1. L’inizio
Lo scopo di questo scritto è disvelativo. Ciò che si propone è cercare qualcosa che non appare immediatamente nella sua piena “svelatezza” (aletheia).1 Il tema del presente articolo esige un’operazione, se così si può dire, prendendo a prestito le parole di un testo del sociologo Franco Cassano, “meridiana”.2 Come la luce del sole, quando comincia a tramontare, illumina i paesaggi, e a tratti, vi è anche assorbita dal nitore delle loro superfici, così il domandare sulla tematica dell’inizio (archè – o del pensare tout court, come scrive Massimo Cacciari, o l’inizio come il problema della filosofia) nel Simposio platonico, deve intraprendere un tipo di ermeneutica che si spinga oltre la mera letteralità del testo, come un oggetto di cui ciò che appare è il velamento (lethe heideggeriana) più che il disvelamento da operare (aletheia), (cfr Illetterati, Moretto 2004). Il suddetto tema non è presente in tale dialogo se non indirettamente, in maniera più evidente lo ritroviamo solo nel discorso di Diotima rievocato da Socrate, e sebbene, anche, della parola precipua non ci siano specificamente in esso tante occorrenze. E tuttavia esso è presente e nella nostra visuale percorre il testo al di là della lettera, non solo orientandone le domande fondamentali, ma caratterizzandone l’intera significatività.
Ma dobbiamo innanzitutto domandare che cosa si intende filosoficamente per “inizio”, e come lo intende Platone. È nota la cosmogonia platonica del Timeo e il tema del tempo a essa relativo. Una cosmogonia è notoriamente un discorso sull’inizio di tutte le cose, stante che il tempo, se lo pensiamo in termini kantiani, è l’inizio (come schema della sensibilità interna) del pensare il sensibile. Il tempo nel Timeo è una immagine mobile dell’eternità. Il Padre generatore, nel mito (ὁ γεννήσας πατήρ – 37 D), dopo essersi compiaciuto che il mondo fosse a immagine degli dèi eterni, per renderlo più simile all’esemplare (παράδειγμα), che era un vivente eterno, lo fece secondo tale immagine, facendolo procedere secondo il numero. Ma la specificità del Demiurgo era che egli fosse buono, cosicché l’autore specifica che chi avesse ammesso tale «principio come principale» (μάλιστ’ ἄν τις ἀρχὴν κυριω), l’avrebbe fatto rettamente (29 E – 30 A). Tuttavia andando oltre il mito platonico, un riferimento imprescindibile, per tematizzare tale questione, non può essere che Aristotele, che ha fatto dell’archè (principio), archè-aition (causa prima), un tema chiave del primo libro della Metafisica. Dallo sguardo teorico aristotelico, che è co-interrogante e filosofico, si evince infatti l’essenzialità del tema del cominciamento in tutto il pensiero antico.3 Per Heidegger, il cominciamento è ciò che rimane e procede oltre questo tempo, in quanto è il riconoscimento di un limite, del compimento del discorso metafisico dell’epoca presente, ormai heideggerianamente consegnatasi a un confinamento-raccoglimento, atto solo a un oltrepassamento pensante, laddove soprattutto la “metafisica” platonica sia stata determinante (maßgebend) a portarlo verso il prevalere di una tecnicità che sembri aver concluso ogni discorso filosofico nella sua autorialità.4 L’epocalità è «l’oblio dell’essere», nell’autenticità del pensiero sull’essere e nella sua gratuità. Ma Heidegger stesso intravede delle tracce di un possibile «cominciamento» nell’ermeneutica del tema della physis aristotelica, o nella leibniziana «sete di esistenza» o ancora nella metafisica kantiana del finito.5 Ma come può diventare allora un tema centrale del Simposio platonico date le premesse sinora fatte? Proviamo ad analizzare i discorsi del dialogo facendo delle parafrasi e ponendo tesi ermeneutiche aperte e dialogiche, proprio con uno sguardo che provi ad essere pensante e proprio a partire dal confinamento anzidetto, inteso come analisi del limite della parola, a partire dunque dal testo, come inferenza testuale, e probabilmente riusciremo a trovare qualche indizio importante al nostro scopo. Adottando questo metodo (sguardo pensante che si fa metodo, perché autoriale e dialogico) restituiremo al testo il suo valore di problematica contemporanea, mentre ne facciamo una questione attuale e aperta. E nel frattempo, guardando al tema dell’arché ci sintonizziamo con una questione ultimativa che il testo sembra sottendere integralmente . Ma la singolarità del presente articolo è che osa un registro espressivo specifico, ovvero è scritto in forma di parafrasi pensanti ritenendo l’autrice, con Giorgio Colli, che l’espressione sia parte integrante di una posizione filosofica.
La problematica dell’inizio, indipendentemente dalla storia dell’ermeneutica della sua tematizzazione (appare evidente che già porre tale tema come problema significa non solo porre una propria tesi su Platone stesso ma anche porsi in dialogo all’interno della comunità degli interpreti) riguarda comunque, come ha evidenziato anche Cacciari, il pensare quell’impensabile, quell’anipotetico, che possiamo (e dobbiamo) porre, alla maniera dei postulati argomentativi, necessariamente all’origine della pensabilità, e che risulti quindi condizione della libertà del pensare, ponendo inoltre tale questione insieme a una, per così dire, necessarietà (ideale) del dirla e del definirla; come Platone stesso in Repubblica chiarisce, chi non definisce una cosa non ne ha nemmeno intelligenza (VII 543 B 3 – D 2 - cfr. H. Krämer 1996, p. 37). Hans Krämer definisce ἀρχή ἀνυπόθετον, in Dialettica e definizione del bene in Platone, quel bene (ἀγαθὸν αὐτό) che è al di sopra delle idee e dell’ούσία, e che, come principio che non è più solo postulato, costituisce il fine della dialettica.6 E definirla, e nel caso specifico, cercare di attualizzarla, come si vedrà in seguito, non significa non considerare comunque la storia della sua analisi teoretica, con le sue differenti interpretazioni. Cioè, affermare ciò non significa agire dogmaticamente. Se il presente saggio si situa evidentemente nell’alveo tubinghese, riguardo alla centralità degli agrapha, o delle dottrine non scritte, indicandone l’importanza, però, solo attraverso ciò che manca al testo del Simposio, ovvero nelle pieghe della sua scrittura, o assommate comunque, nella loro problematicità, nella ricerca continua di una dimensione noetica, riguardo all’importanza fondamentale dell’attività accademica per il pensiero platonico, e dunque di una sua imprescindibile qualità protreptica, esso si accosta anche ad altre interpretazioni, (che non sono tubingesi), come, ad esempio, a Ross (sebbene non precipuamente alla convinzione della tardività della questione dell’ἀκρόασις) o a Vegetti, nonostante questi sia critico degli agrapha, se guardiamo all’importanza dell’espressione in filosofia o all’imprescindibile progettualità politica sottesa ai dialoghi platonici nella loro globalità.7
Allo stesso modo al noetico (al νοῦς, intelligenza e al νοεῖν, avere intelligenza), alla dimensione sovrasensibile, per Platone, si accede attraverso il giudizio netto e la definizione.8 Riflettendo genericamente sui dialoghi platonici, si può già evidenziare con molta chiarezza una questione inerente a una esigenza filosofica di un cominciamento, nel tema della seconda navigazione, secondo il parere di G. Reale, là dove con una suggestiva metafora, lo sguardo intorno a un inizio si configura abbastanza nitidamente come un ideale impegno teoretico e progettuale, ovvero, un guardare a una meta che ricalchi un pensiero previo: il navigante si risolve a una decisione (atto cominciante), un «remare a braccio»,9 che diviene metafora evidente dell’agire e pensare autonomamente, l’indice dell’esigenza di una progettualità positiva mediante l’azione del definire, in un contesto in cui, evidentemente, manchi una leva persuasiva dell’agire e del pensare (la calma del mare in bonaccia), laddove invece, lo sguardo sulla meta (progetto, intuizione di un intero), in una koinonia unificante, muove essenzialmente. E quando vi è poi fatica nell’incarnare quella fermezza e quella stabilità, necessarie per poter giudicare l’esperienza del mondo della propria epoca, e dalla propria epoca, e potersi risolvere concretamente al fare progettuale, questa avventura del pensiero, come il viaggio in mare aperto della figura platonica, deve essere intrapresa in homologia e come opinione vera e stabile, perché frutto di un accordo interpersonale, e tale dunque che su di essa si possa fondare un progetto comune, che nello stesso tempo sia assimilabile a cosa divina (ossia, che riguardi il meglio per l’uomo e sia ottenuto attraverso una adeguata educazione del proprio daimon - misura divina – e mediante la dialettica, con il «διορίσασθαι τῷ λόγῳ», il procedimento diairetico-astrattivo che astrae un εἶδος dagli altri, mediante «ἀφελών - ἀφαίρεσις»10). Là dove però il sapere umano a differenza di quello divino non può poggiarsi solo sul fondamento delle evidenze di per sé (come un sapere meramente oggettivo) ma ha bisogno di essere persuaso. La persuasione dunque ha a che fare con un inizio, perché consente di pensarlo in quanto lo fonda koinonicamente.11 Rispetto alla noesi (intellezione, atto immediato dell’intelligenza - νοῦς, prima di ogni azione discorsiva) e in relazione a essa, nel Simposio si scorge l’esigenza, che trapela dal testo in maniera evidente, di un nesso tra eros (la massima persuasione di sapienza e amore) e filosofia come arte e come pratica, e insieme la connaturalità di tale nesso con la dimensione noetica originaria. Tale dimensione infatti consente di raggiungere il massimo grado di sapienza e divinità cui può accedere l’umano, utile a possedere un’opinione stabile sul vero, sul bello e sul giusto,12 e ovvero ancora un giudizio sul quale si possa costruire qualcosa, un’esperienza autentica, o persino progettare una città ideale, un inizio che sia autenticamente cominciante, progettante, ma che abbia bisogno di una spinta persuasiva.13
L’atto stesso del definire e dell’affermare implica una scelta originaria e una precisa scelta di metodo espressivo, che si apra, e apra l’interlocutore all’ascolto e alla dialogicità. Tale esigenza la riscontriamo anche in Parmenide, autore che ha intitolato uno dei più famosi dialoghi platonici, e come sostiene anche F. Adorno, è un’opera che ci consente di fare una operazione ermeneutica efficace, interpretando il Parmenide storico alla luce del Parmenide platonico e viceversa, dal momento che Platone proprio da Parmenide (nel Sofista) decide di far «cominciare» la filosofia (cfr. Sofista 216 A). È da Elea infatti che Platone fa cominciare la filosofia come ricerca seria e scienza di scienza. Inoltre, vi è anche una analogia di scelta espressiva fra i due autori, poiché se Parmenide scelse il canone esametrico nel suo poema-itinerario filosofico, partendo da un evidente e riconoscibile inizio, ovvero la questione dell’“è”,14 Platone utilizza invece, sostanzialmente, e prevalentemente, la narrazione mitica e dialogica. Se guardiamo poi alle domande poste dal Parmenide storico, nel suo poema riscontriamo l’esigenza di domandare intorno all’archè dell’essere, ma anche alla prassi concreta del dire e del fare, cosicché il principio diventi un itinerario e costituisca, nel contempo, una meta da intraprendere, in modo tale che sia acquisita a un livello umano integralmente..15 E la dea del poema, dal suo canto, mostra che vi è l’urgenza di una scelta originaria, sottolineando la necessità di considerare in via preminente le uniche due vie possibili, e che la dicibilità del non essere è possibile solo se essa sia radicata in una affermazione dell’“è”. Scegliendo l’essere infatti non possiamo non considerare la contemporanea possibilità di scegliere il non-essere, altrimenti ci troveremmo di fronte a una scelta obbligata. Ciò che non può essere scelto è il non-essere in quanto archè. Esso non conduce alla pensabilità, perché pensare ed essere sono il medesimo. Afferma F. Adorno che Parmenide mette in rilievo per la prima volta l’aporia in cui cade, in maniera drammatica, chi voglia capire quali sono le condizioni del dire, e in cui certamente si imbatte chi, non accettando supinamente la realtà per quella che appare e per come è meramente descritta (non dimostrata), domanda intorno a quali debbano essere le vie, mediante le quali determinare quella condizione una, per cui ciò di cui si parla è quello che è (cfr. V. Vitiello 1988, p.19).
Anche nel Parmenide platonico si evidenzia tale aporia, ovvero quella del voler opporre sterilmente i termini di questa scelta fondamentale, nonostante si esprima nello stesso tempo e implicitamente la necessità di una scepsi, in origine. Scegliere l’essere in quanto archè, infatti, disvelando anche qui una theoria oltre il testo, significa anche scegliere il non-essere, un essere relativo che disveli un necessario dinamismo dialogico, che sia correlativo alla sua stessa idea, ovvero a una necessaria comunanza ermeneutica ad essa correlata, nella congettura di un progetto del dire che sia comunicabile universalmente. Scegliere l’essere è scegliere perciò nel contempo un bene imprescindibile (mostrando cioè anche l’evidenza di una intrinseca esigenza di un ambito assiologico all’interno del domandare ontologico), che sia già tale domandare una esperienza di una comunanza di interpretazione, in relazione a differenti posizioni ontologiche (una prospettiva di ulteriorità relativa a ciò che è bene e ciò che è meglio, in riferimento a un’apertura dialogica interumana, a un’attitudine al dialogo e all’ascolto). Se guardiamo a un panorama più ampio dell’ermeneutica platonica, la questione dell’archè si disvela per l’interprete in generale, e nello specifico, per l’interprete del Simposio, in un modo molto netto, guardando alle teorie tubinghesi, e alle dottrine non scritte, alla necessità, cioè, che da esse trapela, di un soccorso dialogico rispetto a qualsiasi definizione genericamente intesa, soprattutto se esplicitata in forma scritta, e ciò dunque non significa, come già accennato, per l’autrice del presente scritto, proporre una tesi «dogmaticae».16 L’archè si risolve, secondo questa prospettiva, in ogni caso in una parola. Iniziare infatti significa dire, affermare e nello stesso tempo porre in essere, per gli interlocutori, un limite dialogico, perciò vi si scorge l’esigenza di ricorrere a una ulteriorità e dunque a una oralità, ancorché dialettica o dialogica, o al mito. Il mito è, pindaricamente, celebrazione della totalità, e lo è come momento essenziale del fare, e quindi del dire stesso. Il mito per Platone è il recupero della dialettica voce-silenzio, parola-ascolto. È dinamismo del pensare e del dialogare. Esso ha bisogno in quanto tale di un limite che sia, nel contempo, apertura.
