Unità e pluralità delle intelligenze

1. Antefatto speculativo

Innanzitutto una proposta di prospettiva, quella concernente il superamento della visione dualistica del rapporto fra teoria e prassi. Già Galilei individuava la interrelazione misconosciuta che nega il primato di uno dei termini sui quali si esercita l’attività conoscitiva. Il primato è della persona e del suo atto cognitivo.

In questo trovo un certo sostegno nelle parole di Gardner: «Alla lunga, non c’è nulla di tanto pratico quanto una buona teoria»;1 una buona teoria, del resto, è quella che trova riscontro nella prassi, inverandosi in essa.

In ogni caso l’impraticabilità d’una proposta teorica non può essere verificata a priori e, nel caso questo avvenga (e avviene spesso), possiamo dire che è intervenuta una prospettiva esistenziale e uno sguardo sull’essere che giudicano comunque inagibile e «non educativa», non adeguata alla realtà delle cose, la proposta che si è voluto confutare.

Può essere legittima questa operazione (l’unico criterio non è quello di un’efficienza immediatamente verificabile), l’importante è che non si perda in scientificità (che si giustifichi la propria posizione), che si ricordi come ogni visione delle cose è speculazione che comunque necessita di confrontarsi con le cose stesse, non una autonoma produzione del soggetto: il metodo scientifico nasce appunto da un atto d’umiltà, dal superamento del pensiero magico ed alchemico e dalla «aequatio» all’oggetto (ogni oggetto ha il suo metodo e questo non può applicarsi a quello indiscriminatamente, secondo modalità e logiche che i Francofortesi dissero di «dominio»).

Ho detto che in campo educativo non può esistere una verificabilità immediata. Innanzitutto occorre tener presente che un metodo non è applicabile sempre e in ogni contesto. La funzionalità del medesimo entra in relazione alla situazione, alla realtà del destinatario ed anche, perché no, alle sue scelte.

Poi c’è da dire che la posizione del discente nei confronti dell’esperienza educativa (a cui, occorre dirlo, partecipa da protagonista. Il suo ruolo non è solo recettivo ma costituisce un ambito interrelativo da cui emerge nuovo sapere che coinvolge lui stesso come l’insegnante) dipende dall’immagine che egli ne riceve e dal concetto di scuola che vede emergere. Se la valutazione è completamente ed esclusivamente diluibile nella capacità di motivare e direttamente proporzionabile soltanto ad essa, perdiamo una dimensione fondamentale del mondo della educazione (che, lo ripeto, è intriso di reciprocità) e della scuola, quella della responsabilità. Ovviamente, se si escludono dall’ambito formativo gli aspetti volitivi ed etici dell’atto cosciente ne deriva lo smantellamento di quella dimensione di cui si diceva: occorrerebbe anche in questo caso giustificare la propria posizione.

Del resto in un contesto di deresponsabilizzazione non potrebbe attecchire nessun processo motivazionale.

Per un’altra ragione non si può parlare di verificabilità immediata della teoria educativa: essa s’applica alle persone, dunque deve essere metabolizzata dal processo interrelativo che ne scaturisce. Credo di poter dire, perciò, che per una teoria di tal genere vale in modo particolarissimo l’attesa.

L’insegnante, del resto, porta tutto se stesso nella relazione educativa e il rapporto interpersonale richiede una verifica dilatata nel tempo. Il metodo non è separabile da colui che se ne avvale, diviene la posizione e la specificità interrelativa nella quale si pone l’educatore. Questa specificità poi, contiene, secondo una connotazione formale (cioè secondo una totalità il cui significato non è riducibile a quello delle parti), tutta la ricchezza della elaborazione pedagogica da cui è stata prodotta.

Da quanto ho detto credo che emerga la connessione alla globalità di ogni approccio scientifico. Se così non fosse i risultati della scienza non sarebbero soggetti a falsificabilità.

