Il circolo del divenire

Introduzione

In Severino la storia del nichilismo comincia con i greci. Con Anassimandro («Il circolo del diventar altro… Il circolo del divenire, cioè della trasformazione delle cose»1), per esempio, e con Parmenide («perché se Platone ha voluto salvare il mondo da Parmenide, nel profondo dell’anima di questa salvazione rimane il nichilismo di Parmenide»2), ma soprattutto con Platone: «A partire da Platone», sostiene Severino, tutti i filosofi occidentali condividono «il senso greco della cosa»,3 nel senso di una cosa «che si mantiene in provvisorio equilibrio tra l’essere e il non-essere».4

L’invenzione del nulla

In altre parole, nei termini convenzionali della tradizione filosofica che oppone l’essere al divenire, Severino vede l’opposizione tra l’essere, l’essere Dio, e il non-essere, il non essere Dio. E dunque attribuisce ai greci l’invenzione di Dio e del nulla, cioè il mondo, che appartiene piuttosto ai filosofi cristiani («Il pensiero greco, non il cristianesimo, evoca per primo il concetto di “creazione”. La creazione è appunto il far passare le cose dal non essere all’essere»5). Nella filosofia greca Severino rievoca il pensiero cristiano che si nasconde anche nell’ápeiron di Anassimandro o nell’Uno di Parmenide, entrambi prefigurazioni del Dio cristiano, ed alimenta un equivoco millenario che trasforma il concetto dell’essere in una cosa, la logica in ontologia. L’apparente contraddizione tra l’essere e il divenire confonde l’unità del concetto con la molteplicità delle cose: se l’essere (l’essere di Dio) è, il non-essere non è (non è Dio), ma non vuol dire che esista il nulla perché il non-essere non è il nulla ma esiste come mondo: se la parola essere significa «Dio», la parola non-essere significa «mondo», che comunque esiste nel senso di «non-Dio», purché l’essere in generale, inevitabilmente unico, non sia confuso con l’essere in particolare, inevitabilmente molteplice. Le cose non sono nulla se non nel senso che non sono Dio, ammesso che Dio esista. Alla fine anche lo stesso Severino rinuncia al concetto di creazione e all’esistenza di Dio, ma vuole dimostrare le conseguenze nefaste dell’ideologia nella storia: gli uomini distruggono le cose perché credono nel nulla («Ed è proprio perché la “cosa” è pensata come equilibrio provvisorio tra l’essere e il niente, che il proposito di dominarla, producendola e distruggendola, acquista una radicalità mai prima posseduta»6). Al nichilismo greco e occidentale, che al divenire o il mondo o il nulla oppone l’essere o Dio, Severino attribuisce la distruzione della terra perché negli uomini l’idea del nulla si trasforma nella volontà dell’annientamento con la separazione delle cose dalla totalità della natura, con l’oscillazione o il circolo delle cose dal non-essere all’essere e dall’essere al non-essere.