Anche nel Simposio la narrazione mitica è presente, carsicamente ed esplicitamente. Tutto il racconto è anzitutto narrazione, anzi è narrazione di narrazione. Ma non vi è mai mito senza Logos, anche se lo consideriamo nella mera accezione di parola. Il discorso infatti si spinge oltre, vi è sempre un intento conoscitivo in relazione agli ambiti essenziali del vivere e dell’agire umano. Vi è un intero che potremmo configurare anche, hegelianamente, come meta del processo conoscitivo (di una filosofia scientificamente intesa): esso è grecamente (conformemente alla circolarità diacronica del pensiero greco) riconducibile alla perfezione del momento noetico iniziale. La problematica dell’inizio in Platone è, dunque, sostanzialmente, questione della scientificità in quanto tale. Dall’interpretazione hegeliana di Platone apprendiamo che l’idea di scienza si va configurando attraverso la dialettica platonica come prefigurazione di un intero ideale, sulla stregua di un itinerario progettuale, rispetto al quale ogni elemento del discorso si trova nella necessità di doversi armonizzare. Platone è il cominciatore della filosofia come scienza.17 E così la forma, in Platone, come anche accedeva presso i presocratici, come estetica che è essenzialmente etica, traduce essa stessa quella medesima esigenza di scientificità. La scienza deve avere un principio fondamentale, e configurarsi in un contesto ermeneutico e dialogico, e non risolversi in mere affermazioni logico-astratte del tipo A=A.
La noesi è infatti propria di uno sguardo accomunante, dialogico, assimilabile allo xynon degli antichi, che, a partire da una pratica ermeneutica di ordine cosmologico, realizzava, pur se, come sostiene Giorgio Colli, in maniera volutamente simbolica, e non evidente in modo immediato, un autentico itinerario pensante e scientifico.18 La domanda che sorge è se sia possibile evidenziare un dinamismo noetico nel Simposio platonico, là dove per dinamismo noetico intendiamo coscienza dell’impossibilità di attribuire un senso unitario e coerente alla narrazione, ma anche al suo itinerario conoscitivo, che è sempre esposto a una “deriva” dualistica, ovvero indotto a una impossibilità di suscitare ulteriori domande e dialogicità e quindi di una dialegesthai, se non vi è un riferimento previo a quell’idea prima, cominciante e persuasiva; e infine se questa noesi possa interpretarsi come un evento del pensiero di ordine, se così possiamo dire, archetipico, e per ciò stesso progettante e costituente. C. J. de Vogel, ricordando una sua citazione kantiana tratta da Kritik der reinen Vernunft, nel suo testo critico Een keerpunt in Plato’s denken, sulla incompatibilità del mero opinare con il dinamismo speculativo della ragione, indica, in Rethinking Plato and Platonism, (op. cit., pp. 6-7) quanto la filosofia platonica, nella sua integralità, sembri invece sforzarsi continuamente di giungere a una intuizione noetica. Tale filosofia si risolve infatti in un sapere che deve corrispondere a un oggetto noetico, che sia concepito come un «essere che realmente è» (utilizzando la traduzione di G. Reale), per cui si può affermare che il puro noumeno in termini platonici sia l’ ὄντως ὄν. Per perseguire dunque l’intento cominciante, occorre partire dall’analisi dei discorsi dei personaggi del Simposio, prima dell’intervento “risolutore”, nel senso immediatamente cronologico, di Socrate, il cui pensiero si osserverà trasparire proprio attraverso l’umanità e la “fragilità noetica” dei suoi interlocutori. Questi ultimi dimostrano di non riuscire a pensare Eros con una vis unificante degli aspetti a esso attribuiti, laddove Socrate evidenzia, a partire dal discorso di Diotima invece la bellezza e l’intelligenza di un diairesi ontologica che non abbia carattere dualistico.
Solo, infatti, se si guarda l’essere noeticamente, e questo oltre ad essere compito dell’autore, lo sarà anche a suo tempo, e nel contempo, del lettore-fruitore, si supera quella deriva teoreticistica, che è pregna solo di inessenzialità filosofica. Il dualismo non può non far scaturire dispute infinite: materialisti contro spiritualisti, mimetici contro speculativi, sostanzialisti contro coerentisti, e così via. Nello Hegel interprete di Platone, questo discorso appare ben evidente.19 Egli distingue gli ambiti ontologici platonici del 'sensibile' («τὸ αἴσθητον») e dell’'intelligibile' («τὸ νοητόν»), ma solo per riconfigurarne il valore alla luce di un livello superiore a entrambi, e più essenziale. Dallo schema dell’ermeneutica hegeliana di Platone e dalla suddivisione dei livelli e delle modalità della coscienza si può apprendere, in relazione soprattutto all’immediatezza significativa del mito della caverna nella Repubblica – nonostante si possa evidenziare in essa una sincronicità sistematicistica dei livelli considerati –, come si dia, in verità, fra tutti gli ambiti, le modalità, gli oggetti e i movimenti del conoscere una imprescindibile simultaneità, come un circolo di circoli, in cui i livelli successivi non tolgono definitivamente dalla scena i precedenti, ma li rivalorizzano, e il che ritengo, appunto, sia il senso pieno della parola Aufhebung. Così il livello ultimo – che “inizia” l’itinerario ermeneutico, il «νοητόν», e la modalità suprema della «νόησις», pari alla sfera dello speculativo in senso hegeliano, afferisce in un certo qual modo alla coscienza (all’anima intesa in senso socratico – perché da essa viene intuita e, potremmo dire, “incarnata”), essendo quella consapevolezza tale da valorizzare tutti gli stadi conoscitivi precedenti, a partire dall’ «εἰκασία» e dalla «πίστις». Là dove solo a partire da questo stadio l’attitudine filosofica primariamente assume il compito di creare e di dover legittimare un’ermenìa adeguata, ovvero quel contesto ermeneutico che si risolve in uno spazio dialogico in cui si possano confrontare plurali “definizioni” del vero, o saperi essenziali, di coloro che acquisiscono tale atteggiamento, tale sguardo noetico: uno spazio dialogico che configuri un vero e proprio progetto etico pubblico. Questo medesimo itinerario si può osservare nell’excursus dei discorsi del Simposio sul tema dell’eros. E questo è un progetto pensante ed è, probabilmente, cominciamento della filosofia heideggerianamente inteso. Il filosofo stesso deve infatti, platonicamente, essere addestrato a questo. Egli deve acquisire primariamente l’attitudine all’ascolto, ma anche alla comunanza di vita, alla reciprocità nella relazione con l’altro, al rispetto. E là dove tale confronto non debba risolversi in un atteggiamento da deuteragonista, che, come usava affermare Giovanni Reale, rimane solo nella sfera dell’opinare, ma generare dialogo fino alla confutazione reciproca per servire all’esito del vero. E là dove ancora la confutazione non può considerarsi di per se stessa, ma sia il mezzo attraverso cui entrambi gli interlocutori raggiungono un livello più elevato di sguardo e di conoscenza, ossia rappresenti la possibilità di una “purificazione” reciproca. Questo ci appare evidente se ci soffermiamo sul dialogo tra Socrate e Alcibiade, che pur non essendo compreso nel presente excursus lo sottende nell’aspirazione paideitica a un contesto ideale umano e filosofico.
In questo modo è possibile, tornando alla diairesi hegeliana, guardare nuovamente alla διάνοια, poiché essa riguarda quella sfera che in termini husserliani si potrebbe dire afferente alle evidenze oggettive non inferenziali del sapere matematico (che si 'scoprono' anamnesticamente), o le kantiane sintesi apriori, che pur dovendo affermare l’anipotetico, riguardano in senso regolativo la causalità efficiente, come logica lineare e consequenziale («ἐπὶ τελευτήν»). Il senso del sapere dianoetico, e la sua necessità, viene espresso da Platone, in mythologein, nel Menone, e sostanzialmente esso qui viene associato alla sfera interiore. L’ «ἀνάμνησις», che, come evidenzia Vincenzo Cicero ne Il Platone di Hegel - vol. XIV delle Lezioni di Storia della Filosofia, per lo stuttgartense non può che essere contemplata nel suo significato speculativo, benché nel racconto dello schiavo del Menone sembri esprimere una valenza meramente riflessiva come coscienza singola (rappresentante e non ragionante in universale), riconduce il discorso conoscitivo comunque alla coscienza, rappresentando l’emergere della scienza in filosofia. Tale dialogo riconduce così tutto il discorso filosofico alla questione della coscienza e della sua libertà, poiché l’ambito noetico ha strettamente a che fare con il discorso sulla coscienza e sulla libertà. Hegel, però, pare non aver compreso la valenza del mito in Platone. Il fatto che Platone non abbia evidenziato la distinzione tra i due significati implicati dal concetto di anamnesi, lascia dedurre che egli sia rimasto ancorato alla mera intuizione e abbia soffocato il grandissimo esito speculativo nella mera rappresentazione. Egli non poteva comprendere, essendo di un epoca precedente ai Tubinghesi, come, proprio il mythos platonico, soprattutto a partire dal nuovo paradigma interpretativo, può essere contemplato come apertura di un mondo di significanza speculativa, e come esito teorico-prassistico che debba necessariamente coinvolgere l’interprete-lettore. Il lettore ideale è colui che sappia in senso eschileo,20 che sappia già che il dialogo e il suo contesto comunicativo vanno acquisiti come esercizi di vita virtuosa e come ethos di comunanza e rispetto reciproco, comunanza di libertà e di reciprocità. Vi è dunque necessità che questi sia libero. Dunque Hegel non riusciva a “vedere” che l’essenza del significato dei dialoghi platonici chiedeva necessariamente di essere soggetto-oggettivamente, acquisizione libera da parte di chi l’avrebbe materialmente letto. Proprio secondo una visuale filosofico-storica rivolta al fruitore del testo (come per lo stesso Hegel non è possibile filosofare senza fare filosofia della storia – del proprio tempo contemplato nel pensiero), Platone non avrebbe potuto non esigere dal proprio interlocutore-ascoltatore-lettore libera pensabilità. Dunque la conoscenza e la scienza esigite nel lettore, per Platone, come per qualsiasi autentico filosofo, devono fondarsi su evidenze oggettive ideali 'non inferenziali', nel senso husserliano, dianoetiche, anamnestiche, ovvero scoperte come evidenza 'in interiore' e in ultima istanza sulla noesi anipotetica.
2. I discorsi che attendono il compimento della parola socratica - Aristodemo
Il problema dell’inizio è un problema essenzialmente greco, anche a partire dalla circolarità diacronica che lo caratterizza essenzialmente (eniautos, «περιπελόμενος, περιτελλόμενος» – moventesi [in cerchio] tutt’intorno), come lo descrive Euripide (Or., 1645) e Platone stesso, nei giri («περίοδοι») degli Eniautoi (Tim., 17 A – cfr. Paula Philippson 194).21 Ma anche perché parlare di inizio significa anche implicare l’idea di storia, a partire dall’accezione di mera narrazione. L’inizio è cominciante, come lo è l’uno, aristotelicamente, per qualsiasi numerazione.22 Ma comincianti e fondativi sono soprattutto i miti omerici ed esiodei. Nel Parmenide platonico vi è tutto un dialogo improntato a evidenziare la dinamica cominciante della serie numerica dell’uno, ma postulando una ulteriorità che riguardi lo stesso uno cominciante, che sia utile a sostenere un ragionamento consequenziale e seriale di tipo meramente logico. Tale ulteriorità ha una funzione analoga a quella dei miti più temporalmente lontani. Vi è in generale fin dall’antichità, circa i fatti dell’uomo (le sue storie) una necessità di raccontare, e di narrare, inerente alla serialità, ma in funzione del senso. Tucidide, nelle ΙΣΤΟΡΙΑΙ (I, 20) parla prima di tutto di un «dovere» di cronaca circa i fatti umani, ma anche di una necessità «testimoniale»23 intorno a essi, affinché si domandi sul vero che li riguardi. Se vi è una storia, inoltre, si deve “generare” una tradizione, perché la storia è condivisione di una memoria che necessita di essere comunicata, per sostenere e nutrire il vivere comune.
I personaggi del Simposio sono maschere drammaturgiche, come afferma Giovanni Reale, narranti. Essi narrano di Eros, dei suoi miti e di come essi si rapportino alla vita dell’uomo e alla sua storia concreta. Ma sono principalmente maschere della profondità di Eros, in quanto idea e discorso che da tale idea prende avvio. La profondità usa nascondersi, continua G. Reale, là dove la drammaturgia stessa diviene esigenza del Mythos: il muto, il silenzio di quella enunciazione simbolica, a modo degli antichi, presso cui sostare e attorno a cui cominciare l’avventura dialogica del vero. Il muto è il symbolon, ed è il disegno inciso nell’animo di chi ascolta, che attende la parola adeguata, la parola autentica.24
Uno dei personaggi dell’opera che riteniamo significativi, pur nella sua marginalità è Aristodemo. Egli è, a nostro parere, maschera dell’umiltà socratica, ne è una vera e propria personificazione. La sua è una umiltà che genera (comunicazione e vita), perché rappresenta con i suoi gesti e le sue parole, sebbene pochi, quella comunanza di esperienza e di vita che caratterizza il bios theôrêtikos platonico per eccellenza. Egli è scalzo e si veste alla maniera del suo maestro e rappresenta a tratti la sua stessa erranza. Non ha un invito al simposio, eppure ci va «buono, non invitato, dai buoni», come apprendiamo dal distico omerico pronunciato dal suo maestro Socrate, ancorché riadattato nella sua autoriale interpretazione. Ma Aristodemo confessa di essere mancante rispetto a chi è già sapiente, mancante e limitato, pur nella consapevolezza di sé. Egli è dunque emblema della misura e dell’ ascolto. E così diviene essenziale all’intero racconto. Perché la misura in questo contesto, ovvero nel racconto del Simposio, si rivela essenziale come lo era stato per l’intelligenza e la saggezza degli antichi (metron ariston), ma lo si comprenderà meglio parlando del medio per eccellenza, ossia di Eros, o del filosofo stesso per antonomasia. Anche Aristodemo era dunque presente al simposio. La sua era quella presenza eraclitea, cioè non una aforistica presenza-assenza, ma una partecipazione, come di coloro che sono capaci di essere presenti pur se non alla ribalta, bensì dietro le quinte, in umile adombramento. Egli infatti non viene interpellato alla gara di encomi ad Eros. O se pur fosse stato interpellato, il suo discorso non viene riportato dal narratore. Di questi basta la semplice gestualità e presenzialità, la pura testimonianza, che comincia puramente dall’ascolto.
