Metafisica e pensiero. La «buona prassi». Il Fedone

... E così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la ragione s’innalzi alla speculazione.

– Immanuel Kant, Critica della ragion pura

Rappresentare la metafisica. L’esercizio co-pensante

Il problema della metafisica interpella la filosofia da sempre, direttamente o indirettamente. E da sempre, sin da quando è sorta la filosofia, tale domanda si è presentata come esigenza di rapportarsi alla totalità dell’esperienza (intelligibile e sensibile nel contempo, come specificamente nell’esperienza presocratica), o genericamente come inizio di ordine causale, o come problematica ontologica in senso parmenideo o aristotelico (in quanto cognizione che includa in sé la concettualizzazione epistemologica, e per ciò stessa, ontologica, della conoscenza razionale, e in quanto si possa identificare come quel momento costitutivo del concetto stesso di filosofia che abbia determinato tutto il progetto occidentale del pensiero filosofico – cfr. R. Brandner),1 o, con termine di conio tardivo, «henologica». Nel periodo della filosofia moderna e contemporanea si è acuita l’esigenza di indagare intorno a tali idee, a partire dall’ermeneutica cartesiana, ad esempio, con le derive dualistiche e soggettivistiche del cogito, che possiamo analizzare in un modo esplicito in senso adorniano, o includendo anche Kant e la classicità tedesca, in un percorso di ermeneutica che abbia svincolato il soggetto da un riferimento normativo in relazione alla realtà oggettiva e alla verità.2 La mia ricerca intende riprendere tale questione a partire da una lettura del Fedone platonico, mostrando, attraverso una analisi parafrastica del testo, come la domanda metafisica faccia tutt’uno con la questione essenziale che il testo stesso pone, a partire dalla sua trama e dal tessuto narrativo. La filosofia è domanda di vita e non di morte. Questo è sia il senso del filosofare socratico, come traspare da tutte le opere platoniche, nonostante, e proprio grazie a una testimonianza di radicale offerta di sé e di coerenza del bios theoretikos afferente al personaggio di Socrate stesso, come si desume dal dramma, e sia l’essenza del ragionare platonico intorno alla filosofia. E se la filosofia sia vita o sia morte è la domanda metafisica per eccellenza, dopo quella ontologica fondamentale di stampo heideggeriano, «perché vi è l’essente e non il nulla».

Sull’idea di una specifica metafisica platonica vi è ancora un dibattito aperto. Vi è chi fa risalire a Platone l’inizio della metafisica nel mondo greco (Brisson 1999, Berti 2017). E vi è ancora chi fonda proprio sulla distinzione irriducibile tra anima e corpo nel Fedone l’esigenza di una logica dell’assoluto che consentirebbe di “superare”, con una filosofia intesa come contemplazione ascetica ed extramondana, le aporie che conseguono alla suddetta distinzione (Sini 1995, Masullo 1996).3 Ma occorre ancor prima confrontarsi sull’idea stessa di «metafisica». Anche su di essa, sulla sua plausibilità e sostenibilità in senso filosofico, vi è sempre stata ed è ancora in corso un vivo confronto. Sin dagli inizi del ’900 (1922), F. Olgiati, professore ordinario di metafisica nell’Università Cattolica di Milano, in una sua prolusione tenuta all’inizio di un suo corso, osservava che «la cattedra di metafisica» a quell’epoca rappresentasse una «sfida», una «serie di battaglie» per la comunità dei filosofi. Olgiati citava il Gentile della Riforma della dialettica hegeliana, il quale aveva affermato che nella storia della filosofia, propriamente, la filosofia è da sempre metafisica, «scienza delle scienze», «scienza prima»; e se la filosofia doveva essere «scienza della vita», come i grandi «sommovimenti morali» dell’epoca romantica avevano in passato prefigurato, tale scienza sarebbe stata nel contempo «essenzialmente morale, [proprio] perché intimamente metafisica». Per L. Laberthonnière la questione riguardava ontologicamente il dubbio amletico, come decisione fondamentale tra credenza nell”«essere» o affermazione di un «non essere», questione mai esaurita, che si riproporrebbe a ogni epoca «afferrando ogni uomo al cuore» e «facendo della sua esistenza un dramma». Olgiati citava ancora H. Bergson che definiva il problema dell’essere una delle più gravi questioni dell’umanità. Problema, infatti, sempre aperto e istanza fondativa di tutte le questioni filosofiche, heideggerianamente parlando. Da come si pone il problema dell’essere dipende infatti una specifica filosofia. Ma anche porre questioni sull’esistenza dipende dalla suddetta questione archetipica. Olgiati infatti ricordava ancora P. Martinetti, che riteneva le domande esistenziali imprescindibili, nella risposta alle quali vi è sempre una affermazione assoluta della realtà.4 Ragionare sull’essere, dunque ci sintonizza sui problemi più essenziali di carattere metafisico. Poiché il porre tratti fondamentali del mondo inizia ponendo la questione dell’essere, dunque, qual è la posizione platonica a questo riguardo? Si tratta dunque di ragionare sull’essenzialità teorica di tale concetto pur imbattendosi nelle discordanze di posizioni su di essa e su una sua possibile specifica definizione nell’ambito del platonismo,5 ricordando il monito socratico (apprendendolo proprio attraverso le parole di Socrate rivolte al giovane Fedone) che invita lo studioso propriamente al ragionamento, nell’alveo e nella prospettiva di un comune logos, e a evitare ogni misologia.6 E occorre infine proporre oggi, come in passato, alla dialogicità della comunità pensante una propria specifica visuale sulla metafisica platonica, proprio perché è tale metafisica ad esigere il pensiero vivo dell’interprete e del lettore. Intorno a una possibile metafisica platonica vi ha ragionato per primo Aristotele, quando in Metafisica A 6, ha osservato che Platone, accettando la dottrina socratica che, focalizzandosi sulle «questioni etiche» cercava l’universalità nelle definizioni, credette, traendo tale convinzione dagli eraclitei, che tali definizioni dovessero riferirsi ad «altre realtà» rispetto a quelle sensibili. Egli riteneva impossibile che tale definizione si riferisse alle realtà sensibili, poiché queste sono in continuo mutamento. (cfr. Metafisica A 987b-b5). Egli denominò «idee», tali realtà. I sensibili esistono accanto ad esse e la loro denominazione è secondo esse. Ma dov’è il luogo di tali idee? Qual è la domanda ontologica che dobbiamo porre riguardo a esse, platonicamente parlando? Come accedere a esse? Nel Fedone intercettiamo una domanda fondamentale: Vi è un sensibile che è soggetto a corruzione e vi è un oltresensibile, che è il luogo della permanenza, ma dov’è il luogo della vita? Dobbiamo affermare che i due ambiti appena menzionati siano nettamente separati, sicché l’uno escluderebbe l’altro?

Sulla metafisica come tema precipuamente e originariamente platonico vi sono le posizioni, come detto in precedenza, che evincono dal Fedone, sulla base di una distinzione tra anima e corpo molto netta, ma anche tra ambito della conoscenza razionale e ambito della percezione sensibile, una posizione sulla filosofia come contemplazione ascetica di una logica dell’assoluto. Dunque la questione ontologica va posta, va enunciata. È come il dubbio amletico che riaffiora in ogni epoca, parlando anche in senso Shakespeareiano. Porre una domanda significa anche congetturare intorno a un enigma. Vuol dire prefigurare mondi ulteriori, narrarli. Il linguaggio, ancora heideggerianamente rappresenta l’esito della storicità che consegue all’affermazione originaria esigita dalla questione fondamentale dell’essere. Qual è il rapporto uomo-essere, infatti, tale è la storia di un’epoca.7 Vi dunque una domanda originaria, poiché tratteggia il fondamento dell’esserci e dell’ontico, che non può eludersi: Perché in genere vi è l’essente e non il nulla?8

Per G. Colli, la metafisica è stata da sempre legata all’«espressione».9 La metafisica è l’espressione della «divinazione», è la comunicazione enigmatica che funge da “matrice” alla dialettica e che genera la filosofia. Secondo Colli, in principio era la «Sapienza» e poi vi fu la filosofia. La metafisica è il luogo vivo del logos autentico da cui nasce l’artificio della parola, che tuttavia è sempre logos spurio. Vi è già la lettera ma anche ciò che vi è oltre. Per Colli, sin dagli albori, i Sapienti, Eraclito, Parmenide e gli eleati, hanno inteso sempre riprodurre questo problema archetipico. Vi è sempre un rimando all’enigma dell’inizio. Per Eraclito, attraverso il logos, per Parmenide, con la scelta dell’è, come affermazione e inizio della dialogicità, la metafisica è il rischio del pensiero, che è inizio anche della doxa, la quale è anch’essa da intraprendere. Il problema dell’essere parmenideo era dunque, anche, e soprattutto, il problema della sua dicibilità. Se stiamo al consiglio colliano conviene dunque analizzare la forma espressiva delle opere filosofiche genericamente intese, e nello specifico platoniche, per evidenziarne i tratti della loro metafisica. E sempre con Giorgio Colli e Mario Vegetti, potremmo dedurne che la forma di uno scritto critico-ermeneutico possa essere anch’essa determinante sul suo contenuto;10 secondo Vegetti, infatti, chi scrive da interprete platonico in forma trattatistica non agisce appropriatamente. È come se volesse congelare il vivo domandare che lo scritto deve sottendere incessantemente per essere filosofico. Voler sistematizzare dunque compiutamente i contenuti platonici significa tradirne sostanzialmente il messaggio.

