1. Introduzione
Volendo tentare di mettere in luce la nozione eriugeniana di ordine inteso come regola interna al ragionamento e alla costruzione del discorso fondato rettamente, abbiamo scelto di avviare la nostra analisi a partire dalla considerazione di alcune occorrenze significative del termine ordo. Abbiamo, inoltre, ristretto il campo della nostra indagine a tre trattati di Giovanni Scoto, il De divina praedestinatione, il Periphyseon e le Expositiones super ierarchiam coelestem, testi in cui si può registrare la presenza più significativa del termine ordo, tralasciando dunque le opere eriugeniane di traduzione, che avrebbero comportato un confronto serrato con gli originali greci.
Sulla base di un’analisi testuale delle occorrenze in cui ordo compare insieme a genitivi come verborum, sermonis o ratiocinationis o in cui, in relazione al contesto della frase esso assume l’accezione di ordine dell’argomentazione, abbiamo tentato di giungere ad alcune conclusioni sulla funzione che questa nozione assume nel pensiero eriugeniano in relazione a una molteplicità di fattori: in primo luogo la concezione eiugeniana delle arti liberali e della dialettica, alcuni tratti sommari della concezione dell’ordine come ordo universalis e soprattutto come lex, infine la relazione e il confronto con un autore con cui Giovanni Scoto intrattiene un costante dialogo, lo Pseudo-Dionigi.
Per favorire una maggiore fruibilità del nostro lavoro abbiamo fornito una nostra traduzione dei testi citati; per questi testi abbiamo impiegato le edizioni critiche riportate nella piccola nota bibliografica: rimane aperta, evidentemente, la questione del Periphyseon, di cui non esiste tuttora un’edizione critica integrale. Nella consapevolezza dei problemi che sorgono da quest’assenza, noi abbiamo scelto di basarci sull’edizione Jeauneau contenuta nel Corpus Christianorum per quanto riguarda i primi tre libri, e sull’edizione della Patrologia latina per gli ultimi due.
2. La legalità del discorso nel De praedestinatione
Il termine ordo appare per la prima volta nel De divina praedestinatione nel contesto di un richiamo all’ordine dell’argomentazione, dopo una digressione sul libero arbitrio e la natura dell’uomo:
Quae cum ita sint, ordo rerum quas exsequendas esse praesentis cause flagitat utilitas consequenter postulat ut, quoniam malorum omnium quorum deus auctor non est eius quoque necessario effectivam causam non esse praedestinationem aperte rationis regulis, ut opinor, confectum, ex praescientia dei firmissima sumamus argumenta, ea scilicet monstraturi primo quemadmodum praescientia dei peccata quae prescit fieri non cogit, ita eius praedestinatio peccata quae nunquam praedestinat fieri non efficit (De praed., 5, 4-12).
Stando così le cose, la successione delle questioni richieste dall’utilità della nostra argomentazione impone che, poiché si è arrivati alla conclusione, seguendo le regole del ragionamento, che la causa efficiente di tutti i mali di cui Dio non è autore non è la predestinazione, assumiamo argomenti saldissimi riguardo la prescienza divina, per mostrare, cioè, che come la prescienza divina non costringe all’esistenza i peccati che preconosce, così la sua predestinazione non rende effettivi i peccati che predestina.
L’accezione di successione argomentativa che qui è assunta da ordo è accentuata ulteriormente dalla presenza di un richiamo forte alle regole che presiedono al retto ragionamento, regulis rationis, e che sono state impiegate nel corso della trattazione per giungere a delle conclusioni certe e fondate. Questa attenzione alla regola, o legge, del ragionamento costituisce come vedremo una preoccupazione costante nello sviluppo dell’opera eriugeniana, che va interpretata da un lato in relazione alla concezione eriugeniana della filosofia come vera religione e delle arti liberali come strumenti indispensabili della deificazione, dall’altro in relazione alla nozione di ordine come legalità che percorre tutti e tre i trattati che stiamo esaminando.
Proprio all’inizio del De praedestinatione, nel primo capitolo, si trova una definizione molto netta di filosofia, funzionale a individuare gli strumenti e il metodo di dispiegamento del ragionamento nell’ambito del trattato: la filosofia non è diversa dalla vera religione. «Si conclude dunque che la vera filosofia è vera religione, e reciprocamente che la vera religione è vera filosofia» (De praed., 1, 1, 16-18). L’amore della sapienza coincide con la vera religione, con cui la somma causa di tutte le cose è indagata razionalmente e resa oggetto di culto; le regole dell’uno sono le medesime regole dell’altra. In questo passo fondamentale, Scoto approfondisce e radicalizza l’affermazione agostiniana dell’identità di filosofia e religione, mostrando una particolare attenzione da un lato all’illustrazione delle parti di cui si compone lo studio della sapienza (diairetica, euristica, apodittica, analitica), dall’altro alla giustificazione dell’impiego dell’arte della dialettica in ambito teologico.
«Affinché noi difensori della verità non diamo l’impressione di lottare inermi contro gli assertori del falso, non incongruamente faremo ricorso alle regole dell’arte della disputa» (De praed., 1, 3, 45-47): la conoscenza delle leggi che presiedono all’articolazione di un retto discorso è indispensabile strumento di smascheramento delle false argomentazioni, costruite attraverso un impiego fraudolento della retorica. La prima giustificazione del ricorso alla filosofia si dà come esigenza apologetica di fronte alle insidie dell’eretico, il quale deve essere svelato come colui che costruisce false argomentazioni: nel discorso dell’eretico è contenuto un errore di natura logica, che va individuato. Ma la pertinenza della dialettica alla teologia, quindi alla ricerca della verità, trova la sua più compiuta fondazione nella sua individuazione come dono divino, cioè dato di creazione, originario e non prodotto artificialmente dall’uomo. Nel pensiero eriugeniano, dal De praedestinatione alle Expositiones, le arti liberali rivestono un ruolo assolutamente cruciale: beneficio divino, esse sono facoltà della mente, cui sono coeterne, necessarie al recupero di quella conoscenza di Dio innata nell’uomo, che è stata compromessa dalla caduta. L’insieme delle arti, archetipo eterno della perfetta conoscenza, e allo stesso tempo facoltà interna alla mente umana, è considerato nel De praedestinatione, ingrediente indispensabile lungo il percorso di avvicinamento cognitivo a Dio, strumento senza il quale il rischio dell’eresia, e della perdizione che ne consegue, diviene quasi inevitabile. Questa concezione delle arti come dato di creazione, già presente nel De praedestinatione, troverà un ben più ampio sviluppo successivamente.
