Osservazioni sul non-dualismo shankariano nel pensiero di Raimon Panikkar

Tal era quivi la quarta famiglia
de l’alto Padre, che sempre la sazia,
mostrando come spira e come figlia.

— Dante, Paradiso X, 49-51

Il riferimento alla figura del grande maestro Shankara (lett. «Benefattore») o Shankaracarya («Maestro Shankara»), ai suoi testi e alla sua dottrina, è costante nell’opera di Raimon Panikkar. Shankara rappresenta l’interlocutore imprescindibile di tutta la sua profonda riflessione sull’India e lo ‘hinduismo’, da sessant’anni a questa parte.

Non è certo questa la sede per diffondersi sulla vita e l’opera di Shankara, genio teologico e gigante del pensiero, presumibilmente vissuto intorno alla metà del VII secolo o all’inizio dell’VIII e morto all’età di soli trentadue o trentotto anni, venerato quale una «discesa nel mondo» (avatara) del Dio Shiva.1 Non posso però esimermi dall’accennare alcuni dati essenziali. Stando ai tardi resoconti agiografici, quali l’influente Shankara-dig-vijaya ascritto a Madhava (composto tra il 1650 e il 1800), Shankara nacque nel Sud dell’India, in Kerala, nel villaggio di Shasala, oggi Kalati, nel prestigioso clan brahmanico dei Nambutiri. Figlio unico di tale Curnin o Shivaguru e della sua sposa Aryamba, Shankara avrebbe scelto di divenire un rinunciante (samnyasin) poco tempo dopo la morte del padre, all’età di soli otto anni, venendo iniziato dal maestro Govinda (il cui guru era Gaudapada, il grande advaitin) presso Amarakanta lungo le rive del fiume Narmada. La sua breve vita è caratterizzata dal pellegrinaggio, dall’itineranza lungo tutto il subcontinente indiano, dallo Himalaya nel Nord a Ramesvara nel profondo Sud, impegnato a propagare e difendere la sua dottrina in pubblici dibattiti. I resoconti tradizionali ascrivono a lui la creazione dei dasa-namin, i dieci ordini di rinuncianti sivaiti obbedienti alla sua dottrina, e la fondazione di quattro amnaya («tradizioni sacre») ossia di quattro cenobi (pitha, lett. «trono/seggio») collocati nelle quattro direzioni dello spazio a sottolineare l’universalità del messaggio del Vedanta: a) a Ovest lo Sharada-matha presso Dvaraka nella regione del Kathiyavar in Gujarat; b) a Nord il Jyotir-matha di Badarinatha nello Himalaya, in Uttar Prades; c) a Est il Govardhana-matha di Puri sulla costa del Golfo del Bengala, in Orissa; d) a Sud lo Shrngagiri-matha di Shrngeri nei Ghat occidentali, nel Karnataka o Mysore. A questi, s’aggiunge un quinto pitha ch’è quello di Kancipuram, sempre nel Sud. In realtà, questi istituti monastici sorsero con ogni probabilità vari secoli dopo la morte di Shankara che, secondo Madhava, si sarebbe verificata a Kedarnath, sullo Himalaya.

I testi ascritti a Shankara sono più di quattrocento, tra cui figurano moltissimi inni di lode (stotra). Gli studiosi ritengono siano effettivamente sue circa una ventina d’opere. Le più importanti tra esse sono i suoi commenti (bhasya) alla «triade dei punti di partenza» (prasthana-traya) del Vedanta, che egli avrebbe composto a Badarinatha, alle sorgenti d’un ramo del Gange, all’età di soli dodici anni. Si tratta dei commenti alle Upanisad vediche, del commento alla Bhagavad-gita, il celebre dialogo tra il Signore Krsna ed Arjuna, ‘Vangelo dell’India’, e del commento ai 555 aforismi dei Brahma-sutra ascritti a Badarayana, fondamento del Vedanta filosofico. Tra le altre opere di Shankara meritano d’essere ricordate almeno l’importante Upadesa-sahasri («Migliaio d’insegnamenti») e un inno di lode quale il Daksinamurti-stotra («Inno a [Shiva] rivolto a Sud [a fronteggiare la Morte]»).

Shankara è l’originatore dell’indirizzo vedantico noto come kevala-advaita-vedanta, la dottrina del «puro non-dualismo» tra l’Assoluto, il Brahman, e l’anima individuale o Sé, atman, fondamento del nostro esserci e distinto dalla mutevole individualità empirica (nama-rupa). Vi è perfetta identità o «non-alterità» (ananyata) tra atman e Brahman. Tutti i nomi e le forme, tutto il dominio fenomenico è per Shankara ultimamente irreale (asat) ossia destituito di consistenza ontologica, avendo una ‘realtà’ puramente empirico-funzionale (vyavaharika). L’unica Realtà assoluta (paramarthika) è il Brahman non-duale, identico al Sé, il Totalmente Altro (anyad eva; Kena Upanisad 1, 3) sottratto al pensiero e al linguaggio, di cui nulla è predicabile, né l’essere né il non essere (è l’apofatismo delle Upanisad, il neti neti di Brhad-aranyaka Upanisad 2, 3, 6, «né così né in altro modo»). Il folgorante riconoscimento (pratyabhijnana) della Realtà coincide con la gnosi (jnana) che rimuove l’ignoranza (avidya), l’originaria distorsione epistemologica. È la gnosi che veicola la liberazione (moksa) dall’illusoria identificazione col corpo/mente, dall’illusorio ciclo del divenire (samsara), inconcludente e sommamente doloroso per chi vi s’identifichi.

In effetti l’uomo è già da sempre e per sempre il Brahman, ma se ne è come dimenticato; si tratta dunque d’accorgersene, di prenderne coscienza. L’universo della molteplicità a cominciare dalla diade soggetto/oggetto è mera apparenza, illusione cosmica (maya). Trattasi d’una erronea sovrapposizione concettuale (adhyasa), che attribuisce al Brahman dei caratteri/attributi ovvero relazioni che non gli sono propri. Si pensi all’ampio utilizzo epistemologico che Shankara fa di analogie o metafore, tra cui spicca quella della corda e del serpente. Quando in una luce fioca noi scambiamo una corda per un serpente, operiamo una sovrapposizione di attributi erronei derivati dalla nostra memoria. Una volta realizzato l’errore, l’oggetto reale, la corda, elimina e rimpiazza la percezione falsa, l’abbaglio del serpente. Analogamente, l’uomo è ritenuto attribuire, per sovrapposizione, caratteristiche false all’unica Realtà dell’atman-Brahman. Qualora si elimini l’ignoranza, ogni sovrapposizione — che di fatto non vi era mai stata se non nella nostra mente — si dissolve e l’atman-Brahman risplende nella sua gloria quale unica Realtà.

Fintantoché l’ignoranza perdura, determinando il nostro esperire, la maya è operante. Il potere misterioso e meraviglioso della maya è identificato con la nescienza (avidya, ajnana), ossia con quella distorsione epistemologica originaria, inesplicabile e senza inizio/principio (anadi), che impedisce all’uomo d’accorgersi dell’Assoluto. Tutta l’immensa ruota del divenire, il samsara — che altro non è che la mayaappare come reale in quanto erroneamente sovrapposta all’unica Realtà (sat) del Brahman. Sino a quando si è preda dell’illusione dicotomizzante, dell’identificazione con l’universo oggettuale, la maya è per noi assolutamente reale. In altri termini, rispetto al Brahman la maya si configura in una posizione che non è di mero non essere, puro nulla, quanto di apparenza, frutto come detto d’una erronea sovrapposizione che attribuisce all’Assoluto dei ‘caratteri/attributi’. Ma cadute le scaglie dagli occhi ossia raggiunta la gnosi, la maya viene a dissolversi come neve al sole in quanto ci si accorge che essa non ha realtà, statuto ontologico. Fintantoché l’illusione permane, l’universo oggettuale non è categorizzabile né in termini di sat né di asat, è cioè indicibile/indescrivibile (sad-asad-anirvacaniya): non è né essere né non essere, in quanto non ‘arriva’ a nessuno dei due.

