1. La sentenza di morte della religione
In Italia, negli ultimi decenni, si è verificato un incremento della riflessione filosofica sulla religione, a prescindere dai vincoli sociologici e culturali di appartenenza istituzionale e confessionale. Il dato biblico è diventato motivo di problematicità per pensatori di vari orientamenti.1
La letteratura comincia ora a individuare «i Maestri che hanno tracciato le linee guida di un nuovo approccio filosofico al problema religioso, tale da costituire in senso proprio dei modelli interpretativi di filosofia della religione».2 Oltre ai percorsi inaugurati da queste figure — che trovano una continuazione in studiosi, istituzioni, eventi e pubblicazioni che a loro fanno riferimento — esiste una sorta di «paradigma laico»3 comprendente le numerose ed eterogenee posizioni degli studiosi che, pur senza essere credenti e senza essere strettamente inscrivibili nell’ambito disciplinare della filosofia della religione, si misurano con il tema religioso offrendo contributo consistenti e stimolanti.
È il caso di Umberto Galimberti che, in un recente articolo,4 ha esposto con forza la tesi dell’estinzione della religione.
Lo scritto è conseguente ad argomentazioni contenute in altri suoi lavori che coprono un arco di 25 anni, nei quali ha formulato una critica radicale al cristianesimo quale momento della vicenda di alienazione dell’essere nel pensiero occidentale.
Galimberti pronuncia una sentenza severa e senza appello:
La religione morirà. Non è un auspicio, né tanto meno una profezia. È già un fatto che sta attendendo il suo compimento, […] perché l’ordine del mondo, che un tempo era cadenzato dai suoi comandamenti [di Dio], ora è regolato dalle ferree leggi della tecnica che a Dio più non si rifanno, perché di Dio hanno perso non solo il nome, ma anche il senso, l’origine e la traccia. […]
Ciò significa che, passata la nostra generazione e forse quella dei nostri figli, che ancora si alimentano degli ultimi resti della cultura umanistica che la religione cristiana ha inaugurato ponendo l’uomo al centro dell’universo, nessuno più considererà il bisogno di dare un senso alla vita un problema davvero fondamentale. Il rapido declino dell’orizzonte umanistico determinato dalla tecnica che, non proponendosi alcun fine, estingue ogni possibile riferimento di senso, sembra acutizzare e rendere più drammatica la domanda inevasa di senso e la ricerca affannosa di una speranza religiosa.5
Il verdetto accomuna tutti gli aspetti del variegato panorama religioso odierno, dalle forme di credenza tradizionali alle più recenti manifestazioni. Per poterlo discutere appropriatamente, abbiamo ricostruito l’itinerario di pensiero che lo precede.6 Ne emerge che Galimberti, nel delineare il suo discorso che applica indistintamente a tutte le religioni, adotta come presupposto una concezione inautentica del cristianesimo che deriva dai suoi schemi mentali e non corrisponde alla realtà. Questa sorta di «falsa coscienza» denota una mancanza di informazione sui fondamenti biblici e teologici del pensiero cristiano. Documenteremo tale affermazione prima indicando lo schema interpretativo da lui cucito addosso alla religione cristiana e poi mostrando le distorsioni a cui dà luogo nell’applicazione al dato teologico, antropologico e cristologico.
In quanto riferito ad uno studioso i cui saggi godono di un successo di vendite superiore alla media e i cui scritti sono ospitati con rilievo sulle pagine dei quotidiani nazionali, questo dato di fatto è indicativo del persistere di un’estraneità del sapere teologico rispetto alla globalità della cultura italiana. Pur non mancando segnali in senso contrario, non è ancora finito l’apartheid culturale del mondo cattolico legato al noto processo di secolarizzazione e di cui storicamente è un fenomeno emblematico, nella realtà italiana, l’espulsione delle discipline teologiche dalle università statali. La teologia è così diventata affare privato della Chiesa cattolica e delle sue istituzioni formative in una quasi totale assenza di dialogo con la cultura che si definisce laica la quale ha finito con il costruirsi una propria immagine del fenomeno religioso. Segnalare i fraintendimenti a cui questa scissione dà luogo, come qui ci proponiamo, contribuisce a ridurne l’ampiezza aumentando la comunicazione e la circolazione della conoscenza.
2. La duplice radice del discorso di Galimberti
Prima di discutere le tesi di Galimberti, è opportuno indicare come è pervenuto a formularle evidenziando che, fin dall’inizio del suo itinerario filosofico, risentono di idee aprioristiche sul cristianesimo che ne deformano l’immagine.
In un recente libro-intervista, il pensatore monzese riconosce il suo debito nei confronti di Emanuele Severino e Karl Jaspers: «Severino mi ha insegnato a organizzare il cervello e Jaspers mi ha indicato il campo di applicazione di quello che avevo imparato da Severino».7 Questa duplice radice è determinante nello sviluppo del suo pensiero è facilmente riscontrabile a partire dal suo primo libro: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente.8 Il riferimento a Jaspers quale oggetto della trattazione è esplicito fin dal titolo e l’influenza di Severino si percepisce nello schema interpretativo adottato che condiziona quel testo e la successiva produzione di Galimberti, almeno per quel che riguarda l’interpretazione della religione che qui affrontiamo.
