Intuizione e verità in Aristotele

Introduzione

Il presente scritto si prefigge di trattare il tema dell’intuizione all’interno del pensiero aristotelico. Non sono pochi i luoghi in cui lo Stagirita sottopone a indagine la natura di questo concetto, tanto che offrirne una panoramica complessiva ed esaustiva risulterebbe impossibile in poche pagine. Obiettivo precipuo dell’articolo risulta perciò quello di comprendere la natura e funzione dell’intuizione all’interno del processo di fondazione del sapere scientifico. Quando noi parliamo di intuizione nel pensiero aristotelico, necessariamente avvertiamo riecheggiare l’affastellamento semantico cui è stato e cui continua a essere soggetto questo concetto. Per avere un intendimento chiaro di che cosa intenda Aristotele per intuizione, occorre allora lasciar da parte i significati che essa assume nella filosofia moderna, ad esempio in Kant, così come quelli derivanti dall’accostamento all’aggettivo «intellettuale», che dà vita all’intricato, qui intrattabile, concetto di «intuizione intellettuale». La parola greca, che noi traduciamo con intuizione, è nous.1 Questi verrà analizzato relativamente all’altro concetto, di cui risulta complementare, ovvero quello di scienza, nello specifico di scienza apodittica. L’articolo intende svilupparsi secondo i seguenti plessi tematici: in primo luogo, si dimostrerà la funzione dell’intuizione all’interno degli Analitici Posteriori di cogliere e i concetti universali e le definizioni; in secundis, sarà attestata l’analogia tra gli oggetti dell’intuizione nel De anima e negli Analitici Posteriori; successivamente, verrà tematizzato il rapporto tra intuizione e verità; in seguito, verrà chiarificata la natura proposizionale non apofantica della definizione; infine, forti dell’emersione del carattere processuale, non istantaneo, dell’intuizione, verrà illustrato in che modo essa possa fungere da fondamento della scienza, accogliendo in sé la possibilità dell’errore.

L’intuizione negli Analitici Posteriori

Si può affermare senza rischiare di risultare iperbolici che l’intuizione, all’interno del pensiero aristotelico, costituisca l’ubi consistam del sapere scientifico, la cui rigorosa e dettagliata esposizione appartiene agli Analitici Posteriori. Qui Aristotele presenta la sua teoria della conoscenza, dedicando il primo dei due libri dell’opera è composta all’analisi e alla determinazione delle caratteristiche fondamentali della scienza e del suo strumento principe, la dimostrazione, mentre il secondo principalmente al ruolo delle definizioni all’interno del processo dimostrativo e alla funzione del medio sillogistico. Durante la discussione dei vari argomenti, dell’intuizione viene fatta tangenzialmente menzione, senza che il filosofo si soffermi a spiegarne i requisiti. Giunti al capitolo conclusivo dell’intera trattazione, quasi ex abrupto, leggiamo le seguenti parole:

Ciò posto, e dato che i principi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d’altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i principi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i principi.2

Per comprendere il perché un principio di tale portata venga posto a tema solamente alla fine, occorrerà brevemente saggiare quanto Aristotele ha discusso nelle pagine precedenti la citazione. Egli afferma che il sapere si costituisce in quanto «conoscere mediante dimostrazione»,3 soggiungendo che, se vi sia la possibilità di considerarlo anche in un altro modo, sarà esaminato in un tempo successivo.4 La conoscenza dimostrativa, spiega, consiste nel costituirsi come di un sillogismo scientifico, le cui premesse - poiché trattasi non di un sillogismo qualunque, ma di quello che ha da essere scientifico - devono essere «vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori a essa e che siano causa di essa».5 Essa, dunque, per poter garantire che la conclusione delle sue operazioni sillogistiche possa rappresentare un risultato valido, stabile e vero, deve fondarsi su premesse che siano altrettanto stabili e vere. Queste ultime, inoltre, è necessario che siano «proposizioni prime, indimostrabili, poiché altrimenti non si avrebbe sapere, non possedendosi dimostrazione di esse».6 Si desume che le premesse della dimostrazione devono essere, oltre che vere, anche indimostrabili, non deducibili da premesse anteriori, poiché altrimenti si incorrerebbe nel pericolo di un regresso all’infinito che farebbe ipso facto naufragare qualunque possibilità di creare una base salda e ultima per l’edificazione di un autentico sapere scientifico. Le premesse possono essere suddivise in due tipologie: da un lato gli assiomi, dall’altro le tesi.7 I primi includono quei principi comuni a ogni scienza, sui quali si fonda la possibilità tanto della costituzione concettualmente sensata del principio stesso, quanto della costituzione ontologica dell’oggetto che la scienza assume, e questi principi sono: il principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso. Le tesi invece si articolano in ipotesi e definizioni.8 Ora, se riprendiamo il passo succitato, egli prima afferma che non c’è altro genere di conoscenza akribesteron, più esatta, dell’intuizione, puntualizzando subito dopo che non esiste un sapere più verace (alethēsteron) della scienza, se non il sapere intuitivo. Per comprendere la portata teoretica del termine alethēsteron, ossia più vero, dobbiamo anzitutto chiarire che cosa significhi per Aristotele vero e falso. Nella pagina inaugurale del De Interpretatione dichiara quanto segue:

