L’io e il soggetto nel Levinas di Altrimenti che essere

In un passo di Altrimenti che essere, nel paragrafo intitolato «La ricorrenza», Levinas scrive in questo modo:

Nel tradizionale insegnamento dell’idealismo soggetto e coscienza sono concetti equivalenti senza che sia sospettato il chi o l’uno non in relazione, ma assolutamente termine.1

Levinas, dunque, ci invita a interrogare questa equivalenza moderna di soggetto e coscienza. Questa equivalenza di una coscienza che si presenta come un soggetto e di un soggetto che si presenta come una coscienza. Occorre chiedersi se questa equivalenza non copra in vario modo la nozione di soggetto e la nozione di coscienza, se non renda incomprensibile l’uno e l’altra, proprio nel momento in cui li assimila l’uno all’altra. Come se in questa assimilazione, in questa idea potente del moderno, in cui il soggetto è completamente restituito dalla nozione di coscienza di sé, l’esperienza dell’alterità sia tradita e preclusa. Come se una singolare esperienza di alterità dell’altro sia perduta ed esclusa quando un soggetto si presenta come coscienza di sé, ma ancora più intensamente, come se questa singolare nozione di alterità debba esser ritrovata e avvertita proprio laddove un soggetto viene pensato come resistente o inassimilabile alla coscienza.

Levinas in questo passo e più ampiamente nello sviluppo di questo intenso paragrafo sta affermando che una speciale esperienza dell’alterità accade proprio laddove un soggetto non si autocomprende come coscienza di sé. Se il soggetto è concluso come coscienza l’esperienza dell’alterità viene nascosta sotto un velo.

Che cosa non sospetta, dunque, pur nella logica del sospetto in cui matura, l’idealismo moderno? Questo idealismo non sospetta un termine non in relazione. Scrive proprio così Levinas, consapevole dei tanti rischi teorici che questa affermazione comporta: termine non in relazione.

L’interprete dovrebbe soffermarsi con tutta la pazienza e la cura necessaria per dar conto o cercare di dare conto di questo termine non in relazione. Questo termine non in relazione che ci premetterebbe di non cadere nell’equivalenza di un soggetto-coscienza.

Naturalmente non si tratta del punto terminale di una relazione, del punto o momento in cui una relazione sembra compiersi, dove una relazione sembra essere l’abbraccio dei relati, il legame tra i relati, e neppure qualcosa di totalmente irriducibile alla relazione. Come se potessimo adottare lo stile e la retorica di una teologia negativa per assegnare questo termine totalmente all’irrelato. Qui il termine non è in relazione, ma è anche ciò per cui la relazione accade, l’irrelato per cui la relazione è una relazione. In altri termini, se comprendiamo adeguatamente una relazione, a incominciare dalla relazione tra noi e noi stessi, tra me e me stesso, il termine non in relazione appare decisivo. L’idealismo non sospetta che la stessa autoriflessione, la stessa riflessione di sé a sé, per la natura stessa della sua immanenza presuppone, potremmo dire su un piano di simultaneità, l’istanza di questo termine.

È bene notare subito che Levinas fa un po’ oscillare questo termine non in relazione tra un chi e l’uno. Lo dice rapidamente, forse troppo rapidamente, come capita all’intensità maestosa di questi paragrafi di Altrimenti che essere. Come se ci fosse un rischio di fraintendere questa non relazione se troppo in fretta decidessimo per un chi o per l’uno. Quest’uno al di là dell’essere che la filosofia ha nominato, lo sappiamo, diverse volte nel corso della sua storia. Quest’uno con cui a volte la filosofia ha stabilito una relazione irrelata tra essere e uno e uno ed essere. Levinas fa eco a questo uno platonico o plotiniano, ma l’unico modo di sottrarlo a una cattiva ontologia è quello di farlo oscillare tra un chi e un uno. Un chi sarebbe ancora troppo prossimo a una coscienza di sé, non riuscirebbe a pensare questo termine non in relazione, mentre un uno sarebbe ancora un riflesso dell’anomia dell’essere. Del resto, Levinas in quel breve passo tiene a precisare che questo termine non in relazione non è una coscienza di sé, ma non è neppure una sorta di incoscienza. Non si riduce alla coscienza di sé, ma per renderne conto non possiamo adottare la nozione di inconscio, di non cosciente, Non si tratta di ciò in cui la coscienza si nega, l’inconscio come negativo del conscio. Qui Levinas mostra tutta la sua diffidenza verso una nozione di Alterità scavata completamente o totalmente elaborata nel rango del non coscio. Gli è sembrato che questo regno opposto al coscio sia sempre assai meno radicale di quanto si creda e molto più aderente al percorso moderno del soggetto coscienza di quanto si ritenga. Non è dunque un momento in cui la coscienza di sé è spenta, non cosciente. Certo a rigore anche il termine non in relazione non è letteralmente cosciente di sé, ma qui il non cosciente non è il segreto della coscienza, il suo cuore oscuro, la sua notte.

