L’evento e il vivente. In Jacques Derrida

1. Oltre il possibile

Evento, auto-immunità e messianico. Sono queste le parole che delimitano il fuoco della nostra attenzione. Vorremmo cioè tentare, attraverso un breve percorso, di evidenziare il legame tra la struttura paradossale dell’evento e la struttura altrettanto paradossale della vita e del vivente. L’intento che ci guida è quello di mostrare in che senso un pensiero dell’evento, che accompagna longitudinalmente tutto l’itinerario di Derrida, si saldi con un pensiero del vivente, così come esso, con sempre maggiore insistenza, si offre negli ultimi anni della riflessione derridiana, in continuità e sulla scorta di tutta l’opera precedente, attraverso per esempio la categoria di auto-immunità e di messianico.

Com’è noto — ma cercheremo di presupporre il meno possibile — la questione dell’evento e dell’impossibile si annodano a doppio filo. L’evento e l’impossibile, nella loro intima solidarietà, costituiscono la via derridiana per operare una decostruzione di tutta la storia della filosofia in quanto essa si profila come una ininterrotta riflessione sulla possibilità e sulla potenza, su ciò che vuol dire essere ed essere possibile, sulle condizioni di possibilità, sul potere dell’«io posso» e dell’ipseità in generale. Ora, poiché viene precisamente a sconvolgere la distinzione-opposizione “metafisica” tra il possibile e l’impossibile, l’esperienza dell’evento mette a soqquadro l’intera «grande tradizione della dynamis, della potenzialità, da Aristotele a Bergson»,1 nonché ogni idealismo teleologico (significativamente, una delle prime espressioni adottate da Derrida per indicare l’evento, «quercia senza ghianda»,2 marca lo scarto da Hegel e insieme da ogni prospettiva teleologica) e necessariamente la riflessione trascendentale sulle condizioni di possibilità, anche — o forse soprattutto — nelle versioni fenomenologica ed ermeneutica. Ciò non significa affatto, come si evince dalla lettura di tutti i testi derridani, frequentare un irrazionalismo sonnambulo o un positivismo empirista. Per non lasciare libero corso a simili interpretazioni, Derrida ha sempre rivendicato per sé un «iper-razionalismo» e «un iper- o ultra-trascendentalismo».3 Egli non ha mai smesso di frequentare, per dirla senza troppi giri di parole, l’istanza eidetica e trascendentale della fenomenologia, non ha fatto altro che pensare con rigore e fenomenologicamente «strutture» (aporetiche) e «condizioni di possibilità» (ossia di impossibilità), che sono altrettante sfide per la logica classica e la fenomenologia. La parola «struttura» — legge o logica — ricorre pervasivamente nell’opera derridiana, e vi ricorre anche nella sua formulazione più ambiziosa di «struttura universale» o «generale», così come l’appello all’«evidenza» o all’«esperienza». Già in Della grammatologia, Derrida metteva in chiaro che «un pensiero della traccia — e, potremmo aggiungere, un pensiero dell’evento — non può rompere con una fenomenologia trascendentale più di quanto non possa ridurvisi».4 Nei passaggi che seguono vedremo all’opera la “fenomenologia” derridiana dell’inapparente, dell’impresentabile, e il suo concetto di “quasi trascendentale”. La posta in gioco, vale la pena richiamarlo prima di iniziare, è interrogare l’esperienza, pensare ciò che accade. Che cosa accade? Chi o che cosa arriva? A quali condizioni?

2. L’evento

L’evento è l’impossibile. «È persino questa, irrecusabile, la forma paradossale dell’evento: se un evento è possibile, se si inscrive in condizioni di possibilità, se non fa che esplicitare, svelare, rivelare, compiere ciò che era già possibile, allora non è più un evento. Affinché un evento abbia luogo, affinché sia possibile, è necessario che sia, in quanto evento, in quanto invenzione, la venuta dell’impossibile. Ecco una povera evidenza, un’evidenza che non è nientemeno che evidente. È questa evidenza che non avrà mai cessato di guidarci tra il possibile e l’impossibile. Ed è essa che ci avrà così frequentemente spinto a parlare di condizioni di impossibilità».5 In una logica classica, si direbbe: se un evento è accaduto, doveva essere possibile, poiché può accadere solo il possibile. È esattamente questo che Derrida mette in questione, analizzando la pura forma dell’evento. Se accade solo il possibile, non si può parlare di evento. Infatti, quando non vi è sorpresa, imprevedibilità, inanticipabilità, là dove cioè accade solo ciò che era possibile e non fa che attuarsi quanto era previsto, predetto, atteso, come uno sviluppo di antecedenti, non vi è alcun «evento». Perché vi sia evento, bisogna che accada l’impossibile, occorre cioè la venuta di un oltre il possibile, di un più che possibile, dell’impossibile. Il semplice compimento teleologico, il puro passaggio all’atto di una potenza, la realizzazione di condizioni di possibilità analizzabili non meritano il nome di evento, sono anzi in un certo senso il contrario dell’evento. È legittimo attribuire il nome di evento solo a ciò che sorprende ed eccede ogni previsione, ogni attesa, non si lascia ridurre a condizioni di possibilità: imprevisto, imprevedibile, inanticipabile, indeducibile, senza precedenti, in una parola “impossibile”. L’evento è la venuta dell’impossibile. Quando l’impossibile si fa possibile, l’evento ha luogo. Dunque, bisogna pensare l’impossibilità (l’interruzione del regime della possibilità, dell’anticipazione, dell’economia ecc.) come la possibilità (dell’evento) o, viceversa, la possibilità come impossibilità. Se parliamo di evento, la condizione di possibilità — il perno di una filosofia trascendentale — deve essere pensata come condizione di impossibilità.