Nel non-dualismo di Shankara, il «Signore» o Dio personale, Isvara, è l’aspetto ‘relazionale’ del Brahman nei confronti dell’illusoria proiezione di nomi e forme: ciò che ‘rende’ il Brahman Isvara è appunto la maya. In altre parole, se s’intende fornire un’idea del Brahman attraverso l’utilizzo di concetti, è possibile indicarlo figuratamente attraverso una serie di descrizioni relazionali, che ad esempio lo presentano in rapporto al mondo come sua causa materiale, dotata d’onniscienza e onnipotenza. Il Brahman è anche ‘definito’ nella sua «forma propria» (sva-rupa) attraverso attributi non relazionali quali nitya («eterno»), suddha («puro»), buddha («desto/cosciente») e mukta («liberato»). Nondimeno, tutte le possibili concettualizzazioni del Brahman pertengono al dominio discorsivo e sono ultimamente irreali. Il saguna-Brahman, il «Brahman con qualità/attributi», è l’Assoluto filtrato dalle deformanti categorie concettuali del conoscere umano, imperniato sull’io empirico. Isvara è anch’esso privo di consistenza ontologica, esso stesso maya. La sua funzione, come anche la pratica della contemplazione, dello Yoga, e d’una vita di santificazione, è catartica, propedeutica all’albeggiare del riconoscimento dell’unica Realtà del Brahman. Una volta assolta la propria funzione, va anch’esso abbandonato riconoscendone l’insostanzialità, l’illusorietà. In questo senso, il Vedanta teorizza una triade in cui l’Assoluto si ‘manifesta’: Isvara, il guru e l’atman. Ma allorché si dia l’intuizione della Realtà del Brahman che ciascuno porta in cuore (sva-hrdaya-pratyaya), si realizza che non v’è mai stato null’altro al di fuori d’Esso e il mondo è vanificato, dissolto. Per Shankara, Isvara è dunque solo una maschera del Brahman. Viceversa, nelle scuole del teismo vedantico Isvara è riconosciuto quale effettiva ipostatizzazione del Brahman, e con questo condivide la funzione di origine, substrato e fine del mondo.

Ricapitolando, nel kevala-advaita-vedanta il moksa coincide con l’esperienza dell’identità della propria intima essenza spirituale (atman) con l’Assoluto (Brahman), oltre il dominio fittizio di nomi e forme dacché si dà il «riconoscimento» (pratyabhijna) che c’è solo il Brahman. Allorché albeggi l’accorgersi di quest’identità con l’Assoluto, già presente da tutta l’eternità, ci si rende conto di come il legame samsarico e il moksa stesso non siano mai stati reali ma illusori. Nondimeno, finché l’illusione (maya) che coincide con la nescienza (avidya) perdura, l’orizzonte fenomenico è esperito come reale, allo stesso modo di quando, in sogno, ci si trovi a vivere un terribile incubo. Nell’advaita posteriore a Shankara s’insegna che la maya getta un velo sull’Assoluto, avarana, e quindi proietta su esso i nomi e le forme del divenire, viksepa. Maya e avidya (da Shankara declinate in chiave più epistemologica che metafisica) sono l’una l’interfaccia dell’altra, sostanzialmente identiche, e non si dà spiegazione circa la loro presenza o di dove ‘vengano’: nescienza e illusione cosmica sono ritenute ultimamente un grande, tenebroso mistero, senza principio (ma che, per fortuna, può e deve avere fine!). L’educazione tramite la quale il maestro forgia il discepolo è volta a squarciare il velo della maya, a ‘disattivare’ il circolo vizioso (catena di sofferenza) di avidya-karman-samsara («nescienza-attaccamento all’atto-trasmigrazione») contrapponendovi il ‘circolo virtuoso’ di vidya-vairagya-moksa («conoscenza-distacco/disidentificazione dall’atto-liberazione dalla trasmigrazione») sciogliente ogni male e ogni paura.

L’importanza di Shankara, ‘l’Aquinate dell’India’, è stata ed è somma. Come osserva l’indologo David N. Lorenzen:

Shankara è generalmente considerato come il più influente di tutti i pensatori religiosi induisti. Le molte interpretazioni e divulgazioni moderne della sua metafisica inflessibilmente intellettuale rappresentano la corrente dominante del pensiero religioso induista contemporaneo.2

Egli segna un punto di svolta poiché con la rinascenza dell’ortodossia brahmanica da lui inaugurata il panorama viene a mutare. Si ponga mente al fatto che il monachesimo hindu nasce con Shankara, con i cenobi e gli ordini di rinuncianti da lui istituiti. Dopo Shankara, lo Yoga e il Samkhya classico (sistema realista fondato sul dualismo ontologico di Purusa e Prakrti) come anche la Purva-mimamsa (la «Prima esegesi» vedica, fondata sulla corretta esecuzione dell’atto rituale, karman) declinano al punto tale da divenire sorta di ‘resti fossili’. Il sistema logico del Nyaya e l’atomismo del Vaisesika devono rinnovarsi profondamente pena il rischio di venire meno. Le stesse scuole buddhiste vengono a inaridirsi e, di fatto, scompaiono dall’India. Molte scuole vedantiche sivaite quanto visnuite affineranno teologie che s’opporranno alla radicalità del puro non-dualismo di Shankara, volendo riconoscere al mondo e all’individualità umana un qualche grado di realtà, più o meno distinto dall’Assoluto (Brahman), salvaguardando cioè in misure diverse un’ontologia della relazione. Nelle scuole del cosiddetto tantrismo, ove la prospettiva non-dualista è maggioritaria (ma con ampia gamma di sfumature), si registrano significative varianti realiste e pure schiettamente dualistiche (si pensi allo Shaiva Siddhanta). Com’è stato da più parti osservato, vi sono nel ricco e plurale panorama teologico del cosiddetto ‘hinduismo’ (ma possiamo ancora continuare ad utilizzare quest’ambigua categoria, che induce a immaginare una unitarietà/omogeneità religiosa che il subcontinente non ha mai conosciuto?) interlocutori assai più congeniali ad un dialogo con il cristianesimo di quanto non sia Shankara o il Vedanta non-dualistico nelle sue espressioni più radicali. Shankara, nonostante la sua assoluta rilevanza, non esaurisce l’orizzonte della spiritualità indiana, nella quale vi è solo l’imbarazzo della scelta dal punto di vista dell’opzione teologica! Anche in questo convegno Francis X. D’Sa, nella sua bella relazione sul misticismo del poeta-santo marathi Jnanesvar (m. 1296) in rapporto all’intuizione cosmoteandrica panikkariana, ha opportunamente sottolineato la corrispondenza, l’armonia tra una prospettiva advaita-bhakti (in specie focalizzando l’attenzione sui versi finali del celebre commento di Jnanesvar alla Bhagavad-gita, la Jnanesvari) e la teologia trinitaria del nostro. Ugualmente, Bettina Bäumer non ha mancato di rilevare come il cosmoteandrismo di Panikkar si presti ad un serrato confronto col pensiero d’alcune importanti scuole dello sivaismo del Kasmir.3 Aggiungerei che è solo ovvio che la prospettiva teologica cristiana trovi un partner dialogico naturale negli vari indirizzi monoteistici hindu, declinanti una teologia della grazia (ma a tutt’oggi molti teologi e studiosi occidentali ignorano la secolare presenza di ‘religioni’ monoteistiche sul suolo dell’India).4