Non si può dire abbia il carattere di un istante differenziale, che sia cioè come un battito di ciglia. Non cosciente in quanto già sempre differito, non in relazione in quanto indicibile «tra» della relazione. Ripetiamolo ancora, questo termine non in relazione non va confuso con quel punto cieco che la tradizione molte volte riconosce all’istante temporale: quando si dice che l’istante sarebbe l’impresente del tempo, il segno dell’impossibile che il tempo abbia presenza, quindi condizione impresente di ogni presenza temporale.

Tra coscienza e inconscio, tra presenza e impresenza, Levinas ritiene vi sia un soggetto irriducibile alla coscienza di sé, che tuttavia non si può nominare né con la logica di una metafisica della presenza né con la logica di una pura differenzialità. Ritroviamo qui in questo momento difficile e delicato, nel quadro di un equilibrio più maturo, le riflessioni giovanili sul tempo. Ritroviamo la critica alla modernità che spettralizza l’istante temporale. L’interprete attento di Levinas non deve mai trascurare che questa critica alla spettralità dell’istante è contemporanea alla critica della riduzione dialettica del morire, alla sua riduzione alla coppia dialettica di essere e nulla, così come alla incomprensione del nesso radicale tra il morire e l’avvenire.

Il termine non in relazione non è dunque lo spettro di un istante, il battito di ciglia di un contrattempo, un presente che sprofonda nell’autoaffezione di sé. Leggiamo questo passo in cui Levinas valorizza la potenza della visione poetica:

Io in se stesso come suono che risuonasse nella propria eco, modalità di ondeggiamento che non è di nuovo coscienza.2

Modalità di ondeggiamento che la coscienza di sé sta perdendo, che l’autocoscienza, la coscienza di coscienza, sta smarrendo. Modalità di ondeggiamento che fa ricorrenza. Scrive:

Termine irriducibile alla relazione e tuttavia in ricorrenza.3

Ricorrente proprio laddove la coscienza sembra essere nient’altro che il sé di sé, il sé riflesso in sé stesso. Autoriflesso nella riflessione di sé. Quindi nell’autoriflessione, dove la coscienza si autoriflette accade una ricorrenza che non è l’angolo interno, la piega interna, nientificante, della riflessione, ma un termine. Un termine che la coscienza non pone poiché il suo autoporsi, la posizione che sembra portare con sé, nell’autoposizione di sé, lo trova già là, come in un il y a, con un senso diverso e un’altra valenza rispetto all’il y a dei testi giovanili.

L’ondeggiamento di una scena tra un chi e un uno, né propriamente un chi né propriamente un uno, che una coscienza che sembra porsi da sé, che sembra autoporsi, nell’atto in cui si autoriflette, trova già sempre là, in un il y a che essa non ha posto, ricorrente. Al di fuori del suo essere sé. Non il fuori dell’istante nientificante in cui si ripiega su di sé, non il fuori di un istante cieco, che non vede se stesso perché troppo carico di sé, ma un fuori ricorrente. Un fuori ricorrente senza il quale, in realtà, al di là del bagliore in cui vive la coscienza di sé, essa può flettersi. Come se proprio in questa ricorrenza si trovasse una sorta di eteroaffezione immanente per cui la coscienza sente il suo sentire stesso. Lo sente proprio perché il suo sentire non si riduce al semplice sentire di sentire, o meglio non si riduce al sentire qualcosa a partire dal sentire di sentire sé. Allora ciò che l’idealismo moderno non sospetta in questa ricorrenza, in questo termine non in relazione, è una precedenza di una eteroaffezione sull’autoaffezione del sé.