Platone stesso, sostiene ancora Vegetti, «metteva in scena» i dialoghi, «rappresentando la ricerca filosofica», non per giungere a esiti esaustivi, ma per porre in prospettiva dialettica le differenti posizioni, sottolineando l’incessante e sempre vitale apertura del processo di ricerca e della comprensione.11 Eppure, l’intento qui presente è quello di argomentare su un tema, e su un’opera, che sono stati e sono tuttora oggetto di attenzione, molto spesso, proprio in senso trattatistico. Per tale motivo il presente elaborato si presenta come un vero e proprio esercizio di pensiero o, nel senso di una certa critica fenomenologica sul platonismo, un «esercizio co-pensante».12 A partire dall’ambito semplicemente descrittivo, per mostrare nella struttura narrativa l’esigenza di un «logos» aperto al suo senso dianoetico, noetico e ideale,13 esso intende mostrare l’ampiezza dell’apertura simbolica del testo platonico nelle sue configurazioni immaginifiche, rimanendo svincolato da pretese sistematiche in senso esaustivo sul testo stesso, per consentire di giungere ad attualizzare i suoi contenuti e a pensare i suoi temi essenziali.

L’henologia

La parola «henologia» fu coniata da Étienne Gilson.14 Egli intendeva superare l’equivoco in senso panteistico di una interpretazione delle categorie plotiniane effettuata facendo confusione tra queste ultime e l’«essere» inteso in senso cristiano. Occorreva, secondo Gilson, accostare, non tanto tali «metafisiche» come se fossero entrambe «ontologie», bensì confrontare una ontologia (di stampo cristiano) con una «enologia» (plotiniana). Poiché secondo l’ontologia, l’inferiore non è che in virtù dell’essere del superiore. In una «enologia» invece principio generale è che l’inferiore sia solo in virtù di ciò che il superiore non è. Anche Hegel osserva che ciò che caratterizza Plotino è un grande entusiasmo perché sia innalzato lo spirito al vero e al bene, là dove questi indichino ciò che è in sé e per sé. E dunque può dirsi che la sua filosofia sia metafisica, non però come tendenza alla deduzione, «quanto piuttosto la tendenza alla riconduzione dell’anima alla visione dell’uno e dell’eterno, cosicché l’anima pervenga, in questa contemplazione, alla beatitudine».15 Dunque nella henologia non vi è un discorso meramente quantitativo e aritmetico. Vi è una negatio in senso spinoziano che lascia lo spazio al qualitativo, ovverosia alla problematica del valore e del senso. Ma già i «presocratici», come osserva Giovanni Reale, ponevano un problema henologico. La questione dell’intero non riguarda la mera somma delle sue parti, ma «un principio fondante», che non sia tanto inizio in senso cronologico o una scaturigine divinamente intesa, quanto piuttosto un «perché» e un «senso», un’apertura esplicativa e comprensiva. In tutti i presocratici vi si scorge una ricerca esplicativa riguardante i fenomeni del cosmo, come ricerca di unificazione, ma prima di tutti in Eraclito osserviamo una evidenziazione di un nesso dinamico-relazionale tra l’intero e il molteplice, come strutturale e fondativo.

La Vita

La Vita come «azione razionale», così la definisce Gustavo Bontadini, distinguendo «Vita» e «vita» a seconda che il giudizio su di essa, che non può essere che «valoriale», pena la sua inintelligibilità, è dunque riferita a un «Assoluto», si consideri in senso qualitativo o meramente quantitativo. Che la vita vada considerata come mero accrescimento di sé e che la valorialità possa riferirsi a un mero dato quantitativo rimane per Bontadini una posizione che poggia su una contraddizione fondamentale. L’Assoluto non può afferire al mero quantitativo. Esso lo trascende. E tuttavia l’Assoluto comprende anche la «vita», anche il dato quantitativo e mira, anche, a un accrescimento di sé. E la vita non può essere solo immediatezza, altrimenti sarebbe un «assoluto relativo» e il valore della vita, come in sé e fuori di sé, rimanda a una idea di «Vita» che sia di estrema concretezza. Per quanto riguarda nello specifico la metafisica platonica essa non può, secondo Bontadini che qualificarsi come «metafisica dell’esperienza», al di là della casistica che egli stesso pone tra platonismo ontologistico e platonismo inferenziale, il primo che sboccherebbe nell’immanenza, il secondo in una questione originaria di stampo «fideistico» (nel senso di un porre originario, come originaria affermazione di fede), ma a mio parere vegettianamente «compossibili», proprio attraverso il ragionamento sull’idea di «metafisica» e di «assoluto». Un «platonismo dell’esperienza» è deducibile dalle posizioni del Socrate platonico, a partire dai «Λόγοι Σωκρατικοί». Al concetto metafisico esperienziale si arriva attraverso «l’escussione» di sensazioni e opinioni del mondo concreto.16

La metafisica e la condizione del pensare

Bontadini si chiede ancora se è possibile inferire le condizioni necessarie e sufficienti del pensare, per ciò che riguarda il platonismo, a partire dall’esperienza. Le condizioni del pensare sono, kantianamente parlando, proprio quelle che creano antinomie.17 Il fenomeno kantiano della ragione umana, come evidenziato nella sua prima critica, si imbatte da solo in «un’antitetica interamente naturale», le cui posizioni tendono a irrigidirsi dogmaticamente, per cui i concetti trascendentali «cosmologici»18 che di quella totalità incondizionata necessitano, si scontrano con l’irrapportabilità in relazione a essa, rimanendo nella sterile conflittualità antinomica.19 Questo discorso sulle antinomie della ragione, in riferimento ai grandi ideali regolativi della speculazione kantiana, che sembra terminologicamente così distante dalla fraseologia platonica, lo si può evincere proprio confrontandosi con la mera parte testuale del Fedone. Il discorso platonico, intorno alla psyché, sembra anch’esso in apparenza, antinomico, laddove vi è un sensibile e un oltresensibile che sembrano letteralmente confliggere, senza via di uscita, o rimanere permanentemente in tensione, cosicché a partire dalla mera lettera e andando oltre essa, nell’apertura simbolica del mythos (come narrazione dialogica) si può “leggere” l’esigenza (come attraverso una precomprensione hegeliana dal lato dell’oggetto) di postulare una precisa metafisica, ovvero un principio primo e supremo.

Affermare ciò vuole anche dire accedere a una metafisica platonica a partire da un’operazione, se così si può dire, di induzione argomentativa, inferendo dal testo platonico, nello spazio simbolico del suo mythologein, quei significati ulteriori, a partire dai quali possiamo evincere un’ermeneutica autenticamente pensante e filosofica. Platone, infatti, parla dell’Uno-Bene solo in mythologein, in quanto principio archetipico e anipotetico, non dicibile compiutamente o in forma di trattato; evincendosi a partire dai dialoghi, secondo Giovanni Reale, nel senso di una uni-dualità, di cui l’unità sia sovraeminente in senso genetico (archè), tale da costituire una polarità di carattere protologico.20 E, sebbene la problematica dell’archè, implicata nel discorso sulla temporalizzazione in senso cosmologico, sia stata sin dall’inizio oggetto di accese discussioni all’interno dell’accademia platonica,21 sembrerebbe, a mio parere, e sempre a partire da un’ermeneutica testuale del Fedone, di evidenza argomentativa stringente, postulare prima di tutto un carattere sostanzialmente paidetico del dialogo stesso, per convenire, che in esso (a partire da un “cominciamento” ipotetico o anipotetico) ontologia, gnoseologia e assiologia non possano considerarsi elementi scindibili e tali da consentire derive dualistiche e aporetiche riguardo al rapporto tra sensibile e oltresensibile. Su questo mi riferisco anche all’ermeneutica del platonismo di Werner Jaeger che, com’è noto, ha sostenuto con grande convinzione l’essenza paidetica della quasi totalità delle opere platoniche.22

Attualizzazione e memoria del concetto di metafisica

Metafisica può definirsi, oltre che come accezione strettamente filosofica, come visione integrale del mondo o teoria generale,23 in quanto afferente alla dimensione culturale dell’uomo, accezione non assolutamente diminutiva rispetto alla prima. Come anche Kant sostiene, infatti, l’idea di metafisica non si può mai eludere, poiché è la stessa «natura umana» che impone alla ragione problemi di ordine metafisico. Essa, diventa come un vero e proprio campo di battaglia, volendo porre condizioni a ciò a cui esse non possono porsi.24 Il concetto di metafisica ci è pervenuto nei termini che attualmente conosciamo con i trattati aristotelici. La «πρώτη ϕιλοσοϕία» è la filosofia relativa ai principi che Aristotele ritiene fondanti e progettanti il discorso filosofico in generale, riguardo ai quali nel testo intitolato proprio con tale termine,25 lo Stagirita interroga tutti gli interpreti del mondo antico, attuando egli stesso la prima pratica co-pensante in filosofia.26 Ma se vogliamo considerare tale idea in senso filosofico, come prima accennato, non possiamo dunque non considerare come l’idea di metafisica si sia configurata attraverso il tempo, ovvero farne memoria.

