Un dualismo incarnato: l’impossibile metafisica dell’anoressia nervosa

Rifletta su come io sia stato per più riguardi, concernenti il corpo e l’anima, più un campo di battaglia che un uomo.

(Friedrich Nietzsche, Lettera a Peter Gast)

Il corpo è un dato evidente, essenziale. È la premessa senza cui nessuna storia umana è possibile. Nonostante questa sua evidenza, nella storia della filosofia rimane a lungo — quando non apertamente rifiutato — qualcosa di non-detto. Della storia del dualismo ho affrontato due momenti fondamentali: quello platonico e, naturalmente, quello cartesiano. All’opposto, analizzando il recupero del corpo da parte di Nietzsche, ho affrontato i limiti e l’inadeguatezza delle prospettive precedenti. I lasciti del dualismo possono essere ancora individuati nella modernità, e spesso vanno di pari passo con temi come il dominio di sé e l’autodisciplina. Questa stessa struttura — tendenze dualistiche, spinta all’autocontrollo — può essere utile anche per l’interpretazione dei disturbi alimentari, in particolare dell’anoressia nervosa. L’anoressia, infatti, può essere considerata un esempio di dualismo radicale, incarnato. Nel corso della trattazione tenteremo pertanto di sviluppare in parallelo i fili del dualismo e dell’anoressia, costruendo un dialogo con due testi fondamentali sul tema: La filosofia del corpo di Michela Marzano1 e Il peso del corpo di Susan Bordo.2 Il maggior dibattito nell’interpretazione dei disturbi alimentari si è svolto al di là del terreno filosofico, col quale ha condiviso solo qualche intersezione, e ha visto contrapporsi la scuola psicanalitica e quella cultural-femminista. Questo lavoro si colloca in un solco mediano: è strutturato a partire da un’impostazione filosofica ma presenta una particolare attenzione al punto di vista culturale di ispirazione femminista, di cui Bordo è protagonista. Ho tentato in questo senso di utilizzare strumenti e metodi d’analisi derivati da ambo le parti, dato l’interesse non esclusivamente clinico di un disturbo quale l’anoressia nervosa, che è piuttosto un crocevia di motivi, immagini, influenze — in parte, come vogliamo dimostrare, proprio filosofiche.

1. Socrate

Oggi è ormai concordemente accettata l’influenza sulla filosofia di Socrate e di Platone3 delle dottrine orfiche e pitagoriche, dalle quali derivano una particolare visione dell’anima e la conseguente necessità di liberarsi dai legami del corpo. Inoltre, le pratiche di digiuno attuate dai pitagorici sono state riprese, secondo alcune fonti, anche da Socrate stesso.4 «Questo corporeo», afferma infatti Socrate nel Fedone, deve essere considerato una «cosa pesante e grave e terrena e visibile», e l’anima ne è perciò «appesantita».5 «Ogni piacere o dolore», continua conversando con Cebète, «inchioda l’anima al corpo e ve la conficca e la rende corporea», e facendolo allontana la possibilità di «essere partecipe della compagnia del divino, del puro, dell’uniforme» (83e). Se l’anima è tesa verso le idee, la saggezza, la filosofia, il corpo non fa altro che trattenerla schiacciata a terra, ancorandola ai suoi triviali bisogni. Il vero filosofo non può permettersi di «darsi pensiero […] dei piaceri come, per esempio, del mangiare e del bere» (64e). Socrate dichiara all’amico Simmia che l’anima del filosofo deve non solo tenere a distanza il corpo, bensì averlo «in dispregio» (65d). In sintesi, essere filosofi consiste proprio nel separare l’anima dal corpo,6 per prepararsi così alla morte — e quindi alla vita dell’anima.7

Solo tenendo il corpo a distanza si potrà essere «puri e liberi da quella infermità di mente che ci viene dal corpo» (67a) — quella «aphrosyne» che può essere tradotta, in modo lapidario, follia del corpo.8 Il legame deve spezzarsi: l’anima dev’essere svincolata da tale follia e considerare il corpo come una fastidiosa escrescenza, una seccante appendice — senza farne oggetto né di una cura particolare, né di culto, né tanto meno di riflessione filosofica. Il corpo, che informa l’uomo (nel senso preliminare di dare forma, ma anche di dargli notizia dei dati del mondo) e permette al Socrate dei dialoghi platonici di muoversi per la città, dialogare — in poche parole, di essere Socrate, proprio lui e non altri — è paradossalmente visto come un impedimento. Socrate e Platone introducono quindi la concettualizzazione dell’anima che è propria del pensiero occidentale moderno — soprattutto cristiano — sacrificando (ma senza renderla, in quest’atto, sacra) la dimensione del corpo. Inoltre, Socrate mette in luce in modo molto chiaro il legame tra questo disprezzo del corpo e la sophrosýne, un valore fondante della società greca e la cui struttura non mancheremo di rilevare, nel corso della trattazione, anche nella modernità:

La temperanza, […] e cioè non lasciarsi turbare dalle passioni e anzi non farne conto veruno e vivere moderatamente, non si addice a coloro soltanto che più di ogni altra cosa tengono a vile il corpo e vivono in filosofia?9

Il controllo del corpo (e di ciò che vi entra) per il controllo dell’anima: col tempo, a quest’ultima verrà sostituita una più terrena mente, o ragione, ma il binomio rimarrà inalterato.

2. Descartes

Le Meditazioni metafisiche sono per Descartes quello che fu il Fedone per Platone: un luogo in cui mettere in atto quella prassi disgiuntiva che scompone, pezzo per pezzo, l’unione tra corpo e anima:

In passato, dunque, sentivo di avere una testa, delle mani, dei piedi e tutte le altre membra di cui consta quel corpo che consideravo come una parte di me, o addirittura, magari, come me tutt’intero. […] Ritenevo che più di qualsiasi altra cosa mi appartenesse quel corpo che, come per un diritto speciale su di esso, chiamavo mio10.

Descartes giunge infine alla conclusione che il suo corpo, dopotutto, esiste,11 ma è superfluo al pensiero. È ciò di cui ci serviamo nella quotidianità, in cui le informazioni confuse possono bastare, ed è il mezzo nel quale ci muoviamo nel mondo. L’io cartesiano è puro intelletto,12 è decorporeizzato: è la mente il traino di tutto. Il corpo, invece, ha un unico attributo fondamentale: è esteso, perciò occupa uno spazio e può essere visto. Nel testo lo definisce più volte un insieme di membra: configuratione, machina o compages membrorum.13 È un corpo-macchina,14 una cosa che sottostà alle leggi fisiche e meccaniche, le cui funzioni (tra le quali digerire, muoversi, respirare, ricordare) si attivano come in un «meccanismo automatico».15

La durezza di questa divisione, però, si scontra col nostro vivere col corpo, cioè deve fare i conti con la nostra quotidiana intuizione che res cogitans e res extensa si muovano in assonanza. Descartes è pienamente consapevole di questa difficoltà, e la affronta già nelle Meditazioni: se non ci fosse un punto d’incontro tra le due sostanze, «quando il mio corpo è ferito non ne risentirei dolore, […] ma percepirei tale ferita col puro intelletto», e «quando il corpo ha bisogno di cibo e bevande, ciò lo intenderei intellettualmente in modo chiaro, senza avere sensazioni confuse di fame e di sete».16 La fame, la sete, il dolore: il collante tra due sostanze diverse, la mente e il corpo. Ciò che, inevitabilmente, ci fa tornare — quasi sbattere — contro il muro della nostra corporeità. Queste sensazioni fanno comprendere a Descartes che il suo io non è «presente al [suo] corpo come un nocchiero lo è al suo vascello, bensì gli [è] congiunto quanto mai strettamente e (per così dire) mescolato, in modo da comporre un’unità con esso».17 Il corpo e la mente sono, per così dire, uniti: lo sono nelle nostre sensazioni. Non possono però esserlo sotto il profilo strettamente metafisico. Quest’unione è però stata così a lungo osteggiata, anche da lui stesso, che è quasi un muscolo da allenare, un esercizio a cui sottoporsi — ma soltanto una volta smessi i panni del filosofo e dello scienziato: «è con la consuetudine della vita e delle conversazioni ordinarie, astenendoci dalla meditazione e dallo studio […] che si impara a concepire l’unione dell’anima col corpo»18.