Nel ripercorrere l’opera del filosofo dell’esistenza, Galimberti non rispetta la centralità che vi hanno temi come l’esperienza del limite e l’esperienza della libertà con la loro apertura alla trascendenza.9 Invece, privilegia un’ottica metafisica che la qualifica come esplorazione del nichilismo che caratterizza la storia del pensiero dell’Occidente. Dove con nichilismo si intende l’oblio dell’essere operato dalla ragione occidentale che ne ha smarrito il senso perché «invece di ascoltare l’essere, ha ideato l’essere, ovvero l’ha pensato a sua misura, scambiando l’immagine così riportata, col volto dell’essere».10 Con Heidegger, Jaspers è colui le cui meditazioni «hanno evidenziato col massimo rigore l’essenza metafisica del nichilismo e le sue profonde tracce in tutti gli aspetti dell’anima occidentale».11
Questo è appunto uno schema intepretativo alla maniera di Severino che fa perno sulla storia della filosofia occidentale interpretata come «vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravista dal più antico pensiero dei Greci»12 ed è la storia della metafisica il luogo in cui è più difficile scoprire l’alterazione e la dimenticanza che non sono per questo meno presenti, anzi. Comparando questa citazione severiniana con le due immediatamente precedenti, l’identità di vedute è immediatamente evidente, a conferma delle parole dello stesso Galimberti sull’influenza di Severino.
A onor del vero, bisogna riconoscere che egli non sposa fino in fondo la posizione del suo maestro per il quale il nichilismo, più che oblio dell’essere, è annullamento dello stesso in cui persino Heidegger e Jaspers sono coinvolti. Se Severino li considera pienamente dentro l’errore, da cui si può uscire solo tornando alla verità dell’essere di Parmenide, Galimberti ritiene che il loro esistenzialismo sia un pensare «il linguaggio come ascolto della voce dell’essere»,13 della parola originaria in cui tutti convergono perché è parola che abbraccia e circoscrive; nel circoscrivere comprende e nel comprendere contiene. L’essere, nella prospettiva esistenzialista in cui lui si riconosce, è parola che contiene tutte le altre, impedendo alla propria parola di porsi come assoluta (come avviene nella tradizione del pensiero occidentale) e facendo nascere la comunicazione dialogica che è l’unica a permettere di pensare «insieme» lo «stesso», cioè di tornare a quel pensiero aurorale che è vicino all’essere perduto. Pensiero che non vuole possedere l’essere per manipolarlo e disporne, alla maniera della ragione occidentale di impronta metafisica, ma rispettarlo.
Diversamente da Severino, Galimberti, pertanto, riconosce in Heidegger e Jaspers un effettivo accesso alla verità. Per il resto mutua il suo schema interpretativo per cui il cristianesimo è un episodio dell’oblio dell’essere, come testimoniano i seguenti passaggi.
La dimenticanza dell’essere ha determinato la dominazione dell’ente. L’ente è grazie all’essere, ma, là dove l’essere è obliato, si rende necessaria la ricerca di un ente superiore (das Seindeste) in grado di garantire la dominazione dell’ente sul nulla. Nasce l’entissimo (Dio) che fonda la totalità degli enti (mondo). Il dualismo metafisico si ripercuote nel sapere che si fa scientifico e religioso, la filosofia incomincia a smarrire la sua identità in concomitanza dello smarrimento del senso dell’essere.
Scienza e religione trasmettono alla filosofia la loro logica, che è logica della risposta, ottenuta affidandosi alle sequenze causali che conducono dalla premessa alla conclusione. […] Con la spiegazione causale ci si proietta nel dominio del mondo e si assicura la salvezza dell’anima.14
Tecnica e fede condividono il medesimo errore e la medesima pretesa:
Alla scienza e alla tecnica oggi si chiede ciò che un tempo si chiedeva a un dio: la prosperità della terra, la buona salute, la prole, il prolungamento della vita, persino la pace dell’anima mediante la disponibilità delle cose che acquietano e rasserenano. […] Preghiera e ricerca si fondano entrambe sulla manipolazione dell’essere, in vista di un rassicurante vantaggio per l’uomo. La preghiera affida l’essere alla theia techne, la ricerca scientifica alla anthropìne techne. È cambiato il soggetto ma non l’impiego tecnico dell’essere e la finalità antropologica che l’ha promosso. In Occidente l’uomo ha cercato solo se stesso e anche il Dio che ha pensato, l’ha pensato al proprio servizio.15
In altre parole
L’onnipotenza che l’uomo aveva attribuito a Dio nei tempi della sua radicale impotenza, oggi la rivendica per sé, decidendo di gestire in proprio il processo creativo che la sua impotenza aveva affidato a Dio. Così comportandosi, l’uomo occidentale si rivela perfettamente coerente con le premesse metafisiche che aveva posto. La scienza non usurpa il luogo della metafisica, è la metafisica che lascia essere se stessa come scienza. […] La scienza è quindi la conseguenza diretta della metafisica.16
In queste parole di 25 anni fa è già racchiusa l’attuale sentenza di condanna della religione, costretta a soccombere di fronte alla tecnica. Entrambe condividono la medesima premessa metafisica, cioè l’oblio dell’essere. Vi sopperiscono istituendo la dominazione dell’ente in funzione dei bisogni dell’uomo, ma la tecnica si rivela in questo più efficiente di Dio e ne prende il posto.