La trasformazione delle cose in oggetti

Nella trasformazione delle cose l’albero, per esempio, diventa legname, il pesce pietanza e il minerale metallo. Sono gli esempi che Severino («Marx esemplifica così: il taglialegna abbatte l’albero separandolo dal bosco; il pescatore cattura il pesce separandolo dall’acqua; il minatore strappa il minerale dalla sua vena. L’albero, il pesce, il minerale sono “cose”. Una cosa è, per Marx, ciò che si lascia separare dal suo legame originario con la terra. Una cosa è cosa proprio perché è così separabile»7) riprende da Marx («Così il pesce, che viene preso e separato dal suo elemento vitale, l’acqua, il legname che viene abbattuto nella / foresta vergine, il minerale strappato dalla sua vena»8) per descrivere il processo del lavoro che trasforma i materiali naturali in beni di consumo. In questo contesto Severino riassume in termini (pseudo)parmenidei («Per Marx […] il lavoro […] è la causa che fa passare una qualsiasi cosa dal non-essere all’essere»9) ciò che Marx esprime in termini aristotelici («Attraverso tale processo quest’ultimo diventa actu quel che prima era solo potentia»)10). Del resto il Parmenide di Severino confonde l’essere con Dio e «nega l’esistenza delle cose del mondo […] perché, rispetto all’“Essere”, ogni cosa è un non essere, niente».11 Il surrettizio passaggio dalla metafora della potenza alla metafora del nulla, il non-essere, apre uno scenario pessimista che capovolge il capovolgimento di Marx sulla fine dell’ideologia («Non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza»12) e ristabilisce il primato della teoria sulla prassi perché la vita o il lavoro sarebbe determinata dalla coscienza o il senso greco del divenire («La “vita”, per Marx, determina la “coscienza”; senonché è la “coscienza” greca – la fede nel divenire – a stabilire, nel discorso di Marx, che cos’è la “vita”»13). Sebbene Severino ritratti ambiguamente la sua ritrattazione con la distinzione capziosa tra la coscienza e la base («Tuttavia noi non stiamo rovesciando il principio di Marx: non stiamo dicendo che la coscienza “determina” la vita dell’Occidente, ma stiamo dicendo che “sta alla base” di essa. […] Noi diciamo che il senso greco del divenire “sta alla base” dell’intera storia dell’Occidente»14), la coscienza di Severino non sembra una spiegazione più convincente della vita di Marx, ma offre una sincera preoccupazione sui progressi della tecnica che compromette i valori dello spirito.

L’utilità degli oggetti

Nella prospettiva di Platone («Nel Convivio, Platone dice appunto che la poíesis (cioè la produzione, l’attività) è la “causa che fa passare una qualsiasi cosa dal non essere all’essere”»15) Severino colloca anche Marx («La separabilità della cosa dal suo nesso immediato è il divenire della cosa. Il lavoro, che così la separa, è la produzione − la poíesis – che fa passare dal non essere all’essere la cosa in quanto “valore d’uso”, cioè in quanto “bene” che può essere usato dall’uomo»16) perché le determinazioni del mondo sarebbero un oscillare tra l’essere e il niente («un epamphoterízein, dice Platone, Repubblica, 478e»17). Nel contesto della Repubblica Severino fraintende il passo di Platone (non 478e ma 479c) che non discute la trasformazione delle cose, ma considera l’oscillazione dell’opinione (dóxa) tra l’ignoranza (ágnoia) e la conoscenza (epistḗmē) senza dubitare sull’esistenza delle cose che consentono agli artigiani di contribuire al progresso della società. Anche nel Convivio, dove Platone discute la competenza dei poeti, Severino confonde la metafisica e la cosmologia con l’antropologia e la politica: «Nel Convivio di Platone (205 b-5) leggiamo: “Ogni causa, che faccia passare una qualsiasi cosa dal niente all’essere è produzione, cosicché sono produzioni anche le azioni che vengono compiute in ogni tecnica e tutti gli artefici sono produttori”».18 Poi Severino aggiunge: «Distruzione è quindi, per Platone, ogni causa che faccia passare una qualsiasi cosa dall’essere al niente»,19 sebbene Platone abbia insistito al contrario sul valore artistico e sociale della tecnica senza accennare ad alcuna distruzione. Quindi? ogni causa sarebbe una produzione, ma non per questo sarebbe una distruzione: in ogni tecnica (technē), e non solo in poesia (poíesis), tutti gli artefici (dēmiourgoí) sono poeti (poiētaí), cioè produttori. Il gioco di parole tra i poeti in generale (gli artigiani che sono poeti) e i poeti in particolare (i poeti che sono artigiani) conferma la benevola disposizione di Platone nei confronti delle tecniche. In Platone, che alla distruzione oppone la produzione o creazione, la natura della creazione artistica è simile a tutte le altre tecniche che trovano nella società una funzione fondamentale ed equilibrata. In Platone la funzione positiva delle cose utili e originali nella società greca rafforza il carattere oggettivo della tecnica senza discutere l’origine metafisica delle cose né giustificare il pessimismo della storia.