Qui già agisce perciò la filosofia, generata volutamente dalla mera rappresentazione (quel vero della rappresentazione che secondo Hegel è il libero pensiero). Essa è affidata, consegnata all’interprete. Egli cammina con il maestro e, dunque, acquisisce dal maestro l’attitudine adeguata alla filosofia. La filosofia, come spazio comune di dialogo e libertà, la filosofia che deve generare lógos, i.e. generare bellezza e pensiero (nella bellezza e nel pensiero di ciò che è divino, del theion, theos-orao-theoria), ha l’attitudine dell’erranza. Essa non ha dove posare il capo, seguendo chi, bello, va dai belli, e produce bellezza. La filosofia tuttavia deve guardare anche a un “oltrecielo” (hyperouranos), prima di cominciare a darsi, come avviene per Socrate prima di raggiungere i simposiasti, poiché lo ritroviamo contemplare il cielo nel vestibolo, quasi in atteggiamento orante. Vi è una contemplazione socratica che riconduce l’osservatore, all’interno della narrazione, e chi legge il dialogo platonico, a misurarsi con un limite di sé rispetto a ciò che vi è oltre. Tale consapevolezza del limite non è uno statico osservare i diversi estremi di una differenza senza possibile composizione. L’atteggiamento socratico ha a che fare con, prefigura il senso stesso del filosofare, a partire dall’auspicio di una mediazione. È possibile già intravedere nella modalità contemplativa di Socrate e nell’atteggiamento del silenzio e dell’ascolto di Aristodemo il discorso di Diotima. L’eros, in quanto medium, in quanto filosofia, supera le divisioni e oltrepassa i dualismi, esso tempera, seppur desiderando, la hybris e la smodatezza paterna (è figlio di Poros, ovvero il risolutore), nella ricerca di espedienti, perché ha in sé della povertà della madre (Penia, la mancanza). Socrate stesso, in questo caso, è il mediatore per eccellenza e dunque filosofo e lo è già per attitudine per così dire naturale.25 E così riscontriamo circa l’esperienza di eros-filosofia di Aristodemo, che si risolve, analogamente, nella sua stessa presenza attitudinale, in quanto ascoltante e capace di muta eloquenza.26
Ma occorre affermare, all’interno della congettura noetica che è tema del presente articolo, e facendo una digressione rispetto al lettore che si accinge a un ermeneutica filosofica, e perciò anch’essa cominciante, ricordando inoltre le premesse fatte in introduzione circa la questione della scientificità in generale, che essa si dà evidentemente in termini platonici, soprattutto quando nel lettore stesso si riproduce quell’anamnesi, quel sostare rammemorante e pensante che riconduce l’ermeneutica stessa al principio noetico e al senso dell’opera e del tempo sia dell’autore sia dello stesso lettore. In quanto è sempre presente l’epocalità della filosofia in termini heideggeriani e la necessità di un domandare inesausto intorno al pensare, che sia già al tempo stesso e a sua volta un pensare. Domandare intorno a una figura platonica, per Giovanni Reale, maschera di Eros-filosofia, legittima un’apertura, apre a una possibile simultaneità co-interrogante. La docilità dell’Aristodemo platonico può evocare in un lettore di epoca cristiana, ad esempio, una figura evangelica. Egli appare dotato di una prefigurante mitezza. Cosicché egli rende possibile fare un’operazione di comparazione intertestuale (che è anch’essa sostanzialmente mediazione, ovvero filosofia) e inter-epocale. Tale operazione si risolve in un metodo di co-interrogazione problematica. Ovverosia domandare intorno ai temi, sui quali gli antichi di qualunque epoca domandavano, e con la stessa apertura problematica, mantenendo nello stesso tempo, nella modalità della rappresentazione, la possibilità onnigenerante di un cominciamento in quanto scaturigine fontale della totalità, e dunque del pensiero. In tal modo si riproduce, a modo della sinossi platonica (o intellezione) una contemporaneità che sottintende un principio archetipico a cui guardare e a cui riferirsi e ciò significa assumere un atteggiamento volto a unificare i dati del pensiero e dell’esperienza.
Pensare l’Uno, dunque, e guardare a quell’uno-arché, può dirsi coessenziale al pensare platonico all’interno del Simposio? Aristodemo stesso, nel suo agire, nell’integralità del darsi come figura della narrazione, testimonia di un’assimilazione al maestro come esperienza vera e propria di unificazione, là dove il diventare uno e unificare possa dirsi la cifra del pensare della grecità, cifra dell’ideare, come nesso di sintesi tra visione, forma ed essere.27 Qui possiamo riscontrare quel modo di concepire l’unità in Platone che può dirsi scientifico in quanto sostanziale in termini hegeliani. Tale esperienza di unificazione se è, allora, fondativa per l’esperienza, è quindi, in termini heideggeriani, pensante. Possiamo ben constatare inoltre, già a partire dalla narrazione, che il dinamismo dell’unificazione richiede, anzi, esige un atteggiamento specifico. Il Socrate platonico dimostra un atteggiamento di vera e propria gratuità riguardo all’agire e al domandare, proprio nell’episodio del vestibolo summenzionato. Ovvero in una “esperienza” pensante vi deve essere uno spazio di insondabilità tra la propria esigenza di conoscenza e di pensiero (autorialità) e il confronto dialogico, lo stesso atteggiamento che Aristotele gli attribuisce nella Metafisica, intorno alla definizione di scienza, e nell’ambito dell’etica e della definizione.28 Vi è cioè l’esigenza di una visione gratuita ed essenziale, senza la quale non si può platonicamente pensare in via unitaria l’esperienza. Qui si intravede molto bene la necessità di una teoria protologica (o comunque genericamente unificante) rispetto all’agire in generale e alla filosofia, che superi sia gli ontologismi sia i monismi del pensiero (gnoseologismi). Vi deve essere un Uno- epekeina tês ousias. E a esigerlo è la stessa decodificazione della narrazione, a partire dal suddetto atteggiamento di gratuità (una ἀφαίρεσις previa, un atteggiamento di rinuncia preteorico) e là dove la dialettica finisca per essere un incontro veritativo.
Ma come rendere quanto sinora detto nella scrittura, per esprimere in maniera congrua quella gratuità veritativa e rendere plausibile la trasmissibilità, la piena comunicabilità, cioè, in altri termini, come effettuare un’operazione propriamente paideitica? Platone, essendo animato da un profondo intento educativo, concepì uno stile letterario vitale e intellettuale (ma tale lo è il mythos, e il codice della verosimiglianza, in generale), là dove la gratuità si esprime nella leggerezza dell’andamento drammaturgico. Egli dichiara più volte di scrivere in chiave di «gioco», di «gioco serio»,29 là dove il gioco è di per sé donativo, agapico. «I giardini di scritture li seminerà e li scriverà per gioco […] per se medesimo […] e per chiunque segua la medesima traccia e gioirà di vederli crescere freschi. […] È un gioco molto bello […] narrando storie sulla giustizia […] per rendere questo seme immortale e fare felice chi lo possiede».30 «La conoscenza di tali verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo comunanza di vita, improvvisamente, come una luce che si accende allo scoccare di una scintilla, essa nasce dell’anima e da se stessa si alimenta».31 Dunque il registro narrativo, mitico e dialogico, spesso strutturato mediante una fine drammaturgia, non solo è ricreante in senso teoretico, ma coinvolge integralmente il lettore.32
3. Fedro – Rinarrazione e parafrasi pensante
Se i personaggi sono maschere di Eros, nel senso inteso da Giovanni Reale, dietro di essi vi possiamo scorgere, tra le pieghe del simbolo mitico-narrativo che li riguarda, delle tracce di ordine teoretico.33 Reale giudica il discorso di Fedro come il più esile, perché pronunciato da un personaggio a cui piace più ascoltare e imparare da altri che fare lui stesso discorsi, ma soprattutto perché egli è interessato più al verosimile che alla verità, perché il verosimile persuade i più.34 Fedro, potremmo definirlo il padre della gara di encomi perché inaugura il simposio, essendo l’autore del discorso introduttivo di Erissimaco, il Πατὴρ τοῦ λόγου (padre di questo discorso, 177d5). Nel dialogo platonico intitolato a Fedro, egli rappresenta la schiera dei retori che calcano le ribalte della polis ateniese, animati dal desiderio di esibirsi e primeggiare in bravura scrittoria e oratoria e ciò potrebbe sembrare prefigurare l’esteriorità del tenore dei discorsi del simposio. Nel Fedro inoltre abbiamo conosciuto il metodo socratico mostratosi invece tutt’altro che esteriore. Socrate, in tale dialogo, espone una dialettica che intraprende il duplice movimento platonico della ragione pensante, in relazione a un itinerario ideale e veritativo: una sinossi, traducentesi in una ἀφαίρεσις dialogica e confutatoria, che con tutta probabilità doveva essere la pratica quotidiana all’interno dell’ accademia, perché ciò lo esige idealmente l’intero discorso, per giungere a tangere razionalmente l’imprescindibilità dell’unità, e una διαίρεσις per ritornare alle cose con una attitudine aperta di unificazione, ovvero di comunanza e valorizzazione, integrando la teoresi con la pratica dialogica e progettuale. Socrate ammette, in Fedro 266 B: «Sono amante delle divisioni e delle unificazioni per essere capace di pensare e di parlare. E se qualcun altro sia capace di guardare verso l’Uno e anche sui molti, io gli vado dietro seguendo le sue orme come quelle di un dio» (trad. G. Reale).35
Fedro, nel Simposio è annunciato nelle parole di Erissimaco come colui che desiderava che si elogiasse Eros, perché in Grecia si era soliti scrivere elogi persino al sale, in nome della sua utilità, o agli eroi della polis, quando invece il dio dell’amore sembrava trascurato dagli encomi. Fedro dunque sembra animato dalla sincera devozione di un autentico polites? Se tuttavia nel contempo dell’operazione ermeneutica del testo del Simposio si considera anche il Fedro, come suggerisce Giovanni Reale, e soprattutto la retorica di Lisia, di cui Fedro si faceva strenuo ammiratore (e che era in realtà un logografo, uno scrittore e venditore di discorsi), già ci si aspetta una mancanza di significazione di stampo sofistico. Quando infatti non si conosce l’anima dell’interlocutore, come nel caso di Lisia, quando risulta essenziale la visione di un Iperuranio, la Pianura della Verità, come risulta dal mito raccontato con la metafora della biga alata,36 ovvero nutrirsi della pienezza di significanza delle idee, per far risultare un discorso scritto bello e migliore di ogni altro, raggiungendo l’anima di chi ascolta, nessun discorso o tecnica scrittoria può giovare rispetto a qualsiasi dovere di cittadinanza attiva. Ossia, secondo la nostra posizione, mancando una visione noetica, qualsiasi elogio si risolve in un mero tentativo mimetico ed esteriore. Reale nel suo saggio sul Simposio cita una frase di Thomas Szlezák che sostiene essere Fedro un letterato irrequieto, ma la cui irrequietezza serve a Socrate per potergli indicare qualcosa di migliore.37 Mancando tale visione oltremondana, ogni espressione di elogio a Eros riguarda un mondo dunque meramente esteriore, giacché umanità e divinità costituiscono due mondi del tutto separati, senza alcuna possibile rimembranza (come riconoscimento o anamnesis) interiore di una possibile ulteriorità ideativa ed esperienziale. Possiamo aggiungere tuttavia che quando Fedro parla dell’amore, come inteso da Parmenide, accostandolo al dio descritto da Esiodo, all’inizio del suo encomio egli inferisce un nesso argomentativo essenziale, in relazione al contesto noetico che postuliamo, anche se esso appare incidentalmente rispetto al suo specifico discorso.
Fedro, citando Parmenide, indica seppur non in maniera diretta, un nesso di estrema significanza tra Eros e arché. Parmenide dice di Eros che è il dio più antico fra tutti gli dèi. Esso era sin dall’inizio nel pensiero del dio. E primo di tutti gli dèi pensò Eros.38 E poiché è il più antico, dice Fedro, esso è causativo di beni grandissimi, poiché si concretizza in un desiderare quasi naturale delle cose belle e provare vergogna per le cose brutte. Dunque in nome di questo desiderio, o vergogna, scaturiscono tutti quei grandissimi beni, esso infatti è paideitico39 anche per indiretta ammissione dello stesso Fedro. Tuttavia, se, in digressione rispetto alla parafrasi dell’opera platonica, ci riferiamo direttamente al testo parmenideo, osserviamo che la dea del poema descrive la teogonia prima di tutto come una «forma di pensiero»,40 caratterizzandola nel senso di una atemporalità avulsa a ogni interpretazione di carattere logicistico che si possa opporre dualisticamente a un divenire, o a un vivere autentico, perché progettuale ma concreto, ma nel caso di Fedro invece osserviamo una mentalità dualistica. La dea parmenidea pensa Eros guardando al sole, che è metafora dell’essere e della permanenza, e il suo agire (pensante) esprime una unificazione nel senso a cui sopra ci riferivamo. E guardando il sole, solo attraverso quel medium ella può porre Eros in relazione al mondo e al suo divenire, ricollegando la sua idea infine alla vacuità mondana, e alla sua inconsistenza. Nel poema parmenideo, con questo sguardo pensante, la dea governa tutto e presiede alla congiunzione delle opposizioni, come in un parto doloroso. Il suo pensare è una esperienza integrale, nel senso della tragedia eschilea: pathei mathos, soffrendo conosci. Il pensiero non è mero esercizio d’intelletto. Il congiungere ciò che appare differente, opposto, è qui descritto infatti come un travaglio. La mediazione è, in metafora parmenidea, un parto doloroso. Certo, intorno a lei osserviamo l’immediatezza dell’esperienza degli opposti del divenire: luce e notte, luna e sole, dove la luna guarda al sole, cercando la luce di cui è priva, ma tali opposti sono per la dea,degli eguali (ison anphoteron) secondo un concetto di uguaglianza che potremmo definire pitagorico, con un valore assiologico di relazione e concordanza. Ossia, fra di essi non vi è sterile contesa. Luce e oscurità riempiono tutto lo spazio esistente, ma niente è privo di valore, poiché vi è un nesso aurorale fra amore e principio, vi è un Eros sorgivo, capace di mediazione e misura. Parmenide viene così evocato dal discorso di Fedro in tutta la sua autorevolezza teorica, eppure il τέλος pensante del suo poema (come compimento in senso aristotelico) non può conformarsi del tutto al suo discorso, la citazione è destinata a un fine di secondaria importanza, perché il suo discorso, fin dal principio soffre di debolezza noetica. Tutti i temi caratterizzati da una profonda significazione in relazione all’ontologia parmenidea, virtualmente presentificati da quella semplice citazione, e cioè: essere e non-essere, divenire e permanenza, posti in relazione a un inizio, come teoria-visione, sono elusi in favore di una mera esteriorità. Qui c’è tutta la mancanza di spessore filosofico del Fedro dell’omonimo dialogo platonico. Ma la luce simbolica del riferimento parmenideo genera comunque il domandare, sebbene essa possa essere colta al momento solo dal lettore.