Giovanni Reale effettua una disamina in forma molto chiara e schematica della storia del concetto, dal punto di vista delle diverse scuole interpretative, e in relazione alle opere platoniche,27 dopo aver dichiarato che il passo di Fedone 96A – 102A, costituisce «la magna charta della metafisica occidentale, ovvero la prima razionale prospettazione e dimostrazione dell’esistenza di una realtà soprasensibile e trascendente».28

L’henologia e la relazione possibile tra anima e corpo

Alla luce del nuovo paradigma, per Reale si toccherebbe un «vertice metafisico», costituito da principi sovraordinati alle idee e in primis l’Uno-Bene (sovraeminente in senso genetico), nel senso di arché anhypotheton, all’interno della polarità con la Diade, come henologia.29 Il Fedone è considerato da J. Findlay un «dialogo ideologico»,30 come anche il Fedro e il Simposio, impostati sulla «metafisica delle idee», ma anche «il più bello e toccante di tutti i dialoghi di Platone». Socrate aveva cercato di ragionare intorno a ciò che sarebbe successo con il bere la cicuta, e che cioè si sarebbero separati la sua «anima», ovvero «il suo personale esempio di vitalità e di pensiero» e il suo «corpo», inteso di per sé come grossolana e apparente umanità. Dunque, in esso vi sarebbero due idee in tensione «antinomica»: l’anima e il corpo. Occorre dunque domandare in che rapporto l’anima debba essere considerata in relazione al corpo, per porre tale argomentazione in relazione all’henologia intesa nel senso della polarità uni-duale, se vogliamo mantenerci aderenti alle posizioni di Tubinga. Sostiene Findley: Possiamo disimpegnarci ontologicamente riguardo agli «eide», per focalizzarci sui problemi eterni che Socrate filosofo non faceva che sollevare, ma nelle pieghe del dialogo non si può non cogliere un «unico tutto» concettuale e letterario, in cui dinamismi logici sono continuamente «trasfigurati» da una profonda intuizione ontologica.31 Il retaggio orfico, che traspare in modo evidente nel testo, soprattutto nella scelta dei personaggi, per la maggior parte degli studiosi costituisce, inoltre, lo sfondo della formazione spirituale di Platone, configurando una certa posizione nel senso di una separazione netta tra ciò che afferisce al sensibile e ciò che riguarda l’oltresensibile. Essa, se afferente a un’etica orfica in quanto tale, veicolerebbe la tesi che la filosofia fosse una sorta di esercizio di morte. Si può vedere a modo di esempio il tema del corpo-prigione (φρουρά), che, se interpretato, nel passo a esso relativo (62B2-8), in senso orfico, andrebbe inteso nel senso di carcere, se invece sia interpretato in un senso che si voglia discostare da tale tradizione potrebbe essere tradotto con l’altra accezione che riguarda tale termine, ovvero, «posto di guardia» (A. Carlini)32 o «custodia» (G. Reale).

Ci sarebbero due dimensioni da considerare assolutamente separate, senza ulteriori aggettivi: il sensibile e l’oltresensibile, il corpo e l’anima. Ebbene, se l’etica orfica si caratterizza come mera separazione tra anima e corpo, nel Fedone si configura invece l’esigenza di una intelligibilità del sensibile, veicolata dalla relazione tra anima e idee: come le idee costituiscono la realtà delle cose, poiché sono immortali, così agisce l’anima rispetto al corpo, e dunque assistiamo a un ridimensionamento di tale etica, ovvero, una distinzione fra i due ambiti, ma in funzione di una significatività inerente al sensibile, ovvero di una necessità ideale di un’anima che costituisca una primazia di valore, per il fine di una valorizzazione del sensibile, costituendo l’idea, realtà e valore della cosa a essa inerente. E qui possiamo accludere la disquisizione tra Socrate e Cebete sulla cura («custodia») degli dèi. E dunque il dualismo di carattere orfico, come opposizione fra anima, collegata all’idea di libertà, e corpo, come prigione, si configurerebbe e si esprimerebbe come tensione dialettica, che diventerebbe espressione di una necessità ideale di un oltresensibile, che dia senso, i.e. realtà all’esperienza, poiché l’invito di Socrate a Eveno o a chiunque «pratichi» filosofia (61C5 - Trad. G. Reale), riguarda la dedizione completa alla filosofia (la musica più grande). L’immortalità dell’anima sarebbe, dunque, capace di manifestare la sua «potenza» di significazione rispetto a un sensibile soggetto a corruzione, perché «ciò lo dimostra il ragionamento», «ὡς ὁ λόγος σημαίνει».33 Ovvero, vi è una cogenza necessitante, all’interno del ragionamento, che esige un’anima immortale. Non si può pensare infatti platonicamente il corpo di per sé, senza un oltresensibile, senza una psychè, in una sua trascendente immortalità. Perciò si deve dare, necessariamente (secondo ragione ideale), tale primazia. L’etica orfica, è possibile valutarla dopo aver letto la presente opera, pensandola alla luce della teoria delle idee e dei principi primi, come bisognosa di quella noesi, quella intelligibilità di ordine ideale, al fine di una prassi veritiera, che sia in grado di illuminare la mera credenza nella quale tale etica si risolve.

In termini hegeliani si potrebbe dire che la mera credenza per divenire esperienza autentica esigerebbe la mediazione delle idee, ovvero di un sillogismo ideale. Il sensibile infatti, nella sua impermanenza sarebbe di ostacolo all’agire dell’anima in quanto sia ciò che anima, come predicato, il corpo, arrecandogli energia vitale, laddove la mutevolezza e la corruzione giungerebbero a rendere instabili paradossalmente le idee stesse, nel loro aspetto progettuale. Sperimentando dunque tale mutevolezza, come avevano fatto i presocratici nella loro esperienza dei contrari, scaturisce la domanda, come era inteso dagli stessi antichi, sulla realtà e sulla verità della conoscenza e dell’esperienza.

Platone parla dunque del corpo come sede della corruzione e dell’anima come sede della permanenza e degli ideali. Ovvero egli parla della teoria delle idee, ma non rimanendo nell’alveo della mera gnoseologia. Se rimanesse in tale ambito, le apparenti aporie di questo dialogo, non si risolverebbero nel senso di un’affermazione della vita, considerata in sé, come immortale, indipendentemente dal processo di corruzione del corpo, pur non indicandone, relativamente a quest’ultimo, una mera diminuzione (il corpo-prigione, non è altro che il corpo considerato in sé privo di una significatività, in quanto essa non è esperienza possibile senza il governo dell’anima), e della definizione di anima come sorgente vitale del corpo sensibile. Ovvero, ciò che risolve l’opposizione, nel senso di una sintesi costruttiva e positiva (ciò che è assimilabile al razionale positivo di memoria hegeliana relativo al suo sillogismo triadico) è supporre un principio supremo che assommi in sé, come il vertice di un figura geometrica, le tre dimensioni della significazione della realtà, ovvero ontologia, gnoseologia e assiologia, ovvero la protologia nel senso inteso dal nuovo paradigma: l’Uno-Bene nella sua polarità con la Diade di grande e piccolo, come regola imprescindibile (tale discorso riconduce anche alla teologia e all’ontologia degli antichi – il dio dei Greci deve attenersi gerarchicamente a delle regole supreme, là dove l’intelligenza, nell’ontologia parmenidea, è possibile solo se si fonda sull’essere) all’interno della polarità appena accennata, ovvero quell’anipotetico (assimilabile analogicamente all’incondizionato kantiano, ovvero all’idea di metafisica) che diventa il compito della sua stessa definizione, con libero pensiero, al fine di pensare positivamente il sensibile. Così l’intelligenza demiurgica opera solo sul fondamento del Bene.34 Interessante fu la critica rivolta alla scuola di Tubinga da Margherita Isnardi Parente. Ella, ricordando quanto fosse necessario effettuare una attenta analisi dei testi scritti per poter sostenere più costruttivamente la teoria della tradizione orale, laddove più che di esoterismo o misticismo di sapore tardo-antico, a suo parere occorresse parlare di un Platone che poneva problemi, rimandava all’attenzione di tipo filologico che ebbe Konrad Gaiser, «l’anima filologica di Tubinga», rilevando l’importanza filosofica dei testi scritti e anche il proficuo stile dialogico.35

Possiamo dunque affermare che l’espressione socratica del corpo in quanto prigione, esprime quella mancanza di pensiero che è, essa stessa, mancanza di vita. Il corpo-prigione è il risultato della mancanza di un pensiero autentico, perché esso non può avere sede nella mera impermanenza del sensibile. Il corpo, infatti, se imprigionato nella mera impermanenza, non genererebbe alcun processo vitale perché non genererebbe storia, a partire dall’accezione di tale termine come mera narrazione. Il corpo-prigione è il corpo che non può essere depositario di verità assoluta («τὸ ἀληθέστατον» - 65E2), né di quella purezza necessaria a una conoscenza piena e vera («ἀλήθειάν τε καὶ φρόνησιν» - 66A6).36 Nel testo incontriamo Echecrate, personaggio del dialogo di cui conosciamo le ascendenze pitagoriche.37 Egli, se ci confrontiamo col testo in parafrasi, cerca qualcuno che lo ravvisi dell’evento della morte di Socrate. Echecrate incontra Fedone, che possiamo definire un testimone della vicenda narrata. Fedone ha vissuto e sperimentato i fatti dal vivo, e può trasmettergli dunque una memoria del maestro, al più possibile, integra. Ma non solo come concordanza della narrazione ai fatti, bensì come testimonianza vitale (che riguarda la vita, cioè ciò che anima e dà senso al discorso) di una storia ideale che si possa comunicare e si possa realizzare (come prassi).38 Una memoria che renda dicibile ciò che è in sé corruttibile, ovvero la mera empiria.39

