Funzionalismo ed esperienze coscienti. Sulla critica di Daniel Dennett ai «qualia»

Le esperienze coscienti che ogni individuo vive ordinariamente nella propria dimensione soggettiva — i cosiddetti “qualia” — sono da decenni oggetto di un acceso dibattito tra riduzionisti e anti-riduzionisti, ossia tra coloro che ritengono i fenomeni mentali interamente riconducibili all’attività elettrochimica del cervello e coloro che invece negano tale possibilità. Tra i primi, in una posizione di assoluto rilievo, può essere collocato il filosofo Daniel Dennett, convinto sostenitore della tesi funzionalista della mente. Secondo tale tesi, tutte le facoltà della mente umana, compresa la coscienza, sarebbero il risultato di un numero enorme di operazioni elementari svolte nelle diverse aree cerebrali, in maniera fondamentalmente analoga ai processi di elaborazione dell’informazione che hanno luogo nei comuni computer.

È chiaro che, all’interno di una simile concezione, la coscienza non ha alcun ruolo da svolgere, presentandosi come un mero epifenomeno, privo di qualsiasi effetto sulla concreta attività degli organismi. Si comprende facilmente, quindi, l’accanimento mostrato da Dennett e dai riduzionisti in genere nel tentar di sminuire l’importanza della coscienza ai fini della spiegazione del comportamento, che sfocia spesso nell’aperto invito a ignorare i “qualia”, in quanto fuorvianti, nella costruzione di una adeguata teoria della mente.

1. Che cosa sono i “qualia”

Scrive Dennett nel saggio “Quainare i qualia”:1 «La mia tesi non dice soltanto che i vari concetti tecnici o teorici dei qualia sono vaghi o ambigui, ma che il concetto madre o la nozione “preteorica” di cui quegli altri si ritiene siano un perfezionamento è così confusa che anche se ci incaricassimo di salvare un “minimo comun denominatore” delle proposte dei teorici, qualunque versione accettabile sarebbe per forza di cose così radicalmente diversa dalle nozioni malformate cui si fa appello di solito, che sarebbe tattica ottusa […] restare aggrappati a quel termine. Da un punto di vista tattico è molto meglio dichiarare che i qualia semplicemente non esistono».2

Non c’è dubbio che, quando parla di qualia, Dennett abbia in mente proprio il significato comunemente attribuito a tale termine. Questo rilievo è importante perché le argomentazioni da lui sviluppate nel corso della trattazione potrebbero far sorgere qualche dubbio circa l’effettivo bersaglio delle sue critiche. Conviene, quindi, seguire la descrizione che Dennett fa dei qualia, utilizzando le sue stesse parole: «“Qualia” — egli scrive — è un termine poco conosciuto per una cosa che più nota non potrebbe essere a ciascuno di noi: i modi in cui le cose ci sembrano».3 A sostegno e completamento di questa definizione, Dennett ci propone l’immagine di un bicchiere di latte al tramonto: «il modo in cui ti appare, la qualità visiva particolare, personale, soggettiva, del bicchiere di latte è il quale delle tue esperienze visive in quel momento. Il sapore del latte che senti in quel momento è un altro quale, gustativo, e il suono che senti quando deglutisci è il quale uditivo. Queste varie “proprietà dell’esperienza conscia” sono esempi primari di qualia».4

Per essere sicuro che non ci siano dubbi sul significato da attribuire al termine “qualia”, Dennett ci invita a considerare ancora un esempio: quello della “macchina per assaggiare il vino. Immaginiamo di costruire un sistema molto complesso, munito di un gran numero di trasduttori che sostituiscono le papille gustative e gli organi olfattivi che si trovano negli organismi viventi. Si versa un campione di vino nell’apposito imbuto e in pochi minuti (o al massimo entro qualche ora), la macchina stamperebbe un’analisi chimica contenente tutti i dettagli della composizione del vino. Sarebbe pure in grado di ricondurre ciascuna analisi alle più famose marche di vino e persino alle diverse annate. Una macchina del genere, se ben programmata, potrebbe dare prestazioni superiori a quelle di un assaggiatore umano professionista.5 Ma — osserva Dennett — secondo alcuni, per quanto sensibile possa essere tale macchina, non riuscirà mai ad avere ciò che abbiamo noi: non godrà mai come quando noi assaggiamo un vino, cioè non avrà mai dei qualia: «quali che siano le proprietà informazionali, disposizionali, funzionali dei suoi stati interni, nessuna di esse sarà speciale nel senso in cui lo sono i qualia. Se condividi questa intuizione, credi nell’esistenza dei qualia nel senso che designo come bersaglio da demolire».6