Se nelle arti liberali, e dunque nello studio della sapienza, si incontrano regole certe e immutabili, garanti della rettitudine del ragionamento che si sta dispiegando, è a una nozione più ampia di legalità che bisogna ricorrere per motivare la fondatezza di un ordine argomentativo che si vuole infallibile. L’ordo della trattazione non è cosa distinta da un ordine ben più ampio, l’ordo rerum, l’ordo dell’intera realtà. Nelle regulae della dialettica si rispecchia una lex universale, di cui tenteremo di mettere in luce il carattere.
In due accezioni differenti, ma correlate, riappare il termine ordo in 6, 3:
Quae quanquam in ordine suo recte locata sint et suam quandam pulchritudinem peragant, perversi tamen animi est et inordinati eis sequendi subiici, quibus ad nutum suum ducendis potius divino ordine ac iure praelatus est (De praed., 6, 3, 78-81).
Queste cose sono rettamente collocate nel proprio ordine e si ammantano di una certa propria bellezza, tuttavia è proprio di un animo perverso e disordinato sottomettersi ad esse, quando dovrebbe piuttosto ridurle al proprio comando, secondo l’ordine e il diritto divini.
La duplicità di significato che qui si manifesta nell’uso del termine ordo, ha la sua genesi nella parola greca táxis, che sembra averla trasmessa alla sua corrispondenza latina: se da un lato ordo sta a indicare originariamente una schiera, una successione regolare, una fila, e in maniera più ampia, quindi, una struttura ordinata a carattere spaziale, dall’altro esso allude anche al comando, al principio o metodo, che conferisce un assetto ordinato, che trae cioè il reale dal caos e lo muta in un insieme retto da una legge armonica. Il carattere spaziale della prima accezione in cui viene impiegato il sostantivo è accentuato dal verbo che lo accompagna, locare in suo ordine, che si riferisce alla costituzione esterna dell’oggetto, al suo essere collocato all’interno di un contesto strutturato verticalmente; se all’interno di tale contesto ogni realtà possiede un rango differente dalle altre, il mantenersi nella propria posizione, adempiendo alla propria funzione stabilita dal comando divino, ammanta di bellezza la creatura (et suam quandam pulchritudinem peragant).
Il disordine dell’animo umano consiste nel piegarsi di fronte alla bellezza del creato, nell’assoggettarvisi anziché ricondurla a gloria del creatore. Il peccato è infrazione dell’ordine nei due sensi del termine, disobbedienza alla legge divina che fonda l’ordine e conversione di una natura superiore ad adorazione di ciò che è ordinato sotto di lei e che essa dovrebbe governare. Si potrebbe dire che la sregolatezza dell’animo consista proprio nella superbia che non ha rispetto dei gradi e delle differenti dignità secondo le quali è stata creata la totalità, che osa tentare di sovvertire la scala gerarchica degli esseri e dei beni. Il disordine dell’animo umano consiste nel piegarsi di fronte alla bellezza del creato, nell’assoggettarvisi anziché ricondurla a gloria del creatore. Il peccato non è sostanza, non può essere annoverato tra le realtà perché ogni realtà proviene da Dio, né è un male l’oggetto desiderato dall’anima peccatrice nell’insonnia della sua libido, poiché ogni creatura ha la sua origine ultima in Dio. In questo movimento di conversione verso ciò che è ordinato al di sotto di sé, in questo movimento di umiliazione della dignità dell’anima umana, creata perché permanesse nella contemplazione delle realtà eterne, si consuma il peccato.
Il male è dunque corruzione della bellezza, dell’onestà, dell’integrità, è diminuzione e compromissione di tutto ciò che concorre a dar vita all’ordine armonico del creato, stabilito e costituito nella legge divina. Ma quale funzione riveste tale legge nell’ambito del De praedestinatione? La predestinazione divina è una lex: in questa definizione si ritrova, a conclusione del trattato, il filo di tutto il ragionamento eriugeniano. La predestinazione fonda un ordine universale, il quale costituisce il suo vero oggetto, in luogo dei destini individuali dei reprobi e degli eletti; essa non è l’intervento a carattere personale di un potere intollerante che qualcosa sfugga al suo controllo, persino la sorte dei malvagi. La diversificazione dei destini umani appartiene all’ambito della responsabilità morale dell’uomo e si mantiene all’interno di una lex che costituisce la manifestazione propria, e mediata, dell’onnipotente volontà divina. Lo stesso rapporto tra Dio e l’uomo, qui chiamato in causa, non può essere astratto dal contesto di una visione della realtà come cosmo, nel senso pregnante del temine: esso va ripensato secondo la nozione di legge divina e di ordine.
Come ha sottolineato Gianluca Potestà, la concezione gotescalchiana dell’onnipotenza divina comportava una svalutazione e relativizzazione dell’autorità e delle gerarchie umane: la visione di un universo in cui non si dà alcuna mediazione tra il creatore e la creatura, sulla quale egli esercita un potere illimitato, metteva evidentemente in crisi la funzione stessa della Chiesa.
Non a caso la questione dei sacramenti e del loro ruolo ai fini della salvezza del cristiano costituiva uno dei nodi centrali della controversia: uno degli aspetti della dottrina di Gotescalco che destava nei suoi avversari le maggiori preoccupazioni era l’affermazione che il sangue del Cristo avesse redento tutti gli eletti una volta per sempre. In questo caso, infatti, non solo i reprobi, dannati per sempre alla perdizione, sarebbero risultati del tutto esclusi dalla Chiesa, ma anche ai fini della salvezza degli eletti i sacramenti avrebbero perso ogni reale funzione, e con essi i loro ministri.
Si comprende bene come ciò che distanziava Gotescalco ed Eriugena non era soltanto una diversa concezione del rapporto tra Dio e l’uomo, ma anche del potere e dell’autorità umana.