A che cosa si applica questa logica paradossale dell’evento, dell’impossibile? Che cosa può essere insignito del titolo di evento? Che cosa è evento e che cosa non lo è?

Impegnato con temi che ha voluto indicare sotto il titolo di «questioni di responsabilità», sviluppati in seminari che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni della sua attività d’insegnamento, Derrida ha messo senza posa alla prova questa legge apparentemente contraddittoria e doppiamente obbligatoria, come più volte egli l’ha definita, questo double bind, che costringe a pensare il possibile come impossibile. Interrogando la destinazione, la testimonianza, l’invenzione, il dono, il perdono, l’ospitalità, l’amicizia, la democrazia eccetera, Derrida ha mostrato all’opera la stessa legge: ognuno di questi concetti, ognuna di queste esperienze implica la possibilità come impossibilità, è possibile solo come impossibile. A quali condizioni può esservi dono, perdono, ospitalità, amicizia, democrazia? A tale domanda, che riguarda tutti i nodi etico-giuridico-politici, egli risponde con la forma spoglia e implacabile di una medesima aporia: tutto ciò, se ce n’è, non è possibile che come impossibile. I temi etico-giuridico-politici affrontati nelle ultime due decadi si annunciano come altrettante figure dell’impossibile, le loro condizioni di possibilità si rivelano come condizioni di impossibilità.

3. L’esperienza dell’evento

Prendiamo l’esempio del dono. Spesso Derrida vi ricorre quando intende chiarire le cose.6 In quanto il dono è altro dallo scambio, è l’aneconomico per eccellenza — e non si capirebbe, in caso contrario, che cosa dovrebbe significare un dono — , esso si annuncia come l’impossibile. L’aneconomico, infatti, può aver luogo solo dove non si aprano il debito e la restituzione. Ma a tale fine, occorre che il dono non si faccia fenomeno, non appaia, non si presenti e non venga percepito come tale né dal donatario né dal donatore. Ecco una prima attestazione dell’impossibile del dono. Il suo semplice apparire, infatti, darebbe luogo, tanto da lato del donatore quanto da quello del donatario, al suo riconoscimento, che è già una forma minimale di risarcimento, prima ancora di un esplicito ringraziamento, e introdurrebbe immediatamente la logica dello scambio. Il riconoscimento del dono annullerebbe il dono. Occorre allora che in un certo modo il donatario non sappia del dono, perché, appena sa, si trova già nel cerchio del ringraziamento e della gratitudine, e ciò annulla il dono. Allo stesso modo, occorre che il donatore non sappia di donare. Se sa che dona, se dice: «Ecco, ho donato», se si presenta come donatore, egli già si congratula con se stesso, si gratifica per il dono. E con ciò siamo di nuovo nel cerchio economico dello scambio. Il semplice accorgersi del dono annulla il dono. Perché vi sia dono — dono puro, incondizionato — occorre allora che esso non appaia e non sia percepito come tale, che non si significhi e non si presenti in quanto dono, né all’uno né all’altro. Il farsi fenomeno del dono darebbe fatalmente luogo a quel sapere di donare che innescherebbe la restituzione. Il dono deve pertanto eccedere ad un tempo la fenomenalità e la soggettività di un soggetto che sa, che può o che vuole donare. Allo stesso tempo, domandiamoci: se qualcuno donasse senza saperlo e senza volerlo, si tratterebbe ancora di un dono? Non vi sarebbe, in realtà, alcun dono: per essere tale, il dono richiede una libertà e una volontà di donare, una intenzione e un sapere. Perciò, come Derrida scrive in Donare il tempo, perché vi sia dono «ci vuole del caso, dell’occasionalità, dell’involontario, cioè dell’incoscienza e del disordine, e ci vuole della libertà intenzionale, e un accordo — miracoloso, gratuito — di queste due condizioni, l’una con l’altra».7 Il dono, se ce n’è, è possibile solo come l’accordo di queste due istanze contraddittorie e ugualmente inderogabili. E per Derrida il «“se ce n’è” non dice che “non ce n’è”, ma che non c’è niente che possa dar luogo a una prova, a un sapere, a una determinazione constativa o teorica, a un giudizio, soprattutto non a un giudizio determinante».8

Si delineano dunque le condizioni di (im) possibilità del dono: se si tratta di dono, bisogna che esso abbia luogo senza apparire, senza farsi fenomeno, che si annunci senza presentarsi, che sia cosciente e incosciente, intenzionale e involontario. Nello stesso tempo. Entrambe le cose simultaneamente. È possibile? È impossibile, è l’impossibile stesso. Ma il dono, se ce n’è, richiede la sopportazione di questa aporia, la venuta di questo impossibile. «Donare, di conseguenza, è fare l’impossibile».9 Quando l’impossibile si fa possibile, l’evento (di dono, in questo caso) ha luogo. Beninteso, che il dono sia un evento, che sia una figura dell’impossibile, non significa che esso sia utopico. «L’impossibile di cui parlo — precisa Derrida — non è l’utopico, esso dà al contrario il suo movimento stesso al desiderio, all’azione e alla decisione, è la figura stessa del reale»10 (torneremo più avanti su quest’ultimo accenno). E tuttavia il dono non esiste come tale, se con esistenza diciamo l’essere presente lì davanti a noi e il sottomettersi alla nostra intuizione. Il dono non è una «cosa», non si offre come un «presente», come un che di appropriabile, non sarà mai presente “in carne e ossa” e non darà mai luogo a un riempimento intuitivo (nel senso fenomenologico husserliano di queste espressioni). Se il dono si presentasse come tale scomparirebbe come tale. E questo non vuol dire affatto concludere per l’inesistenza assoluta del dono. In un’altra sede, Derrida lo ribadisce: «Non ho mai detto — questo è un fraintendimento che in Francia capita ogni volta — che non c’è dono. No. Ho detto esattamente il contrario. Quali sono per noi le condizioni per dire che c’è un dono, se non possiamo determinarlo teoreticamente, fenomenologicamente? È attraverso l’esperienza dell’impossibilità, che la sua possibilità sia possibile come impossibile».11