Una eteroaffezione per cui non si potrebbe più dire che il sentirsi della coscienza sia un sentire di sentire. Anzi questo sentirsi si sente, si autoavverte per una eteroaffezione che fa come da misura fuori misura, del relazionarsi a sé della coscienza. Quindi quando la coscienza sembra concludersi nel circolo di sé stessa, quando l’autocoscienza sembra rendere assoluta la coscienza di sé, una ricorrenza eteroaffettiva fa come da testimone immanente. Un testimone immanente che non defluisce nel flusso di coscienza anzi fa da testimone di questo defluire consentendo il suo stesso autoavvertirsi.

È in Levinas, dovremmo dire prima di Marion, che troviamo questa dissociazione tra un soggetto coscienza e l’istanza testimoniale né cosciente né incosciente. Non c’è circolo dialettico o ermeneutico che non debba ammettere, in ultima istanza, in una istanza intrascendibile, una scena testimoniale. Dal punto di vista di Levinas, ad esempio, l’Io fichtiano della Prima dottrina della scienza, quell’io che esiste nell’atto in cui si pone, nell’autoporsi nell’atto, oscura, getta un velo sul fatto che quel porsi da sé è già sempre atteso da una non posizione, una scena testimonale è già sempre là, eteroaffettiva rispetto al sentirsi di quel porre se stesso.

La testimonialità, inoltre, dice bene l’oscillazione tra un chi e un uno di cui abbiamo parlato.

Ripetiamo ancora un punto centrale: l’eteroaffezione in cui un’autoaffezione trova la regola stessa del suo autodifferire ha una passività di altra natura rispetto alla passività a cui ricorre una certa fenomenologia. Questo genere di passività è orientato verso una fondalità di coscienza, una sorta di precoscienza, di temporalità fluente precosciente, resistente al cosciente che assume sempre prima o poi la qualità di una passività temporale, meglio ancora di un istante passante, trapassante. Scrive Levinas:

La ricorrenza è più passata di ogni passato memorabile, di ogni passato convertibile in presente. Creatura, ma orfana di nascita o atea che senza dubbio ignora il suo creatore, poiché se lo conoscesse recupererebbe ancora il proprio inizio.4

Non si può dire che questo passato non memorabile abbia la struttura dell’es gibt. Non si può dire cioè che possa avere l’evidenza di un darsi che rinvia al suo invio. Non si può dire sia la traccia di un dono. Non è come un pensiero che auto-osservando sé stesso può come avvertire il momento in cui arriva a sé. Non si coltiva, potremmo dire così, nella logica dell’evento. Non è un evento che fa traccia di un assentarsi o di un ritiro. Tutto questo: evento, ritiro, traccia, rinvio, deve già sempre presupporlo, ma non come un posto a fondo, un fondo presupposto, ma come una sorta di il y a già sempre là che solo successivamente, per retroazione può pensarsi come chiamato convocato. Non si dimentichi mai un punto essenziale: la convocazione non è stata sentita, mai è stata davvero avvertita se non per una sorta di induzione postuma. In questo senso il suo già là, il termine non in relazione non è trascendibile, non trascende verso la sua provenienza. Levinas, come vediamo, utilizza una affermazione potentissima: non posta da sé, quindi creatura e tuttavia atea, creatura che non può spingere il proprio sguardo verso il bordo di un inizio o di un invio. Nessuna traccia del creatore.

La passività non scava verso il fondo temporale, ma verso la sfera aperta o pubblica dell’esteriorità o di un fuori per il quale ogni interiorità trova il contatto per il suo ripiego. Come se la coscienza di sé fosse tale per un fuori che tuttavia è più intimo di quanto non sia l’istante temporale, o almeno l’istante inteso come pura differenzialità. La coscienza ha in sé l’alterità di un fuori per il quale può persino apparire assoluta. Un fuori di sé in sé che fa della coscienza stessa una apertura intenzionale. Una intenzionalità verso una radicale esteriorità.