Fissato in modo inequivocabile il concetto di qualia a cui intende rivolgersi, ci si aspetterebbe da Dennett, vista la particolare attenzione da lui rivolta alla concezione evoluzionistica, uno sforzo teso a dimostrare fino a che punto le esperienze coscienti possano trarci in inganno, dato che spesso ci presentano con grande evidenza immagini illusorie o distorte della realtà. Ci si aspetterebbe in altre parole, che egli cerchi di convincerci quanto poco attendibili siano i contenuti soggettivi rispetto alle necessità adattative poste dall’ambiente.

Si tratterebbe comunque di un tentativo abbastanza problematico, poiché dovrebbe riuscire a dimostrare la non rilevanza di quanto appare, istante per istante, nel campo cosciente di un dato organismo, ai fini della soddisfazione dei propri bisogni biologici fondamentali; dovrebbe inoltre riuscire a spiegare per qual motivo l’evoluzione abbia permesso lo sviluppo di una facoltà — la coscienza, appunto — che non solo non svolge alcuna funzione nella concreta esistenza degli esseri viventi, ma che è spesso fonte di imprecisioni ed errori.

2. I “qualia” come indicatori dell’attività cerebrale

L’operazione posta in atto da Dennett è di natura completamente diversa, e si basa su una radicale quanto indebita modificazione dello stesso significato di qualia. Dall’idea di qualia come “esperienze qualitative vissute a livello soggettivo”, secondo la descrizione datane inizialmente, egli muta drasticamente prospettiva attribuendo ad essi il significato di “conoscenza dei processi e delle strutture che sono alla loro origine”. Si tratta di una concezione che sembra mutuata di peso dall’idea che Marvin Minsky aveva già espresso nella sua opera più famosa, La società della mente, con analoghi intenti critici.7

Il cambiamento di significato è così sostanziale e improvviso, oltre a non essere minimamente spiegato o introdotto in una qualsiasi maniera, che si viene colti dal dubbio di esserci fatti sfuggire qualcosa di importante nell’esposizione di Dennett. Ma è sufficiente rileggere con attenzione le sue argomentazioni iniziali e metterle a confronto con gli esempi e le conclusioni sviluppati successivamente per rendersi conto che non c’è alcuno spazio per interpretazioni diverse. Del resto, la trattazione di Dennett, benché a tratti si dilunghi eccessivamente in considerazioni del tutto accessorie, non è mai oscura e ambigua. Egli fa largo uso di esperimenti immaginari (da lui chiamati “pompe dell’intuizione”) con l’esplicito scopo di riallacciarsi all’esperienza diretta del lettore, così da facilitare la comprensione ed evitare fraintendimenti.

Vediamo qualcuno di tali esperimenti e le relative considerazioni di Dennett.

  1. Lo spettro invertito: Come faccio a sapere che tu e io abbiamo le stesse esperienze soggettive del colore quando guardiamo un papavero rosso? Infatti, il nostro comportamento verbale combacerà in buona parte anche se la nostra esperienza soggettiva dei colori è diversa. Ciò porta a concludere che non è possibile effettuare un confronto intersoggettivo dei qualia, indipendentemente dalle tecnologie di cui si dispone.8

  2. L’inversione neurochirurgica: Un mattino ti svegli e ti accorgi che l’erba è diventata rossa, il cielo giallo e così via. Siccome nessun altro mostra di rilevare questa anomalia, la conclusione più ovvia è che dev’essere cambiato qualcosa in te. Per esempio, un malvagio neurochirurgo potrebbe aver manomesso mentre dormivi i neuroni dei tuoi circuiti visivi invertendo le connessioni interessate alla decodifica dei colori. Anche qui, fa notare Dennett, per avere una conferma di questa ipotesi non è sufficiente l’esperienza vissuta — i qualia —, ma è necessaria un’indagine condotta a livello neurofisiologico.9