A partire dal XVI capitolo si ha un incremento significativo dell’impiego del termine ordo e delle varie forme del verbo ordino: negli ultimi tre capitoli ordo appare in stretta relazione con il termine lex per sei volte,1 nel solo capitolo XVII si incontrano in successione naturalem ordinem, ordine universitatis, auctor et ordinator, iustissimus ordinator, poenarum ordinem, pulchre ordinari.2
Questi esempi rafforzano l’ipotesi per cui al tentativo eriugeniano di fondazione di un ordine universale è strettamente legato il ripensamento della nozione di lex. Se in particolare nel penultimo e nell’ultimo capitolo il termine ordo viene impiegato in un’accezione di sapore fortemente giuridico, che ne sottolinea il suo avere origine nella lex e nello ius divini, l’allusione frequente al disponere o constituere in recto ordine fa riferimento anche a una visione complessiva della struttura ultima della natura e del creato, di cui il creatore è, come il demiurgo platonico, l’ordinator iustissimus nella misura in cui il progetto divino della creazione non si presenta come il prodotto di un arbitrio personale, in cui è impossibile rintracciare una legge unitaria, ma si media scandendosi secondo un trama immutabile e universalmente riconoscibile.
Rimane il nodo principale della questione: la gerarchia, stabilita nella lex divina, è definitivamente compromessa dal peccato dell’uomo, l’integrità della natura violata, la coerenza del creato spezzata?
La risposta di Giovanni Scoto a questo quesito non può che essere una (De praed., 8, 4, 67-70): i moti della volontà perversa non possono trascendere e superare la disciplina del creatore, sono ricondotti, anzi, entro congruis ordinibus; la volontà dei malvagi è una volontà frustrata, che si scontra inesorabilmente con la ferrea e inflessibile legge che regge l’universo riconducendo a un insieme significante un mondo pullulante di disarmonie apparenti, disarticolato e frammentato. Ogni peccato, qualsiasi libido agiti nel profondo la creatura, nel suo inevitabile fallimento, nel suo infrangersi contro l’invalicabile muro della lex divina, è destinata a tradursi in una delle innumerevoli voci che partecipano al coro dell’universo, che dalle dissonanze produce l’armonia più dolce. Il supplizio eterno, identificato come conato a vuoto della volontà malvagia si precisa meglio come il vano movimento di fuga dai confini naturali dell’universo definiti dalla lex: la volontà dannata dovrà servire le leggi a cui aveva voluto ribellarsi, la sua ribellione sarà costretta a trasformarsi in servitù eterna, la sua superbia in perenne umiliazione, la sua libido in frustrazione senza fine. In questo servire contro voglia, in questo doversi piegare, si consuma il dramma più crudele della volontà umana. In questo, che è il peggior tormento che l’uomo avrebbe potuto guadagnarsi con la sua caduta, nemmeno paragonabile a quei supplizi del corpo partoriti dall’immaginazione, ogni turpitudine, ogni corruzione, viene riassorbita nell’onnicomprensivo ordine divino.
Se l’ordine naturale è stabilito dall’eternità dalla lex divina, non c’è distanza tra natura e volontà divina che vengono a coincidere nella struttura che regge e permea tutto il creato.
Quest’ampia digressione sulla nozione di legge che si delinea nel corso del De praedestinatione acquista senso nell’ambito della nostra ricerca solo se la questione della dialettica e del suo ordo viene ricondotta all’interno del quadro sin qui delineato, che oltretutto non investe solo il primo trattato eriugeniano, bensì costituisce una vera e propria costante nello sviluppo successivo del suo pensiero.
Solo in relazione a questa attenzione così viva alla problematica della lex e della sua immutabilità, si comprende può comprendere a fondo tutta la portata che assume l’argomentazione di Giovanni Scoto sulla natura umana e sul mantenimento del libero arbitrio nell’uomo anche dopo il peccato originale: ammettere che l’integrità della natura sia stata compromessa dal peccato dell’uomo comporterebbe l’ammissione di una permanenza eterna del male all’interno dell’universo e di una sconfitta perenne del bene. Ma soprattutto insinuerebbe un elemento di intrinseca debolezza nella volontà divina, che non sarebbe più in grado di garantire l’ordine naturale che con essa si identifica. Il tema delle conseguenze della caduta, in rapporto alla necessità di garantire la salvaguardia dell’ordine universale a dispetto del tentativo di suo sovvertimento attuato dall’uomo, avrà un lungo sviluppo nel Periphyseon: l’errore lascia una traccia nella natura dell’uomo, basti pensare alla lunga riflessione eriugeniana, contenuta nel quarto libro del Periphyseon, sulla divisione in sessi come conseguenza del peccato originale, sulla scorta del De hominis opificio di Gregorio di Nissa. La capacità di conoscenza e dunque di partecipazione all’illuminazione divina è inevitabilmente compromessa dall’assunzione di un corpo corruttibile e soggetto al divenire, creato da Dio per l’uomo in previsione della sua caduta; ma ciò che non può in nessun modo essere ammesso è che la facoltà di conoscenza, la volontà, il libero arbitrio siano stati distrutti sin nella radice dal peccato: essi devono, infatti, mantenersi anche nell’uomo caduto, perdendo tuttavia la propria efficacia.
L’ordine dialettico, nelle cui strutture portanti si rispecchia l’ordine universale stesso stabilito dalla e nella invalicabile lex divina, in questo contesto appare più chiaramente come lo strumento indispensabile di recupero delle facoltà cognitive dell’uomo, compromesse, ma non distrutte dal peccato; la capacità di impiego delle arti liberali si identifica con la capacità di lettura dell’ordine del reale, e dunque con la capacità di interpretazione e adeguazione al comando divino. La successione delle argomentazioni nella costruzione del retto ragionamento, nel suo rispondere e rispecchiare una lex ben più ampia, scandisce il percorso interiore dell’uomo, che è un percorso di purificazione e progressivo avvicinamento alla verità, ma al contempo un intimo percorso di recupero delle facoltà cognitive perdute nella caduta.