La sopravvivenza delle cose

La suggestiva metafora di un Dio creatore che vive in cielo immaginata a somiglianza degli artigiani che vivono in terra non offre alcuna spiegazione ragionevole sull’origine delle cose né giustifica quel Dio distruttore che Severino attribuisce anche ai greci («Il pensiero greco, non il cristianesimo, evoca per primo il concetto di “creazione”»20). La fabbricazione degli oggetti provoca la distruzione della terra? Nella storia dell’Occidente non sembra che gli uomini vogliano sempre distruggere ciò che producono almeno fino ai giorni nostri. Del resto neppure Dio lo fa, ma lo stesso Dio cristiano si compiace della sua creazione come un artigiano vanta la bellezza dei suoi oggetti: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Genesi 1,31). Senza considerare l’influenza dei molteplici e disparati interessi presenti nella storia del progresso e del nichilismo Severino confonde l’effetto con la causa e trasforma la distruzione, come effetto del nulla, nel nulla come causa della distruzione, come se la distruzione fosse causa di sé stessa. E dunque confonde la creazione con la distruzione, stabilisce una equivalenza nichilista e apocalittica tra la produzione e la distruzione che non corrisponde né al pensiero dei greci né dei cristiani come se il demiurgo o Dio fossero necessariamente un artefice maligno destinato a distruggere le cose che crea. Nella equivalenza tra produzione e distruzione Severino confonde gli oggetti artificiali con le cose naturali e dunque attribuisce alle cose naturali le proprietà degli oggetti o la temporalità del divenire e viceversa agli oggetti artificiali le proprietà delle cose o l’eternità dell’essere. La trasformazione delle cose naturali in oggetti artificiali non avviene con le stesse modalità che riguardano la trasformazione delle cose naturali in altre cose naturali e non giustifica l’estensione della distruzione che può accompagnare la trasformazione degli oggetti come se tutte le cose fossero destinate a diventare oggetti ed essere distrutte. La trasformazione delle cose non impedisce alle cose di rimanere cose, considerato che nel frattempo si trovano sempre cose in terra e in acqua, alberi pesci e minerali che non sono diventati legname pietanze e metalli. Esiste in altri termini una trasformazione primaria delle cose in cose che convive con la trasformazione secondaria delle cose in oggetti ed avviene senza dipendere dal lavoro degli uomini. Ci sono prati che diventano cattedrali per opera degli uomini ed anche alberi che diventano cattedrali per opera della natura.

La conquista della luna

Non tutti gli uomini né tutti gli dèi condividono il nichilismo greco, «il senso greco della cosa», né tutti gli uomini distruggono le cose della terra. In Severino la storia del nichilismo che comincia con i greci e finisce con i cristiani si capovolge nella storia di Dio e del nulla che comincia con i cristiani e finisce a ritroso con i greci. L’ambigua e contraddittoria retrocessione del nichilismo fino ai greci ed oltre si confonde con la storia della metafisica e della verità assoluta che si interrompe dopo Hegel («Soprattutto l’idealismo classico tedesco […] si è reso conto che la totalità di ciò che appare non può essere una cosa o una parte che abbia accanto a sé, o fuori, prima, dopo di sé altre cose o parti»21). La storia del nichilismo comincia con la morte della metafisica e con la filosofia contemporanea («Grande filosofia del nostro tempo è innanzitutto quella di Nietzsche, di Gentile e […] di Leopardi»22) che apparentemente eredita le forme del dio cristiano. Soltanto in epoca moderna l’apparato scientifico e tecnologico prevale sulla natura con risultati a volte disastrosi («L’Apparato è la forma più radicale di produzione e distruzione che mai sia apparsa sulla terra. Eredita l’infinita produttività-distruttività del Dio ebraico-cristiano, che rende reale e visibile. Tanto più distruttiva quanto più è costruttiva»23). C’è un Severino che attribuisce ai cristiani la distruzione della terra («Per costruire una casa bisogna distruggere il prato o il bosco»24) e un altro Severino che teme la follia del progresso («Si teme non solo la catastrofe ecologica, ma anche l’annientamento nucleare»25). Il primo alle cattedrali preferisce i prati sebbene sarebbe difficile trovare qualcuno disposto a distruggere le cattedrali per ricostruire il prato, ma il secondo vuole conquistare anche la luna dove non ci sono prati da distruggere e le stelle sono piene di materiali da utilizzare per il benessere degli uomini. Agli esempi di Marx, gli alberi i pesci e la terra che i boscaioli i pescatori e i contadini vedono secondo i propri interessi26 Severino aggiunge anche la luna e le stelle. «Perché l’uomo − si domanda Severino − non decide ancora di impadronirsi delle stelle del cielo come si impadronisce della legna dei boschi e degli atomi del laboratorio?27». Perché il progresso della civiltà è ostacolato dalla metafisica, dal nichilismo e dalla povertà e solo in futuro la filosofia potrà imporre alla natura la volontà di onnipotenza che conduce gli uomini nel paradiso della tecnica dove il benessere materiale e la felicità spirituale saranno finalmente conciliati con la soddisfazione di tutti e di tutto («Il paradiso dell’Apparato può dunque soddisfare tutti i bisogni dell’uomo anche quello di inventare indefinitamente nuovi bisogni e di oltrepassare tutti i modi in cui essi vengono soddisfatti. La felicità che esso consente è la liberazione più radicale dall’angoscia e dal dolore»28). C’è un Severino in apparente contraddizione con se stesso che oscilla tra il bene e il male dello sviluppo scientifico e tecnologico. Ma riprende da Hegel e Gentile il superamento della metafisica cristiana e al Dio trascendente che promette il paradiso in cielo sostituisce il Dio immanente che realizza il paradiso in terra con il progresso della tecnica e il divenire dello spirito.

