Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica, Milano, Mondadori, 2008, pp. 196.
La storia non ci sta risparmiando interrogativi. Ieri, interni alle mura di quel che fu il presunto (e a volte presuntuoso) «Mondo libero», e dal 2001 ad oggi a livello planetario. Perfino il placido Mare Nostrum è tornato a ribollire, mentre l’Unione Europea si mostra sempre più indecisa (quando non addirittura sfacciatamente impreparata) nell’affrontare sfide che, nell’affermazione di uno Stato unitario, sono di capitale importanza.
Torna utile, allora, rileggere i tre corposi capitoli, preceduti da una lettera di papa Benedetto XVI, che Marcello Pera ha mandato in stampa qualche anno fa col titolo di Perché dobbiamo dirci cristiani. Lavoro che, riprendendo Croce (anche se marginalmente), si oppone all’apostasia del cristianesimo di cui ormai ci si farebbe vanto in Europa. Un’opposizione che, partendo dalla condizione «del laico e liberale che si rivolge al cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza [vuole] riaffermare una fede (altra espressione appropriata non c’è) in valori e princìpi che caratterizzano la nostra civiltà» (pp. 4-5).
L’analisi prende avvio dalla questione su cosa sia il «liberalismo», il quale, peraltro, non godrebbe di buona salute (difficile dar torto a Pera): se mai è esistita una stagione in cui, e nella pratica e nella teoria, il liberalismo abbia mostrato una sola sfaccettatura, questa non è proprio la nostra. E tuttavia, nonostante quella che Pera definisce una vera e propria «crisi», i liberali di ogni epoca e specie si sono trovati a concordare sul fatto che 1) gli uomini sono liberi e uguali per natura, e che 2) uguaglianza e libertà sono antecedenti all’uomo e alle strutture sociali nate per garantirle.
Proprio su quest’ultimo punto la tesi di Pera sarebbe da discutere. Dal liberalismo di Croce all’interpretazione di Gentile, maturata all’interno di una revisione del liberalismo che si imponeva in Italia e non solo, e non escludendo il pensiero di Luigi Sturzo, l’aspetto comunitario ha una sua rilevanza. La polis è il luogo dove si danno le garanzie della persona, perché la persona, innanzi tutto, non è una monade. Ovviamente, non è neppure totalmente aperta alla sintesi con l’altro, ma senza di questi sarebbe mero individuo, e l’individuo imporrebbe di spiegare la nascita dello spazio intersoggettivo.
Ciò non significa, tuttavia, che la tesi esposta da Pera non sia ben giustificata. Significa, invece, che proprio partendo da una interpretazione più ampia del liberalismo, lo scopo finale sarebbe stato raggiunto con più facilità.
Ad ogni modo, secondo l’ex presidente del Senato italiano la storia si è mostrata alquanto restia a confermare quest’ottimismo di fondo, e la religione non solo non si è piegata ai costrutti politici, ma a volte è stata anche motivo di divisione (ovviamente, verrebbe da dire: proprio perché il liberalismo, così ricostruito, non tiene conto della dimensione comunitaria).
A far quadrare i conti, dunque, ci si sono messi — possiamo dire — contabili di tutto rispetto come Rawls con la sua «autosufficienza del liberalismo»; Habermas col suo «patriottismo costituzionale», e Rorty che, tanto per non indugiare troppo, ha proposto di eliminare uno degli addendi, cioè la religione, dal libro mastro della sfera pubblica.
Passando in rassegna le varie «equazioni» — da quella negativa, secondo la quale lo stato liberale è laico, nel senso che non è giustificato secondo credenze religiose; a quella per cui lo stato liberale includerebbe la religione nella sfera privata (si chiede Pera: chi è autorizzato a tracciare il confine tra pubblico e privato? Si può chiedere di dismettere la fede come si fa con un abito? Ma ci sarebbe anche da chiedersi: come si può dicotomizzare la vita del concreto individuo, che va a messa e va poi a votare?) — giunge all’«equazione laica» che vuole lo Stato fondato su termini, se non opposti, quanto meno diversi dalla fede: lo Stato liberale così, pur di non abbracciare la fede dei Padri del liberalismo, finisce per sposare la religione della laicità, che non è proprio quello che volevano Locke, Kant, Jefferson.