  3. Esperimento dei degustatori di caffè: Descrive il caso di due degustatori professionisti che lavorano presso una grande azienda produttrice di caffè. Loro compito è assaggiare campioni delle diverse partite di caffè, man mano che escono dal processo di produzione, e darne una valutazione in termini di qualità. Accade che, col passare degli anni, i degustatori si accorgono di non apprezzare più il caffè come una volta. Essi sono tuttavia convinti che la qualità del caffè sia rimasta immutata e che sia qualcosa in loro ad essere cambiato. Le loro opinioni in merito sono tuttavia diverse: il primo crede che si siano modificati i propri gusti riguardo al caffè, il secondo pensa invece a un deterioramento delle proprie papille gustative.

Ancora una volta Dennett interviene per far notare che non c’è modo di controllare l’attendibilità delle loro convinzioni basandosi unicamente sulle rispettive esperienze gustative.10

  1. Inversione visiva — Fa riferimento al curioso fenomeno per cui gli oggetti, proiettati capovolti sulla retina attraverso la lente del cristallino, si presentano alla nostra esperienza immediata nel loro giusto verso. Nel tentativo di comprendere meglio questo fenomeno, furono compiuti degli esperimenti nei quali venivano fatti indossare a un soggetto speciali occhiali invertenti, capaci di fornire un’immagine capovolta del mondo esterno. Si constatò che dopo alcuni giorni di adattamento, durante i quali i soggetti accusavano un certo disorientamento, la visione si presentava nuovamente nel suo normale verso.11

Dennett prende spunto da tali esperimenti, non immaginari ma effettivamente eseguiti, per chiedersi se l’adattamento dell’immagine consista nell’invertire il campo visivo oppure nel capovolgere tutti i riferimenti mentali così che le immagini ci appaiano correttamente. Anche in questo caso, osserva Dennett, sulla base delle proprie esperienze vissute, il soggetto non è in grado di dare alcuna risposta in merito.12

3. Esperienza cosciente e adattamento

Non c’è dubbio che gli esperimenti appena descritti e le conclusioni a cui Dennett perviene siano rivolti a confutare la credenza che le esperienze coscienti possano darci informazioni attendibili sull’organizzazione cerebrale e sui fenomeni nervosi che sarebbero alla loro base. Le argomentazioni di Dennett sono, a questo proposito, abbastanza convincenti. Senonché, inizialmente, egli si proponeva di dimostrare qualcosa di ben diverso, e cioè l’inesistenza delle “proprietà qualitative dell’esperienza conscia”, così come vengono vissute a livello interiore da ciascuno di noi, o almeno il loro carattere fondamentalmente ambiguo e confuso.

Qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che si tratti di un fraintendimento momentaneo, una svista del tutto occasionale. Ma non è così. In una sua opera successiva, Coscienza. Che cos’è?,13 Dennett segnala quello che giudica un madornale errore di Gerald Edelman quando questi afferma che «uno dei caratteri più sorprendenti della coscienza è la sua continuità».14 Secondo Dennett «questo è completamente sbagliato. Uno dei caratteri più sorprendenti della coscienza è la sua discontinuità — come rivelato dal punto cieco e dagli intervalli saccadici».15

Anche qui Dennett passa con grande disinvoltura da una concezione di coscienza intesa come funzione che si esprime attraverso l’esperienza vissuta a livello interiore (quale la intende, con tutta evidenza, Edelman) a quella che si riferisce, invece, ai processi nervosi che hanno oggettivamente luogo in qualche parte del cervello. Il passaggio avviene in maniera così repentina da far sospettare una vera e propria incapacità di Dennett di distinguere chiaramente tra i due aspetti.

Ma al di la di questa confusione di significati di cui Dennett sembra essere vittima, perché mai i qualia — le esperienze coscienti — dovrebbero offrire al soggetto la possibilità di conoscere le strutture e i processi fisici da cui derivano? Quale valenza “adattativa” assumerebbe tale dato informativo, ossia in che modo esso potrebbe contribuire a rendere più efficace l’attività dell’organismo nell’ambiente?