Platone continua le interrogazioni degli antichi, a partire dalla semplice narrazione egli co-domanda. Ciò è inferibile effettuando una parafrasi di molte parti del presente dialogo. Ogni affermazione, determinazione o definizione, all’interno del racconto, origina lo spazio, il vuoto, il negativo della domanda sull’inizio, a partire dallo stile narrativo, e attraverso un rimando continuo al mythologein. Anche nel Parmenide platonico osserviamo una dinamica analoga. L’autore non dismette tale domanda sull’inizio, pur avventurandosi nelle antinomie assunte dalla tradizione eleatica. Inoltre il domandare intorno a un inizio consente un’operazione di attualizzazione. Tale interrogare è in grado, a nostro parere, di intercettare le domande essenziali sulla nostra epoca e sulle crisi epocali, perché il contesto di un’epoca necessita di una visione contemplante (noetica). Occorre pensare, narrare, rinarrare, e alle volte persino superare un’epoca con le sue crisi. I pensatori della grecità che Heidegger afferma essere precorritori di una metafisica di totalizzazione o deduzione integrale del discorso filosofico, in realtà, in base a questo discorso, emergono piuttosto come generatori di una metafisica cominciante, in quanto essi si rivelano iniziatori ideali e dialogici di vere e proprie dimore (fondanti, non totalizzanti, perché progettuali, e dunque futuribili) del pensare filosofico per dei tempi ulteriori. Secondo il presente articolo, infatti, il pensare filosofico può e deve adempiere a questo compito di progettare, attualizzando, nel dialogo continuo e vivificante con la storia delle interpretazioni, e in un ottica cioè cointerrogante, il vivere civile dell’uomo, come la civiltà attuale può affermare di dimorare ancora oggi nei pressi della grecità, in uno scambio continuo vitale e pensante. Utilizzando una metafora biblica, possiamo dire che l’uomo ha bisogno di dimorare in una Tenda della Testimonianza, ovvero di una storica condivisione del pensiero, riguardo a quella stabilitas sui più alti giudizi sul giusto, sul bello e sul vero, a cui si accennava in introduzione. Contesto che necessita di essere però continuamente attualizzato, come succedeva per l’arca biblica del Dio degli ebrei che era dimorante e itinerante in mezzo a, e verso, gli uomini delle generazioni in divenire. L’ ἀρχή ἀνυπόθετον è in grado analogamente di ricondurre il discorso alla realtà dell’uomo, alla sua verità, alla sua origine, al suo progetto ideale, rispetto al quale l’esteriorità del racconto di Fedro appare nella sua inautentica decezione etica e veritativa. Lo si desume ancora, mediante parafrasi, dalle stesse parole di Fedro in rapporto all’amore. Egli dice che l’amore misura e condiziona gli atteggiamenti dell’uomo, ma in riferimento a sentimenti più che altro individualistici. Un uomo che ama, se dovesse essere sorpreso a fare qualcosa di brutto non proverebbe tanto dolore, quanto se lo vedesse il suo amato,41 o ancora, che l’amato si vergogni in modo particolare nei confronti di chi ama, quando sia visto a commettere qualcosa di brutto.42 Possiamo dunque osservare che quando Fedro parla di Eros non indica una soggettivazione, egli non riconduce il suo discorso grecamente all’uomo (gnothi seauton), con mediazione e misura ideale, ovvero nelle sue parole non si prefigura un lavorio inerente alla coscienza, in quanto ψυχή socratica, cioè l’uomo e il mondo, come un intero progettuale e ideale. Perciò il suo è un dire inessenziale.
Seguendo ancora questo discorso, possiamo affermare che non si può parlare di nulla, e nello specifico di amore, se non si dice (dicta, heideggerianamente) il progetto originario, in originarietà, o, potremmo dire, in autenticità. Tale progetto in realtà è filosofico, perché il filosofo deve ricercare (fondare, iniziare) «un’ermenìa adeguata»43 in rapporto al contesto significativo in cui vive, in ogni momento del suo dire e del suo fare, cioè in rapporto alla comunità, laddove il mero idioma comunitario non è sufficiente a dire autenticamente l’esperienza e in primis ciò che può afferire ad amore in rapporto alla significanza, perché tale idioma rischia di nuotare e di sbracciarsi nell’ovvietà e nel mare dell’inessenziale. Il filosofo deve dunque dire, dare, donare la parola (logos), come idea di un contesto comunicativo, rendere plausibile uno spazio dialogico, che esprima quella maggiore adeguatezza e gratuità, a costituire (a modo di un vero e proprio “organo costituente”) un nesso fondante del fare, nella relazione fra essere e vero, dell’ essere in quanto essere, i. e. riguardo all’ontologia in rapporto al mondo. Esteriorità e nozionismo, infatti, sia nell’ambito del senso comune che nel dire filosofico risultano edifici senza fondamenta, non hanno progressione, non hanno futuro, non sono istoria monumentale, non sono fatti per durare, non hanno della nozione della classicità, non incarnano la figura dell’eternità delle idee platoniche. Dunque il discorso di Fedro non è filosofico. Invece, Platone, filosofo, quando scrive e racconta, narrando del suo maestro Socrate, il quale incarna in via di eccellenza eros-filosofia sembra scrivere e narrare per lettori sconosciuti (donativamente), in uno spazio-tempo indeterminato, muovendosi insieme a chi ascolta verso la meta del vero.44 Egli scrive perché il suo messaggio possa durare per sempre, incarnando l’essenza della classicità, come la perennità dei templi, la stabilità del Partenone di cui conserviamo le vestigia fino ad oggi. Fedro viene definito dai Corrigan: «the ardent apprentice and the confused mythologue».45 Il suo è il peggiore dei discorsi del Simposio, perché è capace di persuadere nella vacuità, adornando il suo encomio dei nobili intenti degli antichi eroi. Un brillante oratore, che si trova così bene a interagire con le apparenze da riuscire a estimare in maniera accorata ciò che è bello, ma solo in apparenza. Un mitologo, perché racconta dei miti, trovandoli conformi alle sue vedute. Retore di successo, perché il suo dire è engaging, coinvolge nel gioco di ombre. Eppure l’amore onorato da Fedro sfiora anche una significatività agapica. Alcesti, che egli indica tra gli esempi mitologici, è una donna capace di amore donativo, il suo eros, a modo degli eroi omerici, «ispira ardimento».46 Il suo fare non è condizionato a uno scambio, ella non mira ad esempio alla lode e alla stima dell’amato, seppur proteso alle virtù divine e tale da mostrare virtù. Alcesti muore dunque per amore. Il suo gesto ne offre «testimonianza» («μαρτυρίαν»), com-muovendo le forze del cielo. Non accade questo a Ὀρφέα δὲ τὸν Οἰάγρου. Orfeo non piacque agli dèi. Il figlio di Eagro non fu capace di morire in nome di Amore. Achille lo fu per onorare Patroclo, poiché per Fedro, essendo l’eroe omerico, un amato in grado di restituire amore e affezione a chi ama. Questo amore infatti piace agli dèi. Quello dell’amante è già ispirato dal dio. Platone qui si dimostra anche critico della teologia omerica perché non abbastanza capace di ispirare i più profondi sentimenti. Omero aveva descritto un Achille amante, più che amato. Ma gli dèi evocati da Platone invece sembrano preferire un grado di amore ulteriore: l’agape.47
4. Pausania
Se ci soffermiamo sulla mera consequenzialità logica del suo discorso, possiamo congetturare che secondo Pausania, ragionare in universale equivalga a generalizzare, nel senso di ciò che si potrebbe definire una fallacia compositiva o induttiva, e ciò equivale nello stesso tempo anche a complicare in senso astrattivo ciò che potrebbe essere reso nel senso di una immediatezza aristotelica, mero aistheton, che si apra a una significatività dialogica. Il bello inteso nel senso del simposiasta è reso bello da un agire bello individualmente inteso, dalla mera intenzione dei singoli, e dunque, se così si può dire, privatistico. Pausania non intende definire Eros, non spera in un 'comune etico' circa Eros.48 Non è, infatti, l’azione del 'concedere favori agli amanti', da parte del παῖς, a dover essere giudicata, definita, contemplata di per sé, ma è il valore individualistico degli amanti a dare valore a un’azione, che deve rimanere in verità nell’indefinizione. Per essa non deve esserci uno spazio pubblico, in relazione a essa non deve esserci un progetto da definire pubblicamente. Sembra che il discorso pubblico non interessi all’encomiasta. Ci sono molti autori che propendono per un certo relativismo o contestualismo etico di Pausania, come Bett 1989, ma anche Woodruff 1999; Krüger 1995; Centrone 2009.49
Per Pausania non c’è un unico Eros, anzi, a partire da una congettura dualistica, vi è un Eros, fra i due intesi, che è meno degno di elogio. Così come non c’è una sola Afrodite. E altresì, allo stesso modo, c’è un’Afrodite che non va elogiata. Per Pausania sembra plausibile che un dio, pur essendo partecipe della deità, pur dovendo continuare a riferire ad esso l’idea del theion della grecità, non sia, e non metta in pratica un agire degno di encomio. Si dà un’Afrodite pandemia, ossia volgare, pur essendo dea, figlia di dèi. Figlia di Zeus e di Dione. L’Afrodite celeste invece rimane degna di encomio, pur rimanendo la deità divisa in una dualità incomponibile. «Not merely a 'nature-divinity' but a divinity of the state and the city», la dea della dimensione privata e naturale ha un duplicato che le si oppone: la divinità statuale e della città (Farnell, 1896).50 Come Afrodite Urania, o celeste (figlia del cielo), anche Eros Uranio è il dio da elogiare. Ma a un lettore del Fedro sono note le parole di Socrate al suo deteuragonista, nel momento in cui gli si manifesta un segno divino, e gli sembra di udire una voce che lo esorta a purificarsi, essendosi reso colpevole di fronte a esso nell’avergli attribuito affezioni negative («ὡς δή τι ἡμαρτηκότα εἰς τὸ θεῖον»).51 Perché se dunque Eros è un dio, o è divino, non è possibile che sia un male («ὥσπερ οὖν ἔστι, θεὸς ἤ τι θεῖον ὁ Ἔρως, οὐδὲν ἂν κακὸν εἴη»52). Anche il Socrate di Senofonte (Symp.8.9) non è convinto di una duplicità di divinità. Pausania, invece, divide la deità e da questa divisione separa i generi. Afrodite pandemia partecipa sia del genere maschile sia del genere femminile (natura – γενέσει).53 Dividendo le deità, Pausania separa e gerarchizza gli elementi considerati, indicando che il dualismo disvela una mancanza di libertà. È come se il genere femminile, diminuito in valore, come è diminuita Afrodite pandemia, diminuisca il valore dell’esperienza ideale ad esso e ad essa afferente. Esiste la categoria dell’uomo volgare perché riferito a tale diminuzione ideale, ed esiste l’uomo scevro da volgarità, che non si contamina. Vi è una specie di purismo adialogico. L’uomo volto ad Afrodite celeste ama con Eros celeste, per cui qualsiasi relazione da esso messa in campo (eros celeste non può che riguardare il genere maschile, avendo a priori diminuito il femminile), sarà plausibile per definizione, ma in astratto, come un giudizio astrattivo. Là dove non vi è realtà, non vi è infatti, nemmeno armonia di parti rispetto a un intero, non vi è dialogicità. E dove non vi è realtà occorrono mezzi psicologici che convincano l’uditore che ve ne sia, in via surrogatoria.
Occorre enumerare infatti delle legislazioni statuali che in alcuni paesi offrano al cittadino la possibilità di confermare un dinamismo atomistico, un eros chiuso alla differenza. Occorre la mera esteriorità del dire e del praticare. I buoni, essendo tali per definizione, sarebbero legge a se stessi, impegnandosi durevolmente nelle pratiche d’amore. Invece per i volgari si darebbe la legge. Nell’Elide e nella Beozia si dà l’esteriore plausibilità della pederastia. Là dove se viene definita bella, nessuno si sogna di dichiararla brutta. Nei paesi di dominazione barbara, invece, la pederastia è bandita, perché la grandezza di coloro che rendono 'grande' l’amore, sarebbe annichilita dai loro governi tirannici, cercando di difendere, seppur con mezzi antidemocratici, cioè con mezzi che inficierebbero il fine, ciò che volevasi (infelicemente) proporre come unico discorso su eros, ovvero senza dividere Eros. E senza che di Afrodite-bellezza potesse farsi un discorso duale, ovvero improduttivo, irreale. Il mito di Armodio e Aristogitone ne sarebbe, perfettamente, emblema. Erodoto e Tucidide avrebbero, infatti, rivisitato il mito, chiarendo che il vero tiranno non fosse Ipparco, ucciso per questioni di amore, ma Ippia, e che dunque tale gesto non avrebbe fondato, affatto, un regime democratico, ma avrebbe inasprito una tirannia. Una tirannia che nasce dal culto della personalità e che non si insedia senza che la società, o la parte maggiore di essa non lo permetta, seppur non esplicitamente.54 E Pausania stesso aggiunge che là dove è stabilito che sia cosa brutta compiacere agli amanti, ciò accade per la viltà dei sudditi («τῶν δὲ ἀρχομένων ἀνανδρίᾳ» - 182 D) e là dove è il contrario, lo è per l’ignavia dei governanti (di coloro che le posero, «τὴν τῶν θεμένωη τῆς ψυχῆς ἀργίαν» - ibidem). Il tiranno, infatti, nasce da servitù morale di un popolo sopraffatto dalle sue licenze, in una democrazia degenerata, ed egli stesso non conosce né libertà, né amicizia.55 Ma le leggi di Atene e Sparta promuovono sì pubblicità, ma non secondo progetto, comunanza o significanza,56 ciò verso cui indicherebbe persino la parola Συμπόσιον, ma concedendo rilevanza pubblica ad atomi privati, che siano capaci di gesti reputati degni, e che non siano comunque volgari, cioè interessati meramente ai corpi. Così a chi ama (τῷ ἐρῶντι) viene dato incoraggiamento (παρακέλευσις), a che conquisti l’amato, mirando all’anima più che al corpo, perché non voli via l’amore allo sfiorire della bellezza dell’amato.57 Poiché l’atomistico mirare alla virtù rende lecita di per sé la pederastia, e purché i gesti di conquista e di concessione seguano una certa etichetta. Non siano troppo facili, né troppo legati a cose materiali, come le ricchezze, perché ciò renderebbe brutto il gesto dell’amore. L’uomo come singolo, dunque, e non come genere generalissimo, è misura di tutte le cose. Pausania sembra evocare il relativismo del sofista Protagora nel dialogo platonico a lui intitolato, che viene confutato da Socrate sulle virtù, perché il suo discorso mirava più all’etichetta e alle convenzioni, che alla ricerca di ciò che è vero.58
5. Erissimaco
Erissimaco è un giovane medico (Nails, 2002), «figlio di Acumeno», come viene ripetuto più volte nel testo, e alla fine anche da Alcibiade, forse ironicamente, o evidentemente per ribadire il prestigio del padre di contro a una prosopopea piuttosto pedante del figlio (come osservano Bury, 1909; Robin 1929, Wilamowitz 1920).59 Lo ritroviamo anche nel Fedro e nel Protagora. Anche in Senofonte è nominato con il medesimo rispetto riguardo alla professionalità del suo ambito familiare. Per Vegetti ed Edelstein (1967 e 1945) il suo discorso restituisce una figura professionale tipica di quei tempi e dunque acquisisce una particolare rilevanza tra i discorsi dei simposiasti. Nel Simposio Erissimaco prende il turno di Aristofane dopo un vero e proprio coup de théâtre.