Per quanto riguarda il mondo della scuola le cose risultano essere ancora più complesse, infatti qui è coinvolta (come oggetto di se stessa) un’altra globalità, quella della persona e della sua libertà. La persona in ambito pedagogico diviene, allo stesso tempo, soggetto e oggetto del processo ermeneutico.

Le riflessioni fatte finora rivelano una certa inconciliabilità con la «filosofia» della scansione soltanto modulare della valutazione di profitto, specialmente nel caso in cui non si preveda un recupero della dimensione della oralità e nel caso in cui la verifica scritta si limiti a test strutturati o semistrutturati che siano. Non credo, infatti, che si possa valutare la profondità di comprensione eradicondola dalla complessità e dalla interezza del contesto cognitivo nella quale è inserita. Essa riceve un significato particolare da quella totalità, la modifica, genera significati nuovi, ristruttura il mondo interiore del soggetto.

Solo sul piano dialogico si possono sondare queste profondità (in misura minore con un buon elaborato, come minimo un buon tema. Sappiamo, però, che questi lavori richiedono competenze linguistiche che non sempre è possibile pretendere nei ragazzi. Inoltre lo scritto è carente d’un approccio dinamico che non sia soltanto quello del lettore. Viene a mancare dunque un processo di retroazione che coinvolga anche colui che deve «dimostrare» delle conoscenze e che consenta di verificare il livello d’approfondimento), la complessità del mondo interiore della persona, lo sforzo ermeneutico con il quale essa si pone di fronte al mondo e alle diverse problematiche di vita. La lezione socratica conserva una sua validità.

2. L’ideologia del Metodo

A questo punto è necessario dire che la valutazione «non può basarsi principalmente sui test standardizzati […]; tali strumenti comportano un inevitabile pregiudizio a favore di due tipi di individui: quelli con una particolare combinazione di intelligenze linguistica e logica; e quelli che riescono a destreggiarsi meglio con strumenti di valutazione somministrati in ambiente neutrale o decontestualizzato».2

Con verifiche organizzate sul modello dei test non è possibile, perciò, recuperare (nel senso di rievocare, richiamare) sul piano dialettico la ricchezza di conoscenze e competenze delle persone, qualora esse non si esplichino in maniera privilegiata sul piano logico — linguistico.

Non esistono, infatti, processi intellettivi che si applichino trasversalmente a contenuti diversi (il metodo deve adeguarsi sempre all’oggetto, seguirne logicamente la struttura e la posizione ontologica per tradurla sul piano dialettico. Solo in questo modo posso conoscere, utilizzare e prevedere) i quali necessitano dei loro specifici atti mnemonici, percettivi, di apprendimento.

Lo stesso Gardner riferisce che «ogni anno vanno accumulandosi ulteriori prove sulle profonde limitazioni della mente umana […]; i processi cognitivi operativi in una certa area, ad esempio nel linguaggio, sono assolutamente distinti da quelli operativi in altre aree quali la cognizione spaziale o la comprensione sociale».3

Ciò trova riscontro sul piano neurobiologico: si è constatata la differenziazione funzionale delle diverse aree cerebrali. Sono emblematici a questo proposito gli studi del premio nobel australiano J.C. Eccles che, addirittura, cerca di individuare, sulla scorta delle proiezioni fra lobi cerebrali e strutture encefaliche e del loro convergere su siti privilegiati quali i lobi prefrontali e quello temporale sinistro, aree cerebrali dualisticamente (sic) finalizzate alla interazione con la coscienza.4

Anche nel campo della intelligenza artificiale, ricorda Gardner, ci si è allontanati dal pensiero «uniformista»: oggi non si crede più alla possibilità di istituire sistemi dotati di capacità generali nel «problem solving» e in grado di «destreggiarsi in tutta la gamma degli ambiti intellettuali […]. Tuttavia, i recenti progressi nel campo della IA sono avvenuti quasi interamente grazie allo sviluppo dei cosiddetti «sistemi esperti», dotati di conoscenze altamente dettagliate riguardo ad ambiti specifici […] e che presentano scarse — o nessuna — capacità di trasferire tali abilità ad altri ambiti di conoscenza».5

Emerge, a questo punto, la necessità di una digressione critica: le intelligenze della persona tendono, nonostante tutto, all’unità (questo non significa nocumento per la singolarità irripetibile ed impermutabile dell’individuo, bensì il riconoscimento dell’apertura alla totalità d’ogni uomo).