Echecrate sembra esprimere il bisogno che l’esperienza della mera credenza orfico-pitagorica abbia di una intelligibilità, che trasformi il credere in agire e dunque di una testimonianza autentica (il testimone è colui che ha fatto autenticamente esperienza di qualcosa e lo è integralmente, in senso bontadiniano), e laddove il vero, l’autentico, non possa prescindere da una dialogicità che lo caratterizzi intrinsecamente. Fedone gli riporta il dialogo degli ultimi giorni della vita di Socrate, fra i membri di quel gruppo di testimoni che rimasero con lui fino alla morte. E l’ascoltatore può egli stesso condividere l’esperienza. L’empiria platonica non è quella della modernità. La πεῖρα nell’antichità è la prova, il tentativo, che comunque, nonostante la “routine” ad essa associata, evoca il limite (πείρατα) eracliteo.40 Nel Fedone, si utilizza la parola «πειρώμεθα»per veicolare l’idea dell’indagare o «cercare di vedere» (come traduce Giovanni Reale in 95A5), o potremmo dire «spingersi verso un limite». «Cerchiamo di vedere se hai detto qualcosa di buono», dice Socrate a Cebete, apprestandosi a confutare il suo ragionamento, dopo aver confutato quello di Simmia sull’anima come armonia. Se osserviamo l’etimologia della parola «empiria» troviamo che essa sia tuttavia significativa proprio in questo senso. Έμπειρία, έν (in) e πεῖρα (esperienza) denota il trovarsi all’interno di una esperienza, evocando la semantica della partecipazione o di una ideale integralità della condivisione, dimodoché il semplice ascoltare della narrazione del personaggio platonico che ha condiviso l’esperienza della morte di Socrate miri a un’esperienza di unificazione. L’esperienza del volgersi a quell’«Uno» che voglia realizzarsi dalle cose stesse. L’esperienza platonica ha bisogno del complemento della filosofia alla mera empiria. Si può vedere a questo proposito Leggi 790D, o Repubblica 582E, per designare che l’«esperienza» necessiti del complemento dell’intelligenza per produrre un giudizio adeguato («’Aλλ’ ὧδε σκόπει· τίνι χρὴ κρίνεσθαι τὰ μέλλοντα καλῶς κριθήσεςθαι; ἆρ’ οὐκ ἐμπειρίᾳ τε καὶ φρονήσει καὶ λόγῳ; ἢ τούτων ἔχοι ἄν τις βέλτιον κριτήριον;» - «Guarda la cosa in questo modo: da che punto di vista si deve giudicare ciò che occorre sia ben giudicato? Forse non con l’esperienza, l’intelligenza e il ragionamento? O si potrebbe proporre un criterio migliore di questi?» – Trad . M. Vegetti). La tematica dell’«unificazione» si mostra cifra ideale del conoscere della grecità. Secondo K. Reinhardt, Platone attribuisce a Eraclito un’idea fondamentale che si oppone a quella comune dottrina del flusso che lo qualificava tradizionalmente come filosofo del divenire.41 Ci è noto il frammento eracliteo, tra i diversi, che evoca tale tema: «ἒν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων» («Una sola è [infatti] la sapienza: conoscere l’intendimento che governa tutte le cose attraverso tutte le cose» - Trad. A. Tonelli).42 Ma più esplicitamente Teeteto, 152d, che pur affermando che nulla è uno per sé stesso e tutto è anche il suo contrario, ne desume una unità che, contenendo le opposte tensioni, consente sia il permanere sia l’opposizione stessa.43 A tale unificazione sembra mirare anche il ruolo del mythos all’interno del racconto del Fedone, il quale è a sua volta complemento, dal punto di vista dell’espressione, alla dialettica platonica. Esso stesso è narrazione di ordine ideale accanto alla narrazione descrittiva. Lo stile del mythos è narrante (il mythos è primariamente racconto, narrazione) e dotato di apertura interpretativa corrispondente al grado di apertura simbolica delle sue configurazioni narrative.

La funzione paideitica. Il mythos e il logos. Un esercizio co-pensante

Nel Fedone si configura quell’apertura platonica al mythos, considerato non più in opposizione al logos. La narrazione in forma mitica del destino dell’anima in una dimensione oltremondana comincia l’affrancamento di tale stile (Fedone 113-115). Esso è inteso come forma surrogatoria, laddove il discorso razionale (dianoetico) non può giungervi. Mythos e logos, insieme utilizzano la forma letteraria in funzione della polis, che già le antiche tradizioni garantivano, per consolidare i legami della città. Tale è la funzione paideitica, considerata in funzione della continuità delle tradizioni cittadine, garanti dell’ordine morale, nell’apertura alla futuribilità del discorso, attraverso il confronto con le nuove generazioni. Echecrate domanda: «C’eri proprio tu Fedone, quel giorno in cui Socrate bevve la cicuta, o ne hai sentito parlare da altri? Eri presente? Tale vicenda ti ha riguardato? Ne hai dunque davvero conoscenza, ne hai sapienza, ovvero ne hai scienza, o le tue sono solo vuote e labili nozioni? C’è una storia che vi riguarda entrambi?» [Αὺτό ς ὦ Φαίδων? Αὺτός, ὦ Εχέκρατες].44 «C’ero proprio io, o Echecrate, vi ero presente integralmente. La mia era conoscenza diretta ed essenziale». Fedone allora può rendere conto, “iniziare” la scansione della storia, del processo, ma lo fa, propriamente, attraverso un racconto mitico che fa parte integrante degli usi e costumi cittadini.45 L’utilizzo del mythos configura in questo passaggio iniziale il registro paideitico. Ma è topos della grecità (nel senso hegeliano della bella eticità della Grecia classica) parlare dell’individuo riferendosi alla funzione di «polites», esprimendo tale «necessità» nella forma del mythos. Il processo a Socrate non è stato seguito subito dal giudizio esecutivo, per quella mera disposizione delle cose che afferiscono al mito cittadino. Il «ritardo» si riferisce alla sfera di Τὺχη, e di ciò che riguarda l’idea di destino.

Τὺχη («un nome caro al pensiero filosofico», secondo Mircea Eliade) è l’antica oceanina esiodea, che in ultima istanza disponeva delle cose degli uomini perché sovrintendeva alle azioni umane e alle loro conseguenze, ponendo l’uomo di fronte al risultato delle proprie responsabilità, il che insegnava che l’azione umana avesse il carattere dell’effettualità, e che le conseguenze delle proprie azioni non incidevano solo individualmente, bensì esse interessavano tutta intera la comunità degli uomini della polis (in Pindaro, Τὺχη difendeva la città siciliana di Imera e vegliava sui destini di navi, battaglie e riunioni di cittadini).46 Si trattava dunque di una coincidenza, che il giorno prima del processo, partisse la nave per Delo, ovvero la nave che gli ateniesi inviavano a Delo, per ottemperare a un voto di ringraziamento fatto ad Apollo, dopo che Teseo, con quella stessa nave, salpando verso Creta, aveva salvato sette fanciulli e sette fanciulle dalle fauci di Minotauro. Da quell’evento salvifico per la comunità cittadina, in Atene si sospendevano tutte le condanne e le esecuzioni, finché la nave non avesse compiuto l’intero tragitto, da Atene a Delo, fino al ritorno. Perché, per tutto il «tragitto in onore al Dio»,47 θεωρία, (theoria) bisognava che la città si purificasse, καθαρεύειν. Dunque, si tratta di un mito che non solo si riverberava sulle leggi cittadine, ma interessava, anche, molto strettamente la sfera etica a livello individuale. Un racconto mitico, dunque, che diventava parte integrante della vita comunitaria. Tyche è anche Soteira (salvatrice) e potnia (regina), come trasmette Pausania.48 L’autore esprime così la preponderanza del mito nella vita e nelle relazioni;49 e dunque l’importanza del mythos nella sua esperienza, a partire dal dinamismo del pensare. E qui è possibile riferirsi nuovamente alla speculazione bontadiniana sulla metafisica dell’esperienza, ma anche, specificamente, sull’imprescindibilità del mito in Platone, a Ludwig Edelstein, che lega la significanza del mito platonico alla relazione tra ragione e immaginazione, e tra filosofia e poesia, e alle posizioni di Christopher Gill e Julia Annas, sulla necessità di considerare le specificità delle narrazioni mitiche nei singoli dialoghi platonici, come ad esempio, in Gorgia, Fedone e Repubblica. E ci si può riferire a Graziano Arrighetti che vagliando le suddette posizioni, in relazione alla poesia e alla storia, si sofferma sulla “necessità” che il mythos platonico abbia valenza protrettica, pur nella difficoltà di riferire tale significanza alla totalità dei dialoghi.50

Ma tornando alla dinamica della narrazione: Echecrate rivolge al testimone una domanda pressante su ciò che riguarda il momento della morte di Socrate. Che cosa ha detto prima di morire? «Τί οὖν δή ἐστιν ἅττα εἶπεν ὁ ἀνὴρ πρὸ τοῦ θανάτου» .51 Quale messaggio ha lasciato ai suoi?52 Tali domande dissimulano un’esigenza fondativa, ciò che permane del discorso che è stato intrapreso durato tutto il tempo del discepolato maieutico, all’interno della cerchia degli amici di Socrate, oltre l’azione disgregatrice della morte. «L’ho visto morire felice», risponde Fedone, sembrando cambiare registro del discorso.53 «Si è mostrato fino alla fine così sereno e nobile, tale da far pensare di aver avuto dalla sua parte il volere degli dèi, e tale da lasciar presagire che la sua vita non poteva non essere felice anche nell’Ade, ovvero, continuando a essere relativa a una buona pratica di vita»; εὖ πράξειν.54 Dunque, un memoriale che Socrate “doveva” aver lasciato come testimone di una possibile divina significanza, come un φάρμακον da condividere, nelle accezioni di rinuncia e rimedio, veleno e terapia, un “mondo capovolto” che egli vedeva mentre, gli amici non riuscivano a scorgere.