A partire da almeno gli anni cinquanta del secolo scorso, il ‘corpo a corpo’ di Panikkar con Shankara appare incessante. Per Panikkar Shankara costituisce la punta di diamante della metafisica dell’India. Oltre a compiere continui viaggi nel subcontinente lungo tutto l’arco della sua vita, Panikkar, il cui padre era indiano del Kerala, vi ha soggiornato stabilmente per almeno sette anni (dal 1955 al 1960 e dal 1964 al 1966). Questi furono anni cruciali per l’elaborazione del suo pensiero teologico e della sua mistica trinitaria. Si pensi all’importanza della fraternitas col monaco benedettino bretone Henri Le Saux alias Svamin Abhisiktananda (1910-1973) e col monaco benedettino inglese Bede Griffiths (1906-1993), alfieri con i loro asrama hindu-cristiani d’una ‘integrazione’ tra samnyasa hindu e monachesimo cristiano. Al centro della riflessione è sempre il supremo mistero trinitario, variamente confrontato col non-dualismo vedantico: è questa la crux del pensiero panikkariano (com’era stata in primis per il monaco e missionario francescano francese Jules Monchanin, 1895-1957, il pioniere di questa ricerca di comuni denominatori col suo asrama ‘della Trinità’; una ricerca che lo condurrà peraltro a una sostanziale disillusione finale).5

Panikkar si cimenta ‘trinitariamente’ con la metafisica del Vedanta in svariati articoli e monografie della sua ricca produzione scientifica, tra cui non si può non ricordare almeno il volume Maya e Apocalisse. L’incontro dell’induismo e del cristianesimo, edito a Roma nel 1966 per i tipi di Abete. Ma il testo che rimane paradigmatico, e che egli ha significativamente riedito e riveduto negli anni, è senza dubbio il suo Il Cristo sconosciuto dell’induismo, apparso nella sua prima edizione italiana nel 1976 presso Vita e Pensiero di Milano, e recentemente ripubblicato nel 2008 nell’ultima versione aggiornata per i tipi di Jaca Book (sottotitolo: Verso una cristofania ecumenica; a cura di Milena Carrara Pavan e con una prefazione di Julien Ries; faccio qui riferimento a quest’edizione). L’edizione inglese del testo risale al 1964 (The Unknown Christ of Hinduism, London, Darton, Longman & Todd) ma la sua prima, effettiva apparizione è del 1955 nella quale recava il titolo Induismo e cristianesimo. Il Cristo sconosciuto dell’induismo. In seguito, sarebbe stato Bede Griffiths a suggerire a Panikkar di fare del sottotitolo il vero e proprio titolo del libro. Come lo stesso Panikkar rileva: «… il tema del libro ha costituito da sempre uno dei problemi centrali della mia vita, come mostrano le diverse date delle varie introduzioni alle differenti edizioni».6 In particolare, la terza e ultima parte del testo («Dio e il mondo secondo il Brahma-sutra I, 1, 2», pp. 133-197)7 concerne una dotta e articolata esegesi d’un celebre aforisma dei Brahma-sutra: janmadi asya yatah, «Dal Quale (yatah; = il Brahman) la nascita etc. (janmadi) di questo (asya; = l’universo fenomenico)», ossia «Ciò donde procedono nascita, permanenza e dissoluzione di questo universo». Shankara osserva che il significato del sutra consiste nel considerare unitamente la manifestazione, conservazione e dissoluzione dell’universo (janma-sthiti-bhangam samasarthah).

Non entro qui nei dettagli dell’ermeneutica panikkariana. La posta in gioco è comunque chiara: se la realtà manifestata ossia il fenomenico procede dal Brahman, ecco emergere il tema fondamentale della relazione, della mediazione. Cruciale si rivela per Panikkar il ruolo di Isvara quale mediatore, ‘cerniera’ tra l’Assoluto e il relativo, tra la Realtà a-duale e il mondo, tra l’Uno e il molteplice. Isvara rappresenterebbe la soluzione vedantica al problema ineludibile della relazione e Panikkar, in un ardito confronto con la concezione trinitaria cristiana, non esita ad affermare che «il ruolo di Isvara nel Vedanta corrisponde come funzione omeomorfica al ruolo di Cristo nel pensiero cristiano».8 La ricerca panikkariana di ‘equivalenze’ con l’orizzonte della teologia cristiana appare potenzialmente fruttuosa (ancorché rischiosa!) se confrontata con le scuole teiste del Vedanta, ossia con quelle declinazioni del Vedanta che riconoscono Isvara quale Dio personale, effettiva ipostatizzazione del Brahman, e che articolano una teologia dell’amore, della grazia, nella quale si salvaguarda un qualche grado di differenziazione ontologica tra l’Assoluto e l’anima individuale. Non è però possibile riferire tale prospettiva interpretativa al non-dualismo di Shankara. Come già rilevato, nel Vedanta sankariano Isvara è illusorio allo stesso titolo dell’universo oggettuale. Nel Brahman a-duale non si danno relazioni. Se vi sono ‘relazioni’ (con Isvara, con il proprio guru) queste sono su di un piano apparente/illusorio, di realtà empirica (vyavaharika), e propedeutiche al riconoscimento dell’unica Realtà del Brahman. Tali ‘relazioni’ sono certo importanti, anzi cruciali al fine di volgere via l’originaria distorsione epistemologica, ma esse sono prive di statuto ontologico. Naturalmente, Panikkar ha sempre avuto chiara consapevolezza di questa decisiva aporia, che è poi riconducibile alla dottrina della maya. Per il genio teologico del nostro, infatti, si darebbe di fatto una tensione irrisolta nella teologia sankariana (si vedano in specie le pp. 149-152 del Cristo sconosciuto dell’induismo). Egli argomenta che il punto debole della concezione di Shankara sta proprio nella funzione ch’egli attribuisce a Isvara, che non ‘reggerebbe’ alla tensione tra il mondo della maya, d’un canto, e il Brahman, dall’altro. Ossia Isvara, precipitando nella maya, non riuscirebbe a ‘tenersi in equilibrio’, ad assolvere alla sua funzione d’effettivo mediatore.9 Ma ecco come Panikkar, nella sua interpretazione di Brahma-sutra I, 1, 2, riformula la tensione tra il piano dell’Assoluto e il piano fenomenico:

L’Isvara della nostra interpretazione non appartiene solo al mondo di maya. Egli non è solo una creatura, ma uguale a Brahman e pur distinto nella sua forma di esistenza così come nella sua funzione in relazione al Mondo. Il nostro sutra si riferisce in realtà a Brahman e non a un Isvara sotto il segno di maya, perché, se così fosse, il dualismo sussisterebbe e il problema non sarebbe affatto risolto […]. Il sutra sembra invece indicare una via verso ciò che la tradizione cristiana chiama il Figlio pienamente Dio. Indica un Isvara che, pur essendo saguna, non ha cessato di essere nirguna. Forse fu questo il pensiero di Badarayana quando rifiutò di rinunciare alla realtà o del Mondo o di Brahman, anche se era chiaro che non erano identici […]. L’Isvara della nostra interpretazione non appartiene unicamente al mondo della Divinità. Non è solo un aspetto del Divino; è veramente ‘umano’ o, meglio, mondano senza cessare di essere divino. Il nostro sutra indica una realtà che non solo connette i due poli, ma che ‘è’ i due poli, senza permettere loro di coincidere […]. Nel linguaggio cristiano direi che l’Isvara della nostra interpretazione indica il mistero di Cristo […] Egli ha […] duplice ‘natura’; ma queste due nature sono «senza confusione né mescolanza», eppure «inseparabili» e «indivisibili». Egli è più di un mediatore, ed è, in certo senso, come l’«intero Cristo», il Cristo totale, l’intera realtà del Mondo, in quanto è reale, vale a dire in quanto è […] incorporato al Mondo, uno con Lui. Formante un Corpo mistico, così che Egli, Cristo, è uno con il Mondo autentico […] uno con Dio Padre, così che Dio sia tutto in tutti e nulla rimanga al di là o al di fuori di Lui.10