Non solo il dono, ma anche il perdono, l’invenzione, l’ospitalità, la testimonianza, l’amicizia, la democrazia, come si è detto, sono eventi, figure dell’impossibile: essi sono, in modi diversi, «querce senza ghiande», cioè più che lo sviluppo previsto e anticipabile di antecedenti, più che la realizzazione di condizioni di possibilità, più che il potere, il sapere e il volere di un soggetto. Ma a questo punto dobbiamo domandarci: si può stabilire una lista chiusa, finita, dei temi etico-giuridico-politici, in forza della quale situare da un lato ciò che si annuncerebbe come evento e come esperienza dell’impossibile e dall’altro ciò che non si annuncerebbe tale? Oppure dobbiamo aprirci a riconoscere che l’evenemenzialità è all’opera in tutto il campo dell’esperienza, cioè in ogni gesto, ogni rapporto, ogni incontro, nella più banale esperienza quotidiana? Scrive Derrida: «Non c’è nulla di fortuito nel fatto che questo discorso sulle condizioni di possibilità […] possa estendersi a tutti i luoghi in cui la performatività è all’opera, anzi l’eventualità è all’opera (l’evento, l’invenzione, il dono, il perdono, l’ospitalità, l’amicizia, la promessa, l’esperienza della morte — possibilità dell’impossibile — , l’esperienza in generale ecc. Eccetera, poiché il contagio è senza limite; ultimamente esso trascina tutti i concetti e senza dubbio il concetto di concetto».12

4. L’arrivante assoluto

Consideriamo ora la questione dell’ospitalità, per cercarvi un senso dell’evento che, pur essendo implicato in quanto già messo in luce, non è emerso in primo piano: l’evento è l’altro, l’arrivante, con la sua verticalità, la sua sorpresa assoluta, la sua singolarità, la sua unicità. La venuta dell’impossibile è la venuta dell’altro. Derrida vi riflette in vari luoghi, in rapporto all’ospitalità e al messianico, per esempio. L’arrivante assoluto, insieme all’ospitalità, è un’altra figura dell’impossibile, dell’evento, e richiama l’idea di venuta messianica, in un senso astratto, depurato dal rimando alla storia delle religioni. Per pensare una ospitalità degna di questo nome, una ospitalità incondizionata, il solo senso che non la annulli in partenza, occorre pensare infatti a un arrivante assoluto, imprevisto, imprevedibile, che non posso veder venire, che non sono capace di accogliere, che mi “piomba addosso” dall’alto o alle spalle senza preavviso, sconvolge i miei programmi, disorienta l’esercizio della mia sovranità. «L’arrivante assoluto è qualcuno che non deve essere solamente un ospitato invitato, che sono pronto ad accogliere, che ho la capacità di accogliere. È qualcuno, la cui venuta inopinata, imprevedibile, la visitazione — e opporrò qui la visitazione all’invito — è una tale irruzione che io non sia neppure preparato ad accoglierlo».13 Affinché vi sia ospitalità, occorre anzi che non sia in grado di prevedere la sua venuta, che non possa vederlo venire e non sia preparato ad accoglierlo. Esso esige di nuovo che io faccia l’impossibile, che lo accolga al di là della mia capacità di accoglienza, che lo riceva là dove non lo posso ricevere. Vi è ospitalità «là dove la venuta dell’altro mi supera, pare più grande della mia casa: porterà il disordine nella mia casa, non posso prevedere se l’altro si comporterà bene in casa mia, nella mia città, nel mio Stato, nella mia nazione. L’arrivante farà quindi evento solo là dove non sono capace di accoglierlo, dove l’accolgo, precisamente, là dove non ne sono capace. L’arrivo dell’arrivante è l’altro assoluto che viene a strapiombo su di me. Insisto sulla verticalità della cosa, perché la sorpresa non può venire che dall’alto».14 L’arrivante mi cade addosso proprio in quanto non lo vedo venire.

