incommensurabilmente il dire dell’uomo, per cui solo il silenzio è l’adeguata rappresentazione della parola rivelatrice di Dio) e infine l’elogio della capacità del poeta di dire, nonostante tutto, il silenzio (grazie all’ambiguità del linguaggio evocativo e simbolico). Ma c’è di più. Con uno scarto, nemmeno così impercettibile, nella Postfazione viene proposta un’ulteriore interpretazione che è riposta negli interstizi del linguaggio ambiguo della poesia di Forte: l’elogio del Silenzio, del dio Silenzio, come vero Ultimo, Trascendenza ultima, oltre anche Dio, senso-non-senso di Dio stesso — per cui il silenzio da modalità del rapporto alla trascendenza diviene esso stesso divinità che squassa ogni procedere umano e che solo l’ambiguità della parola doppia poetica può, in qualche modo, richiamare. Siamo sull’abisso del nulla: forse anche Dio tace!
La poesia, si legge nella Postfazione, è quel discorso doppio che permette all’autore di «trattenere il suo dire sull’estremo limite del silenzio» (p. 59). E allora «perché non osare la più difficile poesia?» (p. 60), si chiede Givone, quella che dice appunto il silenzio. Ebbene «l’indicibile è detto a partire dal suo “non”, dalla sua negazione, dal suo infinito punto di fuga» (p. 61): tutto è paglia, e bisogna che tutto si faccia paglia, e che bruci, perché siamo di fronte all’evento straordinario dell’epifania del divino, al cospetto del quale l’incessante domandare della ragione si arresta e «Ultimo è il silenzio» (p. 62). Ecco dunque che la parola tace di fronte al «tacere da parte di Qualcuno che […] è situato al di là dello spegnersi della parola, di ogni parola. Non nel nulla dell’insignificanza, ma nel nulla divino, nell’insondabile abisso…». Laddove la parola di Forte vuole raccontare il riverente abbandono della filosofia e si disdice in un supremo atto di adorazione, «A Te lode / il silenzio. / Il silenzio / di me…» (p. 55), Givone, interpretando, invoca: «Tu sia lodato, Silenzio» (p. 63).