La persona, cioè, tende ad unificare i sistemi con cui elabora i dati nella direzione d’una competenza alla totalità. Voglio dire che questi sistemi sono riconosciuti nell’unità dell’essere che vogliono interpretare, dunque in essi va «dichiarata» e riprodotta quella unità (ovviamente si tratta di un itinerario che non può mai pretendere -ideologicamente- esaustività, quasi che l’atto finito della persona potesse conchiudere nella propria trama dialettica le dimensioni infinite dell’Originario6).

Il paragone con la IA non può essere rivelativo della realtà umana,7 in questa il sistema delle intelligenze diviene atto intellettivo formalmente connotato in un unico momento di coscienza. I contenuti possono essere molteplici, comunque unitariamente espressi ed unitariamente percepiti all’interno della soglia di coscienza entro la quale si muove un fuoco percettivo. L’intelligenza umana, dunque, dispone ed organizza la molteplicità, anche quella dei propri sistemi di elaborazione.

Qui il discorso comincia a farsi complesso ed esula dalle finalità specifiche di questo scritto. Posso dire, però, che l’educazione delle intelligenze va finalizzata a questo orizzonte proprio dell’attività conoscitiva della persona che, come ho detto, tende a comporre tutto in una unità di significato e di «percezione» del medesimo.

Man mano che le conoscenze (quindi le competenze) aumentano si verifica una progressione quasi geometrica del sapere (che è capace di autoalimentarsi, rendendosi volano di se stesso) e delle abilità, che comunque la persona tende ad unificare in quanto desiderosa di connettere tutto a tutto (sono unità, per questo voglio ricondurre ogni cosa all’unità, riconoscere l’unità del tutto e, in essa, il primato della Persona, che pongo al principio dell’essere).

Sul piano didattico questo significa che favorire le abilità specifiche deve voler dire muovere nella direzione d’una promozione totale della persona e non di una specializzazione chiusa in se stessa che la assoggetta ad un sistema («economico») più ampio, quasi non fosse essa stessa termine d’ogni riferimento ed «economia» di ogni scelta.

Lo stesso Gardner riconosce che gli «esseri umani possono coprire efficacemente numerosi ruoli e occupare diverse nicchie proprio perché hanno diversi profili di intelligenze».8 In realtà si dovrebbe dire anche di una capacità d’ampliare le proprie capacità intellettive a partire dalle abilità specifiche del soggetto.9

Dunque, la «teoria delle intelligenze multiple non dovrebbe essere usata per imporre un corso di studi o una professione; essa dovrebbe invece costituire una base plausibile sulla quale avanzare delle proposte e scegliere eventuali materie facoltative».10 L’approccio differenziato deve comunque essere finalizzato a consentire «maggiori probabilità di dominare le diverse materie».11

Ancora: «La nostra scuola ideale dovrebbe impegnarsi a promuovere, nei suoi allievi, la conoscenza approfondita di diverse discipline fondamentali, stimolandoli poi a usarla per risolvere problemi».12

3. Il coraggio di affrontare la complessità

In che modo è possibile convocare le intelligenze del soggetto, dunque il suo profilo intellettivo, ad una uno sviluppo globale della personalità, delle capacità interpretative e di quelle orientate alla risoluzione dei problemi? La decisione di lavorare su progetti13 (adoperando materiali che rappresentano «stati finali», cioè abilità complesse e finalizzate14) può favorire momenti di unificazione delle intelligenze. Occasioni del genere favoriscono una sinergia delle abilità funzionalizzate allo scopo che ci si prefigge. Su di esso, infatti, vengono polarizzate le capacità del soggetto e ciò ne favorisce la composizione.