3. L’ordo dialettico come struttura del trattato nel Periphyseon
La contestualizzazione della questione dell’ordo dialettico in relazione alla nozione di lex uiversalis, che abbiamo tentato di compiere nel caso del De praedestinatione, mantiene tutta la sua validità anche per il Periphyseon. I punti di contatto, infatti, tra il complesso di concezioni in merito alla legalità della creazione, al peccato e alla pena, elaborato per la prima volta nel De praedestinatione, e il Periphyseon sono numerosi: in particolar modo proficuo è, in questa direzione, il confronto tra il primo trattato eriugeniano e la prospettiva escatologica espressa nel V libro del Periphyseon. Ciò che è chiamato in gioco è, qui come nel De praedestinatione, la questione dell’origine del male, che postula la formulazione di una dottrina del peccato e del castigo escludente ogni responsabilità divina e idonea a garantire la sostanziale positività del creato.
quis nisi amens dixerit, naturalia bona causarum peccandi acceptiva esse posse, vel ab eis peccatum oriri? Si enim acceptiva sunt, naturalis in eis pulchritudo corrumpitur, dignitas minuitur, immutabilitas vacillat, ordo titubat (Periphyseon, PL, V, 974.35-39).
Chi, se non qualcuno privo di senno, potrebbe affermare che i beni naturali possano contenere in sé le cause del peccato o che da essi il peccato abbia origine? Se infatti le contengono, la loro naturale bellezza ne è corrotta, la dignità menomata, l’immutabilità vacilla e l’ordine barcolla.
L’ammissione che il peccato dell’uomo abbia potuto in qualche modo comportare una diminuzione o una corruzione nei beni naturali, o che dall’essere abbia potuto avere origine il peccato, metterebbe in crisi l’immutabilità del mondo, la sua positività originaria: l’ordine stesso della totalità del creato sarebbe messo in discussione. Ordo è accostato a pulchritudo, dignitas, immutabilitas, attributi indivisibili dell’essere.
Una precedente definizione della natura del peccato, che richiamava anch’essa la teoria espressa nel De Praedestinatione, si trova già nel IV libro:
Ordo itaque divinae legis erat, primum Creatorem cognoscere ejusque ineffabilem pulchritudinem, deinde creaturam rationabili sensu mentis nutibus obtemperante considerare, totamque ipsius pulchritudinem, sive interius in rationibus, sive exterius in formis sensibilibus, ad laudem Creatoris referre. Hunc autem divinae legis ordinem superbiendo spernens, Creatoris sui amorem et cognitionem materialis creaturae exteriori pulchritudini postposuit, ac per hoc periculum divinae indignationis incurrit, mortemque corporis et animae totiusque naturae perditionem incidit, quia divinae legis justissimam pulcherrimam seriem servare neglexit (Periphyseon, PL, IV, 843.32-45).
Il comando della legge divina era, in primo luogo, di conoscere il Creatore e la sua ineffabile bellezza, poi di considerare la creatura con il senso razionale sottomesso agli ordini della mente, e di ricondurre tutta la sua bellezza, sia quella che si genera interiormente nei ragionamenti, sia esteriormente nelle forme sensibili, a lode del Creatore. L’uomo, disprezzando nella sua superbia quest’ordine della legge divina, pose la conoscenza e l’amore del suo Creatore dopo la bellezza esteriore della creatura materiale, e perciò sperimentò l’indignazione divina e cadde nella morte del corpo e nella perdizione dell’anima e dell’intera natura, poiché non volle osservare il giustissimo e bellissimo ordine della legge divina.
Il termine ordo viene impiegato due volte con il significato di comando impartito dalla legge, ma in modo da sottolineare il contenuto positivo della legge stessa nella prima occorrenza e invece il senso imperativo, in connessione con l’atto di disubbidienza, nella seconda. Nel primo caso infatti esso regge una frase dichiarativa che precisa il precetto stabilito dalla e nella legge divina, nel secondo caso invece è l’oggetto del verbo sperno (il cui soggetto è l’uomo), che esprime l’atto estremo di disprezzo, appunto, compiuto dall’uomo nei confronti della successione gerarchica stabilita nel comando divino.
Il peccato si configura, infatti, come un assoggettamento della volontà alla bellezza sensibile, un godimento cieco e fine a se stesso delle bellezze create originariamente perché conducessero anagogicamente l’anima alla contemplazione del Creatore. Il godimento per sé del bello sensibile recide il legame significante, che fa, nella prospettiva della teologia negativa, di ogni oggetto sensibile una teofania, e della bellezza sensibile una effusione del Bello soprasostanziale di cui essa è rimando e significazione. L’atto di disprezzo del peccatore si traduce in tentativo sovversivo nella misura in cui esso è sottrazione all’ordine che sottomette l’esteriore materiale all’interiore intellettivo, ed è mancato adempimento alla propria funzione e al proprio ordine interiore stabiliti originariamente nella creazione.
L’oggetto della punizione divina non può essere, dunque, un prodotto della fecondità creatrice di Dio; al contrario, la pena, pur consumandosi entro e non al di fuori dei limiti della natura creata, avrà come oggetto i moti della volontà perversa, che non sono naturali e dunque non sono creati. La volontà sarà tormento a se stessa, i desideri libidinosi, concepiti in questa vita, saranno fonte rinnovata di supplizio nell’altra.
Se tutto ciò che è stato prodotto dai moti irrazionali della creatura non è riconducibile al creatore, e dunque non comporta una sua responsabilità nell’esistenza del male, allo stesso tempo non può essere concepito al di fuori dei confini determinati dalla divina provvidenza: ritorna anche nel Periphyseon quello che può essere considerato uno dei temi dominanti della prima opera eriugeniana, l’impossibilità di evasione dai confini stabiliti nella lex universale.
Et jam, ni fallor, intelligis, non solum omne, quod ab uno Deo creatum est, verum etiam omne, quod irrationabilis motus rationabilis et intellectualis creaturae supermachinatus est, et nunc intra ordinem divinae providentiae contineri, et tunc post universalis creaturae in suas causas reditum inque ipsum Deum ordinandum fore, quando totius universitatis conditae plenissima perficietur pulchritudo. Neque hoc mirum, dum nulla natura aliam naturam punire, nullum vitium virtutem, qua continetur, possit corrumpere; et non solum hoc, sed ex his omnibus intra divinas leges ordinatis omnium plenitudo naturarum et formositas complebitur, omnium visibilium et invisibilium consona absque ulla dissonante harmonia modulabitur (Periphyseon, PL, V, 965.19-34).