La verticalità, senza dovere implicare qui alcun significato religioso, sta a indicare che la venuta dell’arrivante, dell’ospite, non può che apparirmi impossibile, imprevedibile, inanticipabile, prima che essa accada. Nella orizzontalità, invece, io anticipo la venuta dell’arrivante: «lo vedo venire, lo pre-vedo, lo pre-dico, mentre l’evento è ciò che può essere detto, ma mai predetto».15 Un evento predetto non è più un evento. Certo, se ci si riferisce alla questione politica dell’ospitalità, non si può non tener conto dell’orizzontalità e di tutto ciò che essa esige, e Derrida non intende nasconderlo. Egli è ben consapevole che l’altro, l’arrivante, «lo straniero è anche colui che arriva alla frontiera, colui che si vede venire». E, ritornando sull’idea di verticalità, aggiunge: «Per verticalità volevo dire che lo straniero, ciò che vi è di irriducibilmente arrivante nell’altro — che non è né semplicemente lavoratore, né cittadino, né facilmente identificabile — , è ciò che nell’altro non mi avverte e supera [déborde] precisamente l’orizzontalità dell’attesa. Ciò che volevo sottolineare, parlando di verticalità, è che l’altro non aspetta. Non aspetta che io possa riceverlo o che gli dia un permesso di soggiorno. Se vi è ospitalità incondizionata, deve essere aperta alla visitazione dell’altro che arriva in qualsiasi momento, senza che io lo sappia. È anche il messianico: il messia può arrivare, può venire in qualsiasi momento, dall’alto, là dove non lo vedo venire».16 Vi è qui un accenno che non bisogna perdere. Non si deve parlare solo dell’arrivante, ma di ciò che vi è di irriducibilmente arrivante nell’altro, di ciò che nell’altro non mi avverte e lacera il mio orizzonte di attesa. Vi è perciò qualcosa di arrivante in ogni altro, non solo nello straniero inteso come il migrante che visita più o meno inopinatamente il mio Paese, la mia casa. L’altro in quanto altro si sottrae al regime del possibile, del prevedibile, sorprende e sospende la mia precomprensione, sconvolge il mio orizzonte e si mantiene nella sua inappropriabilità. È ciò che Derrida esemplifica in un altro contesto parlando della nascita (che, dice, «assomiglia a quanto tento di descrivere»). «Nelle famiglie essa è preparata, condizionata, prenominata, presa in uno spazio simbolico che ammortizza l’arrivo [arrivance] . Resta il fatto che, malgrado queste anticipazioni e queste prenominazioni, l’alea non si lascia ridurre, il bambino che giunge resta imprevedibile, parla di se stesso come all’origine di un altro mondo, o a un’altra origine di questo mondo».17 La venuta dell’altro è sempre — ad ogni istante — la venuta dell’impossibile. L’altro è l’impossibile. L’impossibile è l’altro. È questo anche il modo con cui Derrida pensa la singolarità dell’ogni volta unico.

5. L’11 settembre. L’accadere

Interroghiamo ora, per rimanere sempre in tema di evento, la cosiddetta attualità. Domandiamoci: ma l’11 settembre merita il nome di evento? Può essere addirittura chiamato, come è stato fatto, un major event? Per rispondere può essere utile ricapitolare i tratti essenziali dell’evento con una citazione da Stati canaglia.

Im-prevedibile, un evento degno di questo nome non deve soltanto eccedere ogni idealismo teleologico, ogni astuzia della ragione teleologica che dissimuli a se stessa ciò che può capitarle che può colpire la sua ipseità in modo autoimmunitario — ed è la ragione stessa che ci ordina di dirlo, lungi dal lasciare questo pensiero dell’evento abbandonato a un qualche oscuro irrazionalismo. L’evento deve annunciarsi come im-possibile; deve quindi annunciarsi senza prevenire, annunciarsi senza annunciarsi, senza orizzonte d’attesa, senza telos, senza formazione, senza forma o preformazione teleologica. Di qui il suo carattere sempre mostruoso, impresentabile, e mostrabile come immostrabile. Dunque mai come tale. In questi casi si dice, si esclama, “Senza precedenti! ”, con un punto esclamativo.18

Se tale è la struttura paradossale dell’evento, allora, osserva Derrida, «nulla mi pare meno certo» del fatto che l’11 settembre sia stato un evento senza precedenti, imprevedibile e in tutto e per tutto singolare. «Non era impossibile prevedere… ». Il riferimento all’11 settembre consente di compiere ancora un passo sulla questione dell’evento. Al di là della considerazione specifica («Non era impossibile prevedere l’attacco, sul territorio americano, da parte di quelli che vengono chiamati dei “terroristi” […], contro un edificio o una istituzione sensibili, spettacolari, ed estremamente simbolici»),19 il fatto stesso di discutere della evenemenzialità dell’evento in relazione all’11 settembre mette in luce due aspetti importanti: a) in primo luogo, l’evento derridiano — a differenza dell’Ereignis heideggeriano — ha a che fare con l’ordine dell’avvenimento, del venire e della venuta, vale a dire con ciò che viene o con chi viene (è di qualcosa o qualcuno che viene, è di una venuta, di un arrivo, che si può dire o non dire: «Senza precedenti! », con un punto esclamativo); b) in secondo luogo, non ogni venire, non tutto ciò che arriva ha il carattere di evento (il che non significa misconoscere, nel caso dell’11 settembre, la gravità o la “realtà” dell’accaduto). Un evento implica l’inappropriabilità, l’imprevedibilità, la sorpresa assoluta, la singolarità pura, la novità non anticipabile. Senza ciò non si può parlare di evento.