Qui, attraverso la rinarrazione, che segue il testo, in maniera puntuale, se non per ciò che riguarda una estensione letteraria e semantica di alcuni concetti, l’etica di Platone si mostra in maniera evidente, talché egli considera a base della virtù, ovvero di ciò che deve caratterizzare l’uomo nella sua configurazione ideale, l’intelligenza, e la conoscenza filosofica che non può prescindere da un fondamento di ordine «metafisico».55 Socrate sembra preoccupato di mostrare con la sua esperienza, alla cerchia dei suoi intimi, che soli potevano essere in grado di accedere all’essenza dalla sua filosofia, l’attitudine adeguata a giungervi. Egli fino all’ultimo minuto concessogli, prima dell’esecuzione, cerca di suscitare domande, ovvero il pensiero filosofico. Socrate cercava in quel consesso di pochi intimi di ricreare l’ambito della filosofia in senso autentico; cercava il modo per persuadere fino alla fine i suoi alla verità filosofica e alla scienza.56 Occorreva, dunque, postulare l’immortalità, un trascendente che persuadesse (in quanto fonte di senso e di massima significanza) della necessità argomentativa che l’anima fosse immortale. Più che un Chorismós, un Epanabaínein (più che mera separazione, un oltrepassamento). Per Elisabetta Zannier, la «reminiscenza» del ragionamento di Socrate, nel Fedone, non riferendosi a ciò che è nel tempo, non ha carattere meramente gnoseologico. Essa, al contrario, si sottrae al dinamismo del tempo per accedere al divino e all’eterno, e in quanto tale ha valenza morale ed etica. Essa cerca l’«immutabile».57

Sembra che Socrate, filosofo, parli, si potrebbe dire, a modo hegeliano, di un’unica e sola idea: la filosofia e il compito del filosofo. Quale può essere, infatti, quel mondo, verso il quale, chi vi si dirige deve comprendere quanto sia conveniente «indagare con ragione» e discorrere con miti (διασκοπεῖν τε καὶ μυθολογεῖν). Il filosofo, che si dirige verso quel mondo (come missione, in senso paideitico) invita, esorta anche i suoi amici a tale missione filosofica. Eveno, se è saggio deve seguirmi al più presto, ribadisce Socrate. Qual è quel compimento che, seppur tanto desiderato non si può mai dire posseduto se non con urgente e continuo domandare? La missione filosofica è quel pensiero intellettuale e vitale che deve aspirare all’oltre del domandare.

La missione del filosofo. L’homologia e la persuasione

Filosofia dunque non può essere un processo che si dirige verso la morte, essendo quest’ultima una sorta di prigione del non pensiero, come lo è un corpo devitalizzato, disanimato dalla mera fisicizzazione. Quel mondo altro, che Socrate si accinge a raggiungere, dopo averlo prefigurato, ed essersi confrontato con la sua consistenza in ordine all’esperienza progettuale, l’oltre, l’hyperouranos, ha a che fare, dunque, col soggetto, lo riguarda intimamente, perché riguarda il suo mondo ideale. Laddove invece la «custodia», φρουρᾷ, la prigione, nella quale, come indicano «i misteri», ἀπορρήτοις, l’anima è chiusa, appare più propriamente assimilabile alla corruttibilità della mera biologia, quando si affermi che l’anima, «che è un possesso degli dèi», ovvero, che ha a che fare col divino, non manifesti, non esprima ciò che invece è incorruttibile, come quell’ideale unico e degno di essere intrapreso, e senza il quale il corpo meramente biologico perderebbe di vita già su questa terra. Perciò si evidenzia come necessitante per il Platone espresso dal dire e fare socratico, una teoria delle idee, che si sostanzi in un’etica e una prassi secondo le idee. Il Socrate Platonico testimonia con la sua esperienza di rinuncia, quell’ascesi necessaria a riconoscere l’urgenza di tale teoria. In questo caso dunque possiamo parlare di filosofia come vera e propria «scelta di vita», secondo quanto sostiene Pierre Hadot in relazione a tutta intera la Filosofia dell’antichità. Essa infatti è esercizio spirituale, modo e forma di vita, là dove sia dotata di un valore esistenziale tale da orientare il modo di essere al mondo, esigendo un cambiamento radicale del sé, una vera e propria «conversione».58

Sono necessarie, infatti, quelle idee che valorizzino le cose in relazione a un processo di «sostanzializzazione» ed essenzializzazione in rapporto a un’idea archetipica. Le idee sono quelle esigite idealmente dal bene in rapporto alle cose, il bene delle cose stesse, la misura di bene di cui le cose devono partecipare (è necessario che vi partecipino) per essere buone ed essere migliori. È insensato infatti, come dice Cebete, che i filosofi desiderino la morte. Un folle (ἀνόητος) potrebbe pensare che sia meglio fuggire dalla custodia degli dèi (buoni), sotto la cui tutela (buona), viviamo qui su questa terra. Socrate concorda con tale affermazione. Ma egli riafferma la sua speranza di andare presso uomini buoni («νῦν δὲ εὖ ἴστε ὅτι παρ’ἄνδρας τε ἐλπίζο ἀφίξεσθαι ἀγαθούς» - 63B5-C). E la sua speranza è ferma (εὔελπίς) che ci si debba aspettare qualcosa di molto migliore sia per i buoni che per i cattivi, dopo la morte. E i convenuti auspicano che Socrate li persuada all’homologia, che condivida questa sua convinzione (διάνοιαν).

Che cos’è dunque questo «esercizio di morte» nel quale consisterebbe la filosofia? Di quale «morte» si parla? Può darsi il corpo di per sé, che dia leggi di per sé e viva di per sé, ovvero senza un’anima? È vita autentica solo procurarsi i beni del corpo? Può generare vita un corpo che non abbia in sé tutto ciò che pertiene all’anima (di per sé), nel senso della sua integrità ideale e del suo aver assolto o cercato di assolvere ai più grandi ideali? Anche nel poema parmenideo la dea invitava a scegliere fra due vie. Essere o non essere, in quanto archè. Affermare l’essere, o non affermarlo. Affermare che il corpo viva autenticamente e in pienezza anche senza l’anima, nella sua postulazione filosofica come afferenza agli ideali, o affermare la vita nel senso più pieno, in relazione alla speranza e a un meglio per l’uomo. Le idee sono da considerare di per sé. Noi diciamo, infatti, che il giustο è qualcosa per se stesso, e anche il bello e il buono. «φαμέν τι εἶναι δίκαιον αὐτὸ […] καὶ αὖ καλόν γέ τι καὶ ἀγαθόν» (65D-5). E così anche per la grandezza, la salute e la forza, noi ricerchiamo l’essenza di tutte le cose: «τῆς οὐσίας».59 Cosicché ci si può accostare alla ragione delle cose nella maniera più pura, se si considera l’anima per sé da un lato, a partire da essa, a partire da un’anima incorruttibile e immortale.

Non è forse costui Simmia, colui che potrà attingere l’essere più di chiunque altro? «ἆρ’ οὐχ οὗτός ἐστιν, ὦ Σιμμία, εἴπερ τις [καὶ] ἄλλος ὁ τευξόμενος τοῦ ὄντος;» (66A5). C’è una via (ἀτραπός), che attraverso il «discorso» (μετὰ τοῦ λόγου) e la sua apertura conduce a un pensiero, a una determinazione-posizione (ἐν τῇ σκέψει). Il corpo è mutevole. È un andirivieni di desideri, paure, turbamenti, vanità. Mentre noi desideriamo il vero, sebbene non riusciamo a scorgerlo. E non ci è consentito pensare con determinazione (stabilmente, progettualmente), (φρονήσαι). Se il corpo (senza la stabilitas della psyché, fondamento del reale, senza phronesis), si considera a sé (di per sé), i suoi illimitati desideri diventano brama di ricchezze, e tale brama è origine di tutti i mali: guerre, discordie, sedizioni (πολέμους καὶ στάσεις καὶ μάχας). Il corpo è talmente interessato da un continuo cambiamento, che persino gli addestramenti ginnici, non possono essere aristotelicamente considerati senza il contraltare «psychico» di un’anima-forma razionale.60 Così le «aretai» della polis sono utili all’uomo se guidate e «unificate» da quell’unico omerico nocchiero che è il coraggio.