E già, se non mi sbaglio, comprendi come, non solo tutto ciò che dall’unico Dio è stato creato, ma anche tutto ciò che il moto irrazionale della creatura razionale e intellettuale ha artificialmente congegnato, è ora contenuto entro l’ordine della divina provvidenza, e allora, dopo il ritorno dell’universo creato nelle sue cause e in Dio stesso, sarà ordinato, quando sarà condotta a perfezione la pienissima bellezza della totalità creata. Né questo è strano, quando nessuna natura potrebbe punirne un’altra, nessun vizio corrompere la virtù dalla quale è contenuto; e non solo, ma dall’insieme di tutto ciò che è ordinato entro le leggi divine sarà colmata la pienezza e la bellezza delle nature, sarà modulata l’armonia concorde, priva di dissonanze, di tutte le cose visibili e invisibili.
I prodotti delle macchinazioni umane sono contenuti entro l’ordine della provvidenza divina, come saranno ordinati dopo il reditus dell’intera natura: l’impiego del termine lex, retto dal participio perfetto del verbo ordino, rafforza la sfumatura giuridica assunta da ordo e ordino, accentuandone l’aspetto cogente. La permanenza entro le divinas leges è garanzia, inoltre, della dimensione estetica della natura, poiché fonda l’armonica conciliazione delle creature visibili e invisibili e il raggiungimento di una piena formositas.
All’interno dell’onnicomprensivo disegno divino, infatti, tutto ciò che appare malvagio, turpe o empio è costretto a mutarsi nel proprio opposto nella prospettiva dell’universalità della natura, è costretto a cozzare contro i limiti della lex, che obbliga ciò che voleva scagliarsi contro la natura stessa a mutarsi in una delle disparate voci concorrenti a dar vita al coro dell’universo.
È certamente significativo che si possa registrare un incremento sensibile dell’impiego del termine lex proprio nel contesto della trattazione sul destino dell’umanità dopo la morte; l’insistenza con cui Giovanni Scoto sottolinea il nesso tra i supplizi riservati agli empi e le leggi divine che li regolamentano, testimonia la necessità di riassorbire entro una concezione legalitaria dell’universo, tutto ciò che potrebbe comportare una contraddizione nell’economia generale della creazione. Si tratta di un nucleo speculativo già presente nel De praedestinatione, che non investe soltanto la prospettiva escatologica dominante nel V libro del Periphyseon, ma getta luce sulla più generale concezione eriugeniana dell’ordine della natura e, conseguentemente, dell’ordine dialettico.
Non solo in un numero di testi abbastanza consistente ordo compare per indicare l’ordine dell’argomentazione o della costruzione del discorso, ma è proprio in questa accezione, come nel De praedestinatione, che il termine fa la sua prima apparizione all’interno del Periphyseon:
Recte aestimas. Sed quo ordine ratiocinationis via tenenda sit, hoc est de qua specie naturae primo discutiendum, tuo arbitrio committo (Periphyseon, I, 40-43).
Giudichi rettamente. Ma secondo quale ordine del ragionamento sia da tenere la strada, cioè di quale specie della natura si debba discutere prima, lo affido al tuo giudizio.
L’ordine del ragionamento segna la via da seguire nella scelta della successione degli argomenti da trattare. I testi in cui il termine compare in contesti di richiamo all’ordine del discorso o di scelta degli argomenti da affrontare sono abbastanza numerosi. Se in alcuni di essi la scelta sembra essere affidata all’arbitrio del maestro (Periphyseon I, 3062; I, 3240-3241; II, 575), e comunque interna a un rapporto pedagogico con il discepolo, in diversi altri testi i verbi utilizzati, exigo, pono, expeto, presuppongono un ordine cogente, che va seguito nell’articolazione del trattato (Ibidem, I, 3476-3478; II, 40; II, 2324-2325; III, 2421). In alcune occorrenze, infine, la presenza del genitivo rerum, retto da ordo, testimonia la stretta corrispondenza tra l’articolazione del discorso e la struttura intima della realtà:
Non aliter ordo rerum exigit (Periphyseon, II, 26).
De his omnibus quae tibi, ut dicis, non clare patescunt alium disserendi locum ordo rerum expetit (Periphyseon, II, 570-571).
Riguardo a tutte queste cose che, come dici, non ti risultano chiare, l’ordine delle cose esige un altro luogo di discussione.
Sed quia pars sensibilis mundi maxima est corpus humanum, non mole sed dignitate rationalis animae, qua formatur et vivificatur et regitur et continetur, de ipsius reditu tractare ordo rerum exigit et disputationis series, ni fallor (Periphyseon, PL, V, 898.38-43).
Ma poiché la parte più importante del mondo sensibile è il corpo umano, non per la mole, ma per la dignità dell’anima razionale da cui è formato, vivificato, retto e contenuto, l’ordine delle cose e la successione dell’argomentazione richiede che si tratti del suo reditus, se non sbaglio.
Il richiamo all’ordine dell’argomentazione costituisce, come si è visto, una preoccupazione sempre abbastanza presente in Eriugena, che sembra fare mano a mano il punto della trattazione; questa frequenza pone evidentemente la questione, lo avevamo già detto, della struttura interna del Periphyseon.
Le interpretazioni degli studiosi in merito sono alquanto discordi; secondo il Cappuyns, ad esempio, la divisione della natura in quattro specie mal si accorda con la dialettica ascendente e discendente che costituisce la nervatura del trattato, essendo troppo statica e costringendo l’autore a dare molto più spazio alla divisione che al reditus.3
È vero che l’assenza di una edizione critica integrale del testo rende ancora più difficile la lettura di una struttura, già complessa, ma in più complicata dalla stratificazione delle tre recensioni successive, derivate dall’incorporazione nel testo primitivo di una serie di note marginali. Tuttavia il Jeauneau4 legge anche nelle numerose e lunghissime digressioni un piano coerente dell’opera, che rivelerebbe una traiettoria elicoidale, in cui a ogni tappa successiva si incontrano i medesimi temi già affrontati, ma in una prospettiva differente e sempre più approfondita. Giovanni Scoto, dunque, sembrerebbe voler ricreare l’universo, non solo rimodellando, ma anche rifondando tutto il materiale concettuale che egli giunge a toccare; una ricreazione che seguirebbe il doppio movimento di discesa e risalita entro i due poli metastorici rappresentati dalle cause primordiali e dalla riunificazione finale.