C’è un’altra figura iperbolica che Levinas utilizza per indicare questo termine non in relazione. Levinas scrive di una certa impossibilità di indietreggiare. Mentre la coscienza di sé è sempre nella possibilità di procedere in un certo ritiro, di arretrare di un passo, di passare, e di volgersi verso questo trapasso, in una dialettica di presente-passato, in cui l’avvenire è già pre-atteso, il termine non in relazione non passa verso il passo indietro. Come una scena dell’il y a in cui non si può retrocedere, fuori tempo proprio in questo senso dell’impossibilità di arretrare, dell’impossibilità di fare un passo indietro, come al muro. Ora la figura di questa strana evidenza che non ha nulla a che fare con un presentarsi della coscienza di sé in una presenza a sé. Levinas fa convergere due figure teoriche importanti: l’ipostasi e la l’esposizione. L’esposizione spiega l’ipostasi e l’ipostasi spiega l’esposizione. Così, dopo Levinas, noi possiamo dire è esposto quell’evento, ma meglio dire quel quasi evento, che non rinvia ad altro che alla sua manifestazione. Questa esposizione a nient’altro che alla sua manifestazione si dice come ipostasi.

Però stiamo attenti: Levinas denomina questa ipostasi di un termine non in relazione come identità. Leggiamo le sue parole:

È grazie a questa ipostasi che emerge sostanzialmente la persona come identità ingiustificabile in se stessa e in questo senso empirica o contingente.5

Si tratta di una affermazione audace e controintuitiva. L’ipostasi a cui una coscienza risponde nella sua piega riflessiva è una identità. Una identità sottratta tuttavia alla autoidentità. Sottratta a un principio d’ordine di una immensa tradizione che stabilisce che l’identico sia nella forma A = A. Dove l’identità di A non si potrebbe dire che nella forma di una uguaglianza, di una uguaglianza che la relazione mostrerebbe. Levinas esclude che l’identità si possa dire nella forma di questa uguaglianza formale, lo esclude -- stiamo attenti -- per due motivi tra loro legati. Lo esclude perché quella formula ha sempre nascosto il fatto che quella relazione tra A e A in fondo accade in una ipostasi che fa misura immanente del relazionarsi, lo esclude inoltre poiché la formula di quella uguaglianza richiama sempre una dialettica della differenza. Cioè prima o poi l’identico diventa identico solo in quanto è differente. A è A in quanto non è B e il non essere B di A concorre all’essere di A. Levinas cerca di sottrarre l’identità a questa tecnologia dialettica e alle sue molte varianti. Identità come persona ingiustificabile. O persona come identità da sottrarre all’autoidentità. L’autoidentità è sempre in ritardo su questa identità personale. Ipostasi di una identità esposta fuori tempo rispetto al tempo del relazionarsi a sé.

Ora si tratta di comprendere meglio, per quanto è possibile, il grado di evidenza di questa identità che non si autoidentifica, che precede l’autoidentità, cioè precede l’ego cogito. Se leggiamo con attenzione questi passi così intensi e rarefatti di Altrimenti che essere diventa in qualche modo inevitabile attribuire a questa identità l’evidenza in una co-evidenza. Una co-evidenza di altra natura rispetto alla coscienza autoaffettiva. Leggiamo questo passaggio:

“L’ipseità non è un punto astratto, centro di rotazione, identificabile a partire dalla traiettoria tracciata da questo movimento della coscienza, ma è un punto fin d’ora identificato da fuori.6