Le quattro virtù della antica tradizione, reinterpretate socraticamente, e diventate le virtù civili, rispetto alle quali ogni opposizione esprime l’idea della possibilità di una deriva individualista e conformista molto più di un’aperta minaccia di un nemico, non si possono perseguire senza che il coraggio, come fusione di tutte e quattro le virtù, dispieghi una unità nella molteplicità, ovvero si evidenzi come integrità esperienziale. Il coraggio è quello di chi consideri l’areté a prezzo della vita, e non secondo una vuota spavalderia, che la mette a rischio per gioco. Questo fa dell’uomo autenticamente un uomo. Il coraggio istintivo, anche un animale lo possiede. La scienza del bene rende l’uomo morale, è cioè più uomo. Nessuno infatti che ne abbia coscienza, ne sia intimamente pervaso, non secondo vano intellettualismo, compie il male. Chi mette il bene al centro della sua vita e tale bene lo diventa, costui vive realmente. Così esprimeva l’epigrafe che gli ateniesi dedicarono ai caduti di Potidea. Barattarono la vita con l’areté, perciò le anime le accolse l’etere e i corpi la terra.61

Oseremmo riconoscervi un messaggio evangelico ante litteram: Che cosa gioverebbe all’uomo conquistare tutto il mondo se perdesse la sua anima?62 Solo se l’anima trascende il corpo, se la si considera separata, essa potrà giovare al corpo, in termini di purificazione. Purezza è una idea-limite. Essa riguarda il concetto di integrità inerente alla cosa, integrità che è anche rapporto rispetto all’intero nel quale essa è, esiste e vive. Esso è concetto di ordine metafisico. Noi vogliamo vedere il vero (καθορᾶν τἀληθές)63 della cosa stessa. E non riusciamo a vederlo a partire meramente da essa. Se vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo guardarla con la sola anima. «εἰ μέλλομέμ ποτε καθαρῶς τι εἴσεσθαι, ἀπαλλακτέον αὐτοῦ καὶ αὐτῇ τῇ ψυχῇ θεατέον αὐτὰ τὰ πράγματα» (66D5-E). Così raggiungiamo quella saggezza (φρονήσεως) che è intendimento autentico, perché capace di farsi prassi, buona prassi. E tutte le virtù, temperanza compresa, devono essere acquistate con la moneta autentica della saggezza, poiché altrimenti non si darebbe giusto scambio. Se i piaceri venissero contraccambiati con i piaceri, i dolori con i dolori e le paure con minori paure. Se uno cioè ritenesse di affrontare la morte per timore di mali maggiori, considerando la morte un male grandissimo, non guardando a un Oltre immortale e a partire da esso, niente gioverebbe.

E osiamo nuovamente tradurre quanto detto sinora in termini evangelici e neotestamentari: «E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova».64 Paolo, nella prima lettera ai Corinzi sembra riferirsi ad un’analoga moneta, ovvero a una carità che è oltre ciò che è mortale e lo informa di sé integralmente. Quella saggezza che ha i caratteri della donatività, deve possedere il metro ideale per essere scambiabile con tutte le monete in circolazione, essa delinea, tratteggia ciò che ha a che fare con l’immortale. Ma come può configurarsi ciò che è immortale? Qual è il giudizio adeguato ad accedervi? Socrate esige la filosofia. Occorre che si configuri un contesto adeguato a filosofare in autenticità. È necessaria la dialogicità di un’apertura dialettica. Quella prigione, nella quale i convitati discutono sulla vita e sulla morte ne ha le caratteristiche sufficienti. Tutti costoro cercano assolutamente una «via d’uscita» dall’aporia dei contrari dell’impermanenza, un’«euporia», per riuscire a guardare tutte le cose da un punto di vista ontologicamente superiore.65

La gente è incredula (ἀπιστίαν). Ritiene che l’anima, separatasi dal corpo finisca nel nulla. Dunque non c’è nulla di grande che valga la pena di essere intrapreso se non il lasciarsi affliggere dalla corruzione e dai mali. Una grande e bella speranza (πολλὴ ἂν εἴη ἐλπὶς καὶ καλή) sarebbe invece essere persuasi che ci sia un’anima dopo la morte e che essa abbia ancora capacità di agire e saggezza. «Dunque, vuoi Cebete che continuiamo a raccontarci sulla sua possibile verosimiglianza (διαμυθολογῶμεν)?», domanda Socrate. Allora facciamo scepsi (σκεψώμεθα). Analizziamo i contrari a modo degli antichi, facciamo disamina dei contrari, osserviamo i contrari, come faceva Eraclito, come Parmenide, come Anassagora di Clazomene, quello che fu allo stesso modo accusato di empietà, solo perché diceva che il sole fosse una massa di fuoco e la luna rocciosa.66 Facciamo insieme esperienza, attraverso la confutazione reciproca e l’ascolto, di una impraticabilità. Come facevano gli antichi vivendo la successione degli stati e delle opposizioni fino a esigere un comune, un oltre, l’archè.

Tra il piccolo e il grande c’è infatti di mezzo il processo, di accrescimento o di diminuzione. «Μείζονος μὲν πράγματος καὶ ἐλάττονος μεταξὺ αὔξησις καὶ φθίσις» (71B). Così se dalla vita, la morte, è necessaria l’homologia che dalla morte si dia vita. Necessario, perché è sapere traducibile in πράγμα.67 E Socrate su questo riproduce assentimento. Come se gli interlocutori non potessero che cogliere l’evidenza necessitante del discorso. «Senza dubbio» o «certamente» o ancora «come no?» sono le risposte di Cebete alle domande incalzanti di Socrate. E poi c’è l’evidenza donativa della reminiscenza. Essa non può fondarsi su alcunché di tangibile. Essa si riferisce ad una anteriorità, a un oltre anteriore e interiore, e nello stesso tempo è presente e presaga, e il discorso persuade ancora. Non a motivo della consequenzialità delle argomentazioni ad demostrandum, che pure sono così perspicue. Il Socrate platonico non è infatti fautore di una metafisica integralmente deduttiva, non può definirsi un razionalista in senso meramente strumentale, egli non tratta una tesi secondo un concetto di metafisica totalizzante e onnipervadente, ma elabora piuttosto una struttura concettuale che ponga in luce l’imprescindibilità di riconoscere ciò che nell’inferenza stessa non è inferibile affatto, ma che è oltremodo vitale, che ha a che fare cioè con l’autenticità è con il vero dell’esperienza, di qualsiasi esperienza.68

Se esistono dunque le realtà del bello, del buono e delle altre cose a queste simili, deve necessariamente (in senso ideale) esistere l’anima e deve supporsi che essa sia anteriore alla generazione dei corpi. Per cui, siamo nati possedendo già conoscenza, o la nostra è solamente reminiscenza di conoscenze acquisite in passato? Socrate domanda a Simmia se questi è in grado di fare scepsi. «Occorre distinguere, per dialettizzare e mediare». Πότερον οὖν αἱρῇ, ὦ Σιμμία.69 «Quale delle due scegli?». Simmia risponde che in quel momento non si sente ancora pronto alla scelta. Non se ne sente ancora abbastanza persuaso. Se non vi fossero infatti le idee, quelle che persuadono, se esse non avessero sostanzialità donativa, nemmeno l’anima esisterebbe. Essa non potrebbe dispiegarsi storicamente (in diacronia) e in progressione; non esisterebbe (ontologicamente) perché non avrebbe un senso (assiologia). Il senso è dunque progrediente perciò la teoria delle idee è connaturale all’idea dell’anima, idea che è realtà dell’anima stessa.

E resta dimostrato che se l’anima nasce dal regno della morte, là dove non vi è consequenzialità, inferenzialità, là dove la cogenza dell’evidenza di una ininferenzialità sia così stringente, là dove il pensiero di essa persuada come dimensione di eterna presenza, allora si potrà riconoscere e affermare la plausibilità che essa costituisca l’esito necessario della sua vita stessa. Ovvero che essa dopo la morte continui a vivere per sempre, cioè sia immortale, come le idee. Infatti, è necessario, vi è cogente idealità, che la realtà in sé (αὐτὴ ἡ οὐσία), quella del cui essere diamo ragione (λόγον δίδομεν), domandando e rispondendo («καὶ ἐρωτῶντες καὶ ἀποκρινόμενοι» (78D),70 sia immutevole e sia incondizionata. Laddove le cose non lo siano. E allora tale realtà deve essere invisibile, perché può cogliersi solo intellettivamente, con la διανοία, e anche in relazione a quest’ultima, per cogliere la valenza e l’importanza del sapere dianoetico, vi è bisogno di un’ulteriorità che persuada.71

Conclusione

Abbiamo voluto evidenziare come la metafisica sia un discorso necessario da fare, non solo per fare filosofia e per comprenderla, ma soprattutto per attuare un’ermeneutica dei testi più profonda ed essenziale. La metafisica, come una sorta di heideggeriana tesi sul fondamento dell’argomentazione filosofica, ha bisogno di essere espressa ed evidenziata, come si esprime necessariamente, in una forma specifica e significativa, una qualsiasi posizione filosofica che abbia carattere di autorialità. In questo esercizio la produzione delle opere platoniche è emblematica. L’azione di Socrate stesso è, a parere della scrivente, un’operazione di progressivo disvelamento dei tratti fondamentali del pensiero dei suoi deuteragonisti, il che corrisponde al senso proprio della maieutica. Per intraprendere questo itinerario conoscitivo (metafisico prima, e inerente al contenuto del testo dopo) è necessario che l’interprete stesso compia una operazione metafisica. Egli deve confrontarsi con le questioni fondamentali trattate dall’autore di un testo, come nel nostro caso, il Fedone platonico, intercettando la loro riapertura problematica, che il testo stesso evidenzia, e avventurarsi in un cammino di continua esercitazione co-pensante. Abbiamo ripercorso inoltre in via storico-filosofica la memoria del concetto di metafisica, per ribadirne l’essenzialità sotto tutti gli aspetti. Il passo successivo è stato quello di entrare nel vivo del testo per effettuare un’operazione di inferenza argomentativa a modo dell’apheresis platonica. In questa fase si è resa evidente l’imprescindibilità della metafisica platonica, nell’aspetto di una metafisica henologica, ma in dialogo con quelle posizioni che siano in grado di cogliere i passaggi del testo in una piena sensatezza, e che possano ricomprendere, senza eccessive derive aporetiche, sia l’aspetto teorico sia quello inerente all’esperienza in toto del pensare platonico. A partire dal testo emerge anche la funzione paideitica del mythos platonico che non può essere concepito svincolato dal logos (inteso come ragione ideale di educazione a una responsabilità nei riguardi di una cittadinanza ideale). Insieme al Socrate, protagonista del Fedone, emerge la significatività della missione del filosofo, come usava affermare F. Olgiati, che non è per la morte, ma per la comunanza del progettare e del pensare (come homologia), e, dunque, per l’affermazione della vita.