Il trionfo del progresso

In Severino la critica del progresso non interrompe il trionfo del progresso perché la catastrofe nucleare o l’inquinamento ambientale non compromettono il progresso, come gli incidenti stradali non sospendono la costruzione delle strade e lo sviluppo della motorizzazione privata, come gli incidenti ferroviari rafforzano la rete ferroviaria e i naufragi sono connessi con la navigazione. Gli incidenti occasionali che rallentano lo sviluppo del progresso non diventano mai ostacoli strutturali in grado di annullare la storia se prevale il buon senso e l’uso responsabile dei mezzi. Implicitamente Severino sottoscrive l’elogio di Marx ed Engels sullo sviluppo delle forze produttive promosso dalla borghesia: «Col suo dominio di classe, appena secolare, la borghesia ha generato forze produttive più numerose e più ingenti di quante ne avessero mai create tutte le generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchinario, applicazione della chimica a industria e agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di intere parti della superficie terrestre, navigabilità dei fiumi, intere popolazioni come nate d’improvviso dalla terra».29 Nella dialettica idealista di Severino le contraddizioni della storia sono superate nella sintesi del passato e del presente che il futuro compie nel cammino faticoso della civiltà. In modo analogo il superamento delle contraddizioni nella storia dell’arte e dell’architettura mantiene in vita il passato e lo proietta nel futuro con particolare riguardo ai grandi modelli della tradizione. Secondo Severino Dio preferisce il tempio greco alla piramide egizia e la cupola italiana al grattacielo americano perché nell’architettura tradizionale «la bellezza appartiene all’essenza della bellezza» e «l’edificio mostra di essere rivolto e inscritto nell’Ordinamento eterno e divino del mondo».30 Il ritorno all’architettura classica sarebbe inevitabile dopo le illusioni del modernismo novecentesco che confonde il contenuto con la forma e antepone l’utile alla bellezza («al di sotto del rifiuto del passato da parte della cultura, dunque dell’arte, dunque dell’architettura moderna agisce una forza incontenibile, una necessità inevitabile che non consente di porre sullo stesso piano tutte le forme culturali»31). Alle macchine per abitare concepite da Le Corbusier per liberare il contenuto moderno dal soffocamento della forma antica Severino preferisce le macchine teatrali che esibiscono la decorazione della tradizione occidentale sia pure a svantaggio di ogni comodità. Nella stessa prospettiva sostiene il valore universale del tempio greco e condanna la pittura moderna che si allontana dalle forme dei grandi maestri. Infatti il Dio di Severino preferisce Leonardo da Vinci che nell’Ultima cena parla della grandezza di Dio32 e rifiuta Claude Monet che nel San Giorgio Maggiore al crepuscolo mostra la miseria degli uomini e la degenerazione narcisista della coscienza moderna («Tra il XIX e il XX secolo l’arte mostra nelle proprie opere il disfacimento delle forme che nel mondo rispecchiano la Forma immutabile»33).