Aristofane è colto da un singhiozzo che gli impedisce di prendere la parola, cosicché egli si ricollega al discorso di Pausania appena concluso. E a nostro avviso il presente discorso si pone in continuità con quello precedente anche nel contenuto, rimanendo, a causa di una posizione “fisicistica” priva di una apertura noetica, in un dualismo aporetico, effettuando inoltre un indebito sconfinamento tra gnoseologia ed etica. Seguendo il testo osserviamo che Erissimaco si inserisce nel discorso sulla dualità di Eros. Ed egli non sembra confutare quella divisio deitatum che Pausania aveva posto («τὸ μὲν γὰρ διπλοῦν εἶναι τον Ἔρωτα δοκεῖ μοι καλῶς διελέσθαι»).60 Quegli anzi ne acuisce la problematica, sospingendo la prefigurazione di tale dualità a un livello cosmico. Eros infatti riguarda tutte le cose («πράγματα») umane, oltre che quelle divine, e ciò a dire di Erissimaco è comprovato dall’arte medica. La natura («φύσις») dei corpi («σωμάτων») possiede un duplice amore («τὸν διπλοῦν Ἔρωτα τοῦτον ἔχει·»). Vi è una parte sana che desidera ciò che è sano e una parte malata che desidera ciò che è malato. In quanto ciò che è dissimile desidera il dissimile. Dunque sarebbe giusto che un medico favorisse il desiderio sano di ciò che è sano e deplorasse quello insano di ciò che è malato. Così come sarebbe bello, concedere i propri favori ai buoni e brutto ai cattivi, indipendentemente dall’azione in sé, come se fosse possibile dunque estendere a livello etico una argomentazione naturalistica. La medicina è proprio la scienza, secondo Erissimaco, che deve sovrintendere agli impulsi dei corpi, quelli che riguardano eros. È come se si potesse “naturalizzare” l’eros e per questo distinguere “scientificamente” eros buono da eros cattivo, eros bello da eros brutto a prescindere da valutazioni ulteriori . Bisognerebbe apportare amore fra parti in dissidio, come fece il divino Asclepio, tra parti fredde e calde, secche e umide, e via dicendo. Erissimaco rimane allora sul piano della fisicità, come nota Giovanni Reale nel commento alla sua traduzione del dialogo, e non può comprendere nulla in profondità, nemmeno il motto eracliteo, che pur reclama a garanzia del suo discorso. Il frammento eracliteo (51 Diels-Kranz), appare infatti un po’ modificato rispetto all’originale, «τὸ ἕν γάρ φησι διαφερόμενον αὐτὸ αὑτῷ συμφέρσθαι, ὥσπερ άρμονίαν τόξου τε καὶ λύρας» (Trad. G. Reale: «Egli afferma infatti, che l’Uno in sé discorde, con sé medesimo s’accorda, come l’armonia dell’arco e della lira» - 187 A 5). Esso viene riferito all’Uno da Platone, per far risaltare l’esteriorità dello sguardo fisicistico del medico encomiasta. Infatti l’armonia che deriva dal discorso di Erissimaco non è contrastante, non mantiene la tensione delle opposizioni (posizioni che sono le une di fronte alle altre) che perciò esigono una dimensione ulteriore che le ponga in relazione, il discorso non sembra conservare, per il giovane medico, la tensione plurale di un reciproco e integrale rispetto delle posizioni in opposizione. Sembra quasi, in questo modo, annullarsi la pluralità e che dunque piuttosto un dualismo abbia come faccia speculare un monismo dello sguardo e del giudizio. Esso può assimilarsi a un dire dogmatico, che è lo stesso di un ipse dixit, un dire esteriore, che non esige un corrispondere, un’adesione da foro interno, in interiore. Non c’è un’armonia in dissonanza, ma solo in concordanza. Non c’è un progetto di concordia, ma “accordo” esteriore. «Διαφερόμενον δὲ αὖ καὶ μὴ ὁμολογοῦν ἀδύνατον ἁρμόσαι».61 (E ciò che è discordante e non è accordato è impossibile ridurlo ad armonia). È come se la metis potesse afferire a un buono e a un cattivo, producendo una tiepida medietà del sentire, una mescolanza indistinta dei sentimenti. Non può darsi troppo amore buono, né troppo cattivo. È come se questa misura dovesse inseguire, riaffermandolo, un dualismo invincibile. E, rimanendo, dunque, nella mera esteriorità, Erissimaco apparirebbe come il cultore del μέτρον, cifra della grecità. Dunque, questa espansione cosmica del concetto, servirebbe solo ad acuire l’affezione dualistica, che corrompe il processo del ragionamento, portandolo su percorsi aporetici senza soluzioni di continuità. Persino la mantica e la religione verranno concepite in funzione di tale visione (theoría), poiché esse serviranno a curare un amore in sé già irrimediabilmente diviso. «οὐ περὶ ἄλλο τί ἐστιν ἢ περὶ Ἔρωτος φυλακήν τε καὶ ἴασιν».62
Ma, in realtà, tutto il dialogo del Simposio sembra concepito, a partire dallo stile narrativo, come un itinerario mistagogico. Tuttavia la sua mistagogia non serve certo a mascherare dualità incomponibili. Essa non è irrazionale. Lo si può evincere anche a partire dalla modalità espressiva. Sin dall’inizio, infatti, lo stile da mise en abyme63 (utilizzato, oggi, anche nel campo cinematografico), e che è una modalità narrativa che sospende la percezione della consequenzialità temporale, nel lettore-spettatore, producendo scarti e corrispondenze tra racconti diretti e in differita, corrisponde ad una 'difficoltà' resa e frapposta tra il lettore e il contenuto del testo e per Platone è il modo più adeguato per dire e parlare di ciò che riguarda eros-filosofia. Il percorso sembra analogo, se accostato in origine, prima di ogni determinazione, (i.e, sincronicamente), a quello degli iniziati al cristianesimo, evocando un vero e proprio itinerario catecumenale. Il percorso dei catecumeni non è per tutti. Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti, dice un passo evangelico, accostabile, con una sorprendente assonanza, al passo del Fedone 69 C-D.64
6. Aristofane
Aristofane, dopo la amena scenetta del singhiozzo, che restituisce al lettore tutta la teatralità del dialogo, caratterizzando per alcuni commentatori in senso satirico Aristofane stesso (Robin, 1929), o “mettendo in scena” la fisicità dei personaggi, nel senso della drammaturgia di Eros di Giovanni Reale, che li umanizza proprio perché li determina nella loro limitazione e nello stesso tempo definisce il senso di una loro propria integrità. Egli dichiara sin dall’inizio e con molta determinazione di accingersi a fare un discorso diverso dai precedenti. Per altri interpreti quello di Aristofane è uno dei discorsi più importanti del Simposio (D. Clay, 1975), per Reale è il più bello. Egli dice: «Ho in mente di parlare in maniera diversa» («ἄλλῃ γέ πῃ ὲν νῷ ἔχω λέγειν» - 189 C). Si accinge infatti a raccontare in forma esplicitamente mitica. Si osserva nella persona di Aristofane dunque una integrità psico-fisica, analoga a quella del “minore” Aristodemo, nel senso della ψυχή della classicità greca. Possiamo dunque affermare che egli parli dell’Uno sin dall’esordio, già attraverso la pantomima del singhiozzo, cioè con la sua fisicità? Possiamo scorgere una esigenza assiologica nel discorso che trapela dalla drammaturgia di carattere mitologico? Per alcuni la scelta del presente mito si troverebbe in consonanza con alcune tematiche orfiche e con narrazioni tradizionali (M. C. Bonanno, «Aristofane in Platone (Pax 412 et Symp. 190 c)», Mus. Crit., 10-12, 1975-77), e avrebbe anche un chiaro intendimento didattico, protrettico (D. Micaella, 1998).
Gli uomini di oggi, egli dice, non capiscono la potenza di Eros. Se l’avessero capita l’avrebbero onorata. La natura umana, anticamente (πάλαι), era diversa (ἀλλοία). Non c’erano due generi, ve ne erano tre. Vi era anche l’androgino. Esso assommava in sé la natura maschile e la natura femminile. Ne era una curiosa mescolanza. Era un’unità per figura, per nome, per forma, per intenti e per identità. La forma rotonda (τὸ εἶδος στρογγύλον) rimanda con molta evidenza alla rotondità dello sfero parmenideo, nel sua senso integrale di totalità ontologica, ma nel mito platonico tale totalità dell’androgino è giocata in una funzione oppositiva, cioè al fine di opporsi ad altro e ad altri, a ciò dunque che non riguardi la mera singolarità, sebbene, curiosamente, plurale e una: ovvero si tratta evidentemente di una “rotondità” esteriore, e intrinsecamente dualistica. Dunque pur rimandando al poema parmenideo sembra che non abbia nulla a che vedere con quel «solido cuore della verità ben rotonda» di memoria parmenidea, rispetto alla quale le opinioni dei mortali «bisognava che anch’esse fossero».65 E infatti gli androgini mostravano hybris. Erano terribili per forza e per superbia. E un giorno assalirono il cielo degli dèi, come fecero anche i giganti dei racconti omerici. Anche [gli Αλωιάδαι],῏Ωτος e Έφιάλτης, racconta Aristofane, vollero sfidare Apollo e furono uccisi. Zeus, allora tenuto consiglio con gli dèi dell’Olimpo, decise di dividerli a metà, per indebolirli. Ed essi, divisi, dovevano sperimentare una divisione interiore, dalla profondità del loro sé. Avevano sfidato la divinità, e dovevano, perciò, sperimentare dall’interno di sé, tutta la tristezza e la povertà della mancanza, del dualismo, e l’inedia, una fame impossibile da saziare di una integrità e di una indivisione. È possibile dunque, qui, tra le pieghe del testo intercettare la domanda ulteriore e di valore di una unificazione del senso e dell’agire umano? Perché non avevano nell’uni-dualità, delle forme rotonde che assommavano ambedue i generi, saputo tendere verso l’Uno, essi non ne avevano compreso la valenza, potremmo dire, nei termini teoretici tubinghesi, al di là di un mera quantificazione aritmetica. Vi è dunque una attitudine che secondo il discorso di Aristofane se non media non genera (dove non vi è metaxy – Simposio, 202 B) che potremmo definire, ancora in termini tubinghesi, mediazione protologica poiché media tra ontologia e geometria, come assiologia, e, in quanto valuta il reale a partire da una unità protologica, ideal-archetipica, genera vita. Il mero culto della forza, continuando nella parafrasi, non rende dunque forti, bensì, annichilisce ciò che è comune progettualità. Zeus, allora 'dopo aver a lungo meditato' (μόγις δὴ ὁ Ζεὺς ἐννοήσας) e dopo aver minacciato di dividerli ulteriormente se avessero continuato nella loro insolenza, li tagliò in due, come si tagliano le uova o le sorbe per farle essiccare al sole. Da allora le metà separate si cercavano e desideravano una impossibile consonanza, ma quanto più si incontravano tanto più languivano per la reciproca mancanza, non risultando sensato nemmeno il protendersi reciproco, poiché non erano più koinononiche, ossia in divina (rappacificata con gli dèi) comunanza del volere e del fare.
Nel discorso di Aristofane, dunque, l’arché, e secondo la nostra interpretazione, sembra trasparire in maniera eminente attraverso la figura dell’androgino, esso infatti ne mostra in particolare la significatività perché, diviso in generi differenti, ciascuno diviene contromarca simbolica dell’altro rispetto a un ambito comune da desiderare (σύμβολον – 191 D). Eros è desiderio di ciò che sia integralmente comune («al desiderio e all’aspirazione dell’intero si riferisce il nome di Eros», -192 E - 193 A, splendida definizione emblematica, secondo G. Reale),66 un bene di condivisione, rispetto al quale le cose afferiscano reciprocamente. Ciascuna parte è dunque simbolo per l’altra, l’amore cerca di riportare le parti divise all’antica natura per fare dei due una unità. Eros è il nome di quell’intero possibile e vivente, senza il quale, platonicamente, non è possibile alcuna vita reale. Perciò il dio va onorato, e in esso, l’Uno che è sua essenza e possibile resa risolutiva. Così nel discorso aristofaneo di fronte a tale esperienza di verità non c’è racconto o «burla» (cfr. 193 D) a difesa della dualità che tenga. Anzi, incombe lo spettro di una ulteriore divisione. Se non si onorano gli dèi che sovrintendono ai beni dell’uomo, c’è il pericolo che si venga divisi di nuovo, fino a sfigurarsi, come le figure informi di quei bassorilievi scolpiti sui cippi che siano stati segati in due lungo il naso. Nel Parmenide platonico è l’Uno ad essere argomentato come «Ἄπειρον», «Στρογγύλον», «ὅλῳ», «ἅμα» (illimitato e circolare [Parmenide, 137 D-E], come in un intero [148 D] e in modo contemporaneo [149], nella trad. di G. Reale), dunque accostando il Simposio e il Parmenide si può congetturare un Uno-Eros, come un intero, progettuale, in quanto tramandabile tra generazioni differenti, continuo, ossia orientato al futuro e amante dell’ulteriore, contemporaneo nella circolarità, cioè da riconsiderare sempre di nuovo con l’onore della memoria e dell’attualizzazione, e, in continuità con l’essere parmenideo, piuttosto che in differenza (F. Adorno), non è continuità indifferente o totalità teoreticistica, bensì un intero che sia tale da valorizzare il molteplice e che, se perseguito, non corrisponde al perdersi nelle opposizioni sterili e logicistiche, bensì a una comprensione noetica.
Il successivo interludio riprende la precedente mise en scène. Erissimaco risponde alla battuta di Aristofane dichiarando di essersi arreso piacevolmente alla volontà di non burlare il suo discorso («καὶ γάρ μοι ὁ λόγος ἡδέως ἐρρήθη» [Simposio, 193 E]). Ma Socrate sposta subito l’attenzione su Agatone, enfatizzando con la sua umiltà il suo proprio encomio: egli infatti parlerà dopo di lui, premiato tragediografo, capace di parlare di fronte ad un pubblico molto vasto, senza lasciarsi turbare dalla minima emozione, perciò Socrate si dichiara per converso intimorito. Ma la questione non è relativa al numero maggiore o minore di uditori intelligenti, alla quale Agatone dichiara invece di essere molto interessato. La domanda che insorge sembra infatti la seguente: come si misura il valore di un discorso? Occorre riferirsi meramente a una élite di uditori scelti, rispetto ai quali valutare le parole dette o da dire, o a qualcos’altro? Anche qui è 'necessario' riferirsi a un archè, riaffiora nuovamente l’imprescindibilità di un inizio del fare, del pensare e del valorizzare.