Poiché è proprio questo il ruolo che dovremmo attribuire all’esperienza cosciente, se desideriamo muoverci in una prospettiva autenticamente evolutiva: salvo forti evidenze contrarie, dovremmo ritenere assai plausibile l’ipotesi che i contenuti e gli stati coscienti, così come si presentano a un dato soggetto, siano in qualche modo connessi a una migliore capacità di adattamento all’ambiente. Non si capirebbe altrimenti per qual motivo la coscienza sarebbe sorta a un determinato stadio dell’evoluzione, presumibilmente sotto forme primitive di sensitività, e si sia successivamente sviluppata, al pari di altre facoltà cognitive, fino a raggiungere le vette dell’autocoscienza umana.

Quali argomenti possono essere portati a sostegno della funzione adattativa svolta dalla coscienza nel comportamento degli esseri viventi?

In primo luogo, possiamo osservare che le esperienze coscienti non sono quasi mai portatrici di informazioni neutre, ma si rivelano intrinsecamente valutative, nel senso che sono riconducibili a una delle due polarità delle coppie qualitative da porre in relazione con un vantaggio o uno svantaggio per l’organismo: utile-dannoso, buono-cattivo, innocuo-pericoloso, desiderabile-indesiderabile, da avvicinare-da evitare, ecc.

In secondo luogo, c’è il semplice rilievo che, a differenza di quanto Dennett mostra di credere, noi non abbiamo mai coscienza delle diverse elaborazioni a cui viene sottoposta l’informazione percettiva, ma soltanto della forma finale da questa assunta, l’unica che abbia un significato dal punto di vista dell’adattamento. La coscienza sembrerebbe, in altre parole, avere la funzione di mostrare all’organismo, nella maniera più immediata e coinvolgente possibile, il significato degli oggetti, delle situazioni e degli eventi incontrati nell’ambiente in rapporto alla necessità di soddisfare i bisogni biologici importanti. Lungi dall’essere diretta a offrire un’immagine veritiera della realtà e ancor meno a far conoscere i processi nervosi che sono alla sua base, la coscienza si direbbe quindi orientata a costruire una “rappresentazione per il soggetto” quanto più possibile utilizzabile direttamente nell’eventuale azione da intraprendere. Una rappresentazione che riduca al minimo la necessità di ulteriori elaborazioni a livello cosciente.

Se inquadriamo in questa ottica non soltanto le componenti soggettive (qualitative e valutative), ordinariamente associate alle diverse informazioni percettive e ad alcune funzioni cognitive superiori, ma anche le specifiche modalità (visive, uditive, tattili…) con cui le informazioni medesime si presentano al soggetto, muta radicalmente l’intera prospettiva che fa da sfondo alla coscienza. I problemi più importanti posti dai “qualia” non riguardano più la loro capacità o meno di darci informazioni circa la loro origine, ma divengono quelli del loro significato adattativo, ossia del loro rapporto con la soddisfazione dei bisogni e con le capacità operative del soggetto a cui fanno riferimento. I diversi “effetti di campo” e gli stessi “inganni della percezione”, studiati diffusamente dalla psicologia della Gestalt, cessano di apparire come altrettante “prove” dell’inaffidabilità dei qualia, rivelandosi invece, rispettivamente, risultato dei meccanismi di elaborazione percettiva tesi a una rappresentazione della realtà utile per l’organismo e casi limite non previsti da tali meccanismi.

Alla luce di tali considerazioni, la critica di Dennett alla nozione di qualia appare quanto mai pretestuosa e lontana da qualsiasi logica di tipo evolutivo. Ed è davvero sorprendente che essa provenga da un autore che ha posto la teoria dell’evoluzione a fondamento della propria prospettiva filosofica.16

Perché, invece di perdersi dietro a cavillose disquisizioni circa l’“ineffabilità” dei qualia, il loro carattere “privato”, “intrinseco” e “immediato”,17 Dennett non si chiede mai se essi assolvano o meno una qualche funzione di valore adattativo nella vita degli esseri viventi? Perché non sembra neppure essere sfiorato dalla necessità di spiegare il fatto che lo svolgimento di alcune attività (percettive, motorie) sia invariabilmente accompagnato dalla coscienza, mentre altre attività vengono eseguite in maniera del tutto automatica e inconsapevole?