Occorre, quindi, avere il coraggio di proporre la complessità; in essa infatti, diminuisce l’importanza assegnata al controllo dei propri processi elaborativi (matematici o linguistici che siano) in quanto divengono prioritari i nodi problematici. Questo significa lasciare spazio ad un lavoro inconscio di attualizzazione delle competenze attraverso (forse) una ristrutturazione di tipo neurologico. Esse comunque (le competenze) sono soggette ad una sedimentazione di tipo mnemonico, specie qualora si dedichi una certa attenzione al dato proposto (è il caso dello studente che si applichi alla considerazione di quel dato); in ogni caso la proposta ripetuta di alcune nozioni produce un qualche riscontro relativo alla memorizzazione delle medesime. I problemi maggiori insorgono qualora si voglia passare alla attualizzazione di quelle competenze. In questo caso la decisione d’affrontare lavori «complessi» può risultare di aiuto e non di inciampo: il contesto, infatti, favorisce l’emergere di quelle potenzialità che ad esso si confanno e che sembrano refrattarie ad un controllo cosciente che prescinda dalla legittimità dell’oggetto sul quale dovrebbero esercitarsi. In altre parole, non posso tiranneggiare sui meccanismi elaborativi di tipo neurologico (anche perché debbo comunque attraversarne le condizioni), devo bensì assecondarli. Fra di essi la necessità che competenze «complesse» emergano in un contesto consono alle medesime e che consente che esse si esercitino su «oggetti» appropriati.

Faccio un esempio: il termine che ho appreso mi si è sempre stato presentato in contesti che gli conferivano significato e senza i quali esso non avrebbe avuto senso. Ora, la «memorizzazione» di quel termine non è avvenuta sottraendolo a quel contesto che, in qualche modo, è stato sintetizzato nella parola la quale, perciò, contiene tutta la sintassi possibile. Io, ovviamente, non sono competente su tutti i meccanismi neurologici che presiedono alla disciplina di questi contenuti complessi che emergono, «automaticamente», in situazioni favorevoli. Un riscontro di quanto abbiamo detto lo troviamo nel constatare come diverse intelligenze abbiano bisogno d’essere contestualizzate affinché possano emergere.

Per le ragioni sopra esposte si può dire che sono condivisibili diverse caratteristiche dell’approccio «costruttivista», che coinvolge «i bambini in un apprendimento attivo»:15 il lavorare su progetti consente all’alunno un controllo della propria attività e quindi l’innescarsi di meccanismi di feed-back, importantissimi al rinforzo delle strutture motivazionali.16

4. Stili di lavoro ed educazione alla lettura

Non solo la contestualizzazione favorisce i processi neurologici paralleli ad abilità relative. Si possono considerare strategie legate agli stili di lavoro e a moduli classici di «allenamento» alle abilità mediante ripetizione di «item» fondamentali.

Sicuramente possiamo ritenere controproducente l’eccessiva focalizzazione dell’attenzione (che impedisce la contestualizzazione del dato restringendo il campo di coscienza); non è così per quanto concerne i processi di razionalizzazione che si realizzano attraverso l’attenzione ai dettagli, la riflessione sul lavoro da svolgere, il ridimensionamento dello spontaneismo.17

La razionalizzazione non deve essere applicata forzosamente al compito (quindi può rimanere legata alla dimensione del gioco), occorre attenderla, l’importante e che si privilegi e si motivi la propensione all’analisi del proprio lavoro.

Possiamo parlare, quindi, di una riflessione da intendere come atteggiamento (di adeguamento all’oggetto) e non come attività specifica.

Tutto questo cosa significa sul versante della animazione alla lettura?