Eppure questa laicità, che dovrebbe essere il collante minimo dell’Unione e sulla base della quale si sono scritti i trattati e le bozze della costituzione europea, non infiamma i cuori degli europei: Pera traccia i vari fallimenti di questo cammino nel secondo capitolo. Quindi, l’analisi continua affermando che non solo nessuno sa chi siano gli europei, ma neppure come si faccia l’Europa. È quello che nel libro viene definito come paradosso dell’identità europea: «poiché i “princìpi” e i “valori indivisibili e universali” di cui parla la Carta trascendono, per definizione, qualunque collocazione storico-geografica, e poiché i diritti che discendono da tali princìpi e valori si riferiscono agli individui in quanto individui, cioè indipendentemente dal loro essere cittadini di questo o quello Stato, ne consegue che la Carta europea, in quanto basata su princìpi, valori e diritti universali, è una carta cosmopolita, cioè ha come referente l’intera umanità» (p. 77).
Il problema nasce, però, non dal fatto che manchino idee concrete sull’identità, ma che ne manchino su come giustificarne una piuttosto che un’altra: è stato abolito, in Europa, il comparativo di maggioranza: «migliore di…» non si può più dire, è politically uncorrect. Contro di esso hanno lanciato i loro strali il relativismo ormai dominante e il multiculturalismo, che ne è la versione pratica e sociale. Non possiamo giudicare, perché ogni cosa ha la sua cornice, e si giustifica solo all’interno di questa. Siamo passati, nota Pera, dall’universalismo kantiano al relativismo culturale (ma non si tratta forse di storicismo?) dei vari Hegel, Harmann, Jacobi, Heder, per finire — meglio, per schiantarci contro il soggettivismo, lo scetticismo, il nichilismo e il decostruzionismo di stile nicciano. Ma se due dottrine non si possono comparare, non si può dire neppure che siano uguali. E allora in base a cosa scegliamo? In base a quello che più ci aggrada: il resto del mondo deve accodarsi. E così l’universalismo individuale di Kant, che faceva nascere la legge universale dalla persona concreta, è stato prima soppiantato dall’individualismo utilitarista di Stuart Mill, e questo, a sua volta, dal prometeico andazzo dei nostri giorni, che si esprime secondo i suoi comandamenti: «a) Non esiste alcuna legge morale universale, né religiosa né laica. b) Nel mondo liberale (occidentale), vale il principio del rispetto delle libere scelte di valore degli individui», i quali però li fanno valere anche nella sfera pubblica, perché è allo Stato — uno Stato divenuto sempre più paternalistico — che chiedono il riconoscimento dei loro orientamenti sessuali o della loro concezione circa la vita e la morte. A questo punto verrebbe da opporre la questione prima esposta: un liberalismo più comunitario, non sarebbe una risposta più fondata? Se il fondamento è rappresentato dalla libertà individuale, e non da quella che ci permettiamo di definire personale, come opporre poi validi argomenti a chi vede lo Stato come entità distinta da sé e chiede all’altro di accomodarsi alle sue inclinazioni?
Per Pera il multiculturalismo non è una risposta alle sfide dell’attuale società globalizzata, e tanto meno un modo per integrare meglio le altre culture nella nostra, soprattutto quella islamica. L’Europa che ha concesso più di quanto fosse lecito concedere ad usi e costumi non autoctoni, non li ha menomamente integrati, anzi. Londra è piena di ghetti, le banlieue francesi sono andate in fiamme, e nei Paesi Bassi ci sono quartieri dove si è tentato di introdurre la legge islamica (sharia): non abbiamo creato una sola comunità, ma tante piccole comunità, che prima o poi entrano in conflitto. «Concedere o non concedere diritti di gruppo dipende dalla qualità dei diritti richiesti, dalla loro conformità ai diritti fondamentali garantiti ai cittadini nella società ampia. Se i gruppi rispettano i diritti fondamentali, quei costumi sono ammessi, se no sono banditi. Nella società liberale, primari sono gli individui, non la società […] per i liberali, vale la regola che violare i diritti fondamentali è sempre una violazione sull’uomo, mentre violare diritti di gruppo è talvolta una promozione dell’uomo» (p. 117).
Ma se la tradizione europea è stata forgiata dal cristianesimo, accettare questa tradizione significa convertirsi? «La risposta è: una conversione religiosa no, una conversione civile sì» (p. 121).
Qui sta il grande merito, ma anche la profonda contraddizione dell’analisi di Pera. Con buona pace di chi ha bollato questo argomentare come «ateismo devoto», non possiamo rimescolare le carte della nostra partita: nella formazione di ogni individuo, nel suo farsi persona, nel suo universalizzarsi sempre più, entra in gioco — in un gioco dialettico — l’esperienza di milioni di uomini, vissuti prima di ciascuno di noi, che si è fatta istituzione, diritto, filosofia, educazione. Sia o no Gesù di Nazareth il «Figlio del Dio vivente», la sua esperienza storica e la sua dottrina hanno influito enormemente su uno spazio geografico ben preciso definito Europa. Uno spazio in cui milioni di uomini hanno interagito, scambiandosi vicendevolmente la loro esperienza di vita.