3. Nietzsche

Nelle opere di Nietzsche, d’altro canto, il tema del corpo è trattato in modo diffuso — per quanto mai in modo organico — e con toni assolutamente distanti da quelli platonico-cartesiani. La presa di posizione a favore del corpo viene accennata sin dalla Nascita della tragedia19 e viene arricchendosi fino agli ultimi frammenti del 1889, trovando il suo culmine nello Zarathustra. Da Aurora in poi la critica al dualismo è parallela a quella nei confronti del cristianesimo: una religione negatrice della vita, che «insegnò a tenere in dispregio il corpo»,20 che fece «dell’insufficiente nutrizione un merito» e che «dette a intendere a se stessa come fosse possibile portare in giro un’anima perfetta in un cadavere di corpo (eine vollkommene Seele in einem Kadaver von Leib) ».21 Le sue critiche si concentrano soprattutto sull’aspirazione ascetica, frequente anche nei filosofi: «per lungo tempo l’ideale ascetico è servito al filosofo come […] presupposto esistenziale — costui dovette rappresentarlo, per poter essere filosofo, dovette credere in esso». I filosofi hanno spesso tenuto un atteggiamento «appartato», manifestandosi come «negator [i] del mondo, ostil [i] alla vita, incredul [i] nei sensi, desensualizzat [i] » — un comportamento tanto radicato da avere, ormai, «acquistato validità quasi come atteggiamento filosofico in sé». I filosofi sono colpevoli di «ascetico autofraintendimento».22

La vita dell’asceta, continua Nietzsche, è «un’autocontraddizione», e si realizza in uno sguardo «astioso e perfido» nei riguardi della «prosperità fisiologica».23 Questo tipo di vita è inoltre costellato di paradossali piaceri: il piacere della «marcescenza, del dolore, della sventura, […] dell’espiazione volontaria, dell’autorinuncia, della flagellazione e dell’olocausto di se stessi». Nel modo in cui Nietzsche descrive la mentalità ascetica sembra quasi di scorgere le parole chiave del raccontarsi anoressico: l’asceta è il «desiderio, fatto carne, di un essere-in-un-altro-modo, di un essere-in-un-altro-luogo; […] ma appunto la potenza del suo desiderare è il ceppo che lo inchioda qui» (§ 13, p. 114). E ancora ne mette in luce la profonda, dolorosa, contraddizione: questa «nausea», questo «tedio di se stessi», si manifesta in lui con una forza tale da ricordargli inevitabilmente il suo esistere, rimandandolo in definitiva, sempre verso di sé. Nietzsche osserva acutamente che «quel no che egli dice alla vita porta alla luce, come per magia, una moltitudine di più squisiti sì; proprio così, se si ferisce, questo maestro dell’autodistruzione — è poi la ferita stessa che lo costringe a vivere… » (p. 115). Una verità, che, come avremo modo di osservare, la persona anoressica cerca freneticamente di eludere, incastrandosi invece nel profondo solco di questa contraddizione.

Queste riflessioni portano Nietzsche a chiedersi se, «tutto sommato, la filosofia fino ad oggi non sia stata in genere soltanto un’interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo»24 — un’affermazione talmente monumentale da poter giustificare, da sola, la ricerca che stiamo conducendo. La filosofia nuova di cui Nietzsche si fa portavoce deve essere, invece, «fedele alla terra»25, svilupparsi da essa, affondare le radici in tutto ciò che l’esistenza ha di «problematico e ignoto»,26 non esimersi dall’abbracciare il corporeo, il terreno, ciò che fa male.27 Il corpo è una moltitudine,28 una «guerra», un «gregge»,29 al cui interno si scatenano infiniti conflitti e rivolgimenti: è materia viva, è carne, è pensiero.30 Nietzsche lo presenta, quindi, non come un Körper, una massa statica e inerte, bensì come un Leib, nella concezione del termine che sarà fatta propria da Husserl.31 Quando si verifica, invece, la spaccatura netta tra Leib e Körper, tra ciò che percepisco come il mio essere-corpo ed un corpo che mi è semplicemente attaccato, ci si riscopre come semplicemente assemblati, ci si osserva dall’esterno con una straniante perplessità. È in questa spaccatura che germoglia una dissociazione che può, in alcuni casi, diventare patologica.

4. Il dualismo oggi

Abbiamo preso in esame una serie di parole chiave e di modi di intendere il corpo che, sorprendentemente, rileveremo anche nel trattare il tema dell’anoressia nervosa. Dopo alcune necessarie specificazioni cliniche, ci addentreremo nelle testimonianze di alcune giovani anoressiche, per tentare di isolare alcuni nuclei che riteniamo di particolare interesse: il conflitto tra corpo e anima e quindi il desiderio di essere pura mente, il controllo di sé, l’ambizione accademica. Per comprendere queste tematiche nel dettaglio sarà prima opportuno riflettere sul contesto generale, e quindi osservare quanto permanga del pensiero dualista nella società odierna. Come osserva Marzano, «il dualismo non è mai stato del tutto sradicato e ancora oggi resta una delle tentazioni più diffuse».32 È ormai anacronistico insistere sul conflitto tra un corpo mortale e un’anima immortale: nella storia più recente del dualismo infatti quest’ultima è stata sostituita da altre entità, come la mente per Descartes, o in generale ciò che di volta in volta consideriamo il nostro vero io33. Il corpo non è più un ostacolo tra l’individuo e il raggiungimento della verità e di uno stato di purezza, ma non cessa di esserlo in altri sensi: ad esempio, rappresenta un limite nel percorso individuale verso la conquista di potere e libertà — e naturalmente è un memento della nostra mortalità.34 «Quello che rimane costante», scrive Susan Bordo, «è la costruzione del corpo come qualcosa di separato dal vero sé (comunque concepito: come anima, mente, spirito, volontà, creatività, libertà…), di cui vanifica gli sforzi».35 Il corpo, nonostante i molti rivolgimenti filosofici e sociali, continua ad essere per noi — nelle parole del poeta Delmore Schwartz in The Heavy Bear36 — una specie di pesante orso. «L’orso-corpo», commenta Bordo dopo aver citato la poesia, è «goffo, rozzo, sgradevole. […] Stupidamente, inconsapevolmente, dominato dall’appetito, falsifica continuamente la mia spiritualità, il mio sé migliore, più limpido».37 A turbarci è, ancora, l’inevitabile «essere-con (withness) del corpo»,38 la nostra forzata convivenza.

La modernità ha addomesticato il dualismo di stampo platonico e cartesiano e ne ha incanalato i presupposti in una serie di discipline e pratiche tese al controllo del corpo. Se non si osserva attentamente, questo controllo costante può essere scambiato per cura, attenzione, affetto — quella che Bordo definisce «mitologia sociale di un’epoca amante del corpo, permissiva».39 Il dualismo, che pur è sopravvissuto, si è insinuato in modo subdolo nelle pieghe, quasi non visto: rispetto a prima, «si incarna in modi diversi nella cultura contemporanea».40 La conclusione di Bordo non manca di prendere in esame l’intero ventaglio sociale:

Chiaramente, dunque, il dualismo mente-corpo non esprime soltanto una posizione filosofica. […] Piuttosto, esprime una metafisica pratica che si è dispiegata e socialmente incarnata nella medicina, nella giurisprudenza, nelle rappresentazioni letterarie e artistiche, nella costruzione psicologica del sé, nelle relazioni interpersonali, nella cultura popolare e nei messaggi pubblicitari: una metafisica che potrà essere decostruita solo trasformando concretamente le istituzione e le pratiche che la sostengono.41

Quella di oggi è pertanto l’era del controllo, di una sophrosýne per certi versi esasperata e per altri stemperata: ad esempio, i piaceri sessuali non sono più un bersaglio, e non è frequente nemmeno l’astensione dal consumo di alcolici. Ambiti controllati sono invece l’assunzione del cibo e la forma del corpo. La capacità di controllare il corpo non è una qualità, ma piuttosto lo sforzo minimo, la soglia da cui ogni individuo deve partire per migliorarsi ulteriormente. Il dato non è, banalmente, avere un corpo e viverlo: è dovere di ognuno modellarlo come plastilina, non accontentarsi semplicemente di quello che ci è stato inflitto. È imprescindibile attuare pratiche di controllo del corpo, ma ciò che evidenziamo come patologico è l’ossessione nel volerlo perfezionare, in una spirale di aggiustamenti che sembra non trovare mai una vera e propria fine. Nella nostra cultura,42 «che ha reso profondamente problematica la gestione della fame e del desiderio»,43 controllare il proprio corpo significa avere il controllo sulla propria vita. La bellezza, nota Marzano, «comunica valori tutt’altro che fisici quali fascino, competenza, energia e dominio di sé».44 La magrezza, che della bellezza è prima prerogativa, ci fa credere di aver conquistato «l’ideale allettante (e ingannevole) di un sé perfettamente gestito e regolato».45 Essere non è più abbastanza, aggiunge: bisogna diventare la versione fisicamente migliore di sé, e solo allora saremo liberi46. Il paradosso, com’è evidente, è che questo “potere” e questa “libertà” possano essere raggiunti solo attraverso l’autodisciplina e il modellarsi forzato.