Innanzitutto il costituirsi di automatismi neurologici e la scoperta delle abitudini che rendono difficoltoso un compito, anche da adulti.

Queste problematiche non sono sormontabili se si resta sul piano di un puro volontarismo che rifiuta i tentativi di razionalizzazione del fenomeno in base ai quali possono emergere difficoltà inaspettate come l’inabilità a riconoscere singole lettere (o sillabe) nel corrispondente valore fonologico.

L’eziologia di altre problematiche è nella incapacità neurologica di gestire la dimensione spazio-temporale dell’articolazione fonomotoria. Ovviamente di tali difficoltà non si ha un riscontro diretto, esse si manifestano nella lettura stentata di parole lunghe o inusuali per le quali occorrerebbe, appunto, una buona padronanza del ritmo con cui gestire e scandire la interpretazione dei grafemi e la conseguente emissione sonora.

Per un recupero di queste abilità occorre una educazione alla percezione del ritmo: le singole lettere, le sillabe, infine intere frasi, possono essere lette seguendo il battito di un metronomo il cui periodo va modulato in base alle esigenze del ragazzo che, successivamente, dovrà scandire col battito delle proprie mani il tempo della propria performance (inizialmente potrà essere accompagnato dall’insegnante).

A questo punto va evidenziata l’importanza degli esercizi respiratori; con essi va perseguito il senso della padronanza del proprio corpo (funzionale alla emissione ritmata e controllata del suono).

5. Gerarchia orizzontale dell’atto mnemonico

Ho detto in precedenza che l’atto della persona riconosce sempre una unità formalmente connotata (l’oggetto dell’attenzione è sempre uno, nonostante riproduca la molteplicità dell’essere18).

Questo può comportare strategie concernenti i processi di memorizzazione. Ritengo che essi possano essere facilitati qualora il supporto delle mappe concettuali venga «ridotto» ad una organizzazione di tipo insiemistico.

Un’unità di contenuti deve essere appunto «percepita» nella sua struttura unitaria. Essa deve riprodurre secondo una gerarchia orizzontale la maggiore o minore estensione dei concetti.

In questo modo si liberano le energie del soggetto dall’incombenza di una presenza mnemonica sui «collegamenti». Essi comunque trovano una sedimentazione neurologica dalla quale facilmente riemergono qualora si riesca a comporre unitariamente le parti.

Continuando possiamo dire che la persona non deve «inseguire» le connessioni, la cui comprensione può prescindere dallo sforzo mnemonico, in quanto sempre presenti e riemergenti nella struttura che li sottende «gerarchicamente».

Il segno è competente al recupero del contenuto (qualora lo si riferisca ad un insieme espresso da corrispondenti relazioni nervose. Il problema, caso mai, è quello della transduzione di queste relazioni nelle forme dell’atto cosciente, quindi quello delle relative corrispondenze), perciò, l’unità del segno è, in questo caso, funzionalizzata a quella totalità.

Ovviamente l’organizzazione gerarchica di questi sistemi è strettamente personale in quanto è la persona che istituisce le relazioni fra significati nel confronto con l’interezza del proprio mondo interiore che pone i percorsi interpretativi e, allo stesso tempo, ne scaturisce. La posizione del soggetto è sempre attiva; l’interpretazione nasce dalla sua iniziativa, sebbene debba riconoscere l’alterità dell’oggetto ed adegurvisi affinché sia feconda.

Voglio finire ricordando la valorizzazione della memoria visiva che soluzioni di questo tipo comportano.

6. Ancora sui progetti e sulla educazione linguistica

Un «individuo comprende ogni qualvolta è in grado di applicare conoscenze […]. Per inferenza, allora, diremo che un individuo non ha raggiunto l’obiettivo della comprensione se non è in grado di applicare le conoscenze di cui sopra o se, nella nuova situazione, cerca di servirsi di conoscenze non appropriate».19

Un sistema di conoscenze emerge da un contesto e ad esso fa riferimento; possiamo dire che è finalizzato a quel contesto in quanto da esso procede. Applicare il sapere significa, infatti, operare per una sua continua ristrutturazione che continuamente lo adegua alle cose.