3. L’oblio del cristianesimo
Tutto quando Galimberti ha scritto da allora in poi è coerente con questa idea di partenza derivante dalla duplice radice del suo pensiero.
Pur magnificano la comunicazione dialogica, non entra in dialogo con il cristianesimo, non ne ascolta la parola. Al contrario, parafrasando una sua affermazione più sopra riportata, lo pensa a sua misura, scambiando l’immagine, così riportata, col volto del cristianesimo. Cioè ne costruisce l’immagine che meglio si adatta al proprio schema di pensiero, senza verificare se corrisponda o meno al vero.
L’intero procedimento ci sembra epistemologicamente molto simile alla forma decostruttiva della filosofia della religione, in quanto Galimberti, similmente a Feuerbach, tende a risolvere la religione in antropologia, ritenendola un’alienazione in un soggetto fantastico di attributi proprio dell’uomo della tecnica ipostatizzati in una dimensione metafisica.17
Lo schema, però, non regge perché se si prendono in considerazione gli aspetti della tradizione giudaico-cristiana discussi da Galimberti, emerge che ne ha una comprensione distorta. Con ciò non vogliamo negare che storicamente si siano verificati fenomeni di adesione, anche massicci, alle religioni del ceppo giudaico-cristiano nei quali il ricorso al divino aveva motivazioni utilitaristiche fondate sulla volontà di manipolazione dell’essere. Neppure intendiamo ignorare che nello stesso ambito si sono sviluppate concettualizzazioni teologiche e filosofiche delal religione che seguono quella stessa logica. In questo senso, la riflessione di Galimberti può risultare uno stimolo alla riflessione critica sugli aspetti inautentici dell’esperienza religiosa.
La nostra preoccupazione è piuttosto quella di far presente che l’essenza del giudaismo e del cristianesimo è tutt’altra: non la creazione di un dio a immagine e somiglianza delle attese umane, ma l’incontro nella storia con l’inatteso di Dio che scompagina quelle attese perché si presenta con un carattere di assoluta novità. Di ciò non si trova traccia negli scritti di Galimberti.
Per rendere conto di quanto affermato, passiamo ora a discutere, direttamente a confronto con i testi, i passaggi principali della sua interpretazione della religione giudaico cristiana: il discorso su Dio, il discorso sull’uomo e il discorso su Cristo.
4. L’aspetto teologico
Egli considera la religione giudaico-cristiana storicamente nichilista, nel senso specificato nel par. 2, fin dall’origine che individua nell’introduzione dell’idea di creazione di Gn 1-3, in discontinuità con il pensiero greco.
L’Antico e il Nuovo Testamento non conoscono il kosmos del pensiero aurorale, né il movimento autonomo e onnicomprensivo della fysis che «divampa eternamente e di nuovo si spegne secondo tempi immutabili», ma conoscono il mondo come creazione di Dio in funzione dell’uomo e come residenza di quest’ultimo dopo il suo allontanamento da Dio.18
Il passaggio è dall’ordine ciclico dell’apparire e dello sparire incessanti alla progressione ad opera di una volontà rivolta ad un fine.
Il mondo cessa così di appartenere a se stesso (una realtà perenne senza inizio né fine), ma lo si riconosce come appartenente a Dio, che l’ha creato col suo comando, e all’uomo a cui è stato affidato. Qui il riferimento è a Genesi 1, 26: «E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra»».
La dipendenza del mondo da Dio e dall’uomo, fatto a immagine e somiglianza del Creatore, lo rende manipolabile, sfruttabile e disponibile in funzione di uno scopo che il soggetto dominante, divino o umano, si prefigge. Pertanto, «possesso scientifico e tecnico hanno la stessa matrice che è biblica e non greca».19
La medesima posizione, insieme all’imputazione di nichilismo, ritorna a distanza di un quarto di secolo:
La terra, separata dalla volontà di Dio che l’ha posta in essere, non ha in sé alcuna consistenza, nulla che la salvi dalla caducità, per cui è nell’idea stessa di creazione la negazione dell’autosufficienza della terra, e quindi il suo bisogno di salvezza è già inscritto nella sua origine, prima ancora di considerare ciò che accade sulla terra.20
È l’atto della creazione dal nulla che istituisce il nichilismo e pone le premesse per il pensiero della tecnica. Alle spalle, c’è una concezione di Dio inteso soprattutto come creatore e come tale lo presenterebbe in primo luogo la religione.
L’interpretazione di Galimberti, incentrata sul primato dell’idea di creazione, sta in piedi?
Non lo crediamo per due motivi.
In primo luogo, il primato dell’idea di creazione non è giustificabile storicamente. L’ordine dei testi biblici, con il mito della creazione all’inizio, non rispecchia la cronologia della loro stesura. Il testo rivelato ricostruisce a posteriori l’insieme delle vicende che costituiscono le tappe della storia sacra. Di fatto, però, la narrazione dei capp. 12-50 di Genesi è più antica dei capitoli 1-11 e, soprattutto, dei primi tre.