Come già abbiamo rilevato nel paragrafo precedente, c’è sempre qualcosa che si può perfezionare: si può sembrare ancora più giovani, essere ancora più allenati, ancora più abbronzati, e — soprattutto — ancora più magri.47 Come scrive Marya Hornbacher in Sprecata, una toccante autobiografia sulla sua esperienza di anoressia e bulimia, «dopo tutto, che significa troppo magra? In fondo, non è possibile essere troppo ricchi o troppo magri».48 L’attenzione dev’essere quindi posta soprattutto sullo spazio che il corpo occupa: essendo qualcosa di indisciplinato, è sempre presente il rischio che “trabocchi” dalla propria pelle, che straripi al pari di un fiume. La scelta della magrezza come ambito privilegiato del controllo non è in realtà una scelta così banale, per quanto sembri ormai data per scontata. Il corpo non ha semplicemente un’estensione, come in Descartes: ora ne ha troppa, e va contenuta. Possiamo pertanto concludere che i rigagnoli del dualismo fondano anche la forma mentis moderna, il modo di pensarsi, e da semplice impostazione di fondo possono anche radicalizzarsi ed esprimersi in forma più violenta. Questi dettami sono stati talmente incorporati da essere, talvolta, presi alla lettera: l’esempio più eclatante è quello dei disturbi alimentari, in particolar modo dell’anoressia nervosa — il ventre oscuro e umido della teoria, in cui la retorica dualista si fa dolorosamente carne e viene impressa sul corpo.

5. L’anoressia nervosa

Come premesso, è necessaria in primo luogo una contestualizzazione clinica, per la quale faremo riferimento alle linee guida del Manuale diagnostico e statistico per i disturbi mentali, meglio noto come DSM49. La nosologia attualmente in uso distingue due categorie principali: l’anoressia nervosa (AN) e la bulimia nervosa (BN), le cui diagnosi sono basate su precisi criteri — che se non totalmente soddisfatti portano alla diagnosi di disturbo dell’alimentazione non altrimenti specificato (EDNOS) .50 I tassi di incidenza dell’anoressia nervosa (come della maggior parte dei DCA) sono nettamente più alti tra le donne, con un rapporto donne/uomini di 11 a 1, e in particolare tra le ragazze con un’età compresa tra i 15 e i 19 anni. Quest’alta prevalenza del genere femminile, che accettiamo con la consapevolezza che spesso mancano i dati riguardanti gli uomini, ci permette di riferirci d’ora in poi ad anoressiche. Inoltre, in linea con Massimo Recalcati si è scelto di raccontare un generale discorso anoressico-bulimico — senza nulla togliere alla necessità di individuare criteri chiari per entrambe le diagnosi — in cui «la bulimia è un dialetto dell’anoressia».51 Pertanto d’ora in poi si farà riferimento all’anoressia, perché espressione maggiormente conosciuta e analizzata dei DCA, consapevoli che attorno a questo nucleo gravitano altri disturbi ugualmente importanti e drammatici, il cui immaginario comune è comunque quello anoressico.52 L’anoressia-bulimia nervosa è un disturbo piuttosto atipico: se la malattia in generale cambia la percezione del proprio corpo, obbligando il malato a farsene carico, ad osservarne i cambiamenti, ad accettarne la finitezza, essa rivolta questa elaborazione. Infatti, poiché il territorio del corpo è diventato qualcosa di incognito e minaccioso, si chiede aiuto alla malattia per disfarsene, renderlo più innocuo, più docile. Da ultimo specifichiamo che le istanze alla base di un comportamento alimentare patologico sono tante quante le persone che ne sono affette, ma è comunque possibile isolare alcuni nuclei comuni. Bordo, nella sua analisi, individua in particolare tre assi, «l’asse dualistico, l’asse del controllo e l’asse genere-potere»,53 ma in questa trattazione ci focalizzeremo sui primi due,54 con particolare attenzione al primo.

L’atteggiamento dualista e la spinta all’autodisciplina, come già abbiamo asserito, permeano oggi la società intera; ci concentreremo ora sul loro ruolo nell’esperienza anoressica. Per quanto riguarda l’asse del controllo, abbiamo già rilevato come l’autodisciplina nei confronti del proprio corpo abbia oggi un valore tutt’altro che corporeo: «il rifiuto del cibo, la perdita di peso, l’esercizio fisico intenso55 e la capacità di sopportare il dolore e l’esaurimento fisico sono divenuti le metafore culturali dell’autodeterminazione, della volontà e della fermezza morale».56 Questa traslazione di significato ha fatto sì che la snellezza assumesse significati spirituali, morali, caratteriali, come «l’autonomia, la volontà, la disciplina, la conquista del desiderio, una spiritualità più intensa, la purezza e la trascendenza del corpo femminile».57 Si è venuta a creare una pericolosa equazione: un corpo così controllato (e quindi magro) denota ambizione, intelligenza, capacità di avere successo. Questa forma di assoggettamento del corpo è motivata dalla seduzione che esercita la norma — curiosamente nel caso specifico della magrezza la norma non è quella della maggioranza (che è invece normo- o sovrappeso). La norma è il tentativo, la tensione verso la magrezza; ciò che conta è che anche chi non riesce a raggiungerla aspiri a farlo, e si rammarichi di non riuscirvi. In questa società che Girard sembra ricalcare dall’Inferno dantesco «i nostri peccati sono marchiati a fuoco nella nostra carne e dobbiamo espiarli sino all’ultima caloria, mediante una privazione più rigida di qualunque altra mai imposta da una religione ai propri adepti».58

Il «retaggio» dualista, invece, è l’asse «più generale e rarefatto, quello che inizia con Platone, giunge per vie tortuose ad Agostino — cui si deve la sua espressione più fosca — e trova alla fine coesione e scientificità, sul piano metafisico, in Descartes».59 Ciò che accomuna il dualismo filosofico e la percezione dualista di sé delle anoressiche è, per Bordo, l’esperire il corpo come «alieno» e «non sé», come «restrizione e limitazione» e come «nemico».60 I tre filosofi citati da Bordo forniscono una serie di istruzioni e regole per «raggiungere l’indipendenza intellettuale dal richiamo delle illusioni del corpo, diventare sordi alle sue distrazioni e, cosa più importante, soffocare i suoi desideri e appetiti»61 — il che, se astratto dal contesto, sembra un vademecum per giovani anoressiche. La mente, nel progetto delle anoressiche, deve prendere le armi e scendere in campo contro l’insubordinazione del corpo, un ammasso di bisogni e «turpi desideri».62 L’asse dualista mette in luce un ulteriore nucleo di cui fanno spesso esperienza le anoressiche: la «contrapposizione tra mente e corpo»63: l’anoressica pertanto percepisce la mente come «il suo “vero” sé [che] trascende la fisicità». In questa prospettiva, «la magrezza arriva a rappresentare l’ardua vittoria dello spirito sulla carne — la “prova” che il sé e il corpo possono essere disgiunti».64 Una possibilità che naturalmente alla prova dei fatti perde consistenza e si rivela per l’illusione che è. Questa dicotomia è evidente nelle parole delle anoressiche stesse, che spesso verbalizzano il loro desiderio — raggiungibile attraverso il digiuno — di votarsi all’astratto, all’ideale, al razionale. Per esempio Hornbacher denuncia proprio come i messaggi controversi che provengono dalla società tuttora infarcita di retorica dualista finiscano per spaccare l’individuo a metà: «la mente e il corpo si separano e nella frattura può crescere un disturbo dell’alimentazione».65 Nella testimonianza di una paziente anoressica citata da Bordo emerge una percezione di sé ascetica: «la mia anima sembrava crescere via via che il mio corpo si assottigliava».66 Bordo spiega, citando le parole di un’altra ragazza: «in questa battaglia, la magrezza rappresenta un trionfo della volontà sul corpo, e il corpo magro (cioè il non-corpo) è associato alla “purezza assoluta, all’iperspiritualità e alla trascendenza della carne”».67 Con il progredire del digiuno, osserva una terza ragazza, «tutto divenne molto intenso e intellettuale».68

L’anoressica, oltre a cadere nella trappola del controllo, ha anche la paradossale convinzione di potersi disfare del corpo, o comunque di tutto ciò che del corpo la infastidisce — ad esempio, i suoi bisogni. Non viene più considerato «qualcosa che ha valore, qualcosa che ti porta in giro e pensa e sente per te e per questo favore ha bisogno di ricavare energia»; ora è solo «un’appendice poco desiderabile, una verruca da rimuovere»69 — quel passaggio che descrive Galimberti dal corpo «veicolo» al corpo «ostacolo».70 Ciò che «sporge, fa rilievo», dev’essere appiattito: la geometria del corpo deve divenire bidimensionale, «asettica».71 Il ribelle, sovversivo, fastidioso corpo, annota Hornbacher citando uno studio di Zerbe, «viene trattato come quelle donne ribelli alle quali bisogna mostrare chi è il capo, anche a costo di prenderle a schiaffi».72 La scrittrice riassume questo cambiamento di prospettiva rispetto al proprio corpo e la dolorosa scissione che ne consegue in un passaggio molto forte della sua opera:

Nella stessa mente coesist [ono] queste due sensazioni: l’orgoglio […] per l’incredibile impresa che stai compiendo, e la convinzione di essere così malvagia da meritare la morte per fame e qualsiasi altra forma di automutilazione. Possono coesistere perché ti sei spaccata in due. Una parte è quella che stai tentando di uccidere, l’io debole, il corpo. L’altra è quella che stai tentando di diventare: l’io potente, la mente. Questa spaccatura non è una psicosi. È la storia della cultura occidentale resa manifesta. La tua capacità di sopportare il dolore […] è ascetica, sacra. È autocontrollo. È masochismo. […] Non ci piace pensare che una persona possa […] sperimentare simultaneamente il piacere di picchiare selvaggiamente un corpo con i polsi ammanettati e il piacere di essere quel corpo e di sapere di meritare ogni colpo.73

Diversi studi sui disturbi dell’alimentazione hanno inoltre ipotizzato che il desiderio di successo accademico possa essere un fattore scatenante persino più importante dell’insorgere dello sviluppo sessuale74 — il che è in linea con quanto abbiamo detto riguardo all’iperspiritualità. Girard a questo proposito osserva che «si deve constatare che sono colpite con maggiore facilità da anoressia soprattutto le ragazze più brillanti, istruite, ricche di talento, ambiziose e perfezioniste», che tentano spasmodicamente di raggiungere quello che definisce «l’ultimo ideale comune a tutta la nostra società»75: la magrezza. È probabile che questo imperativo sia avvertito in particolar modo dalle giovani donne, che «possono percepire [la liberazione sessuale] come una pressione e avere la sensazione di dover fare qualcosa di eccezionale».76 La persona che sviluppa un disturbo alimentare ha recepito con particolare forza un messaggio di cui la nostra società è intrisa: si deve avere successo, ma per farlo è imprescindibile essere magri. Questa immagine di donna di successo che si prende cura di sé, come osserveremo meglio nel prossimo paragrafo, suscita fascino nella maggior parte delle persone, perché contiene in sé altre immagini tanto luccicanti quanto ingannevoli: l’avere troppe cose da fare per pensare a qualcosa di triviale come il cibo, l’essere concentrati su questioni molto più alte. Questo desiderio (o meglio, il dovere, come viene percepito) di essere una specie di superdonna77, è testimoniato anche da Hornbacher:

La mia missione era diventare una persona diversa, una persona dalle passioni più ascetiche che edonistiche, una persona che Ce l’Avrebbe Fatta, una persona determinata, dall’ambizione pura e focalizzata, una persona che metteva il corpo in secondo piano rispetto alla mente e all’“arte”. Non sopportavo il mio corpo. Volevo che sparisse per poter essere pura mente, un cervello ambulante, ammirata e applaudita per il mio incredibile autocontrollo.78

A proposito di due punti che abbiamo appena fissato — iperspiritualità e ambizione accademica — mi trovo in disaccordo con l’analisi proposta da Fabrizio Turoldo nel suo saggio, uno dei rari esempi in cui impostazione filosofica e riflessione sull’anoressia si uniscono. Turoldo affronta il famoso tema delle sante anoressiche79, per poi prenderne in considerazione le differenze — che certamente ci sono — con l’anoressia odierna, e scrive:

Per santa Caterina non mangiare significava affermare la propria volontà, […], per Simone Weil voleva dire rendere gloria a Dio. […] L’anoressica del nostro tempo non vuole conseguire una perfezione spirituale, non digiuna per purificarsi interiormente […] ma per conseguire un’ideale di bellezza corporea. […] In questo senso l’anoressica contemporanea è profondamente materialista. L’anoressia non porta più una persona ad affermare se stessa, la propria autonomia. […] La santa anoressia, pur nelle sintomatologie analoghe, può essere considerata come un’antipatologia, che esprime l’impegno, la lotta e la fatica di alcune donne per esprimere la propria fede.80

Questo lavoro è impostato, invece, su presupposti diversi: come già abbiamo osservato, la tendenza allo spirituale, all’intellettuale (che sia di ascendenza religiosa o meno) fa invece parte dell’esperienza anoressica odierna, e va di pari passo con caratteristiche che riguardano l’ambito mentale e comportamentale: il successo professionale e accademico, la forza di volontà, l’essere virtuosi, la competenza. Nelle parole di Turoldo emerge, invece, una sorta di gerarchia assiologica dell’affamarsi a morte, sulla cui vetta si trova il digiuno mistico, e alla cui base il digiuno — un po’ triviale — della ragazza di oggi, il cui comportamento anoressico è sospinto solo dal desiderio, passivo, di adeguarsi ai canoni della moda. Le anoressiche, benché quest’immagine permanga tuttora nell’immaginario collettivo, non sono manichini, gusci di vanità, né ammassi di ossa a cui appendere vestiti firmati. Per quanto gli aspetti che riguardano il costume e la moda siano rilevanti, certo non esauriscono la complessità del disturbo alimentare, le cui intricate propaggini ho cercato a fatica di dispiegare in queste pagine. L’equivoco sembra pertanto protrarsi: affamarsi, rendere secondarie le necessità del corpo, permette di affermare con maggiore forza la propria “anima”, di guadagnare una maggiore aderenza al nucleo autentico di noi stessi, quello nascosto e ottuso dalla fame e dai bisogni. A proposito del tema dell’autonomia, infine, abbiamo già rilevato quanto essa sia invece spesso considerata, in un continuo rimando, l’altra faccia della magrezza e della disciplina del corpo. A rispondere a questo atteggiamento (se non di ammirazione, perlomeno ambiguo) nei confronti del digiunare ascetico — in aggiunta alle parole taglienti, che già abbiamo citato, di Nietzsche — sarà, tra qualche paragrafo, anche la scrittrice Amélie Nothomb.

Tornando ai nuclei individuati nell’anoressia, ne prenderemo in considerazione l’evidente paradossalità. L’anoressica, inizialmente, non è consapevole di quanto sia incongruente il suo tentativo di controllare e governare continuamente il corpo, il cui epilogo inevitabile è un’assoluta perdita di controllo e libertà, quale è un disturbo dell’alimentazione. «Questa routine di sorveglianza e controllo del cibo», scrive Svenaeus «si sviluppa presto in una patologia che ha una vita propria, che la persona non è più in grado di controllare». L’anoressia, come un’oscura presenza, «invade il corpo e ne prende il controllo».81 Dal folle desiderio di essere senza bisogni, si diventa invece una persona profondamente bisognosa: di cure, di aiuto, nei casi più estremi di essere salvata dalla morte. «È una protesta contro gli stereotipi culturali sulla donna», commenta Hornbacher proprio a questo proposito, «che ti fa apparire la più debole, la più bisognosa e la più nevrotica di tutte le donne».82 Così il «no» che l’anoressica «dice alla vita», parafrasando Nietzsche, si risolve — almeno nei casi di guarigione — in un graduale «sì», a cui la spingono proprio le «ferite» del corpo che ha tentato di ammutolire.83

Un disturbo dell’alimentazione […] è un groviglio di contraddizione mortali: un desiderio di potere che ti priva di ogni potere, un atto di forza che ti spoglia da ogni forza, un desiderio di dimostrare che non hai bisogno di niente, che non hai appetiti umani, che si rivolta contro se stesso e diventa un bisogno ardente della fame stessa. È un tentativo di trovare un’identità, che alla fine ti priva di ogni senso di te stessa tranne che della penosa identità di “malata”.84

La scoperta che inevitabilmente aspetta la persona anoressica è assolutamente incredibile: «non si può ingannare il corpo. Il corpo, per quanto possa sembrare strano a noi intossicati da una dottrina dualista, è legato al cervello»,85 e il suo illudersi, al pari degli asceti criticati da Nietzsche che follemente pensano di potersene liberare, viene alla luce. L’annichilimento del corpo, la sua prostrazione, trascina la “mente” in un pozzo di oscurità e confusione — quello che Hornbacher chiama il «mondo delle ombre»,86 «il mondo a rovescio»87 — e lentamente si perde la presa con la realtà. Una verità che razionalmente sembra così banale, ma che la nostra cultura e le anoressiche nello specifico sembrano afferrare a fatica. Amélie Nothomb, raccontando la propria anoressia in Biografia della fame, conferma questo fatto: «il cervello è costituito essenzialmente di tessuto adiposo. I più nobili pensieri umani nascono nel grasso. Per non perdere il cervello, ritradussi, febbrilmente, l’Iliade e l’Odissea. Devo a Omero i neuroni che mi restano».88 E aggiunge:

Più dimagrivo, più sentivo svanire quella che avrebbe dovuto essere la mia mente. Quelli che si augurano la ricchezza spirituale degli asceti meritano di soffrire di anoressia. Non esiste una scuola di materialismo duro e puro migliore del digiuno prolungato. Al di là di un certo limite, quello di cui si nutre l’anima langue fino a scomparire. Questa miseria mentale dell’essere denutriti è così dolorosa che può suscitare reazioni eroiche. […] L’errore sarebbe vedervi un’intelligenza propria dell’anoressia. Sarebbe il caso che questa evidente verità venisse infine acquisita: l’ascesi non arricchisce la mente. Le privazioni non costituiscono una virtù89.