  1. Cfr. Rudolf Brandner, «Aristotele e la fondazione henologica dell’ontologia», in Rivista Di Filosofia Neo-Scolastica, vol. 88, no. 2, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 1996, pp. 183–204, http://www.jstor.org/stable/43063029↩︎

  2. Cfr. Umberto Galeazzi, «Cartesio e Kant nella Terminologia filosofica di Adorno», in Rivista Di Filosofia Neo-Scolastica, vol. 76, no. 2, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 1984, pp. 292–316, http://www.jstor.org/stable/43061241↩︎

  3. Cfr. Enrico Berti (a c. di), Storia della metafisica, Carocci, Roma 2019, pp. 25-42: F. Fronterotta, La metafisica di Platone. Cfr. L. Brisson (1999), Un si long anonymat, in J.-M. Narbonne, L. Langlois (éds.), La métaphysique, son histoire, sa critique, ses enjeux, Vrin-Les Presses de l’Université Laval, Paris-Québec, pp. 37-60. E. Berti (2017), Introduzione alla metafisica, Utet, Torino (2a ed.). Cfr. C. Sini, Platon et l’origine de la métaphysique, in Dixsaut (1995), pp. 293-302. ↩︎

  4. Cfr. Francesco Olgiati, «Come si pone oggi il problema della metafisica», in Rivista Neo-Scolastica, Vol. 14, No. 1 (gennaio-febbraio 1922, pp. 14-28. ↩︎

  5. O dei platonismi, come sottolinea Mario Vegetti: la storia del platonismo si è caratterizzata come una pluralità di platonismi compossibili. Cfr. M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, p. 222. ↩︎

  6. Cfr. Plat. Phaed. 89d. ↩︎

  7. Cfr. M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1966, trad. it. G. Masi, Introduzione alla metafisica, pres. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1990, p. 7. ↩︎

  8. Ibidem, p. 13. ↩︎

  9. Cfr. Giorgio Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 2019. ↩︎

  10. Cfr. Mario Vegetti, Quindici lezioni su Platone, op. cit., p. 3. ↩︎

  11. Ibidem, p. 4 ss. ↩︎

  12. Eugen Fink, ne Le domande fondamentali della filosofia antica, sostiene che l’interpretazione cointerrogante sia quella più idonea, sia nel senso di una valutazione più adeguata del pensiero degli antichi (egli co-domanda insieme a Platone, Aristotele e i presocratici, sugli stessi temi intorno ai quali essi stessi domandavano), sia in riferimento alla storia attuale. Cfr. Id., Le domande fondamentali della filosofia antica, Donzelli Editore, Roma 2013. Si veda inoltre Werner Beierwaltes, Unità e identità nel cammino del pensiero, in Autori vari, L’Uno e i Molti, a c. di Virgilio Melchiorre, Metafisica e Storia della Metafisica, V. 8, Vita e Pensiero, Milano 1990, p. 29. Si deve evitare, dice il Beierwaltes di descrivere il passato come un oggetto da museo, con sguardo antiquario, ma lo sguardo invece deve essere rivolto alla rilevanza di verità dell’oggetto, senza sottrarsi al lavoro dello storico. Siamo noi Wirkungsgeschichte (Wir selbst Wirkungsgeschichte sind p. 6). La domanda sulla vicinanza e la lontananza, o della vicinanza nella lontananza, di un pensiero è diventato infatti il Leitmotiv della ricerca filosofica del Beierwaltes, essendo, secondo l’autore, solo a partire dalla consapevolezza della differenza ermeneutica che separa l’oggi dal passato, che viene resa possibile un’appropriazione critica e produttiva del pensiero. ↩︎

  13. Ricordiamo la suddivisione del conoscibile in Repubblica VII, attraverso il mito della caverna. ↩︎

  14. Cfr. Étienne Gilson, L’être et l’essence, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1948; cfr. Id., Réalisme méthodique, Téqui, Paris 1935; Id. Réalisme thomiste et critique de la connaissance, Vrin, Paris 1939; Id. Introduction à la philosophie chrétienne, Vrin, Paris, 1960; Id. Costantes philosophiques de l’être, Vrin, Paris 1983. ↩︎

  15. Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, traduzione, introduzione e note di Roberto Bordoli, Edizione digitale Laterza, novembre 2015, Parte terza, 3, la filosofia neoplatonica. ↩︎

  16. Cfr. Gustavo Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 21-22 e 73-74. ↩︎

  17. Le antinomie sono quelle per cui, kantianamente, non si riesce più a operare il principio di non contraddizione. ↩︎

  18. Kant, com’è noto, si riferisce alla «cosmologia razionale» della dialettica trascendentale, di contro all’«analitica» che contraddistingue la logica kantiana della prima critica. ↩︎

  19. Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, a c. di Pietro Chiodi, UTET, Novara 2013, p. 353. ↩︎

  20. Cfr. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2002. ↩︎

  21. Cfr. Giuseppe Martano, «Attico filosofo platonico del II sec. d. C», in Rivista Di Storia Della Filosofia (1946-1949), vol. 2, no. 2, FrancoAngeli srl, 1947, pp. 7–18, http://www.jstor.org/stable/44018247. Franco Ferrari, Introduzione a Platone, Il Mulino, Bologna 2018; L. Brisson, Le Même e l’Autre dans la structure ontologique du “Timée” de Platon, Academia Verlag, Sankt Augustin 1998. ↩︎

  22. Giovanni Reale, «“Paideia” o metafisica delle idee a proposito del “Platone” di Werner Jaeger», in Rivista Di Filosofia Neo-Scolastica, vol. 48, no. 1, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 1956, pp. 42–67, http://www.jstor.org/stable/43067493↩︎

  23. Giovanni Gentile parlava di «metafisica popolare», per designare le basi fondanti riguardo alle consuetudini e agli usi del popolo, inteso in senso sociologico. Cfr. v. «metafisica» in Enciclopedia Treccani. ↩︎

  24. Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, op. cit., pref. alla prima edizione, p. 63. ↩︎

  25. È nota la titolazione del testo della Metafisica di Aristotele ad opera di Andronico di Rodi, attribuita nel I sec. d. C. nel corso della redazione del testo. ↩︎

  26. Qui non si vuole opporre tale affermazione a qualsiasi interpretazione della Metafisica aristotelica come generica critica filosofica, ma si vuole sottolineare la caratterizzazione pensante (e perciò filosofica in senso autentico) e non meramente dossografica di Aristotele rispetto ai filosofi della sua epoca. ↩︎

  27. La descrizione schematica che segue, è tratta dal testo di Giovanni Reale, Id, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, cit., cap. V. Secondo G. Reale, è a partire dall’incontro con i Fisici che Platone sperimenta l’inadeguatezza di una chiusura nella mera immanenza del sensibile. Anche Anassagora cade nella difficoltà teleologica, pur postulando un’intelligenza preordinata agli altri elementi. Platone guadagna, però, pienamente la dimensione oltresensibile con la prefigurazione della “seconda navigazione”, e ciò accade in due fasi, dapprima come teoria delle idee e poi come teoria dei principi supremi, o protologia. Aristotele intende le idee platoniche come entificazioni e ipostatizzazioni che andassero immanentizzate. Tale posizione è ancora oggi vigente in molti ambiti dell’ermeneutica platonica. Il medioplatonismo risponde alle critiche aristoteliche distinguendo all’interno delle idee, intese come intelletto divino, pensieri divini e forme immanenti (intelligibili primi e secondi), acuendo il processo di entificazione, così il neoplatonismo, con le ipostasi a partire dal Nous divino. La patristica ha sviluppato temi medioplatonici e neoplatonici alla luce della teoria della creazione. I medievali hanno considerato le idee platoniche appartenenti alla categoria del “realismo esagerato” in consonanza all’interpretazione aristotelica, nell’ambito della disputa sugli universali. [Per una definizione esaustiva di realismo esagerato come quella tesi che ammette la priorità del “razionale”, inteso in senso non restrittivo – come logica meramente strumentale e né come ipostatizzazione di concetti –, sull’analisi empirica si veda: Philip Merlan, Dal Platonismo al Neoplatonismo, a c. di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 1990, pp. 51-52]. Con il razionalismo e l’empirismo, infine, le idee divengono afferenti solo alla dimensione dell’intelletto umano. Con Kant esse divengono le grandi idee regolative per l’esperienza umana. Per Hegel le idee afferiscono allo speculativo e per i neokantiani sono strutture regolative del pensiero. Nella contemporaneità su tale tema vi è una convergenza di studi filologici, storico-filosofici, teoretici e fenomenologici. ↩︎

  28. Insieme a Giovanni Reale, Cherniss, Brisson e Goodrich, fra gli studiosi che sostengono che il testo del Fedone sia fondativo nel campo del discorso sulla metafisica, come prima traccia di una storia spirituale, visione teleologica e ideale. Cfr. Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, cit. Cap. V. ↩︎

  29. Cfr. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle dottrine non scritte, op. cit., p. 162. Cfr. Cap. VI, per la disamina sulla storia della platonica «metafisica delle idee». ↩︎