Ci sembra interessante riportare anche la chiave interpretativa proposta dall’Allard,5 secondo il quale il Periphyseon si presterebbe a tre differenti prospettive di lettura, tra di loro interconnesse, che egli definisce come ordine logico, pedagogico ed epistemologico. Secondo la prima prospettiva è possibile tracciare un metodo di articolazione dell’indagine che parte dalla divisione dell’ousia in quae sunt et quae non sunt, che costituirebbe il momento statico dello sguardo all’essenza, per tornare al momento dinamico della divisione in quattro, inquadrata nell’ulteriore divisione della processio e della reversio. L’ordine epistemologico si baserebbe, invece, sul presupposto che punto di partenza del ragionamento debba essere ciò che presenta la maggiore oscurità e difficoltà di comprensione: l’articolazione del ragionamento procede dunque dall’oscuro a ciò che è via via più manifesto, dall’ousia alle sue teofanie, gli accidenti. Non a caso, prima di affrontare la quadripartizione della natura e i suoi momenti, il Maestro pone come prima e ineludibile divisione, quella dell’ousia in quae sunt e quae non sunt, essere e non-essere; il motivo di questa scelta della successione dell’argomentazione si fonda sulla maggiore oscurità e difficoltà di questa distinzione. Quest’ordine epistemologico è anch’esso rispecchiamento dell’ordine del reale, poiché lo stesso movimento discendente e degradante dal principio creativo alla molteplicità si configura come un movimento di progressivo svelamento, di progressiva manifestazione di Colui che non è manifestabile. In questo movimento tutto si tiene nell’essere rimando significante al Principio, in cui il tutto si fonda; ma nella discesa verso il molteplice il grado di accessibilità del significato aumenta in proporzione esattamente inversa al grado di complessità, e dunque di vicinanza al Creatore, della teofania.
L’ordine pedagogico comporterebbe, per concludere, una coerenza interna al rapporto tra maestro e discepolo, che spiegherebbe le frequenti ripetizioni e le digressioni amplificanti, come strumenti finalizzati a consentire allo spirito di abituarsi progressivamente alla luce accecante della verità.
La questione del rapporto tra il Nutritor e l’Alumnus non ha importanza secondaria nella comprensione dell’articolazione del trattato. In primo luogo la forma dialogica scelta dall’Eriugena, se da un lato rimanda per analogia alla scrittura dei dialoghi platonici, dall’altro lato proprio in questo rimando segna una distanza e una differenza che è utile cercare di cogliere. Possiamo partire dalla considerazione del fatto che il Discepolo del Periphyseon è un soggetto attivo all’interno del dialogo: egli pone domande sempre più roventi, definisce insieme al Maestro l’ordine della trattazione, chiede chiarimenti, imponendo al Maestro digressioni continue, continui ritorni sul già detto, suscitando anche reazioni spazientite, contesta le affermazioni del Maestro, impegnandolo in un costante sforzo di chiarimento, di argomentazione, giunge autonomamente ad alcune conclusioni, a volte errando a volte anticipando, almeno apparentemente, il Maestro stesso. In questo senso quello che viene definito da Allard come ordine pedagogico è fortissimamente un ordine dialogico, laddove il dialogo si impone come interlocuzione tra due soggetti distinti e non identificabili. L’andamento stesso del trattato sarebbe in parte largamente incomprensibile se si prescindesse da queste considerazioni, e dalla considerazione dell’intreccio che vive nel Periphyseon tra un ordo dialettico e un ordo dialogico.
Per tornare alla concezione eriugeniana della dialettica, che sembra assumere un carattere sempre più definito, il D’Onofrio, in un intervento al convegno di Montréal, ha messo in luce i diversi piani in cui va considerata la questione della dialettica, (logico ontologico e metafisico) e il loro stretto legame.6
La dialettica, concepita come arte della definizione e della divisione, strumento contro l’eresia, via di purificazione dell’anima e di ascesa alla verità divina, riflette nei suoi momenti di divisione e riunificazione, l’ordine stesso della natura. La stessa natura, o ousia, corrisponde a quei concetti noetici puri e immediatamente evidenti, che costituiscono i punti di partenza della divisione dialettica: essa è la categoria suprema concepibile dall’intelletto. Da essa inizia il tentativo di seguire una divisione dialettica che metta in luce l’articolazione propria dell’universo, attraverso la sua quadripartizione che dovrà essere poi essere riassorbita in unità nell’analisi. La progressiva divisione della natura segna le tappe fondamentali di una dialettica discendente che rappresenta la parte più cospicua del trattato; in questo senso si può dire che nella descrizione del rapporto tra Dio e mondo, che costituisce la nervatura vera e propria del trattato, sia la problematica della derivazione del molteplice dall’uno a dominare: la derivazione del sensibile dall’intelligibile, delle cause primordiali dalla semplicità del Verbo, della molteplicità degli effetti dalle cause. L’andamento stesso del Periphyseon si sforza, dunque, di rispecchiare il movimento di produzione della realtà a partire dal principio creativo, scandendosi nei momenti successivi della degradazione e della dispersione dell’essere nel molteplice.
Il punto di partenza stesso della riunificazione è la predicazione, l’unione semantica di due termini: per questo motivo bisognerà seguire le regole della dimostrazione logica per individuare i passaggi necessari, che la ragione deve compiere sulla via dell’unità. Così trova giustificazione il gusto eriugeniano per le leggi della logica e l’uso dei suoi strumenti, dalla conversio, al quadratum oppositionis, al sillogismo.
Nella legalità del discorso costruito attraverso il ricorso alle arti liberali, immagine più immediata e vicina a Dio all’interno della natura, si riconosce la traccia della legalità interna al processo creativo, che nel linguaggio è svelata.
4. Lex ierarchica e lex ratiocinationis nelle Expositiones
Nelle Expositiones, l’impiego di ordo in stretto nesso con la nozione di lex, che, come abbiamo visto rappresenta un filo conduttore a partire dalla prima opera eriugeniana e attraverso l’intero suo pensiero, si arricchisce di ulteriori approfondimenti alla luce del suo legame con l’ordinamento gerarchico, che riveste in quest’opera un’importanza a dir poco centrale: in questo senso lo stesso rapporto con il testo dionisiano dovette rivelarsi proficuo per Eriugena. Infatti, se la gerarchia dionisiana può essere definita come una costituzione ordinata in cui si incarna la lex divina, sarà utile approfondire come questo nodo speculativo venga assunto ed eventualmente approfondito da Giovanni Scoto, prima di affrontare più da vicino il nodo dell’ordo dialettico.