E ancora:

Vi è […] una produzione e una conservazione del Mondo […] che avviene in modo atemporale o ‘eterno’, e vi è altresì uno sviluppo o evoluzione di tutti questi atti, che si compiono allo stesso tempo dello sviluppo temporale delle cose. L’Isvara del nostro commento svolge entrambe le funzioni: egli è colui da cui l’essere è in modo ‘eterno’, e ciò verso cui l’essere tende o diventa, entro un processo temporale. Questa duplice funzione di Isvara, quella di ‘mantenere il Mondo in essere’ nel tempo e nell’atemporalità, è, in ultima analisi, una sola funzione, poiché non ci sono due mondi, uno nell’eternità e un altro nel tempo. Proprio per evitare tale dicotomia abbiamo introdotto il concetto di tempiternità, che cerca di esprimere l’intuizione a-duale di ciò che altrimenti è visto come una duplice ‘dimensione’ del tempo e dell’eternità. In realtà tutto questo processo è tempiterno.11

Il tema della relazione, della et, è il tema centrale, capitale, della riflessione teologica panikkariana. La lezione di Panikkar è una straordinaria lezione di teologia trinitaria.12 Nei decenni, essa è stata infaticabilmente tesa alla ricerca di ‘equivalenti omeomorfici’ nelle altre grandi tradizioni religiose dell’umanità, in una prospettiva autenticamente ‘cattolica’ e al tempo stesso rispettosa delle differenze, di quello che egli ha chiamato il pluralismo radicale dei diversi orizzonti di fede.13

Panikkar è maestro nel riconoscere nessi, corrispondenze (ossia lett. upanisad) tra le tradizioni, ed è alla costante ricerca di sempre nuove equivalenze. Non però in modo superficiale ma attraverso ‘immersioni totali’ in ogni tradizione da lui esplorata. Si potrebbe dire che Panikkar ha fatto propria la paidea sankariana, che si riassume nei tre gradi d’apprendimento del Vedanta: a) sravana o audizione, attenzione equanime; b) manana o cogitazione, ripensamento; c) nididhyasana o meditazione intensa, sfociante in una piena ‘digestione’/assimilazione. Nella visione mistica di Panikkar, bisogna infatti estendere a tal punto l’empatia con l’altro da diventare l’altro. Razionalmente ciò è impossibile ma, come un giorno mi disse lo stesso Panikkar, dobbiamo osarlo, dobbiamo farlo o, meglio, esserlo! Giacché l’uomo è certo ‘singolare’ ma è chiamato a divenire ‘plurale’ allo stesso tempo, ossia a realizzare la fraternitas. Vi è in Panikkar una difesa al tempo stesso dell’irriducibile specificità d’ogni tradizione spirituale e della necessità d’evidenziare ciò che è foriero d’armonia (non unità) tra esse. Ecco allora il suo utilizzo teologico degli ‘equivalenti omoemorfici’ in una prospettiva di mutua fecondazione. Come Panikkar ama spesso dire relativamente alla sua vicenda biografica, egli è partito cristiano dalla natìa Spagna; in India si e scoperto hindu; dall’India è tornato in Occidente buddista; e in Occidente ha fatto propria l’esperienza del secolarismo: il tutto senza avere mai cessato d’essere cristiano! Certamente, lo slancio empatico non è immune da rischi, da pericoli, ma si tratta di rischi e pericoli indispensabili, che non si possono non correre. Solo una messa in gioco radicale, esistenziale prim’ancora che intellettuale, può essere viatico di vera libertà (= moksa). Lo Spirito soffia dove vuole (Giovanni 3, 8) e solo chi è disposto a perdersi, a perdere la propria vita, la salverà, la conserverà per la Vita eterna (Giovanni 12, 24-26): la morte di se stessi, la crocifissione del proprio ‘piccolo io’, è la ‘via stretta’ necessaria alla Vita nuova. Di qui il costante richiamo di Panikkar relativamente all’urgenza d’una ‘metanoia permanente’. E tale metanoia, tale purificazione/conversione continua, s’attua precisamente nell’indispensabile ‘dialogo dialogico’, perché l’incontro tra religioni e civiltà, che è già (= il ‘meticciato’, portato della globalizzazione), non si muti in scontro o incomunicabilità.

Senza dubbio, è inevitabile che la cristologia mistica che il Panikkar presenta nel Cristo sconosciuto dell’induismo appaia sospetta alla teologia dogmatica, cattolica, ortodossa o riformata che sia. Forte infatti è la tensione che si rileva tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, ossia tra il piano umano e il piano divino, tra il piano della storia e il piano metafisico. L’’orientale’ Panikkar, pur volendole tenere insieme, tende a sottolineare e ad assegnare valore di fondamento al piano cristico del Logos e a relativizzare o, almeno, a subordinare il piano storico al piano metafisico.14 In altri termini, la Realtà di Cristo non è identica o ‘riducibile’ alla sua storicità.

Ecco, al riguardo, alcune esplicite affermazioni del nostro:

Non si può ridurre Dio ad un ruolo esclusivamente storico, né l’Incarnazione a un fenomeno temporale.15

… se Gesù è il Cristo (per i cristiani), Cristo in quanto Logos non si riduce alla sua incarnazione in Gesù, che certamente non era ‘prima di Abramo’…16

Chi crede che Gesù è il Cristo è un cristiano, ma il Cristo era prima di Abramo.17

Abbiamo già accennato al mythos della storia che crede che la storia sia l’unico criterio di realtà. Il Cristo della storia è certamente il Cristo reale, ma Cristo non è esclusivamente un personaggio storico. Qualcosa che appartiene alla storia è certamente reale, ma non necessariamente l’inverso: la realtà non è necessariamente storica […]. Gesù di Nazaret è un essere storico, ma la sua realtà non si riduce alla storia, come affermano anche i dogmi cristiani dell’Eucaristia e della Resurrezione. Nell’Eucaristia c’è la presenza reale di Cristo, ma non le proteine di Gesù […]. Il Gesù risorto è certamente reale non soltanto nei giorni dopo la Resurrezione, ma anche oggi […]. La tesi di questo libro sostiene che il Cristo reale non si riduce al Gesù storico . . .18

… la prima interpretazione filosofica di Cristo non incomincia con un discorso sulla ‘carne’, ma sul Logos che si è fatto ‘carne’. Forse (e dico forse parenteticamente) l’attrazione dello gnosticismo nei primi secoli cristiani è dovuta anche a una certa reazione viscerale e orientale a una visione esclusivamente storica di quel fatto (l’Incarnazione) cui si attribuiva una trascendenza universale (che la sola storia non può veicolare).19

Anche se con qualche riserva, mi paiono condivisibili le osservazioni che Robert de Smet già venticinque anni fa proponeva al riguardo dell’opera di Panikkar:

In un certo senso, l’autore ‘tira’ Gesù Cristo verso l’Isvara hindu più di quanto non lo vorrebbero i cristiani e ‘tira’ l’Isvara hindu verso il Cristo, più di quanto Shankara, più di quanto Ramanuja e più di quanto gli hindu non lo vorrebbero […]. Partendo dall’avvicinamento all’uomo da parte di Dio, Panikkar vede l’Assoluto nel mistero della sua inconoscibilità in Brahman ma al tempo stesso voltato verso il mondo in Isvara, che è come un Cristo nascosto nell’induismo e in tutte le religioni, come pure nel cuore di tutti gli uomini quale illuminatore interno o antarayamin.20

L’espressione più compiuta della cristologia mistica di Panikkar è rinvenibile in una sua più recente monografia: La pienezza dell’uomo. Una cristofania (Presentazione di Julien Ries, Milano, Jaca Book, 1999). Tutto il pensiero panikkariano va compreso come un grande affresco di teologia trinitaria, vero e proprio nucleo incandescente della sua vita, declinante il tema della relazionalità ad ogni livello e tra ogni livello o piano di realtà, intessendo/riconoscendo nessi e dinamici rapporti (uni-e-trini, a-duali). Proprio per questo, Panikkar è da sempre maestro nello sviscerare il significato recondito delle parole, a cavallo tra le tradizioni, com’è maestro nel coniare neologismi, ‘parole in relazione’ o composte, in sanscrito diremmo samasa. Esiste oramai un vocabolario panikkariano. Che cos’è lo stesso concetto di tempiternità, o meglio, la sua esperienza, se non l’abbraccio simultaneo, a-duale, di tempo storico e dimensione metafisica, dell’eterno (sanatana), nel ‘qui ed ora’ dell’istante presente?21 In una classica declinazione mistica, s’impone qui il tema del riconoscimento. Viene alla mente il celebre episodio dei discepoli lungo la via di Emmaus (Luca 24, 13-35), in itinere con Gesù/Cristo risorto che però essi non discernono, e l’istantaneo riconoscimento tempiterno che di Lui si dà nell’esperienza serotina della communio, dello spezzare il pane: ecco allora ‘l’apertura degli occhi’ e la folgorante, liberante pratyabhijna, l’escatologia realizzata. La teologia trinitaria panikkariana si riassume nel cosmoteandrismo, nell’esperienza della Realtà cosmoteandrica, forse il suo neologismo più importante, la cui elaborazione più matura è contenuta nella summa La Realtà cosmoteandrica. Dio-Uomo-Mondo (a cura di Milena Carrara Pavan, Milano, Jaca Book, 2004).22 Il cosmoteandrismo è supremo mistero d’amore, che s’effonde dinamicamente e tempiternamente. Il mistero trinitario del Dio-Persona non può mai essere ‘congelato’ in un puro, immoto Essere: di qui il ‘combattimento’ panikkariano con Shankara che, pure, per la radicalità della sua opzione advaita, lo ha attratto/ossessionato per tutta una vita.

Sorprende come un valente teologo quale il gesuita Paolo Gamberini, che ha recentemente pubblicato un bel manuale di dottrina trinitaria,23 incappi nella sua Tesi XIV in grossolane caricature e inaccettabili semplificazioni relativamente al mondo indiano, dimostrando una volta di più quanto il dialogo interreligioso non possa procedere ove non si dia una minima, contestualizzata conoscenza (e rispetto!) dell’altro da sé. L’essenzialità del suo excursus non giustifica infatti affermazioni tanto lapidarie quanto svianti. Classificare lo ‘hinduismo’ e il buddhismo come «religioni dell’advaita»,24 parlare indifferentemente di Brahman e nirvana, e sentenziare approssimative ed errate proposizioni quale la seguente — «Sia nell’induismo che nel buddismo la varietà delle religioni non sono altro che modi provvisori o vie in cui si esprime questa esperienza di consapevolezza [di Brahman o Nirvana], chiamata anche esperienza mistica. Possiamo identificare due tipi principali di religioni. Ci sono religioni che sottolineano l’incontro con un Dio personale — che si rivela nella relazione ‘Io-Tu’ e ci sono religioni che si accostano a Dio in un modo più transpersonale (Brahman) o negativo-kénotico (Nirvana). In entrambi i tipi si fa riferimento alla medesima esperienza mistica [sic!], la cui formulazione migliore si trova nella dottrina dell’advaita»25 — non sono certo il modo migliore d’articolare trinitariamente l’apertura all’altro. Anche la critica, solo accennata, mossa a Panikkar circa la sua interpretazione trinitaria dell’esperienza advaita appare superficiale e evidenzia una scarsa conoscenza del suo pensiero (e non solo in quanto egli sembra considerare un’unica opera del nostro, The Trinity and the Religious Experience of Man, del 1973, e non le elaborazioni/approfondimenti successivi). Ma ascoltiamo Gamberini:

Questo tipo di comprensione del paradigma relazionale, così come è presente nell’advaita, rischia tuttavia di ridurre la ricchezza della categoria di ‘relazione’ in un’identità indifferenziata […]. Nel monoteismo [cristiano] […] l’identità e la differenza, l’unità e la diversità, la sostanza e la relazione sono co-originari e co-essenziali. Ciò vuol dire che Dio non viene raggiunto attraverso un processo genetico di riduzioni (dalla differenza all’identità, dai molti all’uno, dalle relazioni alla sostanza), ma è compreso come evento pericoretico o di comunione, in cui identità e differenza, unità e diversità, sostanza e relazione, co-esistono e non sono ridotte l’una all’altra o assorbite l’una nell’altra. Per questo motivo l’interpretazione advaita dell’esperienza mistica crea problemi quando è applicata alla mistica monoteista e in particolare alla mistica cristiana. Ci sembra che l’interpretazione trinitaria di Panikkar dell’esperienza advaita non sia in grado di riconoscere questa differenza fondamentale.26

Un rapido commento critico (non una difesa di Panikkar, che non ne ha bisogno):

  1. l’advaita che rischia di ridurre la ricchezza della categoria di ‘relazione’ in un’identità indifferenziata può giustificatamente riferirsi al non-dualismo sankariano o ad una qualche forma radicale e ‘illusionistica’ di advaita ma non certo all’orizzonte delle religioni e filosofie dell’India tout court! Come già accennato, nella sua vicenda plurimillenaria l’India ha elaborato una grande varietà di teologumeni: teologie personaliste, monoteismi, dualismi, dottrine della «distinzione-e-non-distinzione» (bhedabheda), non-dualismi «qualificati» (visistadvaita) e vari altri peculiari ‘advaitismi’ declinanti la relazione secondo modalità assai raffinate. La teologia illusionista della maya non è affatto condivisa da tutti gli indirizzi soteriologici. Di fatto, si danno un’ampia gamma di scuole filosofico-religiose realiste, ove la relazione del mondo con Dio o l’Assoluto e dell’anima individuale col suo Signore è ontologicamente Reale, non mera apparenza. Per vari indirizzi, tale relazione si configura quale dinamica comunione d’amore da/per tutta l’eternità (senz’alcuna riduzione/assorbimento del mondo o della creatura/anima individuale in Dio o nel Brahman, quale ‘goccia nel mare’);

  2. nessuno mette certo in dubbio l’originalità della teologia trinitaria cristiana, del Dio Persona che si rivela in Gesù Cristo quale evento pericoretico o di comunione, nel quale identità e differenza, unità e diversità, sostanza e relazione sono co-originari e co-essenziali. Nondimeno, mi pare opportuno segnalare come si diano in India secolari indirizzi teologici — penso ad alcune scuole dello sivaismo del Kasmir — che concepiscono una relazionalità e un dinamismo intrinseci al Supremo, ad esempio nel coimplicarsi di «luce» (prakasa) e «pensiero» (vimarsa), di Shiva e Shakti. Tale dinamismo è costitutivo della Realtà divina ab origine, declinandosi con inesausta ricchezza e bellezza. Mi piace qui citare le parole di Raniero Gnoli, autorevole indologo italiano:

    Secondo questa corrente di pensiero i concetti di universale, di azione, di relazione e via dicendo, non sono affatto irreali, non sono un’illusione. Le immagini delle cose che ci offre il nostro pensiero discorsivo, sono altrettanto reali di quelle che si sono date nel momento prediscorsivo del pensare. Senza di esse, senza la varietà del mondo, la coscienza sarebbe immota identità soltanto e quindi non più coscienza ma cosa. La coscienza, l’io è appunto io e coscienza, cioè pensiero, luce, linguaggio, in quanto è tutte le altre cose, ed appunto in questa molteplicità, che è movimento perenne, liberamente si realizza come unità, come io. L’io è libertà […]. Le cinque operazioni attribuite dalla tradizione a Shiva, ossia creazione, mantenimento, riassorbimento, grazia ed oscurazione, non sono più naturalisticamente considerate come stadi di una realtà che indipendentemente e fuori dalla nostra coscienza nasca, si evolva e muoia, sì piuttosto come momenti della coscienza o dell’io che attraverso esse come io e coscienza liberamente si esprime. L’io è ad ogni momento esse tutte e ad ogni momento crea, mantiene, riassorbe, grazia ed oscura se stesso. Il nascere è anche dissoluzione, e questa un nascere. La molteplicità non è, in altre parole, che un’espressione della potenza infinita e, dunque, della libertà della luce, che, senza decadere da quello che è, si manifesta come tutto, e proprio in questa sua manifestazione nella molteplicità si realizza come non-dualità, come coscienza;27

  3. chiunque abbia letto anche solo Il Cristo sconosciuto dell’induismo, vede come il Panikkar sia il primo a riconoscere l’impossibilità del ‘coniugare’ una teologia trinitaria con l’advaita sankariano, che non a caso egli sottopone a critica. Il punto è che non si dà un unico, onnicomprensivo indirizzo non-dualista ma ve ne sono diversi. Panikkar, con la sua teologia cosmoteandrica, ha declinato un suo proprio trinitarismo advaitico o della relazione a-duale, ricco e complesso (che, forse, ma bisognerebbe chiederlo a lui, ha tratto ispirazione anche dallo sivaismo del Kasmir e dalla sintesi abhinavaguptiana). In tutt’evidenza il cosmoteandrismo ha nell’evento pericoretico, comunionale, il suo presupposto irrinunciabile: esso s’oppone ad ogni riduzionismo ‘sostanzialistico’, ad ogni statica, monolitica ontologia.

Volgendomi a concludere, penso tradiremmo Raimon Panikkar se ci ostinassimo a considerare la sua teologia quale un unicum, una via per pochi eletti misticamente inclinati. Non per caso, egli insiste sul fatto che l’iter da lui delineato sia inderogabile e urgente, necessitante il concorso di tutte le donne e gli uomini di buona volontà: mi verrebbe da dire che egli ‘lo grida dai tetti’. Per Panikkar urge la ‘sfida di scoprirsi monaco’, per citare il titolo italiano d’un suo saggio sull’impulso monastico, sul monaco quale ‘archetipo universale’.28 Contro e oltre ogni pensiero dicotomizzante sacro/profano o laico/religioso, la chiamata a ‘scoprirsi monaco’ è d’attuarsi nell’arena del mondo e non nel chiuso d’un convento, nella prospettiva d’uno stile di vita di ‘secolarità sacra’o, in termini hindu, d’un karma-yoga. Il pensiero di Panikkar non è astratto ma riflette, come egli ama sottolineare, la sua propria esperienza di vita, il suo bíos. Ecco allora che la Realtà trinitaria, cosmoteandrica, è innanzitutto il trasfigurante riconoscimento che ‘tutto è Santo’. In chiave vedantica, diremmo che tutto è onnisaturante Pienezza (purnam, un ‘attributo’ del Brahman). Come recita Brhad-aranyaka Upanisad 5, 1:

Quello è Pieno, questo è Pieno, e dal Pieno s’origina il Pieno. Se pur s’attinge il Pieno dal Pieno, il Pieno rimane intatto.

(purnam adah purnam idam purnat purnam udacyate | purnasya purnam adaya purnam evavasisyate ||)

In termini teisti, la chiamata che il Panikkar rivolge a tutti noi e ch’è sottesa ad ogni suo scritto è una chiamata alla santificazione, ad un vivere alla Presenza di Dio o, meglio, nella Presenza/Mistero che tutto avvolge e al tempo stesso eccede incommensurabilmente.

Terminando, vorrei anch’io offrire il mio humble tribute, i miei namas-kara al genio di Raimon Panikkar, che ancora in anni lontani ha contribuito a determinare e orientare la mia vocazione indologica. Ricordo ancora l’esperienza di novità e scoperta, sorta di fuoco incandescente, che fu per me la prima lettura in inglese del suo Myth, Faith and Hermeneutics. Cross-cultural Studies (New York/Ramsey/Toronto, Paulist Press, 1979),29 già all’epoca un compendio della sua teologia, così ricco di profonde intuizioni e memorabili caratterizzazioni (penso, ad esempio, alla sua trattazione dei miti di Prajapati e Shunahsepa, alla magistrale delineazione della fede, sraddha, quale dimensione antropologica costitutiva, da non confondersi con la sfera della credenza, alle pagine su advaita e bhakti). O, ancora, ricordo l’impatto ch’ebbero su di me le letture d’altri testi quali Spiritualità indù. Lineamenti (Brescia, Morcelliana, 1975) e il già evocato Blessed Simplicity, del 1982. Il mio primo incontro personale con Panikkar risale alla metà degli anni ottanta, in occasione d’alcuni corsi di studi promossi dalla Pro Civitate Christiana presso la Cittadella di Assisi. Furono proprio quegli incontri a spingermi, dopo aver conseguito la laurea in Storia delle religioni sotto la guida dei prof. Franco Michelini-Tocci e Mario Piantelli, a continuare i miei studi di dottorato presso la University of California, a Santa Barbara, dove il Panikkar insegnava. Anche se non lo ebbi quale mio professore (proprio in quell’anno, il 1987, egli andò in pensione!), ebbi comunque la fortuna di poterlo frequentare in occasione d’alcuni seminari e ritiri di meditazione. Mi pare dunque appropriato terminare questa comunicazione con la citazione d’un celebre verso, il terzo, del Viveka-cuda-mani («Il diadema della discriminazione»), un testo ascritto a Shankara (anche se quasi certamente non suo):

durlabham trayam evaitad devanugraha-hetukam | manusyatvam mumuksutvam maha-purusa-samsrayah ||

Difficili ad attingersi sono invero questi tre, e dovuti solo alla grazia divina: la condizione umana, il desiderio di liberazione e l’associazione con un saggio eminente.

Penso che per molti qui presenti — certo per me — l’incontro con Panikkar abbia costituito l’incontro con un maha-purusa, un maestro eminente proprio nel suo non volerlo essere, nel suo non pensare d’esserlo: esempio e guida lungo la via che mena alla libertà, al moksa. Raimon Panikkar è la testimonianza vivente del desiderio bruciante per la liberazione, mumuksutva, un fuoco inestinguibile che da sempre muove i suoi passi, il suo genio intellettuale e soprattutto il suo cuore. E come fuoco incandescente, fiamma viva, egli ha ‘acceso’ e continuerà ad ‘accendere’ innumeri menti e cuori per condurli ad abbeverarsi alla Fonte della gioia, ananda, in Dio.