Si tratta evidentemente di domande “illegittime” dal punto di vista della prospettiva funzionalista della mente alla quale egli aderisce. Tale tesi, riconducendo ogni proprietà della mente all’esecuzione di operazioni algoritmiche, può essere sostenuta soltanto a condizione di negare alla coscienza qualsiasi capacità di influire sul comportamento degli organismi. Siamo qui in presenza di un rifiuto che non è conseguenza di valutazioni anche lontanamente riferibili alla sfera della realtà empirica, ma è piuttosto una conclusione inevitabile che deriva dal presentarsi, i qualia, come del tutto estranei al paradigma funzionalista: non c’è infatti alcun ruolo che essi possano svolgere al suo interno. Detto rifiuto, al di là delle argomentazioni razionali con cui si cerca di giustificarlo, si rivela, in ultima analisi, di natura fondamentalmente ideologica, in quanto motivato soprattutto dall’esigenza di salvaguardare l’integrità del paradigma stesso dall’intrusione di elementi con esso incompatibili.

Nella medesima prospettiva va collocato — a mio avviso — il profondo, quanto indebito stravolgimento — non sappiamo se deliberato o inconsapevole — di cui è stato fatto oggetto il concetto di qualia. Esso si inserisce coerentemente nella complessiva strategia dennettiana tendente ad espellere definitivamente dall’indagine scientifica il fattore che più di ogni altro contrasta con l’affermazione di una visione del mondo riduzionista e fisicalista: la coscienza.


  1. Daniel Dennett, “Quainare i qualia” [1988], traduzione italiana in Armando De Palma e Germana Pareti (a cura di), Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi delle neuroscienze, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pp. 189-233. Testo originale disponibile all’indirizzo http://cogprints.org/254/0/quinqual.htm↩︎

  2. Op. cit., pp. 192-3. ↩︎

  3. Op. cit. p. 190. ↩︎

  4. Ivi. ↩︎

  5. Op. cit., pag 195. ↩︎

  6. Op. cit., p. 196. ↩︎

  7. Marvin Minsky, La società della mente [1985], Adelphi, Milano, 1989. A p. 100, troviamo la seguente affermazione: «Nella mente di ogni persona normale sembrano esservi certi processi che chiamiamo coscienza. Di solito riteniamo che essi ci consentano di sapere che cosa accade nella nostra mente. Ma questa reputazione di autoconsapevolezza non è molto ben meritata, perché i nostri pensieri coscienti ci rivelano pochissimo di ciò che li genera». Concetto sostanzialmente ribadito a p. 115: «Se l’autoconsapevolezza significa sapere che cosa accade nella propria mente, nessun realista potrebbe sostenere a lungo che le persone abbiano molta intuizione, nel senso etimologico di “vedere dentro”. In effetti, le prove che noi siamo autoconsapevoli, cioè che possediamo qualche attitudine particolare a scoprire ciò che accade dentro di noi, sono davvero molto deboli». ↩︎

  8. Daniel Dennett, Op. cit., p. 201. ↩︎

  9. Op. cit., pp. 201-3. ↩︎

  10. Op. cit., pp. 203-217. ↩︎

  11. Cfr. George Stratton, “Some Preliminary Experiments without Inversion of the Retinal Image”, in Psychological Rewiew, 1896, III, pp. 611-617 e Ivo Köhler, “Experiment with goggles”, Scientific American, 206 (1962), pp. 62-72. ↩︎

  12. Daniel Dennett, “Quainare i qualia”, cit., pp. 217-9. ↩︎

  13. Daniel Dennett, Coscienza, Che cos’è? [1991], Rizzoli, Milano, 1993. ↩︎

  14. Cfr. Gerald Edelman, Il presente ricordato, Rizzoli, Milano, 1991, p. 149. ↩︎

  15. Dennett, Op. cit., p. 395. ↩︎

  16. Cfr., in particolare, le due recenti opere di Dennett, L’idea pericolosa di Darwin. L’evoluzione e i significati della vita, Boringhieri, Torino, 1997 e Dennett, L’evoluzione della libertà, Raffaello Cortina, Milano, 2004. ↩︎

  17. Daniel Dennett, “Quainare i qualia”, cit., p. 197 e ss. ↩︎