Procediamo più lentamente. L’evento è ciò che arriva e che, arrivando, sorprende e sospende la comprensione. È ciò che resiste alla appropriazione, alla identificazione, al regime fenomenologico dell’intuizione e a quello ermeneutico della comprensione. «Sebbene l’esperienza di un evento, il modo con il quale ci colpisce, richieda un movimento di appropriazione (comprensione, riconoscimento, identificazione, descrizione, determinazione, interpretazione a partire da un orizzonte di anticipazione, sapere, denominazione ecc.), sebbene questo movimento di appropriazione sia irriducibile e inevitabile, non c’è evento degno di questo nome se non là dove questa appropriazione si estingue sul bordo di una frontiera».20 Si raccordano qui due istanze ugualmente inevitabili, con le rispettive necessità. Da una parte, l’esperienza di un evento richiede che vi sia appropriazione, riconoscimento, comprensione — il che implica a fortiori un orizzonte di senso — , altrimenti la venuta di ciò o di chi viene sarebbe del tutto irrilevante, non sarebbe avvertita e non direbbe nulla. D’altra parte, perché vi sia evento, perché si possa parlare di evento, è necessario che vi sia estinzione, superamento dell’appropriazione, perciò effrazione dell’orizzonte di anticipazione. È su questa resistenza alla appropriazione che dobbiamo concentrare l’attenzione: «Il decorso dell’evento, ovvero ciò che nel suo decorso si apre e al contempo resiste all’esperienza, consiste, mi sembra, in una certa inappropriabilità di ciò che accade».21 Ora, se a qualificare l’evento è «una certa inappropriabilità di ciò che accade», il discorso si allarga in un senso e in un punto preciso. È Derrida stesso a indicarcelo. Sempre nell’ambito della discussione sull’11 settembre, subito dopo avere — coerentemente — escluso che esso possa meritarsi il nome di evento, egli aggiunge infatti: «Comunque sia, accettiamo per ipotesi di procedere lentamente, pazientemente e di parlare di un “evento”. Dopo tutto, ogni volta che qualche cosa accade e anche nella più banale esperienza quotidiana, c’è una parte [il corsivo è di Derrida] di evento e di singolare imprevedibilità: ogni istante segna un evento, come anche tutto ciò che è “altro”, ogni nascita e ogni morte, anche le più dolci e naturali».22 Perciò, se da un lato la distinzione tra evento e non evento rimane e deve rimanere, dall’altro l’evento non indica solo una venuta (di ciò che viene o di chi viene) a differenza di un’altra, ma l’inappropriabile di e in ogni accadere. L’evento, come dice in un altro contesto, «è un altro nome per quanto, in ciò che accade, non si riesce a ridurre né a disconoscere»23 .

Dunque, si tratterebbe di spingersi a pensare che il carattere di evento, come venuta dell’impossibile, visitazione, arrivanza, imprevedibilità, inappropriabilità, sia da estendere a tutto ciò che accade: «L’impossibile di cui parlo — diceva Derrida — non è l’utopico, […] è la figura stessa del reale». L’evenemenzialità indica quanto, di e in ciò che accade, si sottrae al dominio fenomenologico dell’apparire, si rifiuta all’evidenza e al come tale, resta impresentabile, inappropriabile, a-venire, non nel senso del futuro, ma di ciò che non può mai darsi al e come presente. Non si tratta di portare l’evento dalla parte del reale — assecondando una direzione “ontologico-realistica” — , ma piuttosto di portare il reale dalla parte dell’evento, di pensare il reale come evento, perciò l’evenemenzialità nel e del reale, una evenemenzialità che non è nulla di “reale”, non è una cosa o un dato.

Con l’impossibile e l’evento, Derrida ci invita dunque a pensare la sorpresa assoluta, la novità non anticipabile, la singolarità pura, l’inappropriabilità, l’imprevedibilità, di e in ciò che accade. Si tratta allora di prendere in conto ciò che nell’accadere resta altro, eterogeneo, irriducibile al conferimento di senso (Husserl) e all’orizzonte ermeneutico (Heidegger), che non si lascia anticipare o risolvere; in altri termini, si tratta di pensare il venire di ciò che viene, il puro ac-cadere (di qualcosa o di qualcuno), nella sua eccedenza, nella sua evenemenzialità, nella sua irriconducibilità agli antecedenti, nella sua discontinuità e singolarità, senza sconfinare in una eterologia assoluta, in un empirismo che, col pretesto di essere radicale, finirebbe per convertirsi in una non-filosofia. La formalizzazione dello statuto dell’evento si propone allora come un discorso quasi trascendentale sulle condizioni di (im) possibilità dell’esperienza, un modo di decostruire la fenomenologia trascendentale senza mai rompere con essa.