Il termine che Dionigi impiega per indicare la legge in riferimento alla gerarchia celeste non è nómos, termine profano, bensì thesmós, che sottolinea la sua origine sacra: Giovanni Scoto traduce abitualmente thesmós con lex.
Ciò che presiede alla effusione dell’illuminazione divina, è una legge di origine sacra, una costituzione perfetta che determina la partecipazione di ordine in ordine alla scienza di Dio:
Propterea, inquit, divina agalmata, purgatissimi videlicet animi qui primitus et immediate divinam suscipiunt claritatem, non aliter eam inferioribus se ordinibus declarant nisi secundum divinas leges (Expos., III, 128-130).
E le divine immagini, dice, sono riempite dapprima del glorioso splendore della bellezza divina, e quella luce, di cui prima partecipano largamente, di nuovo manifestano ed effondono in quelle che seguono, cioè negli ordini che sono sotto di loro, secondo la distribuzione stabilita dalle leggi divine.
Le leggi che presiedono alla distribuzione dei doni divini sono i confini stessi in cui si muove tutto ciò che viene operato all’interno della gerarchia; si ritrova anche nelle Expositiones il tema continuamente ribadito dell’invalicabilità della lex divina e universale, dell’impossibilità che qualcosa venga agito al di fuori dei suoi confini, dell’identità tra la trasgressione della legge, il tentativo di evasione dall’ordine gerarchico e il disprezzo del comando divino. Ma in quest’opera è possibile riconoscere in modo evidente la matrice dionisiana di questo nodo speculativo fondamentale nel pensiero eriugeniano.
Lo splendore divino non consente il turbamento delle leggi divine, realizzate nell’ordinamento gerarchico che esse governano e in cui si identificano. In questi testi il termine ordo è impiegato nel significato di grado o rango, cui ognuno deve adeguarsi per non violare la lex, ma troviamo anche un testo in cui ordine e legge appaiono connessi in maniera ancora più evidente, e si tratta di un testo dionisiano (CH, 180.46-181.4):
Docet autem et hoc sapienter theologia per angelos eam in nos provenire, tamquam divino legali ordine illud legaliter ponente, hoc est per prima secunda in divinum reduci (Expos., IV, 500-503).
La sapiente scrittura, dice, insegna che essa (la teofania) attraverso gli angeli giunge a noi, secondo il divino ordine della legge, che legalmente ha stabilito che i secondi siano ricondotti al divino attraverso i primi.
Divino legali ordine, traduce correttamente nel testo eriugeniano il greco tês theonomikês táxeos, letteralmente appunto ordine della legge proveniente da Dio: questo testo conferma ciò che stavamo sostenendo, e cioè che il nesso speculativo tra ordine e legge, che è presente nell’intero pensiero eriugeniano, trova nell’ordine gerarchico la sua incarnazione, ma al tempo stesso rivela, se non una matrice dionisiana, certamente un significativo rispecchiamento in alcuni elementi fondamentali della dottrina dionisiana della ierarchia universalis.
Una certa distanza, invece, con il pensiero di Dionigi è segnata dal trasferimento di questo elemento fortemente legalitario sul piano dell’organizzazione del discorso e del ragionamento. L’idea di una legalità interna al discorso, che si rispecchia anche nella scelta della successione dell’argomentazione nella stesura di un trattato, risale agli inizi stessi del pensiero dell’Eriugena. Già nel De praedestinatione, infatti, si trova un significativa e famosa definizione di dialettica, che porta addirittura all’identificazione tra la vera dialettica, cioè la filosofia, e la vera religione; questo elemento, come abbiamo visto, ripreso e ulteriormente approfondito nel Periphyseon, ricompare adesso anche nelle Expositiones. La formula ordo verborum7 ricorre ben 16 volte nel corso di quest’opera, e solitamente indica il metodo di traduzione o di esposizione adoperato; molto spesso, infatti, precede le perifrasi utilizzate da Giovanni Scoto per chiarire dei passaggi oscuri del testo dionisiano, o per adattare la struttura del periodo greco al periodare latino. Essa rivela dunque una grande attenzione alla lettera del testo, accentuata dalla consapevolezza delle difficoltà insite nell’arte del tradurre. Accanto a questa formula incontriamo, con la medesima funzione, due volte ordo dictionum;8 una volta, invece, si incontra ordo rerum in riferimento all’ordine dell’argomentazione:
Hoc est: ordo rerum exigit, ut arbitror, priusquam ad expositionem dissimilium symbolorum… primum explanare qualem speculationem, id est qualem diffinitionem, iudicamus esse omnis ierarchie, id est universalis ierarchie (Expos., II, 25-30).
L’ordine delle cose esige, come penso, che, prima di esporre i simboli dissimili, attraverso i quali l’animo umano è introdotto alla pura visione delle virtù celesti, spieghiamo quale pensiamo sia la contemplazione, cioè definizione, di ogni gerarchia, vale a dire della gerarchia universale.
In questa glossa, Scoto sostituisce con la formula ordo rerum, che evidentemente reputa ancora più esplicativa, l’oportet che aveva utilizzato nella traduzione. Il contesto è comunque quello della scelta della successione degli argomenti da trattare, e l’impiego del genitivo rerum testimonia lo stretto legame che per Scoto sussiste tra il discorso costruito rettamente, secondo le leggi, e la struttura intima del reale.
Infine, in una occorrenza si trova ordo, accompagnato dall’aggettivo naturalis, a indicare l’andamento dell’analisi da seguire:
Dum hec, inquit, que prediximus, consequenti naturalique ordine fuerint considerata, oportet dicere quales divinas formationes sanctorum eloquiorum sacra descriptio, hoc est sancta formarum assimilatio ad celestes ordines significandos figurant atque conformant… (Expos., II, 48-52).