L’evento fondatore della fede di Israele è l’alleanza con Jhwh, per iniziativa di questi, a partire da Abramo, tramandata attraverso ricordi di vita familiare e di clan dei patriarchi ebrei, raccolti e rielaborati in forma scritta. Successivamente, la riflessione religiosa ha fatto risalire fino alle origini stesse del mondo il disegno divino di elezione e salvezza. È questa la chiave di lettura della genesi e non la creazione dal nulla.
In secondo luogo, ciò è riscontrabile anche e soprattutto sul piano dottrinario.
La categoria teologica legata alla storia di Israele in tutti i suoi momenti è infatti quella di alleanza.21
Ermeneuticamente, è fondamentale aver ben presente tutto l’insegnamento biblioc sulla creazione, senza ridurlo ai soli temi genesiaci come fa Galimberti che ne dà una interpretazione gnostica, riassumibile nella contrapposizione tra il mondo e Dio: scaturito dal nulla per volontà dell’ente supremo e privo di propria consistenza teologica, il mondo è una realtà di ordine inferiore. Alla luce della fede nell’alleanza, il mondo creato, invece, non è uno strumento inerte rimesso all’arbitrio di Dio o dell’uomo, ma è una espressione della volontà benevola e gratuitamente salvifica del Signore. È un dono, non un prodotto; risponde a una logica di amore, piuttosto che di funzionalità. Il dono non è un oggetto manipolabile in vista di un utile, ma è denso di significati simbolici, al di là della bruta fattualità, che svelano il cuore del donatore.
Il dono è inatteso, sorprendente e chiama a una risposta libera, a seconda del credito che si dà al donatore. È la storia di tutte le vocazioni alla fede, a partire da Abramo (Gn 12, 1-6).
L’uomo di fede è colui il quale si apre a una diversa lettura simbolica del reale entrando in relazione con l’autore di quel simbolismo. Entrambi sono lontani dalla logica dispotica della tecnica: alterare a piacimento il mondo per i propri fini vorrebbe dire tradire i significati simbolici della relazione amorosa. Se il primo è capace di tradimento, nel qual caso esce dall’orizzonte di fede, il secondo si mantiene incrollabilmente fedele.
Quella di creazione, prima di essere una categoria ontologica alla maniera del pensiero greco, come vorrebbe Galimberti, che indica la produzione di un ente da parte di un ente maggiore, è una categoria teologica che indica una relazione storico-salvifica, un rapporto del mondo con Dio assolutamente originale e diverso da ogni altro concetto.22
Il mondo è una lettera di Dio all’uomo in cui Egli si rivela; non è uno strumento da sfruttare, in bilico sul baratro del nulla, perché lo sorreggono la sua fedeltà e la sua volontà salvifica. Questo sguardo positivo e carico di senso, proprio della tradizione ebraico-cristiana, è agli antipodi della presentazione che ne fa Galimberti, contrapponendo Dio e mondo.
5. L’aspetto antropologico
Il successivo passaggio pone il nichilismo antropologico come conseguenza del nichilismo cosmico.23
Il nichilismo antropologico fa dipendere la condizione umana di dolore e di morte dalla colpa, cioè dall’infrazione del comando di Dio che ribadisce la dipendenza dell’uomo, oltre che della terra, dalla volontà di questi.
La storia umana è dunque una storia di espiazione: «il ksomos perenne che irpete se stesso diventa saeculum, tempo mondano compreso tra un inizio e una fine, tra una creazione e un èschaton, tra una colpa e una redenzione».24 Il mondo, in quanto teatro di questa storia di peccato ed espiazione, oltre che ontologicamente inconsistente, è anche caricato di una forte valenza negativa, accentuando il tratto gnostico già segnalato.
Galimberti non sostiene che per la religione biblica il mondo sia in sé peccaminoso perché ha presente che in Gn 1, 1-31 Dio trova buono tutto ciò che crea. La interpreta piuttosto nei termini di un dualismo cosmico che contrappone vita e morte, «spirito» e «carne», peccato e alleanza (AT) /resurrezione (NT). L’elemento connotato positivamente di ciascuna coppia dipende dalla vicinanza a Dio, quello negativo dalla lontananza da lui. È una logica disgiuntiva che crea un’opposizione polare da cui scaturisce il nichilismo antropologico per la «massima distanza e assoluta differenza tra l’onnipotenza (ruah) di Dio e l’indigenza (nefes), la caducità (bâsâr), l’incerto muoversi (leb) dell’uomo che solo da Dio può ottenere l’ordine della sapienza e la forma della volontà».25
Lontano da Dio e dal suo comando, l’uomo cade nell’ombra del peccato, cioè della morte; non è nulla in proprio.