Il filosofo che oscilla tra l’essere di Parmenide e il divenire di Eraclito ricorre alla dialettica di Hegel per conciliare l’innovazione della modernità con la conservazione della tradizione.


  1. E. Severino, Dike, Adelphi, Milano 2015, pp. 21-2. ↩︎

  2. E. Severino, La filosofia futura (1989), Nuova edizione riveduta, Rizzoli, Milano 2006, p.55. ↩︎

  3. E. Severino, Il dito e la luna. Riflessioni su filosofia, fede e politica (1979-2014), a cura della Redazione Cultura, Corriere della Sera, Milano 2021; poi Emanuele Severino, Il dito e la luna. Riflessioni su filosofia, fede e politica (1979-2014), Presentazione di Nicoletta Cusano, Solferino, Milano 2022, p. 38. Nel 2022 l’editore Solferino ripropone la stessa antologia pubblicata l’anno precedente dal Corriere della Sera con una nuova presentazione di Nicoletta Cusano che si illude di risolvere le contraddizioni tra l’essere e il divenire con l’eternità delle cose. Alla maniera della dialettica idealistica Severino concilia la tesi, l’essere o Dio, con l’antitesi, il divenire o il mondo, perché attribuisce alle cose l’essere di Dio e a Dio il divenire delle cose. Ma se le cose fossero eterne come pretende Severino, le cose sarebbero insieme eterne e temporali senza mai essere qualcosa, identiche come Dio e differenti come il mondo. ↩︎

  4. E. Severino, Il dito e la luna, cit., p. 35. ↩︎

  5. Emanuele Severino, La filosofia futura, cit., p. 61. ↩︎

  6. E. Severino, Il dito e la luna, cit., p. 36. ↩︎

  7. E. Severino, Il dito e la luna, cit., p. 34. ↩︎

  8. K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Introduzione di Maurice Dobb, Libro primo, Il processo di produzione del capitale (1867), a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 196-7. ↩︎

  9. E. Severino, Il dito e la luna, cit., p. 35. ↩︎

  10. K. Marx, Il capitale, cit., p. 195. ↩︎

  11. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 275. ↩︎

  12. E. Severino, Il dito e la luna, cit., p. 32. Cfr. Emanuele Severino, La filosofia futura, cit., p. 20 ; K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845-6, 1932), Traduzione di Fausto Codino e introduzione di Cesare Luporini, Editori riuniti, Roma 1967, p. 13.) ↩︎

  13. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 22 ↩︎

  14. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 20. ↩︎

  15. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 22. ↩︎

  16. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 24. ↩︎

  17. E. Severino, La filosofia futura, cit., p .54. ↩︎

  18. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 169. ↩︎

  19. Ibidem↩︎

  20. E. Severino, La filosofia futura, cit., p.61. ↩︎

  21. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 199. ↩︎

  22. E. Severino, Tecnica e architettura (2003), a cura di Renato Rizzi, prefazione di Luca Taddio, Mimesis, Milano-Udine, 2021, p. 57. Nel 2021 l’editore Mimesis ripropone gli scritti di Severino sull’architettura con una introduzione di Renato Rizzi che attribuisce lo squallore delle periferie all’assenza di Dio e del tempio greco: la nostalgia della metafisica e della tradizione prevale sul nichilismo della modernità. ↩︎

  23. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 168. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. E. Severino, La filosofia futura, cit., p.169. ↩︎

  26. Cfr. La filosofia futura, cit., pp. 25-6. ↩︎

  27. E. Severino, Filosofia futura, cit., p. 119. ↩︎

  28. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 100. ↩︎

  29. K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), Introduzione e cura di Eugenio Sbardella, Newton Compton, Roma 1969, p. 55. ↩︎

  30. E. Severino, Tecnica e architettura, cit., p. 135. ↩︎

  31. E. Severino, Tecnica e architettura, cit., p. 134. ↩︎

  32. cfr. Tecnica e architettura, cit., pp.171-2. ↩︎

  33. E. Severino, Dike, cit., p. 260. ↩︎