Come pensare nel modo migliore questo identificato da fuori? Se osserviamo attentamente abbiamo un doppio fuori. L'ipseità, altro modo di dire l’ipostasi, è un fuori rispetto alla coscienza di sé; la coscienza, dicevamo, si avverte in realtà nel suo fuori, questo fuori a sua volta si identifica da un fuori. La coevidenza è questo fuori in cui l'ipseità può accadere come ipostasi, anticipando sempre la coscienza di sé. Chiediamoci: questo essere identificato da fuori si può tradurre nel senso di un essere visto da fuori, come se l’ipostasi dell’ipseità si avvertisse per il sentirsi visto da un altro? In altri termini: identificato da fuori significa essere visto da un altro, trovarsi sotto lo sguardo di un altro? Il fuori di cui parla Levinas è l’altro che mi vede nello sguardo, come se lo sguardo, o meglio l’occhio in cui vede, fosse l’esposizione stessa del suo fuori? In altri termini, l’altro del volto si riassume nello sguardo che mi vede? Vorrebbe dire che il volto avrebbe la sua essenzialità nello sguardo. Vorrebbe dire che lo sguardo sarebbe l’orizzonte del volto. Non si dice forse da sempre che la profondità del volto sia proprio l’intensità dello sguardo? Una profondità come punto di fuga, quel punto di fuga che da sempre congiunge insieme un orizzonte e la sua animazione, la strana divinità di questa animazione, una animazione per la quale un orizzonte tende a uno sguardo da cui si è visti e uno sguardo tende al punto di fuga di un orizzonte. Levinas ha ripetuto in molti modi che il volto dell’altro non si presenta nell’apertura di un orizzonte e ha detto anche che non ha l’animazione di un orizzonte, non è un punto di fuga. L’occhio di questo sguardo è troppo prossimo a un battito di ciglia, troppo vicino a battito di un istante, quindi all’istante temporale, per connotare il carattere di un volto esposto, esposto nell’esteriorità del fuori. Quando lo sguardo del volto diventa il battito di ciglia di un occhio, l’esperienza che sopravanza è quella dell’essere visto. Vedo l’altro nel cono dell’essere visto, nel pathos d’istante dell’essere visto da lui. Quell’essere visto media nell’autoaffezione l’esteriorità del volto. Vela nella pura autoaffezione del tempo istante l’esposizione del volto. Vela l’esteriorità di quel fuori. Sopprime in un certo senso la verità empirica di quel fuori, quella verità empirica che corrisponde all’identità del soggetto come il fuori della coscienza di sé.

Forse si può dire in questo modo per distinguere radicalmente un volto che si riassume nell’animazione di un occhio e un volto esposto nello sguardo della sua superficie empirica: mentre l’occhio nel suo battito d’istante resta in fondo temibile, mancante alla presa e proprio per questo pronto a mobilitare una totalizzazione temporale, lo sguardo del volto non è tale se non è nel limite di una carezza. L’occhio che mi vede non sta nel limite di una carezza come lo sguardo del volto. Come sappiamo la carezza non va verso l’anima del volto, ma verso la pura esteriorità esposta del corpo, del volto come corpo. Occorre rileggere in questa linea di coerenza e di sviluppo le belle pagine di Totalità e infinito sulla tenerezza.

Ricordiamo questo passo di Totalità e Infinito:

Nel volto si presenta l’ente per eccellenza. E tutto il corpo può come il volto esprimere, una mano o la curvatura di una spalla.7

Tutto il corpo può dunque esprimere. La sua sessa posizione nel mondo, lo sguardo che si porta in questa posizione può esprimere l’esteriorità del fuori. Del fuori con cui l’identità di un soggetto può trovare il contatto nel limite empirico di una superficie esposta. Occorre che l’occhio del volto si possa accarezzare come un corpo affinché sia raggiunto il suo sguardo. La stessa asimmetria tante volte evocata da Levinas non deve essere fraintesa, l’asimmetria non riguarda il fatto che l’occhio come un orizzonte risulti inafferrabile e lontano nel suo segreto inaccessibile. Non l’asimmetria riguarda il fatto che il fuori, l’esteriorità dell’altro avvertito nel limite di una carezza, resta una eteroaffezione rispetto all’autoaffezione. Si può dire che queste pagine di Levinas forse hanno segnato la ricerca di Nancy. Il corpo esposto di Nancy deve qualcosa a questa esteriorità esposta di Levinas. Levinas però è chiarissimo sulla natura di quel limite del contatto. Sul limite in cui un contatto con l’altro non svanisca ancora una volta nella cattiva metafisica di un istante intoccabile. Il limite del contatto di Levinas non si divide permanente in due bordi. Levinas non direbbe, come capita di dire qualche volta a Nancy, che il limite si divide sempre in due bordi, che si tocca sempre nell’intoccabile, che l’intoccabile segna la condizione di possibilità del toccabile. Che vi sia qui in questo limite del toccare il corpo dell’altro il battito di una sistole e diastole? La coerenza di Levinas è costante e assoluta su questo. Il limite del contatto non ha lo spettro intoccabile dell’istante. Piuttosto è la datità empirica resistente all’assimilazione che istituisce la misura fuori misura della stessa autoaffezione. Il cuore della cometa, per utilizzare la bella immagine del tempo di Husserl, ha in questa esteriorità inassimilabile la sua potenza in cui la stessa durata temporale si costituisce. Ancora una volta però non la potenza di un istante, ma l’esteriorità del volto dell’altro. Come se fosse il motore immobile della stessa durata temporale, motore immobile della stessa coscienza di sé.