Il dualismo cosmico che Galimberti riscontra nella religione biblica e che fonda la sua argomentazione non è sostenibile. Un’impostazione dualista implica che il peccato si ponga in contrapposizione al disegno di Dio su un piano di parità. Come se la realtà fosse sospesa sul crinale tra la vita e la morte e potesse egualmente cadere da una parte o dall’altra. Come se ci fosse un’alternativa uguale e contraria a Dio, un negativo opposto al positivo, un anti-Dio, una Tenebra, un principio del Male. Questo non è né ebraismo né cristianesimo, è la gnosi manichea.26
La Bibbia prende senz’altro sul serio il peccato, ma non gli attribuisce una tale centralità. Il primato spetta decisamente alla misericordia e all’amore personale di Dio che vengono ben prima del peccato, sono originari. C’è un unico principio: la grazia che è Dio stesso quale sorgente eterna di amore per l’uomo. La grazia precede il peccato, è il progetto di vita che da sempre Dio persegue, cioè la predestinazione: gli eventi decisivi della storia della salvezza sono stati determinati da Dio prima della fondazione del mondo (Ef 1, 4; 1 Pt 1, 20; Mt 25, 34), prima del tempo stesso (1 Cor 2, 7). La predestinazione, spiega Paolo, è il mistero fondamentale nel senso che da sempre la storia della salvezza rientra nel desiderio, nel volere, nell’eterno consiglio di Dio che l’aveva pre-conosciuta e predeterminata. Dio, in Cristo, chiama, giustifica e glorifica gli uomini creati alla sua immagine (Gn 1, 26) affinché essi raggiungano pienamente lo stato di «figliolanza di Dio».27
Da sempre l’intenzione di Dio è quella di renderci figli nel Figlio, partecipi della vita trinitaria.
I testi che tipicamente racchiudono questa dottrina sono Ef 1, 3-6.9-11 e Rom 8, 28-30.
Il peccato è l’opzione, lasciata alla libertà dell’uomo, di non fidarsi di questa buona intenzione di Dio, ma non è un principio uguale e contrario in grado di frustrarla. La salvezza ha luogo per grazia, gratuitamente, nonostante il peccato e non in subordine ad esso. Questo nel Nuovo Testamento è annunciato dal crocifisso risorto, ma già nell’Antico Testamento era riscontrabile nella categoria biblica dell’elezione (Dt 7, 6-15).28
Nessun dualismo cosmico, quindi.
E nessun nichilismo antropologico, inoltre. Come ha ricordato sinteticamente e chiaramente Ireneo di Lione (Adversus Haereses V, prologo), il Verbo di Dio, il Signore Gesù Cristo, per amore è divenuto come l’uomo per rendere gli uomini come Lui: figli connaturati a Dio. L’uomo è chiamato a essere divinizzato nella comunione con il Padre nel Figlio per lo Spirito, partecipe della natura divina (2 Pt 1, 4). Lo Spirito introduce l’uomo nella relazione d’amore tra il Padre e il Figlio. «In quel giorno voi conoscerete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi» (Gv 14, 20). «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). «Carissimi, già adesso siamo figli di Dio, e ancora non si manifestò quel che saremo» (1 Gv 3, 2).
Il seme racchiuso nell’umanità è il divino e non il nulla.
6. L’aspetto cristologico
Il fraintendimento del cristianesimo operato da Galimberti si ripercuote anche sulla cristologia.
Nel suo schema colpa-redenzione, la salvezza realizzata dalla morte e resurrezione di Gesù Cristo è vista in funzione di riparazione dell’infrazione commessa. L’avvenimento cristiano è subordinato alla redenzione del peccato dell’uomo secondo una visione decisamente amartiocentrica: prima c’è l’uomo, con il suo peccato, che ha turbato l’ordo universi, e poi il Cristo, il Verbo incarnato, la cui funzione è quella di ristabilire il giusto ordine delle cose.
Galimberti afferma quindi che il tratto specifico del cristianesimo è l’incarnazione.29
La funzionalità di quest’ultima alla salvezza dell’uomo e la sua centralità lo confermano nella convinzione che la tecnica sia la secolarizzazione del cristianesimo che ha in sé il germe dell’ateismo.
Ora, il primato dell’incarnazione in vista del riscatto del peccato risale al Cur Deus homo di S. Anselmo di Canterbury (sec. XI); si è imposto in epoca medievale ed è rimasto egemone nella cristologia di gran parte del secondo millennio.30 È una prospettiva dalla quale ha preso nettamente le distanze il rinnovamento cristologico novecentesco in cui è avvenuto un recupero della vicenda storica di Gesù di Nazareth. La chiave di volta che ne chiarisce il senso è la Pasqua, prima dell’incarnazione, che è al centro dell’originaria predicazione neotestamentaria.
In altre parole, non è il mistero di Cristo che va letto alla luce del peccato dell’uomo (posizione anselmiano-tomista: Cristo non si sarebbe incarnato se l’uomo non avesse peccato): non è il peccato di Adamo che spiega Cristo perché questi è al centro già dell’originario piano di Dio che presiede a tutta la creazione, e la sua funzione non può essere ridotta alla redenzione dal peccato. […]
La direzione cioè è quella di un recupero in pienezza di un orizzonte cristocentrico: di là da ogni riduttivo amartiocentrismo-antropocentrismo. La predestinazione cristiana è predestinazione in Cristo fin dall’inizio.31
La Pasqua di Gesù è dunque l’epifania di un disegno di salvezza e di vita che è da sempre nelle intenzioni di Dio, precedentemente al peccato umano.