D’altro canto, come nell’anima talvolta sussiste una nozione, che prescinde dal vero o dal falso, e talvolta invece sussiste qualcosa, cui spetta necessariamente o di essere vero o di essere falso, così avviene pure per quanto si trova nel suono della voce. In effetti, il falso ed il vero consistono nella congiunzione e nella separazione. In sé, i nomi ed i verbi assomigliano dunque alle nozioni, quando queste non siano congiunte a nulla né separate da nulla; essi sono ad esempio i termini: uomo, o: bianco, quando manchi una qualche precisazione, poiché in tal caso non sussiste ancora né falsità né verità.9

Verità e falsità, dunque, entrano in gioco quando a un soggetto si connette un predicato: nel caso del vero, ciò accade quando si attribuisce a un soggetto un predicato che gli conviene oppure quando si nega l’appartenenza di un predicato che non gli conviene; nel caso del falso, invece, si verifica l’opposto, ossia quando si assegna un predicato che non si confà al soggetto oppure quando si nega l’appartenenza di un predicato che gli conviene. Per quanto riguarda elementi linguistici privi di connessione predicativa, invece, ad esempio «bianco», non posso considerarlo né vero né falso, poiché ho meramente proferito la parola «bianco», senza porla in relazione con un soggetto. Se però dico che «Corisco è bianco», la mia affermazione diventa tacciabile di verità o falsità, poiché è possibile esaminare se ho detto qualcosa che corrisponde allo stato del soggetto (Corisco) cui ho fatto riferimento oppure no. La verità e la falsità risultano così appartenere alla sfera del discorso apofantico. Veduto ciò, dobbiamo allora domandarci: in che senso l’intuizione non solo è più esatta (akribesteron) del sapere scientifico, ma anche e soprattutto più vera (alethēsteron) di quest’ultimo? Se verità e falsità si costituiscono soltanto quando si è all’interno della dimensione apofantica e se l’intuizione ha da esser principio del sapere dimostrativo (che rientra all’interno del discorso apofantico), i principi che il nous avrà il compito di cogliere saranno pertanto esclusivamente le premesse della dimostrazione? La risposta che immediatamente sovverrebbe, stando a quanto veduto, dovrebbe essere affermativa, tuttavia vi è un passo che sembra mettere in discussione la correttezza della risposta. La prima parte del capitolo 19 (99b35-100b5) del libro II degli Analitici Posteriori - tralasciando le prime righe inziali in cui si ricapitolano i risultati ottenuti circa gli argomenti discussi lungo l’intera trattazione – è dedicata all’esposizione delle formazione dei concetti universali all’interno dell’anima. Questo processo parte dalla percezione, da cui si produce la memoria, dalla quale a sua volta, per il ripetersi del medesimo oggetto, si genera l’esperienza e da quest’ultima infine trae la scaturigine il principio dell’arte e della scienza. Insoddisfatto di questa spiegazione, Aristotele riformula il pensiero appena esposto, affermando che

quando un solo oggetto, cui non possono applicarsi differenze, si arresta in noi, allora per la prima volta si presenta nell’anima l’universale […]. Poi rispetto a questi oggetti si verifica in noi un ulteriore acquietarsi, sino a che nell’anima si arrestano gli oggetti che non hanno parte e gli universali.10

Siccome il processo genetico degli universali richiede che vi sia un principio che possa coglierli, se questo principio non può essere la scienza - poiché la scienza dimostrativa ha per suo oggetto le proposizioni apofantiche – allora sarà l’intuizione. Il nous sarà così incaricato di cogliere e le premesse della scienza dimostrativa e i concetti universali. Sulla duplicità degli oggetti dell’intuizione, nonostante talune diversità marginali sul piano esegetico, gli interpreti si sono rivelati pressoché concordi. Apostle e McKirahan, ad esempio, ritengono che oggetto proprio del nous siano le premesse della dimostrazione, mentre i concetti lo sono di conseguenza, in quanto i concetti rappresentano i costituenti universali delle premesse. McKirahan, a tal riguardo, riferisce che «for knowledge of universal connections presupposes knowledge of universal concepts; moreover it is reasonable for Aristotle to believe that we gain knowledge of universal concepts and connections in similar ways».11 Apostle, dal canto suo, in aggiunta afferma che

assuming that intuition is of that which is indemonstrable and is knowledge of what exists universally, intuition would be of axioms, of hypotheses, of definitions of elements assumed to exist, […] and of the elements in a definition, which are indefinable terms and concepts.12