Intervista ad Antonio Rigopoulos, di Paolo Calabrò

Ci sono proprio tutti alla conferenza internazionale organizzata a Venezia dal 5 al 7 maggio 2008 in occasione dei novant’anni di Raimon Panikkar. Ogni amico, collega, allievo, discepolo, è convenuto qui da ogni parte del mondo: Italia, India, Germania, Australia, Stati Uniti, Tunisia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea, Spagna, per tributare il suo omaggio a «un maestro del nostro tempo».

L’auditorium Santa Margherita dell’università Ca’ Foscari (organizzatrice del convegno, insieme al Centro studi interculturali di Tavertet — Barcellona e al Centro studi Maitreya di Venezia) è gremito. Trecento persone affollano la sala quando, all’improvviso, Panikkar entra nell’auditorium, reggendosi al bastone da un lato e all’immancabile Milena Carrara dall’altro.

Il saluto iniziale è porto da Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, nel corso del quale sottolinea come la nostra epoca — caratterizzata dallo specialismo e dalla mancanza di una visione d’insieme delle cose — abbia bisogno di una filosofia come quella di Panikkar, in grado di restituire l’armonia e il legame fra le varie parti della realtà. Dopo di lui, è Panikkar a porgere il suo saluto e il suo «grazie», spiegando ai convenuti che la mistica — che dà il titolo al convegno — non è un’esperienza estatica o magari patologica di pochi «eletti», bensì pienezza della vita, esperienza quotidiana, aperta a tutti, della profondità della realtà e del legame che essa tesse con tutto ciò che è. Che tutto è interconnesso e che nessun uomo è un’isola, questo è il fondamento della mistica. Tra i vari interventi, in italiano e in inglese, che si sono susseguiti nel tre giorni del convegno (tra cui quelli dell’ex segretario di Panikkar, Jordi. Pigem, dal titolo «Ramon Llull e Raimon Panikkar», quello di Jaume Agusti, fisico catalano, sull’esigenza di una «umanizzazione» della scienza a partire dal paradigma esperienza/esperimento di Panikkar e quello di Achille Rossi sull’attualità della mistica e la sua sfida al mondo contemporaneo) spicca quello del prof. A. Rigopoulos, dell’Università Ca’ Foscari, centrato sul rapporto tra la metafisica cosmoteandrica di Panikkar e quella indiana), per l’originalità del tema scelto e per la sorprendente chiarezza nell’affrontare un tema tanto complesso e sfaccettato.

Abbiamo approfittato dell’occasione per intervistare il prof. Rigopoulos sul tema del rapporto tra la metafisica cosmoteandrica di Panikkar e una delle principali correnti filosofiche indiane, il monismo di Sankara.

Prof. Rigopoulos, Lei conosce Panikkar personalmente da quasi trent’anni. Come avvenne questo incontro?

Ho conosciuto R. Panikkar nei primi anni ’80 tramite il suo testo Myth, Faith and Hermeneutics [oggi tradotto in italiano con il titolo Mito, fede ed ermeneutica], che rimane a mio avviso un testo imprescindibile per la comprensione di questo autore, una sorta di summa del suo pensiero, nonostante sia un po’ datato. Vi ero stato introdotto dai miei maestri nel campo della storia delle religioni, i professori Franco Michelini-Tocci (a Venezia) e il prof. Mario Piantelli (a Torino). Successivamente ebbi l’occasione di conoscerlo di persona ad Assisi, alla Cittadella, nell’ambito di alcuni incontri di carattere interreligioso. Nel settembre del 1987, appena laureato, pensando di poter lavorare con lui al mio dottorato di ricerca, andai con una borsa di studio all’Università di Santa Barbara, in California, dove sapevo che Panikkar insegnava. La delusione fu scoprire che il prof. Panikkar si era appena ritirato dall’insegnamento, anche se continuava a seguire alcuni suoi studenti e a tenere seminari e ritiri. Fu nell’ambito di quegli incontri che potei conoscerlo più da vicino. Decisi comunque di rimanere alla UCSB e conseguii il mio PhD sotto la guida del prof. G. J. Larson, uno specialista di Samkhya.

È luogo comune affermare la rigida separazione, nel mondo occidentale, di religione e filosofia, intesi come ambiti rispettivamente delle fede e della ragione, così come si dà spesso per scontata l’identificazione o almeno l’unità delle due discipline nel mondo orientale. Possiamo affermare che una differenza esista anche nel mondo orientale e che, viceversa, è scorretto tracciare una così netta linea di demarcazione per l’Occidente?

Si tratta di un equivoco. L’India ha una straordinaria tradizione di pensiero teoretico, estremamente precisa e rigorosa (basti pensare alle scienze del linguaggio). Certo, anche negli orizzonti di pensiero più complessi e sofisticati è possibile individuare uno spirito ‘religioso’, un fine soteriologico, ove la pura teoresi si connette alla prassi in vista della liberazione (moksha); ma questo è tipico anche del pensiero greco antico, penso alla lezione di un grande studioso come Pierre Hadot o anche di Michel Foucault, che giustamente hanno sottolineato quest’elemento. Relativamente all’India, si possono leggere delle limpide, autorevoli osservazioni di Raffaele Torella sulla tensione tra quelle che noi chiamiamo ‘filosofia’ e ‘religione’ (Il pensiero indiano. In AA. VV., Storia della scienza, vol. 2, cap. 2, Treccani, Roma, pp. 638-689). Nondimeno, sarebbe ingiusto dire che nelle prospettive ‘filosofiche’ indiane vi sia una sorta d’ossessione metafisica. Non è così. Il problema origina dalla nostra traduzione delle nozioni hindu; le nostre categorie mal s’attagliano all’universo brahmanico. Penso che il problema fondamentale sia di partenza, cioè riguardi il fatto che, semanticamente, il campo del discorso delle ‘religioni’ e delle ‘filosofie’ non è sic et simpliciter applicabile al contesto indiano.

Torniamo dunque alla solita mentalità colonialistica che pretende di imporre le proprie categorie a una cultura che è loro estranea.

In realtà tali categorie, anche se improprie, possono essere applicate criticamente. In ultima istanza è pur vero che — per riuscire a comunicare — qualche categoria bisogna pur usarla, ed è impossibile non partire dalle proprie. La problematizzazione di queste categorie unitamente alla comprensione ‘contestualizzata’ di quelle indiane sono viatico al ‘dialogo dialogico’ auspicato da Panikkar.

Nel corso di questo convegno Panikkar ha ricordato il legame tra la filosofia e la serenità dell’animo in Occidente, citando in proposito Cicerone e Ramon Llull per i quali «il filosofo è sempre lieto». Quanto questo legame è caratteristico anche del pensiero indiano?

Il tema della felicità è un tema intrinsecamente religioso. L’elemento della gioia e di Dio come Fonte della gioia è tema classico. L’uomo che ha attinto la liberazione dal ciclo del divenire, dal dolore, è la personificazione di ananda, termine che nella nostra lingua viene generalmente reso con «beatitudine» (traduzione forse inadeguata dal momento che «beatitudine» evoca spesso una sorta di ‘inebetimento’ del soggetto; meglio gioia). È un’esperienza di pura gioia o del vivere la vita ‘tempiternamente’ direbbe Panikkar. Questo essere dinamicamente nella gioia, momento per momento, è il contrassegno del santo. Il liberato (jivanmukta) è il sempre lieto, sostanziato di pace e equanimità.

Nel corso del Suo intervento a questo convegno ha sostenuto che Panikkar restituisce della filosofia di Sankara un’immagine un po’«deformata» a favore della visione cosmoteandrica. Si puo dire a suo avviso che Panikkar forzi certe categorie del pensiero indiano per adeguarle alle esigenze del dialogo interculturale?