Quando, ciò che abbiamo detto prima sarà stato considerato secondo l’ordine conseguente e naturale, sarà opportuno dire quali divine formazioni plasmi e adegui alla rappresentazione degli ordini celesti la sacra descrizione, cioè la santa simulazione delle forme, delle sacre scritture…
L’impiego dell’aggettivo naturalis è significativo della convinzione eriugeniana che una corretta analisi debba rispecchiare l’andamento naturale della realtà, e che nella struttura del discorso sia possibile leggere le leggi stesse del creato. Tale convinzione si fonda, come abbiamo già detto, sull’alta considerazione nutrita da Scoto per le arti liberali, riunite sotto il nome di dialettica. Sull’incidenza di tale considerazione delle arti anche nel testo delle Expositiones è un saggio del Roques a fornirci alcuni elementi analitici importanti.9
Egli prende l’avvio da una singolare traduzione di Scoto, il quale rende l’avverbio atéchnos, che nel testo dionisiano è riferito alla semplicità delle Sacre Scritture, con il suo esatto opposto, valde artificialiter (Expos., I, 124-128), trasformando l’alfa privativo in un rafforzativo. Questa scelta di traduzione non sarebbe sintomatica, secondo Roques, di un semplice errore di interpretazione, ma sarebbe riconducibile all’impossibilità, per Giovanni Scoto, di riconoscersi in un testo che nega chiaramente qualsiasi pertinenza delle arti liberali alla Sacra Scrittura. Ora, un’opposizione di fatto tra Scrittura e arti è per Scoto del tutto inconcepibile, in particolar modo se affermata da un testo che godeva all’epoca di un enorme prestigio e, soprattutto, di una grande autorità.
Non solo per l’Eriugena la Scrittura si serve delle arti per guidare il credente alla piena comprensione della verità divina: non sarebbe nemmeno pensabile il darsi di una Scrittura che evada dalle arti liberali e non sia contenuta nei loro confini: «Nulla enim sacra scriptura est que regulis liberalium careat disciplinarum» (Expos., I, 560-561).
Nella concezione eriugeniana, le arti liberali, essendo coeterne all’intelligenza in cui sussistono in unità, sussistendo eternamente nelle cause primordiali, essendo un oggetto originario della creazione divina, sono l’immagine più elevata e più perfetta di Dio entro la natura, e perciò possiedono maggiore dignità sia della Scrittura che del mondo degli effetti, i due ambiti della rivelazione.
Sia la Scrittura che la natura sono due fonti insufficienti di conoscenza, se non vi si immette la ratio naturalis con cui esse vanno interpretate. L’intelligenza umana non completamente decaduta, può ancora trovare la verità divina, nella misura in cui essa ritrova se stessa nell’attività del nous e delle proprie arti.
«Il nostro animo illuminato con una sacra varietà di simboli dalla stessa disciplina, che dai Greci è chiamata analytiké, è ricondotto all’altezza della celeste deificazione. Due sono le parti della dialettica, di cui una è denominata diairetiké, l’altra analytiké» (Expos., VII, 575-580).
Si comprende bene, per concludere, come la questione dell’ordine del ragionamento e del discorso, non solo rivesta ancora una volta un ruolo centrale nel pensiero eriugeniano, ma investa anche la possibilità stessa di un percorso di avvicinamento al divino e di recupero della dignità perduta.
5. Nota bibliografica
- G.H. Allard, «Quelques remarques sur la “disputationis series” du “de divisione naturae”», in Jean Scot Érigène et l’histoire de la philosophie, a cura di R. Roques, Paris, 1977.
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- M. Cristiani, Dall’unanimitas all’universitas, Roma, 1978.
- M. Cristiani, «La notion de loi dans le “De Praedestinatione”», in Jean Scot Érigène et l’histoire de la philosophie, a cura di R. Roques, Paris 1977.
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- U. Keudel, «Ordo nel Thesaurus linguae latinae», in Ordo. IIº colloquio internazionale del Lessico intellettuale europeo, a cura di M. Fattori e M. Bianchi, Roma 1979.
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- Dionigi Areopagita, Hiérarchie céleste, in Sources Chrétiennes, a cura di G. Heil e E. Jeauneau, Paris 1958.
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- Giovanni Scoto Eriugena, Expositiones in Ierarchiam coelestem, in Corpus christianorum, a cura di J. Barbet, Turnholt 1975.
- Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, Liber primus, in Corpus Christianorum a cura di E. Jeauneau, Turnholt, 1996.
- Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, Liber secundus, in Corpus Christianorum a cura di E. Jeauneau, Turnholt, 1997.
- Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, Liber tertius, in Corpus Christianorum a cura di E. Jeauneau, Turnholt, 1999.
- Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, Liber quartus
- Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, a cura di H.J. Floss, in Patrologia Latina, ed. Migne, Parigi, 1865.
-
De praed., 17, 3, 49-51; 18, 6, 126-128; 18, 6, 132-134; 18, 9, 215-217; 18, 10, 224-227; 18, 10, 242-246. ↩︎
-
De praed., 17, 1, 18; 17, 2, 24; 17, 5, 91-92; 17, 5, 97-98; 17, 6, 118; 17, 7, 123; 17, 6, 2, 64-68. ↩︎
-
M. Cappuyns, Jean Scot Érigène, sa vie, son œuvre, sa pensée, Paris-Louvain, 1933. ↩︎
-
E. Jeauneau, «L’homme et l’œuvre», in Études érigéniennes, Paris, 1987, pp. 13-54. ↩︎
-
G.H. Allard, «Quelques remarques sur la “disputationis series” du “De divisione naturae”», in Jean Scot Érigène et l’histoire de la philosophie, a cura di R. Roques, Paris, 1977. ↩︎
-
G. D’Onofrio, «“Disputandi disciplina”. Procédés dialectiques et “logica vetus” dans le language philosophique de Jean Scot», in Jean Scot écrivain, Montréal, 1983. ↩︎
-
Expositiones, I, 225; I, 431; IV, 433; IV, 453; VI, 73; VII, 57; VII, 101; VII, 341; VIII, 256; VIII, 329; IX, 214; IX, 335; XIII, 529; XV, 129; XV, 196; XV, 804. ↩︎
-
Expos., IX, 605; XI, 78. ↩︎
-
R. Roques, Libres sentiers vers l’érigénisme, Roma, 1975. ↩︎