Quest’ultimo non consiste nella rottura del disegno divino, ma nell’incapacità di comprenderlo e nel non volerlo accogliere.
Sottolineando l’incarnazione, si sostituisce, a un quadro storico-salvifico, «un quadro ontologico-concettuale che, pur non tradendo la struttura del kerygma originario, lo svuota di carica storico-dinamica, trasponendola in un orizzonte culturale e socio-politico completamente diverso».32 La centralità della Pasqua, invece, corrisponde all’originario annuncio cristiano e ne rispetta maggiormente il contenuto e la valenza conformemente al dato concreto della vicenda di Gesù e dell’esperienza ierofanica degli apostoli. È la fede nel crocifisso risorto la scintilla che suscita la Chiesa, non uno schema speculativo incentrato sul Dio-uomo.
7. Conclusioni
Galimberti ha applicato lo schema concettuale con cui interpreta la religione giudaico-cristiana a vari momenti della sua vicenda storica, presentandoli sempre come episodi di un costante atteggiamento nichilista che dimentica l’essere e si sottomette alla dominazione dell’ente divino. Pertanto, facendo due esempi di rilievo, legge in Agostino la riduzione dell’essere alla volontà e in Tommaso d’Aquino la riduzione dell’essere all’intelletto.33
Non riteniamo di dover discutere anche queste affermazioni perché ci dilungheremmo eccessivamente e perché ci sembra di aver in precedenza rilevato le incongruenze interpretative alla base dello schema. Volendo riassumere il tutto, potremmo dire che egli critica il cristianesimo perché presenta Dio come «ipotesi di lavoro» alla quale l’uomo occidentale ricorre per trovare risposta alle questioni importanti che non riesce a spiegare da solo. Il progresso della conoscenza tecnico-scientifica consente all’uomo di bastare a se stesso senza più fare ricorso a detta ipotesi di lavoro i cui spazi si riducono sempre di più fino ad estrometterla dalla sua vita.
Non si avvede che la stessa tesi era stata formulata prima di lui da Dietrich Bonhoeffer nelle fondamentali lettere dal carcere berlinese di Tegel dell’8 giugno e del 16 luglio 1944. Con una sostanziale differenza: Bonhoeffer, da credente e da teologo, si rendeva perfettamente conto che quel genere di fede in Dio, utilitaristica e in decadimento, era una tipica proiezione dei bisogni umani e soprattutto che ben altro è il messaggio biblico.
In esso, Dio non si rivela nella sua potenza nel mondo sopperendo alle carenze, al nulla dell’uomo; potenza che la tecnica va man mano rimpiazzando. Il Dio della Bibbia si rivela, contrariamente a tutte le nostre attese, nella sua impotenza, nella sua debolezza e persino nella sua sofferenza.34 Cade allora l’argomento della necessaria estinzione della religione cristiana di fronte all’incedere della tecnica che ne sostituisce con più efficacia la funzione.
Croce e tecnica seguono due strade diverse.
Una è quella della gratuità e del dono di sé che approda alla comunione con gli altri e con il mondo. L’altra è quella dell’efficienza e dell’affermazione di sé che approda alla manipolazione, al dominio sugli altri e sul mondo. Entrambe hanno come sfondo l’autonomia dell’uomo; la croce, però, vi legge la possibilità del servizio, mentre la tecnica vi riconosce la condizione di esercizio del potere.
Non vi può essere distanza più radicale tra le due. In questo senso, Galimberti ha ragione a dire che la tecnica si oppone alla fede cristiana: non perché ne realizza meglio gli intenti, che abbiamo visto essere assolutamente eterogenei nell’una rispetto all’altra, ma perché vuole imporre i propri mezzi e i propri fini a discapito dell’altra. La salvezza della tecnica è tutta intramondana, è la salvezza che l’individuo vuole per se stesso, secondo le proprie attese, realizzandola con le proprie forze e la propria bravura, anche se il prezzo lo pagano altri. La salvezza della croce è quella che l’uomo non si aspetta perché è dono gratuito di Dio per tutti, è sorpresa e meraviglia che non nega l’uomo, i mondo, la storia, ma li trasfigura compiendo la pienezza divina che racchiudono.
La validità del discorso di Galimberti consiste nell’aver tratteggiato e ampiamente documentato, in Psiche e techne, la pervasività della logica della tecnica nella nostra cultura unitamente alle conseguenze negative a cui può dare luogo. Inoltre, ha segnalato che quella stessa logica è una tentazione in cui il cristianesimo può cadere, come è avvenuto e avviene in certe posizioni teologiche e in certe vicende. Sbaglia, invece, nel ritenere che quella sia, essenzialmente, proprio la logica del cristianesimo; così come sbaglia nel sostenere, in forza della medesima convinzione, la necessaria morte di quest’ultimo.
Respingendo la sua conclusione, pensiamo che il problema del confronto fra croce e tecnica rimanga aperto.
Che cosa dire del suo possibile esito?