Più precisa è, però, la posizione di Kahn, il quale sostiene che i principi devono essere contemporaneamente i generi relativi a ciascuna scienza (uomo, animale, etc.) e le definizioni che contengono questi generi.13 Merito di questa interpretazione è quello di aver creato un legame diretto tra concetti universali e premesse dimostrative, essendo queste ultime definizioni dei concetti che sono soggetti al processo dimostrativo, coerentemente con quanto sostenuto da Aristotele, il quale ha impiegato non poche pagine per mostrare la funzione dimostrativa delle definizioni.14 Fuori dal coro, invece, sul versante degli oppositori, troviamo da un lato Ross, la cui posizione però non può essere trattata, in quanto l’autore si limita ad affermare che il processo di apprensione degli universali è distinto da quello di acquisizione delle premesse, senza però approfondire né ulteriormente render ragione della sua posizione;15 dall’altro troviamo Perelmuter,16 il quale espone in maniera piuttosto suggestiva e articolata la seguente tesi: il nous ha la funzione di cogliere solamente i concetti, mentre ad acquisire le premesse della dimostrazione sarebbe deputata quell’episteme non apodittica a cui si fa cenno nel primo libro e in conclusione del secondo,17 e a cui abbiamo accennato all’inizio dell’articolo, riferendoci al passo in cui Aristotele si chiede se vi sia un modo di considerare il sapere differente da quello dimostrativo. Le argomentazioni di cui Perelmuter si serve possono essere riassunte nel modo seguente: 1) concetti e proposizioni sono due oggetti cognitivi radicalmente diversi (appellandosi alla distinzione presente nel De Interpretatione18 e nelle Categorie);19 2) nous e scienza sono stati cognitivi di natura differente, essendo il primo principio della seconda; 3) la scienza è discorsiva, mentre il nous è non-discorsivo, ratio in virtù della quale quest’ultimo non può perciò avere come oggetti propri le proposizioni, le quali sono invece oggetti composti. Da questi plessi argomentativi, Perelmuter ricava che il solo stato cognitivo che può acquisire le premesse della dimostrazione è il sapere non dimostrativo, e non invece l’intuizione. Nonostante le accattivanti analisi teoretiche e le altrettanto interessanti osservazioni filologiche, la tesi di Perelmuter non può essere ritenuta soddisfacente. Al fine di mostrarne le ragioni e corroborare l’esegesi che attribuisce al nous la duplice funzione suindicata, ossia di acquisire tanto i concetti quanto le definizioni, occorrerà rivolgere l’attenzione a quei luoghi nei quali Aristotele parla – talvolta in via del tutto brachilogica – dell’intuizione e dei suoi oggetti. Il primo sarà il De anima, nel quale viene presentata una disamina di natura psicologica del nous.

I semplici dell’anima

Nel libro terzo del De anima, Aristotele procede a esporre le sue indagini circa l’immaginazione e l’intuizione. Riprendendo le teorie dei suoi predecessori, ricorda come alcuni di loro – tra cui emergono i nomi di Empedocle e di Omero – ritenessero l’intuizione e l’intelligenza delle specie di percezioni, arrivando addirittura a identificarle. Egli confuta immediatamente questa teoria, negandone entrambe le possibili conseguenze, cioè sia che tutto ciò che appare ai sensi è vero sia che l’errore consiste nel contatto col dissimile, essendo stato definito precedentemente che l’intelligenza è del simile mediante il simile.20 Distingue poi l’intelligenza dalla percezione, avanzando una ragione di tipo estensionale: mentre della seconda partecipano tutti gli animali, della prima invece godono solo pochi animali. Subito dopo opera un distinguo tra la percezione e l’intuizione, affermando che «la percezione dei sensibili propri è sempre vera e appartiene a tutti gli animali, mentre si può pensare (dianoiesthai) anche falsamente, e il pensiero non si trova se non in chi è fornito di ragione».21 Poco più avanti, dopo aver delineato le caratteristiche generali dell’intuizione, definisce gli oggetti propri cui quest’ultima è diretta.

L’intuizione degli indivisibili riguarda le cose circa le quali non è possibile il falso. Nelle cose, invece, riguardo a cui sono possibili il vero e il falso, c’è già una sintesi di nozioni, le quali formano un’unità. […]. In effetti il falso ha luogo sempre nella sintesi, giacché, anche se si afferma che il bianco è non bianco, si è operata una combinazione di bianco e non bianco. Tutte queste operazioni si possono chiamare anche divisioni.22

Ritorna qui quel concetto che abbiamo indicato poc’anzi in riferimento al De Interpretatione secondo cui la coppia vero-falso si dà soltanto all’interno del discorso apofantico. Aristotele, però, nell’incipit del capitolo fa una preziosa precisazione, quando afferma che circa gli indivisibili (adiaireta) non è possibile il falso. Che cosa intende qui Aristotele quando parla di adiaireta? La delucidazione che fornisce recita:

Poiché l’indivisibile si dice in due sensi, o in potenza o in atto, nulla impedisce di pensare l’indivisibile quando si pensa la lunghezza (giacché essa è indivisa in atto) e ciò in un tempo indiviso, poiché il tempo è divisibile e indivisibile allo stesso modo della lunghezza.23

Il termine adiaireton, però, può significare sia indivisibile sia indiviso24 e il passo in questione non è subito perspicuo in merito agli oggetti cui Aristotele sta facendo riferimento. Egli, infatti, parla prima della lunghezza e del tempo, dopo del punto, per finire all’essenza e agli oggetti privi di materia. La difficoltà si dirada se si intende che il significato in cui va qui inteso adiaireta è di essere indivisibili o indivisi non in senso assoluto, bensì in relazione a un certo piano considerativo.25 Egli stesso, in chiusura del capitolo, lascia intendere che pone in questione gli adiaireta limitatamente alla costituzione del pensiero, collocandosi all’interno del rapporto tra categorie ed enunciati: mentre questi ultimi sono soggetti allo statuto normativo della verità predicativa e sono divisibili in elementi ulteriori (concetti universali), le categorie rappresentano il residuo ultimo e invalicabile del processo divisorio, non sottostante al senso predicativo della verità. Vi è, tuttavia, un’affermazione di Aristotele che pare assecondare la lettura di Perelmuter circa l’immediatezza non discorsiva del nous nell’atto apprensivo: «L’affermazione poi, come anche la negazione, è predicare qualcosa di qualcosa, ed è sempre vera o falsa. Questo non è invece sempre il caso dell’intuizione: quando ha per oggetto ciò che una cosa è secondo l’essenza, è vero, e non predica qualcosa di qualcosa».26 Il nous pare così distinguersi dalla sfera discorsiva, poiché mentre quest’ultima attribuisce un predicato a un soggetto, quello non predicherebbe alcunché, risultando perciò un atto immediato avente per oggetto qualcosa di altrettanto immediato. L’obiezione a questa apparente testimonianza a favore dell’interpretazione di Perlemuter sarà formulata subito dopo aver vagliato e reso più chiaro l’altro celebre brano in cui lo Stagirita si dedica all’analisi della verità e della falsità relativamente ai simplicia.