7. Agatone
Agatone, il tragediografo, fa un discorso su Eros che per alcuni interpreti può essere definito di stampo sofistico (di norma vacuo e fallace, dimodoché risulterebbe la parodia platonica contro la poesia e l’epideixis sofistica, ma per altri, tra cui Sedley (2006) e Müller (2012), il discorso di Agatone si mostra degno dell’ordine che occupa nella struttura del Simposio, ovvero esso precede immediatamente quello di Socrate, e si situa prima della climax che attraverso le figurazioni di Diotima guida il lettore alla visione del bello in sé – cfr. M. Regali (2016)67 . Si può asserire tuttavia che comunque, oggettivamente, la sua narrazione non esige una specifica attitudine intellettuale per poterlo comprendere. In molte cose Agatone è in accordo con Fedro, entrambi si mostrano veri e propri discorritori generalisti, se così si può dire, ma egli se ne discosta quando narra dell’età di Eros. Secondo Agatone, Esiodo e Parmenide sono in errore, in quanto Eros, non solo non mostra di essere il più antico degli dèi, ma esso addirittura rifugge la vecchiaia, insieme a tutto ciò che comporta fatica, sofferenza e dolore. Eros, a suo parere, è il dio caratterizzato soltanto da giovinezza, bellezza e delicatezza, e questa caratterizzazione, e questo insieme di attribuzioni integralmente positive, lo pongono al di fuori del tempo. Eros, secondo Agatone, diventerebbe quella positività cui ciascuno mediamente ambisce. Ma tale narrazione mostra oggettualmente un Eros idealizzato in senso psicologistico, rivelando, a nostro parere, per questo, la sua inconsistenza noetica, situandosi già al di fuori di qualsiasi discorso koinonistico e progettuale. Sempre Regali sostiene che nel discorso di Agatone sembra avere una posizione centrale la mimesis di sé, come proiezione sul personaggio Eros di caratteristiche personali di Agatone stesso, e che anche Socrate mostri una mimesis di sé, anche se dietro la maschera di Diotima, in quanto attribuisce a Eros le caratteristiche tipiche del filosofo. Osserviamo come fin dall’inizio Agatone faccia una mera dichiarazione di metodo: «voglio prima dire come parlare», egli afferma: «Ἐγὼ δὲ δὴ βούλομαι πρῶτον μὲν εἰπεῖν ὡς χρή με εἰπεῖν, ἔπειτα εἰπεῖν» (cfr. 194 A). Il suo discorso non riguarderà la felicità degli uomini circa Eros, come sino ad allora era stato detto, ma prima ciò che è Eros stesso, le sue qualità. La sua dunque non sembra una proposta protrettica o paideitica. Hegelianamente si potrebbe riconoscere nel suo discorso un dire astratto, soggettivistico, senza predicazione di carattere congetturale: la buona azione o l’uomo bello relativizzati ad essi stessi e non l’azione che produce bontà, per sé e per altri, e dunque per il mondo in totalità. Dunque nella narrazione di Agatone non si esprime un dinamismo noetico, e sempre in termini hegeliani, speculativo. Come abbiamo rilevato nell’introduzione, l’inizio è anche configurabile hegelianamente come un predicato intuito in un movimento speculativo che anche si diriga verso di esso come meta. Cosicché, mancando lo sguardo alla noesi, si palesa tutta l’astrazione del presente discorso.
Come si può, invece, raccontare Eros, definendolo noeticamente senza cadere nell’astrazione? Dal complesso del dialogo si deduce la primarietà della koinonia unificante di una noesi a cui si accede solo dialogicamente e mediante una ricerca veritativa comune, ovvero progettando il bene, o ancora come sintesi teorico-prassica, e in una successiva diairesi definitoria e dialogica. Bearzi afferma che il Simposio è il contesto noetico che più di ogni altro potrebbe aprire ai pericolosi germi di una interpretazione dell’intellezione platonica in chiave mistica ed estatica (secondo un misticismo soggettivistico), (cfr. Festugière 1936, Bréhier 1938, Joly 1974, Kahn 1996),68 nonostante il concetto di noesi platonica contraddica chiaramente tale possibile lettura (cfr. Brochard 1974 e Cornford 1967). Agatone parla ancora di un Eros che si può situare al di là sia di una nozione di giustizia sia di ingiustizia. Dunque si tratterebbe ancora di astrazione e allora la frase pronunciata a riguardo: «τὸ μὲν μέγιστον ὅτι Ἔρως οὔτ’ ἀδικεῖ οὔτ’ ἀδικεῖται οὔτε ὑπὸ θεοῦ οὔτε θεόν, οὔτε ὑπ’ ἀνθρώπου οὔτε ἄνθρωπον»,69 non sarebbe definizione predicatoria nel senso precedentemente detto. Ma Agatone aggiunge ancora altro – come se volesse disvelare, come maschera di Eros, e anticipo della mimesi di sé socratica, la mancanza di un concetto di misura, il metron di cui si è parlato in introduzione e nel discorso di Erissimaco e che corrisponde al dinamismo filosofico essenziale. Eros è il misuratore e mediatore per eccellenza. E ciò corrisponde a dichiarare che proprio dall’astrazione, luogo dell’inessenziale, non è possibile alcuna misura, e senza misura, alcun giudizio, e senza giudizio, alcuna noesi, e senza quest’ultima non vi sia significanza. Eros possiede ulteriori attributi: è più forte di Ares, è coraggioso ed è poeta, anzi, è il massimo dei poeti, tale da rendere dotato di talento poetico chiunque venga toccato dal dio. È quella guida bellissima e bravissima («ἡγεμὼν κάλλιστος καὶ ἄριστος»70), che tutti gli uomini dovrebbero seguire. Ma se fosse così (ecco un’altra domanda implicita, che il lettore può dipanare dalla trama del discorso), ci sarebbe ancora libertà di progettare secondo Eros?
Dopo il discorso di Agatone, tutti i presenti applaudirono («ἀναθορυβῆσαι τοὺς παρόντας» - 198 A). Qui si può anche osservare che avendo egli parlato di un dio dell’apparenza o dell’astrazione (cioè l’ Eros elogiato da Agatone in assenza di un itinerario noetico), ogni uditore lo trovi evidentemente confacente a sé. Tuttavia anche Socrate rimane sul medesimo piano del discorso, però sempre in funzione disvelativa, manifestando tutti i suoi timori performativi. Qui Socrate potrebbe aver agito come il prigioniero del mito della caverna che dopo aver volto il suo sguardo verso il sole del vero (della noesi) vi ritorna solo per poter liberare gli altri prigionieri; ovvero i timori di Socrate indicherebbero l’esigenza all’interno della drammaturgia di una necessaria περιαγογε dell’uditore . Socrate infatti, nel passaggio successivo, paragona Agatone a Gorgia da Leontini, il che potrebbe indurre a pensare che abbia fatto una valutazione dell’attuale simposiasta in un senso palesemente sofistico; con un gioco di parole evoca la gorgòneion, la testa della γοργόνη Μέδυσα, quella che nell’opera omerica compare sull’egida di Atena.71 Il sofismo agli occhi di Socrate sembra cioè agire con le medesime conseguenze dello sguardo della gorgone. La pietrificazione che provoca lo sguardo di tale personaggio mitico sembra a nostro parere metafora adeguata di una reificazione che l’attitudine sofistica può provocare nelle relazioni umane. E per un momento gli sembra che Agatone (con i suoi sofismi) stia per lanciargli contro la testa del Gorgia.
Ma la domanda rimane inevasa, osservando ancora la mimica di Socrate: perché il sofismo appare al protagonista tale da rendere l’interlocutore a cui è rivolto inerte e quasi pietrificato? Qui le parole di Socrate potrebbero in realtà suscitare nel lettore le più grandi domande. Che cosa è allora vitale per Socrate, e non naturalmente in senso psicologistico o soggettivistico? Di quale verità egli si fa promotore, custode o difensore? Tale problematica assume rilevanza ancora maggiore se ci si proietta in una dimensione di contemporaneità pensante. Esso può sembrare per esempio a un lettore del Vangelo, indipendentemente dalla sua credenza o meno nella divinità di Gesù, il medesimo problema (vitale) della verità del Cristo nel gabbatha evangelico. Gesù tacque alle domande incalzanti di Pilato su che cosa fosse per lui la verità. Trattavasi di un amore che doveva rimanere implicito, come avrebbe detto Simone Weil? Ovvero un implicito dell’esperienza, di fronte alla quale sarebbe stato più eloquente il silenzio, perché generante pensiero vitale nell’interlocutore? Socrate continua: «ἐγὼ μὲν γὰρ ὑπ’ ἀβελτερίας ᾤμην δεῖν τἀληθῆ λέγειν περὶ ἑκάστου τοῦ ἐγκωμιαζομένου» - «Io credevo, per la mia ingenuità, che sulla cosa che veniva elogiata si dovesse dire la verità».72 Se ammettiamo che ci troviamo di fronte un Socrate pensante secondo una congettura di ordine noetico, dobbiamo dedurre che tale affermazione volesse sottintendere che per cominciare autenticamente un discorso e un’esperienza delle cose del mondo e della vita, sulle quali si possa fondare qualcosa di duraturo, il tratto di fondo di un mondo in senso heideggeriano, o detto in termini della fenomenologia finkiana, un progetto generante perché generoso di sé, non si potesse che dire una verità che possedesse le medesime attribuzioni. In quanto sulla non-verità, come accadeva anche per il non-essere di parmenidea memoria non si può costruire nulla di duraturo. E dunque, tutto ciò che si eleva sulla mera opinione, sul sofismo o sul sognare fumoso, si vanifica. Là dove a quella realtà (che si costruisce in senso noetico) si può accedere invece solo attraverso una posizione giudicante sul vero (cioè come giudizio determinante e costituente); il resto risulterebbe vano e futile parlare, se non si guardi all’archè, come noesi. Attribuire alla cosa («τῷ πράγματι» - 198 E) ciò che c’è di più bello, sia che l’abbia, sia che non l’abbia, come mira progettuale, risultando incoerenti rispetto a se stessi, non può non separare inesorabilmente il dire dell’uomo dal suo agire oggettuale, vanificando ogni intenzione significativa: in questo senso al contrario agisce il dualismo e il sofismo. Anche dal punto di vista linguistico, possiamo dire che il mito stesso che Platone utilizza diffusivamente non è mera espressività, non è artificio letterario o decoro in senso esteriore. Per Platone il mito (mythologein) è soprattutto linguaggio, ma esso è parte costitutiva del suo pensare. Il mito o il parlare in senso generico appare in metafora socratica come uno splendido tempio dorico dove non vi è solo apparenza , ma esso sia un luogo da cui lingua e cuore celebrino, e nel contempo, promettano le medesime cose, il luogo della coerenza, là dove non ci sia bisogno di salutare i presenti alla fine del discorso, per congedarsi da una specie di rappresentazione teatrale inautentica. La divisione fra soggetto e oggetto fa parte invece dell’attitudine sofistica. E tuttavia la questione del definire Eros, nello stile dell’encomio, in relazione a ciò che è vero dunque non sembra che sia stata minimamente ancora chiarita. Che cosa manca ancora dunque al discorso? Di quale “amore” manca l’amore di cui parlerà Diotima, il personaggio, a nostro parere, centrale? Socrate continua: Bisogna certamente dire prima che cos’è Eros, ma poi soffermarsi su che cosa esso produce.
Socrate apprezza l’inizio del discorso di Agatone. Occorre prima dire: «τίς ἐστιν ὁ Ἔρως» (199 C 5). Questo inizio mi piace, dice Socrate: «ταύτην τὴν ἀρχὴν πάνυ ἄγαμαι» (ibidem). Eros desidera il suo oggetto d’amore, ma a quale mancanza corrisponde quel desiderio? Occorre definire quel limite e quella mancanza. Tale mancanza sarà assimilabile a Eros. Quale misura gli manca? Occorre guardare dentro di sé e ricordarsi che cosa sia. Persuadersi, in relazione alla propria esperienza e ai propri ideali, e dire quella mancanza (ἔνδεια), non secondo una verosimiglianza meramente mimetica, ma tale da evidenziare una necessità naturale, e cioè ideale, ideal-sentimentale, ovvero un sentimento di una necessità ideale («Σκόπει δή, εἰπεῖν τὸν Σωκράτη, ἀντὶ τοῦ εἰκότος εἰ ἀνάγκη οὕτως, τὸ ἐπιθυμοῦν ἐπιθυμεῖν οὗ ἐνδεές ἐστιν, ἢ μὴ ἐπιθυμεῖν, ἐὰν μὴ ἐνδεὲς ᾖ» - «Considera allora – proseguì Socrate -, se anziché verosimile, non sia proprio necessario che ciò che ha desiderio abbia desiderio di ciò di cui è mancante, e invece non abbia desiderio se non ne sia mancante» [200 A 5 – G. Reale]). Eros dunque sarebbe ciò che mancherebbe ad Eros stesso per persuadersi all’agire? L’amore per il giusto dovrebbe persuadersi a fare cose giuste, il desiderio del bello a produrlo, e, soprattutto, definendo tale mancanza, là dove sia impossibile negarlo se vi è homologia, con reciproca persuasione, parenesi. Poiché è impossibile rimanere nell’inazione dopo quello che si è convenuto. «Ἀδύνατον ἐκ τῶν ὡμολογημένων» (200 B 5). Occorre inoltre autentica verosimiglianza, e cioè un discorrere mitologico, il dire con miti per esprimere ciò che riguarda una necessità ideale, poiché tale modalità espressiva aprirebbe più di ogni altra alla dialogicità e si confarebbe a un fare dialettico.