A favore della tecnica depongono, come Galimberti descrive magistralmente, il suo successo, i suoi risultati, il consenso generalizzato che incontra. Di fronte a questa offensiva il cristianesimo sembra essere particolarmente inerme, senza contare che è lacerato dalle divisioni confessionali e teologiche al proprio interno e che è sottoposto all’assedio esterno di altre filosofie e religioni in via di diffusione. Come può opporsi all’avanzata della tecnica la quale può contare su un predominio, conforme alla sua logica egemone, che copre diversi secoli di cultura occidentale?
Il risultato più probabile pare la sconfitta del cristianesimo. Ma sarebbe davvero tale?
La strada della croce è quella della fedeltà all’amore gratuito che si spinge fino al sacrificio, fedeltà che non può snaturare se stessa nel tentativo di contrastare la tecnica sul piano dei risultati. Se il cristianesimo cercasse di dimostrarsi preferibile alla tecnica in termini di efficienza, probabilmente non ci riuscirebbe e perderebbe la propria anima abbracciando la logica di quella stessa tecnica a cui si oppone. Ma il cristianesimo sa che la diaconia può comportare anche il martirio, cioè la sconfitta di fronte al mondo (la croce, appunto) che è gloria al cospetto di Dio. Da questo punto di vista, la vittoria della tecnica è solo apparente perché apre lo spazio all’agire di Dio che è qualitativamente diverso. Ciò naturalmente vale solo per chi accetta l’ottica di fede e non è accessibile a chi non la condivide.
Ci sembra che sul confronto tra croce e tecnica si possa aggiungere qualcosa di sottoscrivibile anche da chi non sente propria la speranza cristiana. Bisogna soffermarsi sull’idea del successo della tecnica che è il principale presupposto del suo prevalere mondano sulla croce. Le tecnica vince se ha successo, se è efficace; chiediamoci però se è un successo reale o apparente. C’è sul serio o non c’è?
Di fronte alla tecnica si assiste ad un quasi universale ossequio alla sua potenza trasformatrice. «Quasi» universale perché ci sono anche voci critiche, non di secondo piano, che sollevano seri dubbi in proposito. Tra gli altri, ricordiamo esplicitamente il testo di Fritjof Capra che è un po’ il capostipite delle riflessioni che nell’ultimo ventennio hanno contestato il paradigma moderno non su un piano di principio, per ragioni ideali, ma nei suoi risultati.35
La tecnica, che è connaturata alla modernità, consegue senz’altro dei risultati, ma ad un certo punto essi diventano disfunzionali provocando danni tanto quanto benefici. Ciò dipende dalla sua logica di derivazione cartesiana che ha un approccio parziale e riduttivo al reale per cui, quando opera su quest’ultimo, lo fa a partire da una comprensione incompleta. Se il sapere della tecnica è fuorviato, allora il suo agire ha in sé il germe del fallimento. Il suo successo non è garantito, come presume, dal possesso della verità oggettiva e assoluta della scienza occidentale applicata operativamente perché quell’oggettività e quell’assolutezza non ci sono.
Oltre a Capra, ricordiamo velocemente altri autori. Anthony Giddens e Ulrich Beck mettono in luce la dimensione di pericolo e di rischio racchiusa negli apparati tecnici della tarda modernità il cui potere, in grado di raggiungere il genere umano nel suo complesso (energia atomica, questione ecologica) e la sua stessa natura (ingegneria genetica), comprende l’eventualità di un suo impiego distruttivo. Charles Taylor evidenzia il disagio morale che la civiltà della tecnica induce facendo dimenticare le certezze metafisiche che fondavano l’etica di un tempo e favorendo comportamenti che essa non ammetteva o non era in grado di prevedere. Alberto Melucci rileva l’insufficienza culturale del paradigma moderno a dare senso alla complessità contemporanea e alle scelte etiche davanti alle quali progresso tecnico e mutamento sociale ci pongono.
Allo stesso modo, molti dei sempre più allarmanti sintomi di malessere personale (incluso l’uso di droga, la violenza sessuale, la diffusione di malattie mentali croniche e la comparsa di un’intera serie di malattie precedentemente sconosciute, legate all’inquinamento, e di sindromi di immunodeficienza) si stanno rivelando come controparti biologiche, psicologiche e socioculturali degli squilibri ecologici. L’impatto negativo, in termini umani ed ecologici, dell’aggressione in corso contro l’abitabilità del nostro ambiente planetario è particolarmente evidente nel drammatico generale declino della qualità della vita umana nelle più grandi metropoli del mondo. Inoltre, c’è un dislivello sempre più ampio tra il centro ricco e la periferia povera del mondo. Nel frattempo la guerra, il genocidio e la minaccia dell’olocausto nucleare rimangono gli esempi più estremi del potenziale di violenza incontrollata che è sotteso all’apparente vittoria della razionalità moderna.36
Giunta al suo apogeo, la tecnica attraversa una profonda «crisi di visione» che suscita disincanto nei suoi stessi figli. Rimane dunque aperta la possibilità che la sua presa non sia infrangibile.