Nel capitolo dodicesimo del libro IX della Metafisica, Aristotele discute uno dei modi un cui si dicono l’essere e il non-essere, segnatamente secondo l’esser vero e l’esser falso. Dopo aver esaminato il senso in cui si dice sia l’esser vero sia l’esser falso per gli oggetti composti, per quelli che sono sempre uniti e inseparabili, per quelli che sono sempre disuniti e incongiungibili e per quelli che possono essere ora in un modo e ora in un altro, passa agli oggetti privi di composizione.27

E, nel caso degli esseri incomposti, in che cosa consiste l’essere o il non-essere e il vero e il falso? Infatti non si tratta di qualcosa di composto, nel qual caso l’essere si avrebbe quando esso fosse composto e il non-essere quando fosse diviso, come quando si dice che il legno è bianco e che la diagonale è incommensurabile. E, così, neppure il vero ed il falso potranno aver luogo nello stesso modo che per quegli esseri. In effetti, come il vero non è lo stesso negli esseri incomposti e negli esseri composti, così neppure l’essere è lo stesso nei due casi. Vero e falso negli esseri incomposti sono questo: il vero è il toccare28 e l’enunciare (enunciazione e affermazione, infatti, non sono la medesima cosa), mentre non coglierli significa non conoscerli. Sbagliarsi circa l’essenza non è possibile se non per accidente; e così non è possibile sbagliarsi circa le sostanze non composte. […] Dunque, intorno a tutto ciò che è essenza e atto, non è possibile essere in errore ed è solo possibile pensare e non pensare […]. E il vero consisterà semplicemente nel pensare questi esseri; mentre, al loro riguardo, non c’è falso e neppure inganno, ma solo ignoranza.29

Con queste parole Aristotele dischiude un secondo, nuovo, senso in cui intendere la verità e la falsità. Vero non è più ciò che è corrisponde alla struttura dell’oggetto intorno al quale viene formulato il giudizio, ma il cogliere l’oggetto, quasi come se lo toccassimo. Il ricorso al verbo thighein è stato foriero di una gamma vastissima di esegesi, che né possiamo né ci occorre riportare ai fini della realizzazione del nostro lavoro. Cercheremo pertanto di soffermarci sulla parentetica esplicativa che egli fa seguire, dove aggiunge che enunciare e affermare non significano lo stesso, con l’intento di venire in chiaro dell’aspetto apparentemente oscuro di questa distinzione. Abbiamo visto che per Aristotele non ogni proposizione corrisponde a un discorso apofantico: infatti, domandare, pregare, comandare, augurare, pur essendo discorsi - emissioni di suoni della voce dotati di significato – non possono essere annoverati tra i discorsi apofantici, poiché non mirano ad affermare o negare qualcosa di un oggetto. Ciò che provoca difficoltà e inspessisce l’oscurità del passo è la mancata indicazione da parte del filosofo di quali sarebbero, all’interno della sfera linguistica, quegli elementi incomposti che rifletterebbero la natura altrettanto incomposta dell’oggetto di riferimento. Tra i tipi di enunciati non soggetti alla struttura apofantica, che prima abbiamo elencato, abbiamo visto comparirne molti eterogenei tra di loro e proprio tale moltitudine rischierebbe di complicare il lavoro esegetico. È, però, Aristotele stesso a fornire un’implicita indicazione per trovare la soluzione, quando dice che circa l’essenza è impossibile sbagliarsi, se non accidentalmente. Gli oggetti semplici di cui l’autore dunque sta discutendo sono le essenze e le sostanze non composte.30 Questa precisazione viene in nostro soccorso e ci permette di identificare qual è il discorso non apofantico di riferimento che ha per oggetto le essenze: la definizione,31 la quale, com’è noto, consiste in un discorso cui è demandata la funzione di svelare l’essenza dell’ente singolo, del tode ti. Se però, a titolo esemplificativo, prendiamo il celeberrimo enunciato definitorio «l’uomo è un animale terrestre bipede», sorge spontaneo chiedersi: la definizione, a differenza delle preghiere, dei comandi e delle domande, non pare possedere una fisionomia che, almeno prima facie, è isomorfa a quelle delle proposizioni apofantiche? La risposta è certamente affermativa, ma con una doverosa quanto cruciale differenza, ossia che altro è definire, altro è predicare. In diversi luoghi Aristotele tiene a marcare questa distinzione: in De anima abbiamo visto che mentre l’affermazione e la negazione predicano qualcosa di qualcosa, risultando soggetti all’esser vero o all’esser falso, l’intuizione, quando ha di mira l’essenza, «è vera, e non predica qualcosa di qualcosa (corsivo mio)»;32 un altro luogo in cui ritroviamo una riflessione simile è negli Analitici Posteriori, dove leggiamo che mentre