Occorre chiedersi se questa implicazione radicale tra alterità ed esteriorità non abbia la sua prima conseguenza nel rapporto soggetto-oggetto. Come se la natura stessa dell’intenzionalità, almeno nella sua intuizione originaria nelle Ricerche logiche, sia sempre compromessa e perduta se la cosalità della cosa, o la sua datità di cosa, si consuma completamente nel suo essere objectum.

L’intenzionalità non è pensata fino all’estremo della sua intuizione se la cosalità di una cosa resta nella forma di un objectum. In Totalità e Infinito nel paragrafo «Linguaggio e oggettività» Levinas scrive in questo modo:

Utilizzare un segno non si limita quindi al fatto di sostituire alla relazione diretta con la cosa, una relazione indiretta, ma permette di rendere le cose offribili, di staccarle dal mio uso, di alienarle, di renderle esterne.8

Insisterei molto su questa esteriorità come contrassegno dell’essere cosa. Non si riesce a esprimere questa cosalità senza questa esteriorità, e non si riesce a mostrare questa esteriorità se non si abbandona il regime del semplice uso o del semplice consumo. La cosa è ciò che accade nella relazione ad altro, quando l’altro espone l’esteriorità nell’animazione di un volto nello sguardo. Levinas in un passo forse troppo breve lascia intendere che la cosa non è tale se non è altra dalla sfera del semplicemente soggettivo, ma questa alterità co-accade nella stessa relazione con l’altro. Come se fosse espressione dell’alterità stessa dell’un l’altro. Levinas dice anche qualcosa che andrebbe valorizzato maggiormente tra i suoi interpreti: nel designare una cosa, la si designa ad altri. Il primo segno, o il segno originario, non ha a che fare con la semplice designazione di una presenza e di una assenza, ma contrassegna la cosa nella sua esteriorità, concorre per così dire all’alienazione della proprietà della cosa come semplice objectum. Il primo segno, il segno elementare concorre al darsi di qualcosa nell’esteriorità altra dall’un l’altro. Scrive Levinas:

L’oggettività dipende dal linguaggio che permette di mettere in causa il possesso.9

L’oggettività, dunque, dipende dal fatto che l’objectum non sia la relazione originaria e questo accade nel linguaggio, il cui segno elementare concorre a liberare il proprio, la semplice proprietà soggettiva, in una improprietà. L’oggettivo è un altro nome per la datità impropria della cosa altra dall’uno e dall’altro. Si tratta di passaggi importanti, che mostrano come in Levinas vi sia una riforma radicale dell’intenzionalità a partire da una speciale correlazione tra l’io e l’altro, in cui il terzo della cosa nella sua improprietà non è affatto un momento derivato e secondario. Il segno con cui ci si rivolge ad altri è il medesimo segno con il quale si contrassegna la cosa come «offribile», partecipabile nella sua improprietà, universale e oggettiva proprio perché disinteressata dall’economia dell’uso e dello scambio. Levinas qui è sul punto di pensare la logica di una relazione in cui l’evidenza dell'altro non è disgiungibile dalla coevidenza di un terzo, e il terzo prima ancora di essere semplicemente l’altro uomo o l’uomo come altro è quasi indecidibile tra l’altro e il reale. Come se un certo realismo debba in Levinas essere pensato come il contemporaneo della relazione stessa di alterità. Come se una relazione con l’altro non è davvero tale se il reale di una cosa come altra dall’uno l’altro non coaccade nel segno elementare del linguaggio. Questa oscillazione e persino convertibilità tra persona e cosa la esprime proprio la carezza. Scrive Levinas, ricordiamolo:

La carezza non si dirige né su una persona né su una cosa.10

Il tema del reale è presente nella critica all’atto oggettivante di Husserl. In particolare, nella insistenza che l’oggetto della coscienza, dopo una distinzione dalla coscienza stessa, viene come divorato dal senso, divorato dalla Sinngebung, mutandosi in un prodotto della attività di coscienza. Per Levinas -- non dimentichiamolo -- l’affermazione più feconda della fenomenologia, la sua intuizione radicale sta nella separazione dell’oggetto della rappresentazione dalla rappresentazione stessa. La critica è all’infedeltà a questa intuizione, maggiormente presente, egli ritiene, nelle Ricerche logiche che nelle opere successive.