Melucci e Chorover sostengono l’importanza di far rinascere in noi la capacità di meraviglia quale facoltà che ci consentirebbe di andare oltre questo stallo. Laddove la tecnica decide, programma, determina, la meraviglia ci permette di scoprire che c’è qualcosa d’altro e di inatteso rispetto a quanto abbiamo previsto e voluto. È la riscoperta che la tecnica non è l’unico orizzonte, ma che viceversa c’è uno spazio non circoscrivibile che si sottrae alle nostre certezze e alla nostra azione. È la riscoperta del mistero che ci circonda e ci abita.
Ma l’inatteso che ci viene incontro dal mistero non ha anche il volto del crocifisso risorto? Egli non è forse colui nel quale si fa presente a noi il dono di Dio, gratuito e totalmente altro rispetto ai nostri progetti, aspettative e desideri? Un Dio che nelle intenzioni e nel comportamento si rivela inconciliabile con le nostre proiezioni.
Sono spunti di riflessione che, per il momento, ci limitiamo a proporre e lasciamo in sospeso, ma che suggeriscono uno sbocco del confronto tra croce e tecnica diverso da quel che ci si potrebbe aspettare.
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Ne è una dimostrazione, significativa per la diffusione che ha avuto, il numero della rivista MicroMega. Almanacco di filosofia, n. 2 (2000) dedicato appunto al tema «filosofia e religione». ↩︎
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Carlo Scilironi, «Modelli di filosofia della religione nel pensiero italiano contemporaneo», Hermeneutica, anno VII, (2000), p. 245. ↩︎
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Ibid., p. 273. ↩︎
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Umberto Galimberti, «Nessun Dio ci può salvare», MicroMega. Almanacco di filosofia, n. 2 (2000), pp. 187-198. ↩︎
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Ibid., pp. 187-188. ↩︎
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Si può fare un confronto con Giandomenico Mucci, «La tecnica prenderà il posto del Dio biblico?», La Civiltà Cattolica, anno CII, quad. 3605 (2000), pp. 351-361. È un’analisi incentrata esclusivamente sull’articolo di cui alla nota 4, mentre noi riteniamo che sia più efficace considerare il tragitto di Galimberti nel suo insieme. ↩︎
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Edoardo Boncinelli e Umberto Galimberti, E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza, Einaudi, Torino 2000, p. 79. ↩︎
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Umberto Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente, Marietti, Torino 1975. ↩︎
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Vedi Karl Jaspers, Philosophie, Bände, Berlin 1932, 3 voll.; Filosofia, trad. it. Di Umberto Galimberti, Utet, Torino 1978. Si tratta dunque di un’opera che il nostro ben conosceva. ↩︎
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Heidegger, Jaspers e…, op. cit., p. 16. ↩︎
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Ibid., p. 12. ↩︎
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Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, 2ª ed., Adelphi, Milano 1982, p. 19. ↩︎
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Heidegger, Jaspers e…, op. cit., p. 22. ↩︎
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Ibid., p. 13. ↩︎
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Ibid., p. 17. ↩︎
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Ibid., pp. 18-19. ↩︎
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Vedi Italo Mancini, Filosofia della religione, 3ª ed., Marietti, Genova 1991, pp. 26-30. ↩︎
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Heidegger, Jaspers e…, op. cit., p. 35. ↩︎
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Ibid., p. 34. ↩︎
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Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 493. ↩︎
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Vedi Antonio Bonora, «Alleanza», in AA.VV., Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988. ↩︎
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Vedi Gianni Colzani, Antropologia teologica, 9ª ed., EDB, Bologna 1997, p. 433. ↩︎
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Vedi Umberto Galimberti, Heidegger, Jaspers e…, op. cit., p. 35; Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 33-40; Psiche e techne, op. cit., p. 494. ↩︎
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Umberto Galimberti, Heidegger, Jaspers e…, op. cit., pp. 35-36. ↩︎
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Umberto Galimberti, Il corpo, op. cit., p. 36. ↩︎
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Vedi Kurt Rudolph, La gnosi, Paideia, Brescia 2000, pp. 416ss. ↩︎
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Vedi Johann Auer, Il vangelo della grazia, Cittadella, Assisi 1971, p. 82. ↩︎
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Vedi Gianni Colzani, Antropologia teologica, op. cit. pp. 285-309. ↩︎
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Umberto Galimberti, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, p. 79. ↩︎
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Mario Serenthà, «La discussione più recente sulla teoria anselmiana della soddisfazione. Attuale «status questionis»», in La Scuola Cattolica, n. 108 (1980), pp. 344-393. ↩︎
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Mario Serenthà, «Cristologia», in La Scuola Cattolica, n. 114 (1986), p. 544. ↩︎
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Bruno Forte, Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1981, p. 175. ↩︎
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Vedi Umberto Galimberti, Linguaggio e civiltà, Mursia, Venezia 1977, pp. 142ss. ↩︎
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Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, 2ª ed., San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, p. 440. ↩︎
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Fritjof Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano 1984. ↩︎
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Alberto Melucci — Stephan L. Chorover, «Conoscenza e meraviglia. Oltre la crisi della scienza moderna?», Pluriverso, anno V, n. 4 (2000), p. 78. ↩︎