Ogni dimostrazione prova qualcosa di qualcosa, ossia che è o non è questo qualcosa, nella definizione non si predica niente di qualcos’altro, per esempio né animale di bipede, né quest’ultima cosa di animale, e neppure figura di superficie: infatti la superficie non è una figura, né la figura è una superficie.33

Prerogativa del nous è dunque, all’interno dell’ordine linguistico, di cogliere le definizioni, cioè quei discorsi che dicono ciò che una cosa è; parimenti, nell’ordine ontologico, è deputato a intuire, toccare, la cosa stessa, la sua quidditas. Questo risultato ci permette così anche di riprendere l’obiezione che intendiamo muovere alla tesi di Perelmuter, secondo il quale, in virtù dello statuto privilegiato di cui il nous gode, derivante dall’essere in contatto diretto, immediato, con l’essenza della cosa che intuisce, la sua sarebbe un’operazione istantanea, fulminea, priva di qualsivoglia dimensione discorsiva. A tal proposito, egli afferma che:

The metaphor of touch is telling. It suggests that nous is a non-discursive cognitive state. Nous cannot be true or provide truth in the same sense that epistēmē is true or provides truth about , say, the Pythagorean Theorem. This is because episteme is "knowledge about" or "knowledge that", and as such it necessarily involves predication of concepts. Nous, on the other hand, has a direct contact with its objects. It can merely touch the given concept or miss it. If this is so, it follows that nous and epistēmē are radically different cognitive states: the former is non-discursive, the latter discursive.34

Questa posizione, nonostante le stimolanti argomentazioni proposte, non è sostenibile e ciò per due ragioni. La prima è che ciò che il nous giunge a intuire è il risultato di un’induzione, di una ricerca intorno alle cose particolari che si danno nella sensazione, è il fastigio di un processo zetetico. La seconda è che se il nous fosse deputato a cogliere esclusivamente i concetti semplici, universali, quali uomo, anima, etc, allora potrebbe davvero fungere da principio del principio? Sarebbe ancora possibile ritenere i principi tali, se invece scoprissimo che si tratta di universali che svolgono una funzione importante all’interno della conoscenza scientifica e che rappresentano una condizione necessaria, sebbene non ancora sufficiente per assicurare alla scienza una base e un fondamento sicuri e stabili? Se infatti il nous avesse il compito di afferrare concetti quali uomo, pianta, etc, vi dovrebbe essere un ulteriore abito cognitivo (exis) a cui spetterebbe di giungere all’individuazione delle definizioni corrette per le varie essenze che sono oggetto di volta in volta nei processi dimostrativi. E quale sarebbe questo abito? L’episteme dimostrativa, si è visto, non potrebbe essere l’esecutrice di questa funzione, poiché si cadrebbe in un regresso infinito, che deve essere evitato, se il sapere deve giungere a possedere un definitivo pou archimedeo. Sarà allora quella scienza non dimostrativa cui sommessamente e in maniera obliqua Aristotele fa segno nel corso dell’esposizione? E cosa potrà mai essere quella scienza anapodittica se non l’intuizione? Se, infatti, così non fosse, vi sarebbe un principio del principio del principio, giacché il nous (che Aristotele definisce principio del principio) avrebbe alle sue spalle un sapere superiore che avrebbe la capacità di individuare la sola e unica corretta definizione della sostanza, la quale a sua volta costituirebbe la premessa del sillogismo dimostrativo. L’intuizione perderebbe così il carattere di principio del principio e diverrebbe un abito deputato ad acquisire gli universali e la sua posizione precipua nel procedimento scientifico-dimostrativo dileguerebbe. Siccome, però, Aristotele afferma che non vi può essere niente né di più esatto né di più verace dell’intuizione, dovremo allora ritenere quest’ultima la disposizione detentrice del ruolo sia di cogliere gli universali sia le definizioni. E ciò è necessario anche perché la forma proposizionale è la sola che la premessa della dimostrazione sillogistica può assumere, sicché, in ragione di ciò, l’intuizione

può fungere – così come effettivamente funge – da principio della dimostrazione e dunque della scienza, fornendo per l’appunto gli enunciati primi che ne costituiscono le premesse: stante che per la dimostrazione ha importanza non il termine ma la mediazione dei termini.35

Si è così potuto dimostrare, contra Perelmuter, che l’intuizione è una disposizione cognitiva ordinata a cogliere tanto i concetti universali quanto le definizioni che contengono quei concetti. Aristotele, però, sottolinea come, riguardo alle cose semplici, l’intuizione sia sempre nel vero. Ciò significa che l’intuizione è infallibile?