Dopo dieci anni di malattia ed aver raggiunto il peso limite di ventitré chili, Hornbacher riesce a conquistare questa rivelazione, a percepirla infine come vera: «finalmente ho capito che non posso alimentare la mia mente e far morire di fame il mio corpo».90 Quando si acquista la consapevolezza del limbo di illusioni in cui ci si è cullati, la scoperta è certamente benefica ma non indolore, e per spiegarlo ci affidiamo ancora una volta alle parole di Sprecata: «capisci di essere stata essenzialmente morta solo quando cominci a ritornare viva. Il congelamento non fa male finché non comincia a sgelare. […] Una scarica di dolore ti lacera il corpo. […] Da allora ogni stagione è inverno, e mi fa ancora male».91

Quello che finora è emerso dalla nostra analisi è in primo luogo la pervasività degli strascichi del dualismo nella nostra società, e inoltre il loro ruolo specifico nell’emergere di un disturbo alimentare. Un’analisi di questo tipo dei DCA si allontana dalle interpretazioni classiche e tende invece la mano al paradigma che Bordo definisce «cultural-femminista»92 — basato, oltre che sull’asse genere-potere accennato in precedenza, su una precipua attenzione ai messaggi culturali in cui le anoressiche sono immerse. Si situano su questa stessa linea Girard e Caskey. Senza entrare approfonditamente nel merito dello scontro tra le interpretazioni medico-psicanalitica93 e quella femminista, ci concentreremo su quanto faccia emergere un approccio culturale. Ciò che consegue da questo tipo di analisi è che il disturbo alimentare perde la sua eccezionalità, per diventare in realtà una radicalizzazione e un epilogo quasi banale degli input sociali di cui facciamo esperienza. Ciò che rende l’anoressia un disturbo quasi normale è, inoltre, il suo essere una risposta alla norma che sentiamo essere imposta, a cui più su abbiamo accennato. È proprio su questo che insistono alcuni studiosi, criticando il frequente disinteresse nei confronti di questo aspetto. Come osserva Hornbacher, è imprescindibile — al netto del ruolo della famiglia e soprattutto della personalità di chi soffre di anoressia o bulimia nervosa — ritagliare un ruolo importante, «se non maggiore»,94 all’eredità pesante di tutte le concezioni dualiste. A proposito di un’espressione culturale quale è la letteratura, Girard afferma che è «imbevuta di spirito anoressico e bulimico».

Bordo è una sostenitrice dell’approccio culturale95 e introduce la sua esposizione chiarendo che per lei ogni psicopatologia è la «cristallizzazione di gran parte di ciò che in [una cultura] non funziona».96 Nello specifico, quello che non funziona è che «il valore di una persona cresce in modo esponenziale con il progredire della sua scomparsa».97 È opinione di Bordo che la grande maggioranza delle interpretazioni (almeno negli anni ’80-’90, quando scrive) «ignora il fatto che per la maggior parte delle persone, nella nostra cultura, la snellezza è davvero equiparata alla competenza, all’autocontrollo e all’intelligenza».98 In questo quadro le ossessioni alimentari non sono «bizzarre o anomale, bensì manifestazioni logiche (per quanto estreme) delle ansie e delle fantasie generate dalla cultura contemporanea».99 Non è ragionevole né produttivo insistere sull’incomprensibilità del DCA: «l’anoressica appare non come la vittima di una patologia unica e “bizzarra”, ma come colei che reca informazioni estremamente inquietanti sulla nostra cultura».100 È come se fosse stata troppo attenta, avesse osservato con troppo impegno: «non è che l’anoressica “percepisca in modo errato” il proprio corpo; piuttosto, ha appreso perfettamente gli standard culturali dominanti relativi al modo in cui percepirlo».101 La distorsione della realtà pertanto è attuata piuttosto dall’interprete del disturbo, non dall’anoressica, che invece è «descritta dagli specialisti come se facesse ragionamenti distorti e avesse una percezione erronea della realtà».102 Noelle Caskey, sempre a questo proposito, si pronuncia così:

Le anoressiche stanno semplicemente obbedendo ai diktat della società più drasticamente di noi. […] Da questo punto di vista, qualcuno potrebbe benissimo rivoltare la solita domanda e chiedere non «Perché così tante donne diventano anoressiche ai nostri giorni? », bensì «Perché non siamo tutti anoressici? »103

Illuminare questi aspetti è fondamentale per una comprensione profonda del fenomeno, e probabilmente anche di quanto sia spesso lunga e difficile la guarigione: l’anoressica è al centro di un vortice di stimoli contrastanti, tra loro contraddittori, da cui è faticoso uscire indenni. È come se le venisse detto che quello che desidera fare del proprio corpo è giusto, ma che contemporaneamente deve smettere di farlo e guarire. Come abbiamo già accennato più volte, questo non esaurisce l’eziologia dell’anoressia, che va naturalmente anche trattata come un disturbo individuale e dipendente da un coacervo di fattori psicologici e familiari, tra i quali ne possono essere rinvenuti alcuni particolarmente frequenti.104

6. Conclusioni

Nel corso della trattazione abbiamo presentato la declinazione del dualismo propria delle filosofie platonica e cartesiana, e le critiche sferrate da Nietzsche ad ogni riflessione che si sviluppi sulla falsariga dell’ascetismo cristiano. Spostandoci nel contesto attuale, abbiamo indagato quanto delle istanze dualistiche sia rimasto, e come questi elementi di permanenza si siano intrecciati al concetto del governo di sé, con l’intenzione di analizzare da un punto di vista insolito un fenomeno apparentemente non filosofico: l’anoressia nervosa. Abbiamo osservato quanto il corpo sia per la persona anoressica un’inquietante entità che «inchioda»105 alla realtà e che realizza la sacrilega azione di occupare uno spazio. Nonostante il tentativo urgente che attuano le anoressiche di disancorarsi dal corpo, questo «è sempre qui davanti a noi, insormontabile».106 «Non sono riuscito a disfarmi di me», scrive Bourdin con tetra rassegnazione, «sono diventato l’unico oggetto della mia attenzione. Sono stato imposto a me stesso. Inchiodato alla mia persona».107 Da qui, invece, ci proponiamo di ripartire. E se questa fosse l’unica certezza, o perlomeno quella primaria? Che il corpo è infine il primo dato chiaro e distinto, qualcosa di caldo e di sicuro che allo stesso tempo è il sé e lo protegge, lo abbraccia. La dimensione corporea è dopotutto ciò che permette di avere esperienza dell’altro e del mondo circostante. «La solida delimitazione dei corpi umani» che per Kafka è «spaventosa»,108 cambiando prospettiva potrebbe rivelarsi invece un’àncora, una certezza. Il corpo è il promemoria che rammenta ad ognuno la propria finitezza e fragilità, le proprie ferite e mancanze. È possibile che la strada sia perciò permettere a questo insegnamento di risvegliare, invece che angoscia, un moto di pacifica accettazione e persino di orgoglio — proprio ciò che risulta tanto difficile ad un’anoressica.

Infine, è importante sottolineare quanto il parallelo che abbiamo costruito tra determinate concezioni dualiste e il modo di esperire il disturbo alimentare sembri essere in accordo coi pensieri delle anoressiche stesse: ci sono idee filosofiche che vengono da loro sentite con particolare fervore, e che quando sono immerse in un disturbo alimentare acquistano un significato quasi personale. Mentre Hornbacher frequenta l’università, si imbatte in alcuni corsi di filosofia e al riguardo scrive: «la filosofia mi affascinava. Divenne un’ossessione, soprattutto Hume. Mi aggrappai alla dottrina dell’assenza di sostanza con una tale furia che è strano come non mi sia accorta della correlazione».109 Michela Marzano, in Volevo essere una farfalla, racconto dei suoi bui anni di digiuno, commenta che «Nietzsche queste cose le capiva, certamente meglio di un Cartesio o di un Kant che si illudevano che l’anima avesse la forza e la capacità di vincere le emozioni e di sottomettere il corpo».110 A proposito della letteratura definita da Girard «imbevuta» d’anoressia, Nothomb una volta guarita fa una lettura che la sconvolge: La metamorfosi, scrive, è «la mia storia. L’uomo […] oggetto di terrore per i suoi e soprattutto per se stesso, con il proprio corpo che era diventato lo sconosciuto, il nemico».111 Dal punto di vista dei clinici, invece, Recalcati definisce l’anoressia un «platonismo folle e radicale»112 e aggiunge che «nell’immaginario anoressico» esistono «motivi platonici e sartriani»: ad esempio «il dualismo platonico tra essenza ed esistenza […], o il mito dell’immaginario come trascendente la realtà che l’anoressica tende a volte ad incarnare».113