Il problema, strictu sensu, è il problema della maya, dell’illusione/apparenza: non ci può essere relazione nel Brahman sankariano, nel senso che il Brahman è Uno, senza secondo. Una volta che si sia dato il riconoscimento della radicale alterità del Brahman l’universo fenomenico è vanificato, ossia lo si riconosce privo di statuto ontologico. Il fenomenico è ‘dissolto’ nell’esperienza della Realtà del Brahman. Nell’ambito del ‘puro’ kevala-advaita-vedanta sankariano non si da alcuna effettiva relazione tra ‘Dio e mondo’, anche volendo personalizzare il Brahman quale divinità suprema (l’apparente relazione, per quanto importante nell’iter che mena al moksha, è solo propedeutica e andrà trascesa). Piuttosto, la dimensione ‘cosmoteandrica’ è confrontabile con altre scuole del Vedanta, che riconoscono al mondo un qualche statuto ontologico (penso a indirizzi come quelli di Ramanuja o Madhva, allo Sivaismo del Kashmir e alle tante forme di nondualismo devozionale, advaita-bhakti): questi orizzonti metafisici possono essere più congruamente raffrontati con la teologia trinitaria cristiana, in vista del riconoscimento di quelli che il Nostro chiama ‘equivalenti omeomorfici’ (pur nell’opzione d’un pluralismo radicale delle fedi). Con Sankara l’operazione appare impossibile. Ma proprio per questo credo che il mistico prim’ancora che il teologo Panikkar abbia scelto di confrontarsi con lui. Ricordo che all’Università di Santa Barbara, quando noi studenti gli chiedevamo come fosse possibile diventare l’altro, immedesimarsi completamente nell’altro, lui era solito risponderci: «Lo so, è impossibile, ma dobbiamo farlo!».


  1. Sulla figura e l’opera di Shankara, si rinvia il lettore alla bella monografia di Mario Piantelli, Shankara e la rinascita del brahmanesimo, Fossano, Esperienze, 1974 (nuova ed. riveduta Shankara e il kevaladvaitavada, Roma, Asram Vidya, 1998). ↩︎

  2. David N. Lorenzen, «Shankara», in Mircea Eliade (dir.), Enciclopedia delle religioni. Vol. 9. Induismo. Edizione tematica europea a cura di Dario M. Cosi, Luigi Saibene, Roberto Scagno. Da un primo progetto di tematizzazione di Ioan P. Couliano, Milano - Roma, Jaca Book - Città Nuova, 2006, p. 332. ↩︎

  3. In questa prospettiva comparativa, si legga Bettina Bäumer (ed.), Mysticism in Shaivism and Christianity, New Delhi, DK Printworld, 1997. ↩︎

  4. Par un’introduzione alle correnti del monoteismo visnuita si legga Federico Squarcini - Clelia Bartoli, Il monoteismo hindu. La storia, i testi, le scuole, Pisa, Pacini, 1997. Per l’esame d’un caso particolare, si veda Antonio Rigopoulos, The Mahanubhavs, Firenze, Firenze University Press - Munshiram Manoharlal, 2005. ↩︎

  5. Su queste figure si legga preliminarmente Sonia Calza, La contemplazione. Via privilegiata al dialogo cristiano-induista. Sulle orme di J. Monchanin, H. Le Saux, R. Panikkar e B. Griffiths. Prefazione di Achille Rossi, Milano, Paoline, 2001. ↩︎

  6. Raimon Panikkar, Il Cristo sconosciuto dell’induismo. Verso una cristofania ecumenica. A cura di Milena Carrara Pavan. Prefazione all’edizione italiana di Julien Ries, Milano, Jaca Book, 2008, p. 19. ↩︎

  7. Una versione sostanzialmente identica di questa parte, recante lo stesso titolo, è contenuta nel dodicesimo e ultimo capitolo di Maya e Apocalisse, op. cit., pp. 291-350. ↩︎

  8. Ibid., p. 202. Sull’’equivalenza’ Isvara-Cristo, si vedano a titolo esemplificativo i seguenti articoli di Panikkar: «Isvara and Christ as a Philosophical Problem», in Religion and Society VI, 3 (1959): 8-16; «The Isvara of Vedanta and the Christ of the Trinity as a Philosophical Problem», in Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia, Venezia 12-18 settembre 1958, vol. X. Filosofie orientali e pensiero occidentale, Firenze, Sansoni, 1960, pp. 153-160. ↩︎

  9. Su tale questione, si legga un interessante scambio di battute tra il Panikkar e Mario Piantelli, in R. Panikkar, «Il messaggio dell’India di ieri al mondo di oggi», in Filosofia 22 (1971): 19-21. ↩︎

  10. R. Panikkar, Il Cristo sconosciuto dell’induismo. Verso una cristofania ecumenica, op. cit., pp. 194-195. ↩︎

  11. Ibid., p. 196. ↩︎

  12. Si vedano in prima battuta The Trinity and the Religious Experience of Man. Icon-Person-Mystery, New York-London, Orbis Books - Darton, Longman & Todd, 1973; La Trinidad y la experiencia religiosa, Barcelona, Obelisco, 1989 (tr. it. Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, Assisi, Cittadella, 1989). ↩︎

  13. Sul tema del pluralismo non si può non rilevare il maggior spessore della riflessione panikkariana rispetto ad altri tentativi, quali ad esempio quello d’un Jacques Dupuis nel suo tribolato Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Brescia, Queriniana, 19982. ↩︎

  14. Il titolo d’uno tra i suoi tanti articoli è eloquente: «Is History the Measure of Man? Three Kairological Moments of Human Consciousness», in The Teilhard Review 16, 1-2 (1981): 39-45. ↩︎

  15. R. Panikkar, Il Cristo sconosciuto dell’induismo. Verso una cristofania ecumenica, op. cit., p. 200. ↩︎

  16. Ibid., p. 23. ↩︎

  17. Ibid., p. 32. ↩︎

  18. Ibid., p. 72. ↩︎

  19. Ibid., p. 202. ↩︎

  20. Robert de Smet, «Le problème d’une théologie hindoue-chrétienne selon Raimundo Panikkar», Louvain-La-Neuve, Centre d’histoire des religions, 1983, pp. 5-6. ↩︎

  21. Sulla nozione di tempiternità si leggano di Panikkar «La Misa como ‘consecratio temporis’. La tempiternidad», in Sanctum Sacrificium. Actas del V Congreso Eucarístico Nacional, Zaragoza, 1961, pp. 75-93; «El presente tempiterno. Una apostilla a la historia de la salvación y a la teología de la liberación», in A. Vargas-Machuca (a cura di), Teología y mundo contemporáneo. Homenaje a Karl Rahner, Madrid, Cristiandad, 1975, pp. 133-175. ↩︎

  22. Si veda anche il suo articolo «The Cosmotheandric Intuition», in Jeevadhara I-II (1984): 27-34. ↩︎

  23. Paolo Gamberini, Un Dio relazione. Breve manuale di dottrina trinitaria, Roma, Città Nuova, 2007. ↩︎

  24. Ibid., p. 177. ↩︎

  25. Ibid., pp. 177-178. ↩︎

  26. Ibid., p. 178. ↩︎

  27. Abhinavagupta, Essenza dei Tantra. Prefazione, traduzione e commento di Raniero Gnoli, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2002, pp. 37-38. ↩︎

  28. Raimundo Panikkar, Blessed Simplicity: The Monk as Universal Archetype, New York, The Seabury Press, 1982 (trad. it. La sfida di scoprirsi monaco, Assisi, Cittadella, 1991). ↩︎

  29. Trad. it. Mito, fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, Milano, Jaca Book, 2000. ↩︎