6. Messianicità senza messianismo. La struttura del vivente in generale

Con i tre momenti del nostro percorso abbiamo messo capo a una generalizzazione della evenemenzialità che non lascia nulla fuori di sé. Ma, questo è l’ulteriore passaggio, la struttura paradossale dell’evento, che si estende a tutto il campo dell’esperienza e dell’accadere, richiama e implica la struttura universale della vita e del vivente. In Donare il tempo, Derrida afferma che l’evento deve essere compreso e vissuto «come il correlato intenzionale di una percezione assolutamente sorpresa dall’incontro di ciò che percepisce, al di là del suo orizzonte di anticipazione: e ciò pare già fenomenologicamente impossibile».24 Se da un lato, come abbiamo appena richiamato, vi è sempre orizzonte di attesa, tutto ciò che ci accade ci viene incontro in un orizzonte di senso precompreso, come insegnano la fenomenologia e l’ermeneutica — e tutto ciò mantiene la sua necessità — , dall’altro l’evento, un evento degno di questo nome, è il correlato di una attesa senza ciò che filosoficamente chiamiamo orizzonte d’attesa, di una attesa che non attende nulla di riconoscibile, una attesa senza aspettativa e senza prefigurazione, spoglia, astratta, desertica. «L’assenza di orizzonte condiziona l’avvenire stesso. Il sorgere dell’evento deve forare ogni orizzonte d’attesa».25 È qui, in questo punto preciso, che Derrida marca la sua distanza da una fenomenologia, una ontologia e una ermeneutica che si impegnano — non senza delle ragioni che mantengono una relativa pertinenza — , a descrivere l’orizzonte di attesa a partire dal quale qualcosa o qualcuno viene verso di noi e possiamo avere un rapporto con esso. «Io mi ostino a ricordare, contro la grande tradizione ontologica, fenomenologica del discorso sull’orizzonte, secondo la quale tutto si annuncia in un orizzonte (finito o infinito), che ciò che arriva non arriva che là dove non c’è orizzonte o anticipazione».26 Ora, l’assenza di orizzonte, una attesa senza orizzonte di attesa, quale condizione dell’evento, è ciò che Derrida chiama «messianico senza messianismo».27 Una espressione a cui viene affidato un compito decisivo. Essa infatti nomina «una struttura universale dell’esperienza»,28 che non si riduce a nessun messianismo religioso. A partire dai messianismi storici, Derrida intende infatti fare emergere o risalire a un messianico puro, una «messianicità» — una struttura, appunto — che non dipenda dai messianismi storici e da una figura determinata del messia.29 Si tratta, come egli scrive in Marx & Sons, di una «messianicità senza messianismo», di «una “apprensione” messianica tesa verso l’evento di (quel) che viene».30 E la parola «apprensione» è motivata dal fatto che questa tensione verso l’evento è una attesa senza attesa, senza orizzonte, composta di desiderio e angoscia, affermazione e paura, promessa e minaccia. La messianicità è «una struttura universale del rapporto all’evento, alla alterità reale di (quel) che viene, un pensiero dell’evento “prima” di ogni ontologia o indipendente da essa».31 È una esposizione all’evento, alla alterità più irriducibilmente eterogenea, come condizione quasi trascendentale di (im) possibilità dell’esistenza, poiché essa è ciò che rende al tempo stesso possibile e impossibile l’esistenza, che la apre al suo avvenire e la minaccia, in un double bind che non può essere neutralizzato. Ma ci interessa ora compiere il passo sopra annunciato. Derrida spinge la dimensione di questa attesa senza attesa, di questa esposizione all’evento imprevedibile dell’altro — che può essere tutto, può essere anche la morte — , verso una ulteriore e inedita universalizzazione, che accompagna in maniera sempre più esplicita l’ultima fase della sua riflessione. La messianicità senza messianismo non è solo una «struttura dell’esistenza»,32 non appartiene esclusivamente all’uomo o all’esserci: «Questa messianicità appartiene, direi, alla struttura del vivente in generale; non è nemmeno umana; c’è una messianicità per l’animale, che attende senza attendere ciò che può arrivare, che d’altronde può essere minacciante, che d’altronde può essere terribile, che può essere la morte».33 Possiamo misurare tutta l’estensione e l’ambizione del concetto derridiano di messianicità senza messianismo: essa nomina una «struttura universale e quasi trascendentale»34 che non solo attraversi i confini tra culture, ma estingua — in questo punto preciso — anche quelli tra viventi umani e viventi animali: «c’è della messianicità in ogni cultura e persino nell’animale. Dunque, questo fa muovere molte cose dal punto di vista politico, dal punto di vista del rapporto al vivente, del rapporto tra l’uomo e l’animale, che è una delle mie preoccupazioni permanenti».35 L’esposizione all’evento, alla venuta imprevedibile dall’altro, corrisponde pertanto a quella struttura del vivente in generale che accomuna tutti i viventi, umani e animali: vi è «una struttura di accoglienza, una struttura messianica generale»,36 che caratterizza il vivente, al di qua di ogni pacifica distinzione tra humanitas e animalitas. L’esposizione all’evento, l’apertura all’a-venire, è il quasi trascendentale della vita: la struttura del vivente è il messianico, cioè una protenzione esposta e aperta all’altro, sempre inaugurale, non preceduta da nulla, senza preparazione e senza prefigurazioni (senza orizzonte d’attesa determinato dalle ritenzioni), la cui chiusura sarebbe la fine stessa della vita. Il presente vivente, invece che essere il punto di partenza, che verrebbe in un secondo momento intaccato dall’alterità, diviene un effetto del rapporto all’altro, di una protenzione “originaria” (che non può più essere detta tale).

7. Auto-immunità

Per quanto detto, in Marx & Sons, discutendo della «debole forza messianica» di Benjamin, Derrida afferma: «Non sono sicuro di poter definire la messianicità di cui parlo una “forza” (è infatti una vulnerabilità o una sorta di impotenza assoluta) ».37 Senza questa vulnerabilità all’arrivo dell’altro, prima ancora che io sappia se ciò che sta per venire è buono o cattivo, più nulla (ci) accadrebbe, non vi sarebbe evento. Tutto quanto abbiamo detto del messianico lo si può dire anche nel lessico biologico e medico dell’immunità: se la struttura del vivente non fosse definita da una messianicità, ma da una immunità assoluta, non vi sarebbero più evento e avvenire. Se immaginassimo un vivente capace di calcolare in anticipo ogni filtrazione, che lasciasse passare solo l’omogeneo o l’omogeneizzabile, l’assimilabile, o al limite l’eterogeneo presunto favorevole, quel vivente «raggiungerebbe forse l’immortalità, ma dovrebbe per questo morire in anticipo, lasciarsi o farsi morire in anticipo, per paura di vedersi alterare da ciò che viene dall’esterno, dall’altro tout court».38 Sotto questo profilo, perché vi sia evento, perché la strada all’avvenire non sia sbarrata, è necessario che vi sia autoimmunità. La struttura autoimmunitaria è, di nuovo, il correlato dell’evento, un altro nome dell’esposizione all’altro.

A partire da Spettri di Marx, Derrida inizia a utilizzare pervasivamente la categoria di autoimmunità.39 La sua comparsa coincide con la centralità sempre più esplicitamente assunta da un pensiero del vivente all’interno del lavoro decostruttivo. «Perché parlare così di autoimmunità? », si chiede Derrida in Stati canaglia: «È per poter collocare al centro del mio discorso la questione della vita e del vivente, della vita e della morte, la vita la morte».40 Derrida propone in più testi formulazioni del concetto di autoimmunità: «Un processo autoimmunitario è, lo si sa, quello strano comportamento del vivente per il quale, in maniera quasi suicida, esso si impegna a distruggere “se stesso”, le proprie protezioni, ad immunizzarsi contro la “propria” immunità».41 L’autoimmunità è dunque intesa da un lato come auto-distruzione, coerentemente con il significato medico, dall’altro come distruzione delle proprie protezioni, come immunizzazione dall’immunità. In questo secondo senso la nozione di autoimmunità si sposta verso quella di immunodepressione o immunodeficienza. È a partire di qui che Derrida opera una generalizzazione o una estensione senza limiti del concetto.