Infallibilità dell’intuizione

È stato prima citato il complesso passo nel quale lo Stagirita afferma che circa le essenze e le sostanze incomposte non si dà possibilità di errore, fuorché accidentalmente. A tal proposito riteniamo utile affrontare brevemente quanto viene sostenuto da Butler a Rubenstein. Essi ritengono che il nous, per essere sempre verace, deve avere come oggetti soltanto enti semplici, privi di parti, essendo il suo un cogliere l’interezza dell’oggetto senza gradulità. Attraverso una lunga dimostrazione, mostrano come l’anima rientri tra le sostanze semplici in questione.36 Stando alla caratterizzazione che Aristotele dà dell’intuizione, asseriscono che non dovrebbe occorrere la possibilità di cadere in errore circa la definizione di anima (trattandosi di una sostanza semplice), cosa che invece – sottolineano gli autori – accade ad esempio a Platone, la cui definizione viene ripresa dallo Stagirita per attestare una parziale acquisizione dell’autentica natura dell’anima da parte del maestro e quindi al contempo il corrispettivo fallimento nel coglierne pienamente l’essenza.37 A riprova della loro tesi affermano che l’infallibilità del nous deriverebbe dalla semplicità dei suoi oggetti. Siccome, però, gli oggetti dell’intuizione non sono così semplici, ma risultano costituiti da quella che loro chiamano Weak Partlessness, ossia una semplicità che tuttavia contiene un molteplice, una semplicità impura, il nous non sarà messo al riparo dalla possibilità di sbagliarsi. La proposta avanzata dai due autori solleva una questione non di poco conto, perché mira direttamente al cuore della veracità di quanto l’intuizione riesce a cogliere. L’argomentazione addotta per suffragare la loro tesi, tuttavia, risulta insufficiente. Essi assumono che semplice sia ciò che è assolutamente privo di parti, di qualsiasi qualificazione, scambiando quel mē synthētas38 per qualcosa senza alcuna molteplicità. Invece, abbiamo visto come la definizione, che gode di un carattere unitario e al contempo complesso - poiché i suoi componenti danno vita a un’unità differente da quella della combinazione, ossia della synthēsis apofantica, risultando perciò mē synthētas – non è scevra di parti, anzi è lo stesso Aristotele a segnalare che la definizione è composta di parti,39 come lo è di conseguenza la sostanza che è l’oggetto rivelato dalla definizione. Nelle pagine precedenti è emerso che gli oggetti del nous sono sia i concetti universali sia le definizioni. Propriamente i soli concetti universali che possono essere annoverati tra i concetti privi di parti sono unicamente le categorie, in quanto non ulteriormente scomponibili. Si può provare, allora, a interpretare il passo della Metafisica in un altro modo. Quando Aristotele afferma che circa gli esseri incomposti non è possibile dire il falso, ma solamente non coglierli, sta cercando di mostrare che se i concetti universali, che dovrebbero sorgere nell’anima dopo il processo induttivo, non venissero colti, non si darebbe neppure la possibile del dire (phanai), poiché l’orizzonte discorsivo può instaurarsi solo a partire dall’esistenza di concetti da esprimere. Invece, riguardo le essenze, dichiara che è possibile sbagliarsi per accidente, poiché, sebbene la definizione non costituisca una dimensione apofantica (ragione per cui Aristotele dice che è possibile aptēthênai, e non pseudein, cioè dire il falso), l’ordine proposizionale richiede una sintesi, che non sarà la sintesi apofantica, nella quale si dà l’esser vero e l’esser falso come connessione e divisione, bensì una sintesi discorsiva, al cui interno, proprio perché si sta formulando un enunciato, si offre la possibilità di assegnare a una sostanza una definizione che non le si confà. A riprova di ciò, si può vedere come il libro secondo degli Analitici Posteriori sia un tentativo di cercare di rinvenire il metodo migliore, per assegnare la definizione corretta alla cosa, che continuamente rinvia alle ragioni che causano errori e fallimenti nell’attribuzione del discorso definitorio. Da tutto ciò cosa deriva per l’intuizione? Essa da un lato sarà principio garante della veracità delle cose non composte, espressamente i concetti e le categorie, dall’altro non sarà del tutto immune dall’errore, poiché nel processo discorsivo si dà la possibilità di assegnare a un ente un genere o una differenza specifica che non gli conviene, senza ricadere però nella falsità, bensì nell’errore.40 La fallibilità del nous, perciò, non dipende da una parziale semplicità dei suoi oggetti, ma al contrario dall’inesattezza delle operazioni discorsive realizzantesi mediante il processo di formulazione dell’espressione definitoria.