Sul versante della educazione alla lettura e all’uso scritto della lingua i risvolti che queste considerazioni presentano lasciano intravedere la possibilità di un «recupero» delle abilità specifiche attraverso la produzione dell’alunno: si può imparare a leggere comunicando quello che si è scritto. In questo modo vengono coinvolte le motivazioni e la partecipazione del ragazzo che non dovrà riprodurre un atto comunicativo che non è il suo.

Allo stesso tempo, l’esigenza di trasmettere in forma scritta contenuti «complessi» (sui quali si sono sviluppate competenze) e di cooperare, attraverso l’atto comunicativo, alla organizzazione della comprensione nel destinatario, facilita l’emergere di abilità sedimentate che si sottraggono a una fruibilità immediata. Inoltre, l’esigenza di comprensibilità favorisce la ricerca di percorsi alternativi che possano «by-passare» eventuali difficoltà (affrontabili in un secondo momento) evitando un linguaggio approssimativo.

Questo processo può essere catalizzato dall’intervento d’elementi lessicali «nuovi» e funzionali allo scopo. Essi, però, è bene che siano presentati come possibilità all’alunno e non come obbligo. Solo così si potrà percepirne la ricchezza e, con essa, le possibilità specifiche.

Occorre dire, del resto, che i bambini ed i ragazzi in età scolare desiderano dominare le competenze simboliche e notazionali della propria cultura.20 Una apparente demotivazione potrebbe essere dovuta a sfiducia nei propri mezzi. Ciò rende evidente la necessità di valorizzare e finalizzare l’uso delle abilità dei ragazzi. Essi devono percepire d’essere chiamati a svolgere un compito la cui dimensione personale è irriproducibile.

È normale che lavorare su progetti comporti delle implicanze sul curricolo; la «conseguenza più seria dell’educare al comprendere è una radicale riduzione del programma».21 Peraltro, se comprendere equivale a saper «fare», occorre essere attenti sin dall’inizio al momento applicativo: queste competenze non possono manifestarsi miracolosamente al termine di un corso.22

7. Conclusione programmatica

In conclusione si può dire che un potenziamento del discorso pedagogico si realizza nella considerazione più attenta alla realtà neurologica della persona.

Forse è prevalsa un’attenzione alle dinamiche psicologiche che ne obliava la duplice ed unitaria scaturigine: biologica e di presenza cosciente della persona a se stessa.

Le massime possono risultare antipatiche in quanto unilaterali e poco attente alla completezza; ritengo, però, che occorra dire la necessità d’una maggiore attenzione alle scienze neurologiche ed al discorso filosofico. La pedagogia non è riducibile alla didattica.

Ovviamente non sto facendo riferimento in senso assoluto e diretto alla pratica quotidiana dell’insegnamento. Non voglio inseguire il mito del controllo dei processi metacognitivi, anche perché nego ogni determinismo e penso che possano essere infinite le motivazioni di una scelta o di un comportamento. Perché esse siano conosciute è necessaria una eventuale e gratuita rivelazione dell’altro, col quale devo pormi in profondo atteggiamento dialogico; nessuna «scienza» (o «semiscienza», per dirla con il lessico condiviso da Dostoevskij, Pascal e Pareyson) può consentirmi di perpetrarne il furto.

8. Postilla: Il Percorso Contrario

L’argomento che analizzeremo fa riferimento, per quanto concerne i presupposti teorici e l’apparato critico, alle considerazioni sopra esposte.

In modo particolare voglio fare riferimento alla giustificazione teoretica e psicologica della validità didattica dei progetti svolti dai ragazzi.

Posta come premessa l’ineliminabilità della domanda di senso, c’è da chiedersi come favorirne il riconoscimento negli itinerari della letteratura.