Scrive in questo modo Levinas:

Nella chiarezza, un oggetto, in un primo momento esterno, si dà cioè si consegna a quello che lo incontra come se fosse interamente determinato da esso.11

Qui il riferimento è a una certa chiarezza del senso fenomenologico. La chiarezza con cui una cosa vien avvolta nell’animazione di un certo noema. Il darsi di qualcosa viene come deviato, mediato, velato dal senso con cui lo si anima, quindi appare come se fosse interamente determinato o prodotto da esso. Notiamo il passaggio rapidissimo «in un primo momento esterno». Notiamo il rilievo su questa esteriorità. In quel primo momento l’esteriorità della cosa è contemporanea all’esteriorità del volto dell’altro.

La fenomenologia, dopo avere dichiarato l’esteriorità dell’oggetto, tutto porta alla sua progressiva interiorizzazione: malgrado la sua indipendenza sia sottomessa al pensiero. La noematicità investe l’esteriorità, la assimila e la consuma nell’interiorità del senso. Tra i suoi esiti non c’è solo -- ripetiamolo -- la radiazione dell’esteriorità, l’imposizione della macchina idealistica, la trascendentalità come temporalizzazione sensibile, ma l’idea dalle molte conseguenze che il vissuto del senso sia decisivo per l’esperienza, e in questo vissuto l’altro non può che diventare un punto di fuga irraggiungibile. Se la cosa resta completamente avvolta nel noema intenzionale, l’altro resta il segreto o il mistero che si nasconde nel cuore dell’animazione intenzionale. L’altro può essere colto solo per analogia. In Levinas noi abbiamo le premesse per una critica radicale e con molte conseguenze per la natura dei concetti speculativi della analogia e del suo predominio in tanti ambiti della stessa fenomenologia. Così liberare la cosalità dell’oggettivazione e dal noema che ne consuma l’esteriorità significa anche al contempo trovarsi in una speciale relazione con l’alterità dell’altro. Se l’altro può sempre trapassare il mio orizzonte intenzionale è perché si trova rispetto all’esteriorità del reale nella medesima posizione in cui si trova il soggetto dell’identità distinto e irriducibile alla coscienza di sé. Se Levinas può insistere in molte occasioni sulla surrogabilità, sul prendere il posto, sul trovarsi là dove anche un altro può prendere il posto, è per questa rinomanza di un reale irriducibile alla oggettivazione, irriducibile alla animazione noematica. Si può dire che la nudità del volto sia contemporaneo alla nudità del reale, la sua esteriorità contemporanea alla esteriorità della cosa stessa.

Non si comprendono bene questi straordinari passaggi di Altrimenti che essere se non si valorizza questa esteriorità del reale, un certo realismo di Levinas. Naturalmente è inutile insistere su un realismo che non si iscrive nella tradizionale disputa tra idealismo e realismo. La posizione di Levinas è al di là di questa disputa e introduce questioni dirompenti che attendono forse ancora sviluppi radicali. Questo reale che la carezza tocca nell’indecidibilità tra un chi e un che cosa introduce meglio di altri approcci la questione del terzo e della sua imminenza nella relazione ad altro. Impedisce di cadere in un cattivo umanismo. Aiuta anche a comprendere la critica radicale che Levinas ci lascia in eredità all’idea di ragione, che la tradizione dominante della modernità europea ha elaborato.


  1. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, Jaca Book, Milano 1983, p. 128. ↩︎

  2. Altrimenti che essere, p. 128. ↩︎

  3. Altrimenti che essere, p. 128. ↩︎

  4. Altrimenti che essere, p. 128. ↩︎

  5. Altrimenti che essere, p. 168. ↩︎

  6. Altrimenti che essere, p. 133. ↩︎

  7. Emmanuel Levinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1980, p. 269. ↩︎

  8. Totalità e Infinito, p. 214. ↩︎

  9. Totalità e Infinito, p. 214. ↩︎

  10. Totalità e Infinito, p. 266. ↩︎

  11. Totalità e Infinito, p. 124. ↩︎