Conclusione

Abbiamo visto che l’intuizione in Aristotele riveste un ruolo di prim’ordine non solo per la formazione dei concetti universali, bensì anche per la formulazione delle espressioni definitorie. Essa è il vertice delle disposizioni cognitive preposte all’erezione dell’edificio del sapere scientifico. Si è cercato, nei limiti del possibile, di eliminare dall’immagine che si ha dell’intuizione qualunque rimando a una sua natura mistica, meta-logica, quasi che tra essa e il sapere scientifico vi sia una scissura che ne ripartisca e separi radicalmente gli ambiti. Inoltre, si è evinta una configurazione dell’intuizione non quale folgorazione istantanea, a-discorsiva, bensì al contrario processuale e discorsiva. L’esser riusciti a dimostrare che l’intuizione è deputata a cogliere tanto i concetti quanto le definizioni ha anche un secondo, più importante, significato. Se infatti non fosse il nous ad avere quali oggetti sia i concetti sia le definizioni, si è prima accennato, che dovrebbe esserci a sua volta un’ulteriore disposizione cognitiva in grado di fare questo e, in tal caso, gli scenari che si profilerebbero sarebbero due: o il nous avrebbe come oggetti i concetti, lasciando però prive di fondamento le definizioni, che costituiscono le premesse del sapere dimostrativo, oppure acquisirebbe le definizioni, lasciando senza una base ferma l’atto apprensivo dei concetti. Entrambi gli scenari, pertanto, provocherebbero una frattura interna al sapere scientifico e, quindi, al sapere tout court, vanificando qualunque tentativo di reperire un fondamento sicuro per il sapere. La soluzione che Aristotele riesce a conquistare, invece, gli permette di investire la medesima disposizione cognitiva del compito di non lasciare infondati né i concetti né le definizioni, ma a un prezzo, ossia includendo la possibilità che l’errore si annidi nel fondamento stesso del sapere. L’intuizione aristotelica sarà, dunque, un principio della conoscenza che garantisce la continuità tra la dimensione non proposizionale (concetti) e quella proposizionale (definizioni), privo di caratteri alogici e a-discorsivi, bensì intimamente e strutturalmente processuale, capace altresì di reperire delle fondamenta per l’edificio del sapere, fondamenta che però non saranno mai uno ktēma es aei, ma dovranno essere rimesse di volta in volta al vaglio dell’interrogazione critica, per verificarne la fondatezza, producendo l’immagine di un sapere scientifico che per Aristotele, piuttosto che essere compiuto e già determinato nella sua struttura basilare, è costitutivamente in fieri e imperfetto.


  1. Sulla corretta traduzione di questo concetto non vi è ancora comune accordo, poiché taluni lo rendono con intellezione, talaltri con intelligenza – basti confrontare la traduzione di nous adoperata da Colli nell’Organon e quella trascelta da Movia nel De anima. Il motivo per il quale abbiamo scelto di tradurre con intuizione si fonda sul fatto che l’intuizione, per quanto abbia oggetti differenti rispetto a quelli della percezione, i noēta per l’appunto, non può essere disgiunta e separata dalla dimensione percettiva, come si potrà mostrare quando si farà menzione del processo di formazione degli universali e di acquisizione dei principi. ↩︎

  2. Cfr. Aristotele, Analitici Posteriori, in Organon, tr. it. a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2003, 100b9-12. ↩︎

  3. Ivi, 71b17. ↩︎

  4. Ibidem↩︎

  5. Ibidem↩︎

  6. Ibidem↩︎

  7. Ivi, 72a15-18: «Orbene, tra i principi sillogistici immediati, chiamo tesi quello che non può venir dimostrato, né d’altro canto deve essere necessariamente posseduto da chi vuol apprendere qualcosa; chiamo invece assioma quel principio, che dev’essere necessariamente posseduto da chi vuol apprendere checchessia». ↩︎

  8. Ivi, 72a19-25: «Tra le tesi, poi, quella che stabilisce una qualsiasi delle due parti della contraddizione – con ciò intendo l’espressione, ad esempio: qualcosa è, oppure: qualcosa non è – risulta un’ipotesi, mentre quella che prescinde da ciò è un’espressione definitoria. In effetti, l’espressione definitoria è una tesi: chi conosce l’aritmetica pone invero, che l’unità sia ciò che è indivisibile secondo la quantità. Per contro, l’espressione definitoria non è un’ipotesi: dire che cos’è l’unità non equivale a dire che l’unità è». ↩︎

  9. Cfr. Aristotele, Dell’espressione, in Organon, tr. it. a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2003, 16a9-16. ↩︎

  10. Aristotele, cit. alla nt. 2, 100a16-100b2 . ↩︎

  11. R.D. McKirahan, Principles and Proofs, Princeton University Press, New Jersey 1992, p 247. ↩︎

  12. G.H. Apostle, Aristotle’s Posterior Analytics, Grinnell, 1981, p. 293. ↩︎

  13. C. H. Kahn, The Role of NOUS in the Cognition of First Principles in Posterior Analytics II, 19, in E. Berti (ed.), Aristotle on Science, Padova 1981, p. 382. Merito dell’autore è anche quello di dimostrare come propriamente a fungere da premesse vere della dimostrazione in Analitici Posteriori II, 2.19 possano essere solamente le definizioni (1981, pp. 388-393), in quanto ritenere che ipotesi e assiomi possano assurgere a premesse dell’apodissi deriva da una tendenza moderna a interpretare il pensiero scientifico di Aristotele attraverso una prospettiva geometrico-euclidea. ↩︎

  14. Aristotele, cit. alla nt. 2, 75b31-32; 90a35-93b20. ↩︎

  15. Ross, W. D., Aristotle’s Prior and Posterior Analytics, Clarendon Press, Oxford 1949, p. 675. ↩︎

  16. Z. Perelmuter, Nous and Two Kinds of Epistêmê in Aristotle’s Posterior Analytics, in Phronesis, 55, p. 247. ↩︎

  17. Aristotele, cit. alla nt. 2, 71b17; 99b24. ↩︎

  18. Aristotele, cit. alla nt. 9, 16a9-16). ↩︎

  19. Aristotele, Categorie, in Organon, tr. it. a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2003, 1a16-19. ↩︎

  20. Aristotele, L’anima, tr. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2018, 427b5. ↩︎

  21. Ivi, 427b15. ↩︎

  22. Ivi, 430a27-430b5. ↩︎

  23. Ivi, 430b7-10. ↩︎

  24. Cfr. Shields, De anima. Translated with an Introduction and Commentary, Clarendon Press, Oxford 2016, p. 330. ↩︎

  25. Ivi, p. 331: «In all likelihood Aristotle is concerned not with objects regarded as undivided or indivisible in absolute terms, but rather with objects which are undivided or indivisible relative to a domain. That is, something may appropriately be considered indivisible in one respect, but divisible in another. For example, when linguists speak of phonemes or morphemes as being indivisible or without parts, they mean only relative to the context of appraisal: these are the simplest, indivisible units of linguistic theory. We may say indifferently, and without any threat of incoherence, that a phoneme is an indivisible unit of sound and a morpheme an indivisible unit of meaning, even though either is, relative to a variety of different, non-linguistic frameworks, perfectly analysable into parts and so not simple». ↩︎