L’oggetto d’ogni prospettiva umanistica non può prescindere da quesiti di carattere esistenziale e dalla richiesta di valori.

Occorre, qui, colpire al cuore delle aspettative. In che modo? riconoscendo la letteratura dove la cultura contemporanea realizza il crogiuolo delle dinamiche esistenziali dei ragazzi.

Ovviamente questo non significa la sconfitta d’ogni prospettiva critica. Al contrario, si comincia dall’anima della comunicazione estetica per guardare, insieme, secondo dinamiche dialogiche, ai significati sottesi, a quelli espressi, alle domande emergenti, alla richiesta di significati e anche, perché no, alle «manifestazioni dolorose».

È necessaria una precisazione: una incompleta ammissione delle prospettive di educazione democratica può far ritenere che non abbiano senso le domande fondamentali; sarebbe come eludere le richieste più profonde, vietare lo sguardo al suo orizzonte naturale. Si perderebbe, in questo modo, il significato precipuo della cultura in un radicalismo che si predispone ad ogni forma di servilismo politico e di potere.

Ogni nihilismo, del resto, negando ogni prospettiva scientifica d’apertura all’essere s’apre agli assolutismi di coloro che pretendo di fondare la «verità».

Una soddisfazione delle richieste attese non significa, altresì, esaltazione del «pensiero ufficiale». All’opposto, essa istituisce le competenze critiche che analizzano non per assoggettarsi, bensì per comprendere, criticare, valutare.

Occorre, però, che i ragazzi sentano sulla «carne» queste domande, che le riconoscano nei percorsi della letteratura, che realizzino come nella storia, in varie forme, si sintetizza il tentativo di risposta «poetica» alle richieste della persona.

Occorre che si intuisca insieme come le dinamiche esistenziali che si percepiscono e si «agitano» nelle realizzazioni della musica contemporanea, circondano ed innervano pure i lavori letterari d’ogni tempo, sebbene il linguaggio possa essere meno manifesto per gli uomini d’oggi.

Il discorso è più facile per la letteratura contemporanea.


  1. Howard Gardner, L’educazione delle intelligenze multiple, Anabasi, Milano 1995. ↩︎

  2. Ibid., p. 17. ↩︎

  3. Ibid., p. 15, 16. ↩︎

  4. Cfr. K.R. Popper — J.C. Eccles, L’io e il suo cervello, Armando, Roma 1986.

    Cfr., inoltre: Ceci 1990; Feldman 1980; Fodor 1983; Gardner 1983; Keil 1984, 1986. ↩︎

  5. Howard Gardner, Op. cit., p. 15. ↩︎

  6. O. Rossi, Dell’Originario, Levante, Bari 1992. ↩︎

  7. Significativa, a questo proposito, è la considerazione dei teoremi di Gödel e della semantrica dei sistemi formali in Tarski. ↩︎

  8. Howard Gardner, Op. cit., p. 16. ↩︎

  9. Cfr. Howard Gardner, Op. cit., pp. 36, 47. ↩︎

  10. Ibid., p. 17. ↩︎

  11. Ibid., p. 18. ↩︎

  12. Ibid., p. 21. ↩︎

  13. Cfr. Howard Gardner, Op. cit., p. 20. ↩︎

  14. Cfr. Howard Gardner, Op. cit., p. 40. ↩︎

  15. Howard Gardner, Op. cit., p. 29. ↩︎

  16. Cfr. Howard Gardner, Op. cit., p. 20. ↩︎

  17. Cfr. Howard Gardner, Op. cit., pp. 48-53. ↩︎

  18. Cfr. L. Stefanini, Psicologia, SEI, Torino 1946. ↩︎

  19. Howard Gardner, Op. cit., p. 165. ↩︎

  20. Cfr. Howard Gardner, Op. cit., pp. 171-172. ↩︎

  21. Ibid., p. 169. ↩︎

  22. Ibid., pp. 161, 169. ↩︎