  30. J. Findlay, Platone, Le dottrine scritte e non scritte, Vita e Pensiero, Milano 1994, p. 115. ↩︎

  31. Sulla configurazione invece di un modello concettuale propriamente olistico, per una definizione dei principi, ragionando sull’accostamento tra Fedone e Menone, la cui funzione «consists in showing their contribution to the system as a whole», si veda anche Francesco Fronterotta et Claudia Maggi, «Gail Fine (ed.), The Oxford Handbook of Plato», Études platoniciennes [En ligne], 8/2011, mis en ligne le 16 décembre 2014, consulté le 09 mars 2022. URL : http://journals.openedition.org/etudesplatoniciennes/470 ; DOI : https://doi.org/10.4000/etudesplatoniciennes.470↩︎

  32. Cfr. Antonio Carlini, Note critiche al testo del Fedone, Boll. Class., 16, 1968, pp. 25-60. Cfr. Stefania Mancini, «Un Insegnamento Segreto (Plat. 'Phaed'. 62b)», in Quaderni Urbinati Di Cultura Classica, vol. 61, no. 1, Fabrizio Serra, 1999, pp. 153–68, https://doi.org/10.2307/20546576↩︎

  33. Cfr. Plat. Phaed. 66E. ↩︎

  34. Cfr. Giovanni Reale, «L’Uno-Bene come asse portante della protologia platonica in particolare nella «Repubblica» e nel «Filebo» e i suoi rapporti con il Demiurgo», in Rivista Di Filosofia Neo-Scolastica, vol. 92, no. 3/4, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 2000, pp. 365–85, http://www.jstor.org/stable/43063241↩︎

  35. Cfr. Margherita Isnardi Parente, Platone dalla metafisica alla quotidianità, in Belfagor, vol. 50, no. 2, Leo S. Olschki, 1995, pp. 187–200, http://www.jstor.org/stable/26147225↩︎

  36. Cfr. Maurizio Migliori, «La struttura 'sequenziale' del 'Fedone': Un “gioco” magistrale per provare l’immortalità dell’anima», Rivista Di Filosofia Neo-Scolastica, vol. 108, no. 4, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 2016, pp. 891–914, http://www.jstor.org/stable/26504853↩︎

  37. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII 46. Si veda, anche, a proposito del retaggio orfico-pitagorico nel Fedone, come espressione della teoria delle idee e della cogenza di evidenziare una «separazione», di considerare le idee indipendenti rispetto alla mutevolezza delle cose materiali, piuttosto che aristoteliche «universalia in rebus», R. Hackforth, In Plato’s Phaedo, Cambridge 1955, pp. 5-7. ↩︎

  38. Con il termine prassi non ci si vuole riferire direttamente al concetto gentiliano di esso, ma estendere la significazione fino a richiamarlo, nei termini di un’attualizzazione ermeneutica, avendo presente indicativamente il motto sempre valido di W. Beierwaltes: Noi siamo la Storia delle interpretazioni. ↩︎

  39. La parola «empiria» compare in alcune opere platoniche (cfr. Plat. Phaedr. 270b5, Gorg. 463b4. 501a7), con il significato di mera pratica associata a τριβή, che si può tradurre come esercizio di routine, ma anche come esperienza. ↩︎

  40. Cfr. Fr. 61 [45 DK; 67 Marcovich], in Eraclito, Frammenti, traduzione e cura di Francesco Fronterotta, Biblioteca Universale Rizzoli, 2013: «ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύοιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει», «Per quanto tu proceda, non riuscirai a trovare i limiti dell’anima percorrendo ogni via: tanto profondo è il ragionamento che la riguarda». ↩︎

  41. Cfr. K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Bonn 1916. ↩︎

  42. Cfr. Eraclito, Dell’Origine, trad. a c. di Angelo Tonelli, Feltrinelli editore, Milano 2012., Fr. 35, p. 86. ↩︎

  43. Cfr. Eraclito, Testimonianze, imitazioni, frammenti, a c. di Miroslav Marcovich, Rodolfo Mondolfo e Leonardo Taràn, Bompiani, Milano 2007. ↩︎

  44. Cfr. Plat. Phaed. 57 A ↩︎

  45. Sul mito come pensiero dell’immutabile e della permanenza, riguardo a un sensibile soggetto a mutevolezza e a corruzione, si veda Luc Brisson, How Philosophers Saved Myth, Allegorical Interpratation and Classical Mythology, University of Chicago 2004, p. 22. ↩︎

  46. Cfr. Mircea Eliade, Dizionario delle religioni mediterranee, Jaca Book, Milano 2019. ↩︎

  47. «Pellegrinaggio», traduce Giovanni Reale. Cfr. Platone, Fedone, a c. di Giovanni Reale, con sua prefazione, saggio introduttivo traduzione, apparati e inserto iconografico, Bompiani, Testi a fronte, Milano 2011, p. 87 ; 57 B. ↩︎

  48. Cfr, Mircea Eliade, Dizionario delle religioni mediterranee, op. cit. ↩︎

  49. Cfr. David A. White, Myth and Metaphysics in Plato’s Phaedo, Selinsgrove: Susquehanna University Press. London and Toronto: Associated University Press, 1989, Cranbury, NJ. P. 28: «A mythical reference at the outset of the dramatic action serves as a prelude indicating the importance of mythical representation in the realities of the days, in this case the last day in the life of Socrates». ↩︎

  50. Cfr. Julia Annas, «Plato’s Myths of Judgement», in Phronesis, vol. 27, no. 2, Brill, 1982, pp. 119-43, http://www.jstor.org/stable/4182147. Cfr. Graziano Arrighetti, «Platone fra mito, poesia e storia», in Studi Classici e Orientali, vol. 41, Pisa University Press S.R.L., 1992, pp. 13–34, http://www.jstor.org/stable/24184553. Cfr. Ludwig Edelstein, «The Function of the Myth in Plato’s Philosophy», in Journ. Hist. Ideas 10 (1949) p. 463 ss.; Christopher Gill, «The genre of the Atlantis Story», in Class. Philol. 72 (1977), pp. 287-304. ↩︎

  51. Cfr. Plat. Phaed. 57A5. ↩︎

  52. Cfr. Plat. Phaed 58C5. «Τί δὲ δὴ τὰ περὶ αὐτὸν τὸν θ ά νατον, ὦ Φαίδων; τί ἦν τὰ λεχθέντα καὶ πραχθέντα, καὶ τίνες οἱ παραγενόμενοι τῶν ἐπιτηδείων τῷ ἀνδρί; ἢ οὐκ εἴων οἱ ἄρχοντες παρεῖναι, αλλ’ἔρημος ἐτελεύτα φίλων;» («E che cosa avvenne, Fedone, al momento della morte? Che cosa fu detto, che cosa fu fatto? Quali dei suoi amici gli furono accanto? O i magistrati non permisero a nessuno di essere presente, ed egli morì senza amici?», trad. G. Reale). ↩︎

  53. Cfr. 58 E. «Εὐδαίμον γάρ μοι ἁνὴρ ἐφαίνετο» («Egli mi pareva felice», trad. G. Reale). ↩︎

  54. «Sarebbe vissuto felice», traduce Giovanni Reale; cfr. Plat. Phaed. 58 E 5. ↩︎

  55. Cfr. Platone, Fedone, a c. di G. Reale, Bompiani, Milano 2011, p. 66. ↩︎

  56. Il senso del «cercare» la scienza in modo autentico, aristotelico, ma anche, analogamente, socratico, è descritto in modo molto esauriente da E. Berti, in Struttura e significato della Metafisica di Aristotele, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2006, pp. 83-87, come un ricercare non conclusivistico e dunque, in ultima istanza, dogmatico, ma nemmeno scettico, in riferimento alle interpretazioni di esso di Martin Heidegger e di Pierre Aubenque. ↩︎

  57. Elisabetta Zannier, «Aspetti etici della teoria della reminiscenza», in: Etica & Politica / Ethics & Politics, I (1999) 2. Cfr. E. Tetamo, La teoria platonica dell’anima nel “Fedone” e negli altri dialoghi, in A. Tagliapietra (a cura di), Platone. Fedone, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 279-311 ↩︎

  58. Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, a c. di Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino 2002. ↩︎

  59. Cfr. Plat. Phaed. 65 D 5-10. ↩︎

  60. Cfr. Aristotele, Politica, VIII, 4.1338b 40-1339a 11. ↩︎

  61. Cfr. J. Jeffcken, Griechische Epigramme, 87b, citato in Max Pohlenz, Der hellenische Mensch, 1974 Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, L’uomo greco, saggio introduttivo di Giovanni Reale e trad. di Beniamino Proto, Bompiani Il Pensiero Occidentale, Milano 2006, pp. 26 e 401. ↩︎

  62. Cfr. Ibidem, p. 402. ↩︎

  63. Cfr. Plat. Phaed. 66D5 ↩︎

  64. Cfr. 1 Corinzi 13. ↩︎

  65. Cfr. Raffaella Santi, Platone, Hegel e la dialettica, con presentazione di Carlo Bo e prefazione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 44. ↩︎

  66. Cfr. Plat. Apol. 26 D 5. ↩︎

  67. Cfr. Plat. Phaed. 71 B - D. ↩︎

  68. Cfr. Ilham Dilman, Philosophy and the Philosophic life, A Study in Plato’s Phaedo, St. Martin’s Press, New York 1992, p. 2. ↩︎

  69. Cfr. Plat. Phaed. 76 A 5 - B. ↩︎

  70. Cfr. Plat. Phaed. 78 D. ↩︎

  71. Cfr. Franco Trabattoni, Scrivere nell’anima. Verità, dialettica e persuasione in Platone, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1993, pag 93. ↩︎