Ora, se Derrida concentra la sua attenzione sullo schema autoimmunitario non è in forza di una nichilistica predilezione per il patologico o il mortifero; al contrario, è perché nel patologico, il processo di autoimmunizzazione, si rende visibile, da un’altra angolatura rispetto a quella del messianico, l’apertura all’evento e quindi la condizione di (im) possibilità del vivente. L’autoimmunità è una struttura. Parlando di Marx e di Stirner, della loro guerra senza fine contro tutto quello che altererebbe il corpo vivente, Derrida scrive: «Essi non vogliono sapere che l’io vivente è auto-immune. Per difendere la sua vita, per costituirsi in io vivente unico, per rapportarsi, come il medesimo, a se stesso, l’io-vivente è necessariamente portato ad accogliere l’altro all’interno (la différance del dispositivo tecnico, l’iterabilità, la non-unicità, la protesi, l’immagine di sintesi, di simulacro — e ciò comincia con il linguaggio, prima di lui — , altrettante figure della morte); deve dunque dirigere allo stesso tempo a suo favore e contro di sé le difese immunitarie apparentemente destinate al non-io, al nemico, all’opposto, all’avversario».42 L’io vivente è autoimmune, deve esserlo, è chiamato a esserlo, cioè deve abbassare le proprie difese, mantenersi in una certa vulnerabilità, difendersi dalla propria difesa dall’altro, esponendosi anche al rischio del peggio, della contaminazione e della morte. Per non morire, per essere vivo, per continuare a vivere, nell’unico modo possibile: come vivente morente (o sopra-vivente). Una perfetta immunità, allora, non sarebbe che una morte anticipata.

Secondo i due significati messi in luce — autodistruzione e immunizzaione dalla propria immunità — , la logica autoimmunitaria implica da un lato la distruzione di sé e dall’altro la distruzione delle proprie protezioni, l’abbassamento delle proprie difese: vale a dire una vulnerabilità che è ospitalità all’altro, apertura di sé all’altro — all’alterità dell’altro, a chi o a ciò che può venire, che può essere anche il peggio, può essere anche la morte, come abbiamo ripetuto — , senza cui non vi può essere vita. Un vivente non autoimmune, cioè non vulnerabile alla intrusione dell’altro, capace di una filtrazione assoluta, sarebbe assolutamente morto. La relazione all’alterità è ad un tempo ciò che rende possibile e impossibile la vita: perché la espone irriducibilmente alla morte. Ma bisogna sapere che dire di no a una possibilità, la morte, significa dire di no anche all’altra, la vita. Vi è vita solo dove vi è vulnerabilità, permeabilità, ossia apertura all’altro e alla morte; vi è ipseità se e finché vi è alterazione. Perciò Derrida parla di una implacabile legge della conservazione autodistruttrice della ipseità egologica: conservarsi è sempre alterarsi.43 Vivere, secondo il pensiero del vivente implicato dalla categoria di autoimmunità, significa aprirsi all’altro: l’altro in cui si annunciano al tempo stesso la possibilità del rischio mortale e la chance dell’avvenire. Ma non si può avere la chance senza la minaccia.

L’autoimmunità autodecostruttiva è ciò che mantiene il vivente aperto al suo avvenire: alla venuta di qualcosa d’altro, all’evento. L’autoimmunità nomina allora quella stessa attesa dell’altro — una attesa spoglia, desertica, senza orizzonte di attesa — che abbiamo riconosciuto sotto un diverso nome, quello di messianicità, quale struttura del vivente in generale. «Se un evento degno di questo nome deve arrivare, è necessario, al di là di qualsiasi controllo, che agisca su una passività. Esso deve colpire una vulnerabilità esposta, senza immunità assoluta, senza indennità, nella sua finitudine e in modo non orizzontale, laddove non è ancora o non è già più possibile affrontare, e fronteggiare, l’imprevedibilità dell’altro. Da questo punto di vista l’autoimmunità non è un male assoluto. Essa permette l’esposizione all’altro, a ciò che viene e a chi viene — e deve dunque restare incalcolabile. Senza autoimmunità, con l’immunità assoluta, più nulla capiterebbe. Non ci si aspetterebbe più, l’un l’altro, né ci si aspetterebbe più alcun evento».44

Senza autoimmunità, più nulla capiterebbe, nessun evento arriverebbe. Il legame tra autoimmunità, messianicità ed evento è ciò a cui ci siamo interessati in questo percorso. Intendevamo mostrare l’emergenza, nell’opera di Derrida, di un paradossale a priori universale della correlazione, in una sorta di «supposizione “quasi trascendentale”»45: la correlazione tra evento e autoimmunità, evento e messianico. Vi è evento solo per un vivente, cioè solo là dove vi è esposizione, vulnerabilità. E vi è vivente solo là dove vi è o vi può essere evento, sorpresa, imprevidibilità, singolarità. Il pensiero dell’evento si rivela un pensiero del vivente, che si colloca a notevole distanza tanto da un vitalismo trionfante e costruttivo quanto da un nichilismo mortifero. La vita del vivente è pensata cioè come «sopra-vivenza» o, per usare un’ultima volta la parola, essa stessa come evento.