Eros sembra dunque caratterizzato da mancanza di compiutezza, in modo che tale mancanza però afferisca a una unità, che, come totalità, agisca da meta dell’agire comune. Eros, dunque, non può essere bello e giusto finché non possieda bellezza e giustizia, tali da produrle, in permanenza, in progettualità ideal-trascendentale, con una fermezza analoga a quella di chi possiede una fede religiosa. Diotima di Mantinea, Μαντινικῆς Διοτίμας, è colei che insieme a Socrate decostruisce il mito di Eros come dio perfetto, effettuando una vera e propria analisi del fenomeno (cfr. V. Melchiorre 2001),73 pur essendo ella stessa sostanzialmente mitica, facendo parte di una narrazione di Socrate ed essendo una straniera, «ἡ ξένη» (201 E), e proprio perché straniera, evidentemente capace di mediare fra luoghi differenti della conoscenza e della significazione. Ella sapendo (in senso eschileo), spiega chi è Eros, «τίς ἐστιν ὁ Ἔρως» (ibidem), facendo domande, «ἀνακρίνουσα διῄει» ( ibi.), alla maniera dei filosofi. Diotima aveva detto a Socrate che fosse necessario accorgersi che vi è un medio. Vi è cioè un’idea che esprime l’azione del mediare e che indica allo stesso tempo che tale azione sia da intraprendere («ἤ οὐκ ᾔσθησαι ὅτι ἔστιν τι μεταξὺ σοφίας καὶ ἀμαθίας;» - «o non ti accorgi che c’è un intermedio fra sapienza e ignoranza? » [202 A - Reale]). Ella intendeva esortare Socrate stesso, in quanto filosofo, a mediare fra dimensioni differenti, ovvero a unificare, conciliare ciò che appare inconciliabile, in altre parole a intraprendere la via dialettica, ovvero ancora, a modo eracliteo, armonizzare i distinti, fare autenticamente filosofia.74 Ma la mediazione filosofica deve cominciare dalla valorizzazione della doxa. L’opinare rettamente, «τὸ ὀρθὰ δοξάζειν» (202 A 5) se comunque coglie l’essere, sebbene non in pienezza, non può essere ignoranza («τὸ γὰρ τοῦ ὄντος τυγκάνον πῶς ἂν εἴη ἀμαθία;» - «infatti, come potrebbe essere ignoranza se coglie l’essere?» [202 A]). Anche la doxa è conoscenza imprescindibile da non opporre in maniera dualistica ad altri saperi, (è icastica, per eikasia), ed è valorizzata alla luce della noesi, nella contemplazione della caducità del sensibile e nella pistis come affermazione-credenza, evidenziando le contraddizioni da superare per episkepsis (ricerca di una ulteriore verità libera da contraddizioni, diaphorein), nel dialogo, nella prassi diairetica e sinottica.75
Occorre dire, dunque, definire la mancanza che Eros intende colmare. Occorre diventare quella mancanza, per poter nettamente interpretare il suo bisogno. Eros infatti ha il potere di interpretare, alla luce del divino ciò che appartiene all’uomo («Ἑρμηνεῦον καὶ διαπορθμεῦον θεοῖς τὰ παρ’ ἀνθρώπων καὶ ἀνθρώποις τὰ παρὰ θεῶν» – «ha il potere di interpretare e di portare agli dèi le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli dèi» [202 E - Reale]), essendo mediatore tra uomo e Dio. A Eros pertiene la dimensione speculativa, poiché ha il potere di rivelare all’uomo ciò che esige il divino, essendo figlio di dèi. Egli possiede il pathos atto a sentire nelle proprie fibre tutti gli elementi della creazione demiurgica, poiché è nato da un incontro fra diversi. È il figlio di Poros e Penia. È il risultato di una tensione costante che produce continuamente armonizzazione, mantenendo le diversità. Eros non è già conforme al divino, poiché possiede in sé questo appello urgente a rilevare ciò che manca all’armonia della noesi. «Come potrebbe essere un dio chi non è [ ancora] partecipe delle cose belle e buone?» («πῶς ἄν οὖν θεὸς εἴη ὅ γε τῶν καλῶν καὶ ἀγαθῶν ἄμοιρος;»76). Ecco perché Eros è filosofo. Egli è medio fra sapienza e ignoranza («σοφίας τε αὖ καὶ ἀμαθίας ἐν μέσῳ ἐστίν» [203 E]). Eros cerca e ama il bello, e la sapienza è fra le cose più belle, perciò vi è necessità che Eros sia filosofo, amando egli tutto ciò che esso stesso cerca e produce. È necessario, perché la sapienza per essere comunicata esige un consentimento («ὥστε ἀναγκαῖον Ἔρωτα φιλόσοφον εἶναι» – perciò è necessario che Eros sia filosofo [204 B - Reale]). Eros afferma che il vero è plausibile, perciò afferma un essere, ovvero che il vero è da dirsi e da farsi, e facendo questo persuade. Come la via parmenidea «Πειθούς έστι κέλευθος».77 Essa è la via che afferma che l’essente è.
Così può progettarsi la felicità degli uomini. L’uomo è dunque felice solo nei progetti di amore o comunque nei progetti realizzati in un amore che persuade («εὐδαίμων ἔσται» – «sarà felice» [204 E 5 - Reale]). Socrate parla di una felicità gratuita, in sé, in riferimento alla cui gratuità la risposta a ogni domanda sembra avere il suo compimento («τέλος δοκεῖ ἔχειν ἡ ἀπόκρισις» [205 A]). […] («ὁ ἔρος τοῦ τὸ ἀγαθὸν αὑτῷ εἶναι ἀεί» - «l’amore è tendenza a essere in possesso del bene per sempre» [206 A 10 - Reale]). Eros è dunque sempre quel bene che comincia un mondo, che genera, nel bene, e nella bellezza («ἔστι γὰρ τοῦτο τόκος ἐν καλῷ» [206 B 5]. E tale è e deve essere la filosofia al di là di ogni discorso epigonale, o dimentico della parenesi socratica sull’anima e sulla città dell’uomo.
8. Conclusione
Abbiamo fatto un’operazione di ermeneutica testuale attraverso una rinarrazione del testo e con parafrasi pensante. Rinarrare un dialogo platonico significa rimettere a tema le medesime domande che dal dialogo stesso scaturiscono, ovvero causare una riapertura problematica dei suoi temi principali, attraverso una riscrittura che non può non riprodurre quell’oralità dialettica che, come usava dire Giovanni Reale, rappresentando la congiuntura storica e culturale del tempo di Platone, l’aveva caratterizzato integralmente nella sua filosofia, ma che nel contempo diviene un’operazione di attualizzazione. L’epoca platonica è infatti un’epoca di passaggio dall’oralità poetico-mimetica alla scrittura, passando per il “medio” dell’oralità dialettica, là dove l’epoca attuale è l’epoca di transizione a un uso della tecnologia sempre più sofisticata e largamente diffusiva, che occorre fare heideggerianamente oggetto di pensiero. Platone è stato uno scrittore, e nello stesso tempo un poeta, un mitologo e un pensatore. Egli si è fatto portatore di un tipo di enunciazione pensante che avevano cominciato già prima di lui i cosiddetti physiologoi, da Talete in poi. La sua scrittura riproduce i canoni dell’oralità tradizionale e in più vi aggiunge la mediazione simbolica dei concetti. Vi è il bisogno di un giudizio netto prima di cominciare a progettare il domani e tale giudizio per non essere totalizzante in senso astrattivo e moralistico, deve essere dialogico. Ecco, perché dietro la scrittura platonica, che adopera i canoni mitologici e narrativi, e propriamente simbolici, vi è quel lungo addestramento al dialogo e all’attitudine ad esso correlata che è la pratica accademica, o la sequela condivisiva dei maestri, ovvero una pratica di vita e un progetto delle esistenze. Tutto questo, il presente scritto ha cercato di considerare in relazione al Simposio e alla problematica dell’archè, tenendo presente sia il testo stesso del Simposio sia altri dialoghi platonici, come il Parmenide, il Fedro, dato che il tema dell’arché è inscindibile dalla tematica dell’Uno (e dei molti), e la Repubblica, per la funzione intrinsecamente paideitica della filosofia di Platone. Così l’obbiettivo di individuare un filo rosso tra i vari discorsi dei protagonisti principali del dialogo, che potesse essere quella tensione verso il compimento di cui parla il Parmenide platonico, ovvero il progresso nella comprensione della relazione dell’uno stesso in quanto idea ad un uno-principio noetico, e dei molti, in relazione all’uno e al nous, si può auspicare che sia stato almeno in parte raggiunto attraverso la fitta tessitura della rinarrazione ragionata in senso ideale. Ma l’intento, come abbiamo sopra preannunciato, non era solo di carattere meramente teoretico: la congettura attualizzante ha consentito il disvelamento di un’esigenza dell’oggi. Vi è un bisogno impossibile da eludere di una progettualità del presente, una esigenza di un vivo pensare e di un comune sentire riguardo ciò che è bene e ciò che meglio per l’uomo di oggi, là dove purtroppo non mancano strategie oppositive e competitive, ma progetti comuni di bene attendono invero ancora risposte autenticamente filosofiche.
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In relazione a queste tematiche si possono vedere gli atti del convegno di Verona su Hegel, Heidegger e la questione della romanitas a cura di Luca Illetterati e Antonio Moretto, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2004, p 174. ↩︎
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Il testo nello specifico si proponeva un pensiero in autonomia del sud dell’ Italia e del sud del mondo, attraverso le lenti della lentezza e della misura, tipiche dei paesaggi del mezzogiorno. Cfr. Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Editori Laterza, Bari 2005. ↩︎
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Aristotele effettua una disamina di tutte le posizioni “filosofanti” della storia della Filosofia che lo hanno preceduto, per porsi attualmente nell’orizzonte del problema, nel contesto di un perenne domandare. Cfr. Metafisica, A 983 A 20-30, (trad. G. Reale): «Ἐπεὶ δὲ φανερὸν ὅτι τῶν ἐξ ἀρχῆς αἰτίων δεῖ λαβεῖν ἐπιστήμην τότε γὰρ εἰδέναι φαμὲν ἕκαστον, ὅταν τὴν πρώτην αἰτίαν οἰώμεθα γνωρίζειν». Per l’essenza dell’ “inizio”, in quanto definizione, cfr. Libro Δ 1012 B 30-35 – 1013 A 5: In un senso, «la parte di qualcosa da cui si può incominciare a muoversi», in altro senso ciò da cui cominciare per imparare nel modo migliore, in altro ancora parte originaria interna a una cosa (per gli animali, cuore o cervello), «causa prima non immanente della generazione», e ciò per volere di cui si muovono le cose, o principio argomentativo, distinguendo generazione e conoscenza. ↩︎
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Cfr. V. Cicero, Essere e analogia, Il Prato, Padova 2012, Introduzione. ↩︎
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Cfr. H. G. Gadamer, La dialettica di Hegel, Marietti, Genova 1996, p. 149. ↩︎
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Cfr. H. Krämer, Dialettica è definizione del bene in Platone, introduzione di G. Reale e traduzione di Enrico Peroli, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 37. Krämer effettua un commentario filologico a Repubblica, VII, 543 B 3 – D 2. ↩︎
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Cfr. C. J. de Vogel, Rethinking Plato and Platonism, Leiden E.J. Brill 1986 e cfr. M. Vegetti, Il potere della verità, Carocci, Roma 2018. ↩︎
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Cfr. H. Krämer, Dialettica è definizione del bene in Platone, cit., p. 37: Platone applica all’«ἀγαθὸν αὐτό» il processo dell’avere intelligenza, e dunque ragione e conoscenza, tramite dialettica («διαλεκτικός e διαλεκτική», con il metodo maieutico di Socrate – «ἐρωτᾶν τε καὶ ἀποχρίνεσθαι») «λόγος», «λόγον διδόναι», e definizione dell’essenza – «ὄνομα» e «λόγος τῆς οὐσίας». ↩︎
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Giovanni Reale, (Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle Dottrine non scritte, Bompiani, Milano 2002, p. 29), scrive: «Platone, con la sua 'seconda navigazione' (deuteros plous) ha costruito la metafisica occidentale, gettando quei fondamenti che si sono imposti come punto di riferimento irreversibile. Ma gli stessi Presocratici (a partire da Talete) hanno fatto un discorso filosofico che ben si può dire 'metafisico', dando al termine un senso greco e non moderno: si sono posti infatti il problema dell’“intero”, ossia della ragion d’essere di “tutte le cose”, con la ricerca del “principio” o dei “principi” che le spiegano». ↩︎
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Cfr. Simposio, 205 B: «Ἀλλὰ μὴ θαύμαζ’, ἔφη· ἀφελόντες γὰρ ἄρα τοῦ ἔρωτός τι εἶδος ὀνομάζομεν, τὸ τοῦ ὅλου ἐπιτιθέντες ὄνομα, ἔρωτα, τὰ δὲ ἄλλα ἄλλοις καταχρώμεθα ὀνόμασιν». (Trad. G. Reale: «Ma non c’è da stupirsi - soggiunse -, perché noi, separando una particolare forma di amore, le attribuiamo il nome dell’intero e la chiamiamo appunto amore, mentre per le altre forme di amore usiamo altri nomi»). ↩︎
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Cfr. Simposio, 205 A 5, sulla prospettiva di un amore, come attribuzione e come idea, comune a tutti gli uomini: «Ταύτην δὴ τὴν βούλησιν καὶ τὸν ἔρωτα τοῦτον πότερα κοινὸν οἴει εἶναι πάντων ἀνθρώπων, καὶ πάντας τἀγαθὰ βούλεσθαι αὑτοῖς εἶναι ἀεί, ἤ πῶς λέγεις; Οὕτως, ἦν δ’ἐγώ κοινὸν εἶναι πάντων». (Trad. G. Reale: « Questa volontà e questo amore credi che siano una cosa comune a tutti gli uomini, e che tutti vogliano possedere? O come dici? Proprio così- dissi -, che sia una cosa comune a tutti»). ↩︎
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Cfr. Franco Trabattoni, Scrivere nell’anima. Verità, dialettica e persuasione in Platone, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1993, p. 93. ↩︎
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Cfr. Politico, 309 C 5 «Τὴν τῶν καλῶν καὶ δικαίων πέρι καὶ ἀγαθῶν καὶ τῶν τούτοις ἐναντίων ὄντως οὗσαν ἀληθῆ δόξαν μετὰ βεβαιώσεως, ὁπόταν ἐν ταῖς ψυχαῖς ἐγγίγνηται, θείαν φημὶ ἐν δαιμωνίῳ γίγνεσθαι γένει». (Trad. M. Migliori: «Quando nelle anime nasce un’opinione, vera e solidamente fondata, sul bello, sul giusto, sul bene e sui loro contrari, io dico che è una realtà divina che si produce in un genere spirituale»). ↩︎
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Cfr., Parmenide, Poema sulla Natura, Introduzione e commentario di Luigi Ruggiu, Bompiani, Milano 2003. ↩︎
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Si veda a questo proposito la relazione di Francesco Adorno, «Platone interprete di Parmenide», ne Il Parmenide di Platone, Atti del Convegno Il Parmenide di Platone, 27-28 ottobre 1988, a.c. di Vincenzo Vitiello, Pubblicazioni dell’Istituto Suor Orsola Benincasa, pagg. 15-30. ↩︎
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Cfr. Giovanni Reale, op. cit., p. 76. Nell’autotestimonianza del Fedro, Reale dice, riportando le interpretazioni di H.J. Kramer, H.G. Gadamer, K. Gaiser e altri (v. nota a pag. 76): «Per Platone, lo scritto in sé è inanimato. Animato è il discorso vivente mantenuto nella dimensione dell’oralità e mediante la scienza impressa nell’anima di chi impara». ↩︎
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Sul sistema storico-speculativo di Hegel, nelle Lezioni sulla Storia della Filosofia, e su come Hegel colloca la filosofia platonica nelle sue Lezioni, si veda il saggio di Vincenzo Cicero, Il Platone di Hegel. Fondamenti e struttura delle Lezioni su Platone, con prefazione di Giovanni Reale e saggio introduttivo di Hans Krämer, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1998, Parte II, L’interpretazione hegeliana della Filosofia di Platone, pp. 84 e 85, e Appendice al Cap. IV, Il sistema storico-speculativo di Hegel, p. 91. ↩︎