In questo lavoro non si sostiene naturalmente un immediato rapporto di causa ed effetto tra il dualismo filosofico e l’anoressia moderna, bensì che vi sono motivi dualisti che l’anoressica ha mutuato dalla società che la circonda, dalle radici da cui si è sviluppata. La stessa Bordo, da filosofa e studiosa dei disturbi alimentari, sostiene il nucleo tematico attorno al quale ruota questo testo:

L’anoressia non è un atteggiamento filosofico: è uno stato di afflizione debilitante. Eppure queste donne mostrano spesso di saper elaborare […] uno schema estremamente articolato di immagini e associazioni: quasi una metafisica. Tale schema è palesemente agostiniano, con echi di Platone. Questo non indica, ovviamente, che le anoressiche sono seguaci di Platone e Agostino, bensì che la metafisica dell’anoressica rende espliciti vari elementi derivati storicamente da Platone e Agostino e ben radicati nella nostra cultura.114

Questo, dal punto di vista della persona anoressica, si traduce in una maggiore difficoltà nel vincere il disturbo, perché significa contemporaneamente ignorare tutti i messaggi ereditati da queste teorie, precisamente le stesse di cui abbiamo brevemente discusso nei primi capitoli: tutti i dualismi di cui la nostra storia filosofica, culturale, religiosa, è intessuta. Il corpo, «cosa pesante e grave»115 già nelle parole di Platone, continua ad affaticarci ed infastidirci con la sua presenza — un’avversione portata all’estremo dall’anoressia. La costante pressione, proveniente da ambiti diversi, porta una ragazza ad affermare, una volta guarita, che «ingrassare e tirare la testa fuori dal gabinetto è stato il gesto più politico che abbia mai compiuto».116 L’anoressica vive sulla propria pelle, oltrepassando la teoria, quanto questa sia inapplicabile nella realtà: «non posso più credere al conflitto tra il corpo e l’anima», scrive Hornbacher, «se lo facessi, mi ucciderebbe».117

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  1. Michela Marzano, La philosophie du corps, Paris: Presses Universitaires de France, 2007, trad. it. di Sergio Crapiz, La filosofia del corpo, Genova: il melangolo, 2010. ↩︎

  2. Susan Bordo, The Unbearable Weight, Berkeley: University of California Press, 1993, trad. it. di Giovanna Bettini, Il peso del corpo, Milano: Feltrinelli, 1997. ↩︎

  3. Cfr. Alfred E. Taylor, Socrates, London: Peter Davies, 1993, trad. it. di Mariuma Tioli-Gabrieli, Socrate, Firenze: La Nuova Italia, 1952, pp. 33 e 49, e Mario Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino: Einaudi, 2003, p. 119. ↩︎

  4. Cfr. Alfred E. Taylor, op. cit., p. 49: Nella casa di Socrate vive «un gruppo di asceti affamati». Si riferisce ad Aristofane, Nuvole, 94. Gell., II.1, trad. it. di Giorgio Bernardi-Perini, Le notti attiche, 2 voll., Torino: UTET, 1992. ↩︎

  5. Pl. Phaed. 81d, trad. it. di Manara Valgimigli, Introd. di Bruno Centrone, Fedone, Bari: Laterza, 2000. ↩︎

  6. Cfr. ivi, 67d. ↩︎

  7. Cfr. ivi, 80e-81a. ↩︎

  8. Propendono per una traduzione letterale di «s?matos aphrosýne», ad esempio, Robin («démence du corps»), T. Taylor («madness of body»), Jowett («foolishness of the body»), Cambiano («stoltezza del corpo») e Galimberti (la sopracitata «follia del corpo») — il che fa pensare che la si possa interpretare come una follia costitutiva del corpo, e non solo in transito dal corpo alla mente, dove poi si manifesterà. Vedi Phaed., trad. par Léon Robin, en Œuvres complètes, Paris: Les Belles Lettres, 1926, vol. IV; transl. by Thomas Taylor, Cratylus, Phædo, Parmenides and Tumæus of Plato, London: White, 1793; transl. by Benjamin Jowett, The Apology, Phaedo, Crito of Plato, New York: Collier, 1909-1914; trad. it. di Giuseppe Cambiano, in Dialoghi filosofici, Torino: UTET: 1987; Umberto Galimberti, Il corpo, Milano: Feltrinelli, 200313, p. 12. ↩︎

  9. Pl. Phaed. 68d; corsivo mio. ↩︎

  10. René Descartes, Meditationes de prima philosophia, trad. it. di Sergio Landucci, Meditazioni metafisiche (1997), Bari: Laterza, 2010, pp. 123-125; primo corsivo mio. ↩︎

  11. Certezza che Descartes deriva dall’esistenza di un Dio non ingannatore. Vedi ivi, pp. 131-133. ↩︎

  12. Cfr. Umberto Galimberti, op. cit., p. 69. ↩︎

  13. René Descartes, Meditazioni, cit., 20, 42, 44. ↩︎

  14. Cfr. Michela Marzano, op. cit., p. 18. ↩︎

  15. René Descartes, L’uomo, in Opere filosofiche, a cura di Eugenio Garin, 4 voll., Bari: Laterza, 1986, vol. I, p. 278. ↩︎

  16. René Descartes, Meditazioni, cit., p. 133. ↩︎

  17. Ibid. ↩︎

  18. René Descartes, Lettres sur la morale. Correspondance avec la Princesse Elisabeth, Chanut et la Reine Christine (1643-1649), trad. it. Lettere sulla morale, in Opere, cit., vol. IV, pp. 131-132. ↩︎

  19. Nella Nascita della tragedia Nietzsche definisce il dualismo «una contrapposizione popolare e del tutto falsa tra anima e corpo»; Die Geburt der Tragödie, trad. it. di Sossio Giametta, La nascita della tragedia ovvero grecità e pessimismo, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. III, tomo I, Milano: Adelphi, 200827, § 21, p. 144. ↩︎

  20. Id., Morgenröthe, trad. it. di Ferruccio Masini, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, in Opere, cit., vol. V, tomo I, Milano: Adelphi, 201312, § 39, p. 34. ↩︎

  21. Id., Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, trad. it. di Ferruccio Masini, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo (1977), in Opere, cit., vol. VI, tomo III, Milano: Adelphi, 200828, § 51, p. 72; corsivi miei. ↩︎

  22. Id., Zur Genealogie der Morale. Eine Streitschrift, trad. it. di Ferruccio Masini, Genealogia della morale. Uno scritto polemico (1984), in Opere, cit., vol. VI, tomo II, Milano: Adelphi, 201016, § 10, p. 109. ↩︎

  23. Ivi, § 11, p. 111. ↩︎

  24. Vedi Id., Die fröhliche Wissenschaft, trad. it. di Fabrizio Desideri, La gaia scienza, Roma: Editori Riuniti, 1985, Prefazione alla seconda edizione, § 2, p. 43. ↩︎

  25. Id., Also sprach Zarathustra, trad. it. di Sossio Giametta, Così parlò Zarathustra (1985), introd. e commento di Giangiorgio Pasqualotto, Milano: Rizzoli, 2001, Proemio, p. 28. ↩︎

  26. Id., Ecce homo. Wie man wird, was man ist, trad. it. di Roberto Calasso, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Milano: Adelphi, 1969, p. 73. ↩︎

  27. Cfr. ibid., in cui Nietzsche sostiene con forza quel «dire sì (Jasagen) senza riserve al dolore stesso, alla colpa stessa», in contrapposizione a tutti coloro che dicono no alla vita, il cristianesimo in primis↩︎

  28. Per un’interpretazione che vede in questa moltitudine o “molteplicità”, fatta di tanti minuscoli corpi, un rimando alla biologia e alle cellule, vedi Barbara Stiegler, Nietzsche et la biologie, Paris: PUF, 2001, trad. it. di Federico Leoni, Nietzsche e la biologia, Mantova: Negretto, 2010. ↩︎

  29. Friedrich Nietzsche, Zarathustra, cit., Dei disprezzatori del corpo, p. 52. ↩︎

  30. È interessante notare che René Girard veda proprio nella filosofia di Nietzsche, invece, l’origine dei «nostri disturbi alimentari», e non nelle nostre radici cristiane. Vedi René Girard, Anorexie et désir mimétique, Paris: L’Herne, 2008, trad. it. di Claudio Tarditi, Anoressia e desiderio mimetico, Torino: Lindau, 2009, p. 44. Per quanto questo lavoro tenda nella direzione opposta, è doveroso ricordare quanto Nietzsche, nella vita privata, fosse realmente ossessionato dalle pratiche dietetiche, soprattutto con l’aggravarsi della malattia. Vedi, ad esempio, Aurora, cit., § 202-203, pp. 148-9 e Ecce homo, 1993, cit., Perché sono così accorto, pp. 42-3: «Ma la cucina tedesca — cosa non ha sulla coscienza! […] Anche la dieta inglese tuttavia, […] mi sembra che dia allo spirito piedi pesanti — piedi da donne inglesi. […] L’assoluta astensione dagli alcolici. È sufficiente l’acqua… […] Nulla fuori pasto, nessun caffè. […] Il tè è salutare solo al mattino. Poco, ma forte: il tè è molto dannoso e infiacchisce tutta la giornata». ↩︎