  26. Aristotele, cit. alla nt. 20, 430b26-29. ↩︎

  27. S. Makin, Aristotle Metaphysics Book Theta. Translated with an Introduction and Commentary, Clarendon Press, Oxford 2006, p. 243. ↩︎

  28. Nella versione di Reale thighein viene tradotto con intuire, ma siccome intuire è stato finora identificato quale traduzione di noein, preferiamo modificare la resa in italiano, poiché sia lessicalmente sia semanticamente più adeguata al senso generale del passo in esame. ↩︎

  29. Cfr. Aristotele, Metafisica, tr. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2004, 1051b17-1052a1. ↩︎

  30. Intorno a questo plesso tematico cfr. S. Makin, cit. alla nt. 27, pp. 247 e sgg. ↩︎

  31. Aristotele, cit. alla nt. 2, 90b3–4; 93b29; 94a 11–14; cfr. Anche Aristotele, cit. alla nt. 29, 1016 a 32-35. ↩︎

  32. Aristotele cit. alla nt. 20, 430b26-29. ↩︎

  33. Aristotele cit. alla nt. 2, 90b34-38. ↩︎

  34. Cfr. Z. Perelmuter cit. alla nt. 16, p. 247. ↩︎

  35. M. Zanatta (a cura di) 1996, Organon, UTET, Torino 1996, pp. 40-41. ↩︎

  36. T. Butler, E. Rubenstein, «Aristotle on Nous of Simples», in Canadian Journal of Philosophy, 34, 2004, pp. 334. ↩︎

  37. Ivi, pp. 342-345. ↩︎

  38. Cfr. Aristotele, cit. alla nt. 29, 1051b27. ↩︎

  39. Cfr. Aristotele, cit. alla nt. 29, 1023b24; 1034b20-1038a35. ↩︎

  40. A tal riguardo, riteniamo sia ancora la spiegazione più chiara quella offerta da Tommaso, in Id., In duodecim libros metaphysicorum Aritotelis expositio , editio iam a M.-R. Cathala exarata retractatur cura et studio Raymundi M. Spiazzi, Marietti, Romae 1950, p. 457: «Videbatur autem, quod sicut dixerat, quod attingere simplicia est dicere verum in eis, ita non attingere est falsum, aut decipi. Hoc autem non dixit, sed dixit quod non attingere est ignorare; et ideo subdit causam, quare non attingere non est decipi; dicens, quod circa quod quid est non est decipi; nisi secundum accidens. Quod sic intelligendum est.Dictum est enim superius in septimo et in octavo, quod in substantiis simplicibus idem est res, et quod quid est eius. Sic igitur cum substantia simplex sit ipsum quod quid est, idem iudicium est de cognitione substantiae simplicis, et de cognitione eius quod quid est. Sed circa quod quid est non decipitur intellectus nisi per accidens: aut enim per intellectum attingit aliquis quod quid est rei, et tunc vere cognoscit quid est res; aut non attingit, et tunc non apprehendit rem illam. Unde circa eam non verificatur neque decipitur. Propter quod dicit Aristoteles in tertio de anima, quod sicut sensus circa propria obiecta semper est verus, ita intellectus circa quod quid est, quasi circa proprium obiectum. Et quod intellectus circa quod quid est non decipiatur, non solum est in simplicibus substantiis, sed etiam in compositis. Quomodo autem per accidens decipiatur aliquis circa quod quid est, considerandum est. Non enim decipitur quis circa quod quid est, nisi componendo, aut dividendo. Quod quidem in substantiis compositis contingit dupliciter. Uno modo per compositionem definitionis ad rem definitam, aut divisionem. Ut si aliquis diceret: asinum esse animal rationale mortale; aut: homo non est animal rationale mortale, utrobique falsum est. Alio modo secundum quod definitio constituitur ex partibus, quae non sunt invicem componibiles: ut si quis assignaret hanc definitionem, homo est animal insensibile. Primo igitur modo definitio dicitur esse falsa, quia non est huius. Secundo modo dicitur esse falsa per se, ut supra in quinto docuit philosophus. In simplicibus vero substantiis non potest esse deceptio circa quod quid est per accidens nisi primo modo: non enim eorum quod quid est, est compositum ex pluribus, circa quorum compositionem vel divisionem possit accidere falsum.Et omnes adaptat quod dixerat de substantiis simplicibus ad principale propositum: scilicet ad ostendendum quod verum magis est actu quam in potentia. Ostenderat quidem hoc circa composita, pro eo quod verum est circa compositionem et divisionem, quae actum designant: in substantiis vero simplicibus ex eo quod non est in eis falsum, sed tantum verum. Propter quod non sunt in potentia, sed in actu». ↩︎