  1. J. Derrida, Une certaine possibilité impossible de dire l’événement, in AAVV, Dire l’événement, est-ce possible?, avec G. Soussana ed A. Nouss, L’Harmattan, Paris 2001, p. 100. ↩︎

  2. J. Derrida, Positions, Minuit, Paris 1972, tr. it. di M. Chiappini e G. Sertoli, Posizioni, Bertani, Verona 1975, p. 134. ↩︎

  3. Cfr. J. Derrida, Voyous. Deux essais sur la raison, Galilée, Paris 2003; trad. it. di L. Odello, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Cortina, Milano 2003, p. 214. ↩︎

  4. J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; trad. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969-1998, p. 70. ↩︎

  5. J. Derrida, Papier Machine. Le ruban de machine à écrire et autres réponses, Galilée, Paris 2001, p. 307. ↩︎

  6. Cfr. J. Derrida, Une certaine possibilité impossible de dire l’événement, p. 92. ↩︎

  7. J. Derrida, Donner le temps. 1. La fausse monnaie, Galilée, Paris 1991; trad. it. di G. Berto, Donare il tempo. La moneta falsa, Cortina, Milano 1996, p. 124. ↩︎

  8. J. Derrida, Le Toucher, Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2000; tr. it. di A. Calzolari, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 358. ↩︎

  9. J. Derrida, Une certaine possibilité impossible de dire l’événement, p. 93. ↩︎

  10. J. Derrida, Papier Machine. Le ruban de machine à écrire et autres réponses, p. 361; corsivi nostri. ↩︎

  11. J. Derrida, On the Gift: A Discussion between Jacques Derrida and Jean-Luc Marion, in J.D. Caputo, M.J. Scanlon (editors), God, The Gift and Postmodernism, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 1999, p. 60. ↩︎

  12. J. Derrida, La scommessa, una prefazione, forse una trappola, Prefazione a S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, Jaca Book, Milano 1997, p. 13, n. 3. ↩︎

  13. J. Derrida, Une certaine possibilité impossible de dire l’événement, p. 96. ↩︎

  14. Ibid., p. 97. ↩︎

  15. Ibidem. ↩︎

  16. Ibid., p. 111. ↩︎

  17. J. Derrida, B. Stiegler, Echographies de la télévision, Galilée/INA, Paris 1996, tr. it. di L. Chiesa e G. Piana, Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, p. 13. ↩︎

  18. J. Derrida, Stati canaglia, p. 204. ↩︎

  19. J. Derrida, Auto-immunités, suicides réels et symboliques. Un dialogue avec Jacques Derrida, in J. Derrida, J. Habermas, Le “concept” du 11 septembre. Dialouges a New York (octobre-décembre 2001), avec G. Borradori, Galilée, Paris 2003; trad. it. di G. Bianco, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida, in G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con J. Habermas e J. Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 99. ↩︎

  20. Ibid., p. 98. ↩︎

  21. Ibidem. ↩︎

  22. Ibid., p. 99. ↩︎

  23. J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, pp. 11-12. ↩︎

  24. J. Derrida, Donare il tempo, p. 123. ↩︎

  25. J. Derrida, Foi et Savoir (1996), suivi de Le Siècle et le Pardon, Seuil, Paris 2000 (“Coll. Points”); trad. it. di A. Arbo, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in AAVV, La religione, Laterza, Roma-Bari 1995 (la traduzione non comprende Le Siècle et le Pardon), p. 9. ↩︎

  26. J. Derrida, Sur parole. Istantanés philosophiques, Edition de l’Aube, Paris 1999, tr. it. di A. Cariolato, Sulla parola. Istantanee filosofiche, p. 63 (traduzione leggermente modificata). ↩︎

  27. Sul concetto di messianico, cfr. S. Facioni, Messianico, in S. Facioni, S. Regazzoni, F. Vitale, Derridario. Dizionario della decostruzione, Il Melangolo, Genova 2012, pp. 152-162. ↩︎

  28. J. Derrida, Marx & Sons, PUF/Galilée, Paris 2002; trad. it. in Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, Milano 2008, p. 279. ↩︎

  29. Cfr. in proposito C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 88-98. ↩︎

  30. J. Derrida, Marx & Sons, p. 279. ↩︎

  31. Ibid., p. 280. ↩︎

  32. Ibid., p. 281. ↩︎

  33. J. Derrida, Dialogo con Jacques Derrida, in Annuario 1999-2000, a cura di M. Ronzoni e R. Terzi, CUEM, Milano 2002, p. 163. ↩︎

  34. J. Derrida, Marx & Sons, p. 286. ↩︎

  35. J. Derrida, Dialogo con Jacques Derrida, p. 164. ↩︎

  36. Ibid., pp. 163-4. ↩︎

  37. J. Derrida, Marx & Sons, p. 285. ↩︎

  38. J. Derrida, Ecografie della televisione, p. 20. ↩︎

  39. Cfr. in proposito S. Regazzoni, Derrida. Biopolitica e democrazia, Il Melangolo, Genova 2012, in particolare il cap. 6, «Logica generale dell’autoimmunizzazione», pp. 65-79. ↩︎

  40. J. Derrida, Stati canaglia, pp. 177-178. ↩︎

  41. J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici, p. 102. ↩︎

  42. J. Derrida, Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internationale, Galilée, Paris 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Cortina, Milano 1994, p. 178. ↩︎

  43. Cfr. J. Derrida, Stati canaglia, p. 88. ↩︎

  44. J. Derrida, Stati canaglia, cit., p. 216. ↩︎

  45. J. Derrida, Marx & Sons, p. 285. ↩︎