  31. Il Leib è il corpo vissuto, percepito nella sua interezza, come . È un corpo che ha un’intenzionalità, che si apre al mondo e interagisce con ciò che lo circonda. Il Körper, al contrario, è il corpo-materia, il corpo-cosa, il corpo morto, quell’ammasso di organi delimitato dalla barriera cutanea che è (o almeno è stato) l’oggetto di studio di anatomia e fisiologia. Nelle Meditazioni, in particolare nella quinta, Husserl enuncia la suddetta differenza in questi termini: «io trovo poi il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico [Körper] ma proprio come corpo organico [Leib]». Husserl, Cartesianische Meditationen, Den Haag: Nijhoff, 1950, trad. it. Di Filippo Costa, Meditazioni cartesiane (1960), Milano: Bompiani, 19702, V meditazione, p. 107. ↩︎

  32. Michela Marzano, op. cit., p. 19. ↩︎

  33. Cfr. ivi, p. 20. ↩︎

  34. Cfr. ivi, p. 20. ↩︎

  35. Susan Bordo, op. cit., Introduzione, p. XV. ↩︎

  36. La poesia di Schwartz recita: «Il grosso orso che mi viene appresso / col muso di miele impiastricciato / il passo incentro e goffo dell’imbranato / la mole in cui si sbatte dappertutto / la belva imbestialita ed affamata, / innamorata di dolci, rabbia e sonno […] Quel bestione che mi respira addosso, / quel grosso orso che mi dorme accanto, / nel sonno sogna di zucchero gemendo / una dolcezza a ondate che lo culli […] Quella bestia, inevitabile compagna, / mi viene dietro sin dal ventre nero, / va dove vado, mi stravolge il gesto […] Opaco, mio come un io, e pur sempre ignoto»; corsivo mio. ↩︎

  37. Susan Bordo, op. cit., Introduzione, p. XIII. ↩︎

  38. Delmore Schwartz, The Heavy Bear, ivi, p. XI. ↩︎

  39. Ivi, p. XXVI. ↩︎

  40. Ibid. ↩︎

  41. Ivi, p. XXV. ↩︎

  42. Bordo precisa, citando Foucault: mettendo in luce questi processi culturali e sociologici «non significa che io ritenga di aver scoperto, attraverso il mio lavoro, una perenne cospirazione […] o che miri a incolpare qualche particolare partecipante al gioco delle forze sociali. […] Pur essendo i rapporti di potere storici caratterizzati da una logica perfettamente chiara, dotata di intenti e obiettivi perfettamente decifrabili, “può darsi che non ci sia nessuno che […] abbia concepit[o] questi intenti e strategie”». Ivi, p. 77. Questo lavoro è basato sulla stessa precisazione. ↩︎

  43. Ivi, p. 27. ↩︎

  44. Cfr. Michela Marzano, op. cit., p. 21. ↩︎

  45. Susan Bordo, op. cit., p. 27. ↩︎

  46. Michela Marzano, op. cit, p. 21. ↩︎

  47. A proposito di questa ossessione, il giovane regista francese Frederic Doazan ha realizzato un cortometraggio intitolato Supervenus in cui viene crudamente rappresentato il climax di “perfezionamento” di un corpo femminile, fino al suo drammatico esito. Il video può essere visionato qui: http://www.izlesene.com/video/supervenus-frderic-doazan/7752474. Ultima consultazione: 08/09/2015. ↩︎

  48. Marya Hornbacher, Wasted, New York: Harper Collins, 1998, trad. it. di Elena Campominosi, Sprecata (2000), Milano: TEA, 20065, p. 266. ↩︎

  49. Il DSM è uno dei manuali diagnostici per i disturbi mentali più utilizzati, promulgato dall’American Psychiatric Association. Qui ci si riferisce al DSM-IV, la quarta edizione uscita nel 1994, perché è sufficientemente funzionale ai fini dell’esposizione. L’ultima edizione, il DSM-5, è uscita nel 2013 ed ha effettivamente apportato delle novità anche nell’ambito dei disturbi alimentari, come il riconoscimento ufficiale del Binge Eating (disturbo da alimentazione incontrollata), nel IV solo provvisorio, e il perfezionamento di alcuni criteri diagnostici nel caso di anoressia e bulimia nervose. Vedi American Psychiatric Association, New Proposed Changes Posted for Leading Manual of Mental Disorders (Release No. 10-07), Arlington, Feb. 10, 2010, p. 2. Ci basiamo su un manuale che ad esso fa riferimento: Janet Treasure et al. (a cura di), The Essential Handbook of Eating Disorders, Chichester: Wiley, 2006, trad. it. di Anna Maria Delogu e Mariarosa Ventura, I disturbi dell’alimentazione, Bologna: il Mulino, 2008. ↩︎

  50. Cfr. Janet Treasure et al. (a cura di), op. cit., cap. 1, pp. 19-20. Per completezza aggiungiamo che nel DSM-V i DCA sono stati riorganizzati e ne sono stati specificati o aggiunti alcuni: il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (es. ortoressia, Reverse Anorexia), il disturbo della ruminazione, la pica, la Night Eating Syndrome. Vedi http://www.afpp.eu/wp-content/uploads/2014/01/DISTURBI-COMPORTAMENTO-ALIMENTARE-NEL-DSM-51.pdf [ultima consultazione: 20/08/2015]. ↩︎

  51. Massimo Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia (1997), Milano: Mondadori, 2010, Introduzione, p. 26. ↩︎

  52. Anche quando utilizzerò semplicemente il termine ‘anoressia’, va sempre inteso come abbreviazione di anoressia nervosa, che è (almeno oggi — vedi Bordo, op. cit., pp. 6-7 e 10-12) considerata un disturbo mentale, caratterizzato da una restrizione alimentare volontaria. L’anoressia tout court invece è propriamente un sintomo di assenza d’appetito che può essere legato anche a cause organiche. Treccani.it, Anoressia, in Universo del Corpo: http://www.treccani.it/enciclopedia/anoressia_%28Universo-del-Corpo%29/ [ultima consultazione: 25/08/2015]. ↩︎

  53. Susan Bordo, op. cit., p. 76. ↩︎

  54. La scelta non è stata fatta per sminuire l’importanza dell’asse genere-potere, che ritengo comunque fondamentale per spiegare in modo completo il fenomeno dell’anoressia. Per un approfondimento rimando a ivi, pp. 88-90. Mi sembra inoltre interessante la spiegazione che dà Fabrizio Turoldo a questo riguardo, appoggiandosi ad una teoria della famosa fondatrice del centro ABA Fabiola De Clercq: se la risposta maschile al disagio è prevalentemente la tossicodipendenza, i DCA ne sono invece il corrispettivo femminile. Due disturbi, la tossicodipendenza e i DCA, in cui «il veleno» — l’ossessione per la magrezza, la droga — «è immesso volontariamente nel corpo», e si crede pertanto di averne il controllo. Trovo questo spunto originale e meritevole di approfondimento, per quanto però ritenga fondamentale tenere in considerazione che la pressione che spinge verso la magrezza e la purezza corporea sia indirizzata precipuamente, e non casualmente, verso il genere femminile. Vedi Le malattie de desiderio. Storie di tossicodipendenza e anoressia, Assisi: Cittadella, 2011, cap. VII, pp. 49-51. ↩︎

  55. È illuminante il commento di Girard riguardo a questa ossessione generale che definisce ironicamente gymnastica nervosa: «l’aspetto irritante dell’esercizio fisico risiede soprattutto nella sua giustificazione in termini politicamente corretti. Si tessono le lodi della vita all’aria aperta e si invocano Thoreau, Rousseau, la Terra Madre, l’ecologia, l salute, la miseria delle vittime o gli altri soliti pretesti, mentre l’unico vero motivo è soltanto il desiderio di perdere peso. […] Quei professori grassottelli che ti trascinano sin in cima alle colline di Stanford portando dei pesi in ogni mano […] col sudore che cola dal viso, lo sguardo stravolto e implorante, ricordano le torture più strane dell’Inferno di Dante». Vedi op cit., pp. 38-39. ↩︎

  56. Susan Bordo, op. cit., p. 27. ↩︎

  57. Ibid. ↩︎

  58. René Girard, op. cit., p. 43. ↩︎

  59. Susan Bordo, op. cit., p. 78. ↩︎

  60. Ibid. ↩︎

  61. Ibid. ↩︎

  62. Ivi, p. 79; cita Agostino. ↩︎

  63. Ivi, Introduzione, p. XXVI. ↩︎

  64. Rebecca J. Lester, The (dis)embodied self in anorexia nervosa, «Social Science & Medicine», 44 (1997), pp. 479-489, p. 485. ↩︎