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Cfr. ciò che dice Guido Calogero, commentando il frammento di Eraclito (114 DK) in id., Storia della logica antica, ETS, Pisa 2012, p. 64: «Chi vuol parlare ξὺν νῷ, con “senno o senso di verità”, deve basarsi sullo ξυνῷ, ovvero su ciò che è “comune”». ↩︎
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Si può vedere lo schema degli ambiti ontologici dei dialoghi platonici, a partire dal racconto emblematico del mito della caverna, e l’analisi dell’interpretazione hegeliana dell’anamnesi platonica in Vincenzo Cicero, Il Platone di Hegel, op. cit., pp. 147-163, I tratti fondamentali della filosofia platonica. ↩︎
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Cfr. Eschilo, Agamennone, 176-183. Per una riflessione sul pathei mathos eschileo, cfr. Maria Maślanka Soro, «La legge del pathei mathos e la figura di Agamennone in Eschilo», in Sandalion, Università di Sassari, Nr 41(1991). ↩︎
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Paula Philippson, «Il concetto greco di tempi nelle parole Aion, Chronos, Kairos, Eniautos», in Rivista Di Storia Della Filosofia (1946-1949), vol. 4, no. 2, 1949, pp. 81–97. ↩︎
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Cfr. Metafisica, Δ 6, 1016 B 15: «Τὸ δὲ εἶναι ἀρχῇ τινί ἐστιν ἀριθμοῦ εἶναι· τὸ γὰρ πρῶτον μέτρον ἀρχή». (Trad. G. Reale: «L’essenza dell’Uno consiste nell’essere un principio numerico: infatti, la misura prima è un principio».) ↩︎
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Cfr. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Vol I, introduzione di Moses I. Findley, trad. Di F. Ferrari, Bur Rizzoli, Milano 2011, p. 8. ↩︎
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Cfr. Massimo Cacciari, in Labirinto filosofico, Adelphi Edizioni, Milano 2014, in 5.1.5. In-dicare e Dichtung, pag. 153, dove l’autore cita Paul Valéry, sulla valenza della heideggeriana lingua madre (archilingua) della filosofia, la Dichtung, essenza nascosta del pensare, come un poetare-cantare originario, assimilabile al mythos. «Certo, nel suo essere movimento, danza, ritmo, nel suo risensibilizzare il pensare, come diceva Valéry, o il luogo dove la lingua prende voce (Celan), la poesia sembra avvicinarsi a quel corpo della voce, che nel mythos ci è apparso, più di quanto mai possa il pensare filosofico. La poesia fa rinascere nella mente l’immagine icona da cui ha inizio il pensare […]». ↩︎
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Cfr. Theodor Gomperz, Pensatori greci. Storia della Filosofia antica dalle origini ad Aristotele e alla sua scuola, Introduzione di G. Reale e traduzione di Luigi Bandini, Bompiani, Milano 2013, pp. 834-849. In Socrate, riporta Gomperz, la più elevata virtù del ricercatore, una inesauribile pazienza, si unisce con una delle più alte doti intellettuali: l’assoluta indipendenza da ogni pregiudizio. E insieme una sobrietà e una capacità di dominio che incredibilmente si conciliava con lo zelo della sua ricerca e l’ardore del suo temperamento. ↩︎
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Kevin Corrigan and Elena Glazov-Corrigan, Plato’s dialectic at play: argument, structure, and myth in the Symposium, The Pennsylvania State University Press, 2004 University Park, PA 16802–1003, nota a p. 9, «Aristodemus is a lover, while Apollodorus is a friend. This does not mean that Aristodemus is a sexual partner, but simply, perhaps, that his love for the beloved (a major theme of the dialogue) makes him closer». ↩︎
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Cfr. Giovanni Reale, Per una nuova a interpretazione di Platone, op. cit., Sulla tripartizione dell’ideare nella protologia platonica. ↩︎
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Cfr. Metafisica, Α 986 – 987. ↩︎
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Cfr. Maurizio Migliori, «Come scrive Platone. Esempi di una scrittura a carattere “protrettico”», in Educazione e Filosofia, Uberlandia, v. 20, n. 40, pp. 41-80, jul/dez 2006. ↩︎
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Cfr. Fedro, 276 D-E, 277 A. ↩︎
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Cfr. Lettera VIII, 341 C 5 – D. ↩︎
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Per quanto riguarda l’analisi del rapporto tra i modi di espressione e il mondo del pensiero, in relazione alla teoria delle idee numeri platonica e in rapporto alla critica aristotelica, soprattutto riguardo all’uso della metafora, del pathos poietico e del Mythos in relazione alla filosofia, cfr. Vincenzo Cicero, In Parole come gemme, ed. Il Prato, Padova, 2013: «La potenza del mythos non è altro dunque che quella della parola, e poieta grande è colui che conosce le vie tecniche in grado di manifestare compiutamente tale potenza mimetica. Ora, la manifestazione della parola avviene mediante la lexis. E per adempiere ai due requisiti ontologici fondamentali della mìmesis poietica è necessario che il poieta strutturi il mythos e lo porti a compimento con la lexis avendo soprattutto la vicenda davanti agli occhi: chi infatti guarda in questo modo, come se si trovasse egli stesso nel cuore degli avvenimenti riferiti, scorge chiaramente ciò che conviene e non gli sfuggono le incoerenze». ↩︎
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Cfr. Giovanni Reale, Eros dèmone mediatore. Il gioco delle maschere nel Simposio di Platone, Bompiani, Milano. ↩︎
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In questa valutazione di Reale si può desumere un orientamento dello specifico personaggio in senso dualistico, supponendo che il verosimile e il vero, per Fedro, siano due ambiti nettamente separati e in opposizione. ↩︎
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«Τούτον δὴ ἔγωγε αὐτός τε ἐραστής, ὦ Φαῖδρε, τῶν διαιρέσεων καὶ συναγωγῶν, ἵνα οἷός τε ὦ λέγειν τε καὶ φρονεῖν· ἐάν τέ τιν’ ἄλλον ἡγήσωμαι δυνατὸν εἰς ἓν καὶ ἐπὶ πολλὰ πεφυκόθ’ ὁρᾶν, τοῦτον διώκω κατόπισθε μετ’ ἴχνιον ὥστε θεοῖο». ↩︎
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Cfr. Fedro, 246 A – 247 A; 253 D – 255 B. ↩︎
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Cfr. Giovanni Reale, Eros dèmone mediatore. Il gioco delle maschere nel Simposio di Platone, op. cit., p. 56. ↩︎
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Cfr. Parmenide, Poema sulla natura, op. cit., fr. 13., Traduz. G. Reale. ↩︎
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Cfr. Simposio, 178 C-E. ↩︎
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Cfr. Parmenide, Poema sulla natura, op. cit., p. 349. Ruggiu fa riferimento a H. Schwabl e a Couloubaritsis. Per quanto riguarda il mito e la teogonia, si possono vedere G.E.L. Owen, «Plato and Parmenides in Timeless Present», in The Monist, 50 (1966) e John Whittaker in Phronesis, The eternity of platonic fomes, Volume 13, N. 1, pp. 131 – 144, 1968, per quanto riguarda invece le visioni differenti sul concetto di atemporalità in Platone e Parmenide. ↩︎
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Cfr. Simposio, 178 D: «φημὶ τοίνυν ἐγὼ ἄνδρα ὅστις ἐρᾷ, εἴ τι αἰσχρὸν ποιῶν κατάδηλος γίγνοιτο ἢ πασχων ὑπό του δι’ ἀνανδίαν μὴ αμυνόμενος, οὔτ’ ἂν ὑπὸ πατρὸς οφθέντα οὕτως ἀλῆσαι οὔτε ὑπὸ ἐταίρων οὔτε ὑπ’ ἄλλου οὐδενὸς ὡς ὑπὸ παιδικῶν». ↩︎
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Cfr. Simposio, 178 E. ↩︎
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Cfr, Vincenzo Cicero, op. cit., pp. 169-172. ↩︎
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Cfr. I Corrigan, op. cit., pag. 8. ↩︎
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Ibi., pag. 9. ↩︎
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Cfr. Simposio, 179 B: «ὃ ἔφη Ὅμηρος, μένος ἐμπνεῦσαι ἐνίοις τῶν ἡρώων τὸν θεόν, τοῦτο ὁ Ἔρως τοῖς ἐρῶσι παρέχει γιγνόμενον παρ’ αὑτοῦ». (Trad. G. Reale: «E veramente quello che Omero disse, ossia l’ispirare ardimento in alcuni eroi, negli amanti lo fa Eros, potentemente da lui stesso»). ↩︎
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Cfr. G. Vlastos, op. cit., dove si dice che il racconto di Fedro va oltre gli schemi della tradizione ermeneutica che divide eros e agape, per sottolineare un divario incolmabile della tradizione greca con il concetto di amore cristiano. ↩︎
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Cfr. Platone, Simposio, Testo greco a fronte, Introduzione, traduzione, note e apparati di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2016, pag. 13. ↩︎
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Cfr. Gian Franco Nieddu, «Pausania: un sofista ‘sociologo‛ nel Simposio di Platone», in Harmonia : scritti di filologia classica in onore di Angelo Casanova, tomo 2 / a cura di Guido Bastianini , Walter Lapini , Mauro Tulli. – Firenze, Firenze University Press ,2012. ↩︎
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L. R. Farnell, The Cults of Greek States, II, Oxford 1896. ↩︎
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Cfr. Fedro, 242 C. ↩︎
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Cfr. Fedro, 242 E. ↩︎
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Cfr. Simposio, 181 C. ↩︎
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Si veda, in proposito, Luciano Canfora, La natura del potere, Editori Laterza, Bari 2010. ↩︎
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Cfr. Repubblica, IX, 576 A 5. ↩︎
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Cfr. Massimo Cacciari, Labirinto filosofico, op. cit., pag. 140. ↩︎
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Cfr. Simposio, 182 D 5 ↩︎
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Cfr. Protagora, 331 C - D ↩︎
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Cfr. P. Mureddu, G.F. Nieddu, S. Novelli (a c. di), «Un medico per commensale: Il discorso di Erissimaco nel Simposio di Platone», in Tragico e comico nel dramma attico e oltre: intersezioni e sviluppi parateatrali, Cagliari, 4-5. 02. 2009, Amsterdam: Hakkert, pp. 101-121, ISBN/ISSN: 978-90-256-1254-2; R.G. Bury, The Symposium of Plato, Cambridge 1909, D. Nails, The People of Plato, Indianapolis 2002; L. Robin, Platon. Le Banquet, Paris 1929; U. von Wilamowitz-Möllendorff, Platon, I, Berlin 1920. ↩︎
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Cfr. Simposio 186 ↩︎
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Cfr. Simposio, 187 B 5. ↩︎
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Cfr. Simposio, 188 C – D. L’arte della divinazione infatti produce amicizia (φιλίας) fra dèi e uomini, in quanto conosce 'gli amori' degli uomini che tendono alla giustizia e alla santità. ↩︎
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Cfr. Umberto Curi, La cognizione dell’amore: eros e filosofia, Pagg 36-38. L’autore cita il passo del Fedone, numero 69 C-D. ↩︎
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«Forse la virtù vera non è se non una purificazione da ogni passione, e la temperanza, la giustizia, la fortezza e la saggezza stessa non sono altro che una specie di purificazione. E si dà il caso che non siano uomini da poco coloro che istituirono i misteri, e in verità già dai tempi antichi ci hanno rivelato, per enigmi, che colui il quale arriva all’Ade senza essersi iniziato e senza essersi purificato, giacerà nel fango, invece, colui che si è iniziato e si è purificato, abiterà con gli dèi. Infatti molti sono i portatori di ferule, ma pochi i baccanti autentici. E questi non sono se non quelli che praticano autenticamente la filosofia». Cfr. Fedone, 69 C-D (trad. Giovanni Reale – nella nostra traduzione il termine βάκχοι è stato reso con baccanti, sostituendolo al più aulico Dionisi, solo per la scelta di rendere l’assonanza). ↩︎
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Cfr. Parmenide, Poema sulla natura, Fr. 1,25 – 30 (Diels-Kranz, nella trasposizione del poema in ed. Bompiani tradotta da G. Reale e commentata da L. Ruggiu, Milano 2010): «χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμὲν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἧτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. […] ἀλλ’ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα». ↩︎
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Cfr. Platone, Simposio, introduzione, traduzione, note e apparati di G. Reale, Bompiani, Milano 2016, nota 78, p. 257. ↩︎
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Cfr. Mario Regali, La mimesis di sé nel discorso di Agatone: l’agone fra poesia e filosofia nel Simposio, in M. Tulli, M. Erler (Eds), Plato in Symposium. Selected Papers of the Tenth Symposium Platonicum, Academia Verlag, Sankt Augustin 2016, pp. 204-208. Cfr. J. Müller, Der Wettstreit über die Weisheit zwischen Poesie und Philosophie: Agathons Redeund ihre Prüfung durch Sokrates (193-201c), in C. Horn (Ed.), Platon. Symposion, Berlin 2012, 105-123. C. J. Rowe, Plato. Symposium, Oxford 1998; D. Sedley, The Speech of Agathon in Plato’s Symposium, in S. Haffmanns, B. Reis (Eds), TheVirtuous Life in Greek Ethics, Cambridge 2006, 47-69. F. Sheffield, Plato’s Symposium. The Ethics of Desire, Oxford 2006. ↩︎
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Cfr. F. Bearzi, Il contesto noetico del Simposio, in Études platoniciennes 1/2004, pp. 199-251; A. J. Festugière, Contemplation et vie contemplative selon Platon, Librairie Philosophique J. Vrin; Quatrieme Edition edizione (1975), Parigi 1936; H. Joly, Le renversement platonicien. Logos, episteme, polis, Librairie Philosophique J. Vrin, Parigi 1974; V. Brochard, «Sur le Banquet de Platon», ne L’Année Philosophique, 1906, Vol. 17, pp. 1-32. ↩︎
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Cfr. Simposio, 196 B 5. ↩︎
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Cfr. Simposio, 197 E. ↩︎
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Cfr. Iliade, V, 740-745. ↩︎
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Cfr. Simposio, 198 D. Trad. G. Reale. ↩︎
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Virgilio Melchiorre, «La scala di Diotima per una lettura del «Simposio» di Platone», in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vol. 93, No. 3 (Luglio-Settembre 2001), pp. 343-371. ↩︎
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Cfr. Simposio, 202. ↩︎
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Cfr. Antonio Livi, Il principio di coerenza: senso comune e logica epistemica, Armando Editore, Roma 1997, pagg. 19-20. Si veda anche G. Reale ne Il Poema sulla Natura di Parmenide, op. cit. là dove riconosce la valorizzazione della doxa in Parmenide, nella sua radicalizzazione nell’è in quanto archè, mentre erronea se considerata radicitus. ↩︎
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Cfr. Simposio, 202 D 5 – trad. Reale. ↩︎
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Cfr. Parmenide, Il Poema sulla Natura, fr. 2. ↩︎