  65. Marya Hornbacher, op. cit., Introduzione, p. 12. ↩︎

  66. Susan Bordo, op. cit., p. 27, corsivo mio. ↩︎

  67. Ivi, p. 82, corsivo mio. ↩︎

  68. Noelle Caskey, Interpreting Anorexia, in Susan R. Suleiman, The female body in western culture, London: Harvard University Press, 1986, p. 184. ↩︎

  69. Marya Hornbacher, op. cit., p. 120. ↩︎

  70. Umberto Galimberti, op. cit., Introduzione, p. 14. ↩︎

  71. Massimo Recalcati, op. cit., pp. 98-99. ↩︎

  72. Marya Hornbacher, op. cit., p. 120. ↩︎

  73. Ivi, p. 136, corsivi miei. ↩︎

  74. Cfr. ivi, p. 62. ↩︎

  75. René Girard, op. cit., p. 36. ↩︎

  76. Marya Hornbacher, op. cit., p. 63, che cita Hilde Bruch. ↩︎

  77. Susan Bordo, op. cit., p. 5. ↩︎

  78. Marya Hornbacher, op. cit., p. 119; corsivo mio. ↩︎

  79. Rimando, al riguardo, ad un classico, di cui è stata appena pubblicata un’edizione aggiornata: Rudolph M. Bell, Holy Anorexia, Chicago: Chicago University, 1985, trad. it. di A. Casini Paszkowski, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi, Bari: Laterza, 20164. ↩︎

  80. Fabrizio Turoldo, op. cit., p. 94. ↩︎

  81. Fredrik Svenaeus, Anorexia Nervosa and the Body Uncanny: A Phenomenological Approach, «Philosophy, Psychiatry, & Psychology», 20 (2013), pp. 81-91, p. 87. ↩︎

  82. Marya Hornbacher, op. cit., Introduzione, p. 12. ↩︎

  83. Vedi § 3.1.; Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 115. ↩︎

  84. Marya Hornbacher, op. cit., Introduzione, p. 12. ↩︎

  85. Ivi, p. 117. ↩︎

  86. Ivi, Introduzione, p. 7. ↩︎

  87. Ivi, p. 16. ↩︎

  88. Amélie Nothomb, Biographie de la faim, Paris: Albin Michel, 2004, trad. it. di Monica Capuani, Biografia della fame (2005), Roma: Voland, 20103, p. 133. ↩︎

  89. Ivi, pp. 128-129, corsivo mio. ↩︎

  90. Marya Hornbacher, Madness. A bipolar life, Boston: Houghton Mifflin, 2008, trad. it. di Lucia Corradini Caspani, Una vita bipolare. Oltre i confini della normalità, Milano: Corbaccio, 2008, p. 57. ↩︎

  91. Id., Sprecata, cit., p. 298. ↩︎

  92. Susan Bordo, op. cit., p. 13. ↩︎

  93. È però interessante un’osservazione di Girard al riguardo: «nel caso dell’anoressia, normalmente gli psicanalisti diagnosticano “il rifiuto di una sessualità normale”, dovuto al desiderio eccessivo della paziente di “piacere a suo padre” ecc. Può capitare che tali spiegazioni compaiano ancora in libri scritti ai nostri giorni, ma si tratta di voci sempre più deboli. Questo genere di cose emana un soffocante odore di stantio. Perfino nella scuola lacaniana non vi è più l’arroganza di un tempo». Vedi op. cit., pp. 31-32. Per la critica di Bordo a questi modelli vedi op. cit., pp. 3-12. ↩︎

  94. Marya Hornbacher, Sprecata, cit., Introduzione, p. 12. ↩︎

  95. È importante specificare che la normalità che evidenziamo in questo paragrafo non vale dappertutto, il che rafforza la tesi che i disturbi alimentari siano anche patologie culturali. Com’è stato messo in luce da molti cross-cultural studies sembra che con l’occidentalizzazione di una determinata zona nasca, a volte da zero, il problema dei DCA. Pertanto, per quanto riguarda i fattori non strettamente psicologici, concorrono variabili sia economiche che etniche, ma la preponderante è quella socio-culturale. Per un approfondimento sul tema vedi i seguenti articoli online: Christopher P. Szabo, Clifford W. Allwood, A cross-cultural study of eating attitudes in adolescent South African females [http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1414663]; Michelle Konstantinovsky, Eating Disorders Do Not Discriminate [http://www.slate.com/articles/double_x/doublex/2014/03/eating_disorders _and_ women_of_color_anorexia_and_bulimia_are_not_just_white.html]; Eating Disorders in Women of Color: Explanations and Implications [https://www.nationaleatingdisorders.org/eating-disorders-women-color-explanations -and-implications]. Ultima consultazione: 29/08/2015. ↩︎

  96. Susan Bordo, op. cit., p. 75. ↩︎

  97. Marya Hornbacher, Sprecata, cit., p. 10. ↩︎

  98. Susan Bordo, op. cit., p. 13, corsivo mio. ↩︎

  99. Ivi, Introduzione, p. XXVI. ↩︎

  100. Ivi, p. 19. ↩︎

  101. Ivi, p. 16. ↩︎

  102. Ian Burkitt / Jordi Sanz, Embodiment, lived experience and anorexia: the contribution of phenomenology to a critical therapeutic approach, «Athenea Digital: Revista de Pensamiento e Investigacion Social», 0 (2001), pp. 38-52, p. 44. ↩︎

  103. Noelle Caskey, op. cit., p. 178. Questa è la falla che viene solitamente evidenziata da chi critica il paradigma cultural-femminista, a cui Bordo risponde eloquentemente: «“I modelli culturali attuali”, sostiene Brumberg, “non riescono a spiegare perché tanti individui non sviluppino la malattia, benché siano esposti alle stesse influenze culturali”. Ma, ovviamente, non siamo esposti tutti “alle stesse influenze culturali”. Ciò cui tutti siamo esposti, piuttosto, sono le immagini e le ideologie omogenizzanti e normalizzanti relative alla bellezza femminile. […] Ma l’identità individuale non si forma soltanto attraverso l’interazione con tali immagini, per quanto potenti possano essere». Vedi Bordo, op. cit., pp. 19-28. ↩︎

  104. Alcuni tratti peculiari: sono persone particolarmente attente ai bisogni degli altri, contemporaneamente ipermature e infantili, che considerano il successo accademico imprescindibile. Solitamente si combinano fattori come insicurezza, ambizione e bisogno di approvazione; vedi Noelle Caskey, op. cit., pp. 179-183. Scrive Hornbacher: «siamo spesso persone estreme, molto competitive, incredibilmente autocritiche, estremamente determinate, perfezioniste, tendenti all’eccesso», vedi Marya Hornbacher, Sprecata, op. cit., p. 12. Dal punto di vista dei fattori familiari, se ne occupano spesso i lavori “classici” sui disturbi alimentari, come il famoso L’anoressia mentale di Mara Selvini Palazzoli, Milano: Feltrinelli, 1963. ↩︎

  105. Michela Marzano, Filosofia del corpo, cit., Conclusione, p. 103. ↩︎

  106. Ibid. ↩︎

  107. Ivi, p. 46. ↩︎

  108. Franz Kafka, Diari, trad. it. di Ervino Pocar, Milano: Mondadori, 1993, p. 586. Di seguito aggiunge: «che cosa ti lega a questi corpi delimitati, parlanti, lampeggianti dagli occhi, più strettamente che a qualunque altra cosa, diciamo, al portapenne che hai in mano? Forse il fatto che sei della loro specie? Ma non sei della loro specie, perciò appunto hai formulato questa domanda»; corsivo mio. ↩︎

  109. Marya Hornbacher, Sprecata, cit., p. 277. ↩︎

  110. Michela Marzano, Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere, Milano: Mondadori, 2011, p. 125. ↩︎

  111. Amélie Nothomb, op. cit., p. 134. Di Franz Kafka è ancor più significativo il racconto Il digiunatore; è stato perciò ipotizzato che avesse tendenze anoressiche. Per l’interpretazione di Girard e Schütze vedi René Girard, op. cit., pp. 62-63. ↩︎

  112. Massimo Recalcati, op. cit., p. 107. ↩︎

  113. Ivi, n. 16, p. 133. Recalcati tematizza, inoltre, il ruolo del conflitto filosofico tra essere e avere: «i primi fondamentali colpi [al] primato dell’essere […] sono stati sferrati da Schopenhauer, e da Nietzsche». Vedi p. 323. ↩︎

  114. Susan Bordo, op. cit., p. 81; corsivi miei. ↩︎

  115. Vedi n. 5. ↩︎

  116. Abra F. Chernick, The body politic, in Barbara Findlen, Listen up: Voices from the Next Feminist Generation, Seattle: Seal Press, 1995, p. 245. ↩︎

  117. Marya Hornbacher, Sprecata, cit., p. 303. ↩︎