Non sappiamo cosa saremmo stati senza cristianesimo, e forse, come già insegnava Ricœur, non ha neppure senso chiederselo. Chi accetta la nostra storia non si converte al suo motore, ma si inserisce nel suo flusso. «Sta a lui l’onore di tradurre i contenuti di quella Carta [in questo caso, quella di Nizza del 2000, ma ciò vale per qualsiasi altra carta costituzionale] nel vocabolario della propria cultura di origine, o questa in quella». Traduzione, dunque. Eppure, quando Pera ha affrontato la «clausola condizionale» di Rawls e la «riserva istituzionale di traduzione» di Habermas, due modi di ammorbidire «l’equazione laica» permettendo di tradurre in linguaggio razionale le proposte della fede (p. 29), non è parso assai convinto di questa possibilità, e ciò malgrado il cristianesimo — il cattolicesimo in modo particolare — si presti a questa soluzione.
Dall’opera appare chiaro, seppur l’autore non giunga ad esplicitare questa tesi, che contro la religione dei «Padri» è in corso una feroce guerra, il cui fine non è quello di negare ai cristiani il loro diritto di essere «chiesa»¸ né a quella di Roma di avere un proprio corpo dottrinale. Questo sarebbe, in fin dei conti, un bieco anticlericalismo già sperimentato, e già superato nei settori più smaliziati della cultura cosiddetta «alta».
La vera guerra la si muove contro la pretesa della «Chiesa» di dire la verità in campo politico come economico, antropologico come metafisico. Una pretesa che, se fosse avanzata secondo i pur legittimi schemi del fideismo, non susciterebbe tanto clamore né la mole di pubblicazioni apologetiche di un ateismo peraltro a volte grossolano. È che il secolarismo dogmatico si sente minacciato proprio in quella conquista che dà la cifra della sua esperienza: non potendo annichilire il Fondamento, ha preferito svuotare di senso l’esperienza che l’uomo ne fa. Non è un caso che la «morte di Dio» è un «evento» che giunge a coscienza solo dopo l’«annuncio» del profeta Zarathustra. La ragione umana, in questo caso, è usata nella sua polarità negativa: non costruisce, bensì de-costruisce. E, nel de-costruire, cancella la fitta rete di legami intersoggettivi da essa già creati. Eppure, nessun «annuncio», quale che ne sia il contenuto, anche il più de-costruttivo, può di fatto giungere ad annientare le strutture semantiche che ne garantiscano la comprensibilità e, in ultima analisi, lo spazio della sua accoglienza. Su questa contraddizione interna ha giocato Joseph Ratzinger, da pontefice della Chiesa, in due suoi contestatissimi, quanto efficaci discorsi: quello di Ratisbona, il 12 settembre del 2006, e quello — mai potuto pronunciare — della Sapienza, il 16 gennaio del 2008.
Pera ha piena coscienza delle profonde contraddizioni vissute oggi dall’Occidente, ed ha anche chiare alcuni soluzioni. Ma non tutto risulta ben fondato: p. e., lo spazio comunitario reclamato dalle culture immigrate non può essere considerato, in via di principio, meno importante di quello in cui si innesta. Non esistono, infine, culture e spazi storico-geografici, ma uomini in carne ed ossa che interagiscono. Davanti a tutto questo, non possiamo rivendicare la libertà dell’individuo in un capitolo, e passare allo scontro di spazi nel secondo. E nel terzo non possiamo rivalutare quei ponti della ragione, che nel primo avevamo considerato meno importanti di una mitologica (se non ben analizzata) dimensione storico-culturale data.
Se, poi, l’assunto è che il Cristianesimo ha costruito il nostro mondo perché la sua «rivoluzione» (giuste le parole di Croce) ha condotto alla libertà individuale, mentre nessun’altra religione potrà mai farlo (e ben che meno l’Islam), ciò non appare ben giustificato. Nessuno potrebbe escludere, allora, che le derive di oggi non siano conseguenze (per quanto assurde) di quella «rivoluzione cristiana», e dunque semi piantati già al delimitarsi dell’orto, che ora appare appestato dalla gramigna. Né, una volta trasformata la dimensione individuale in sociale, si vede perché quella altrui non possa godere del medesimo riconoscimento.
Sono, questi, nodi che Pera non può sciogliere, perché mentre ha ben capito che il problema è rappresentato da un certo liberalismo, dall’altro non riesce completamente ad affrancarsi dalla propria formazione. Che non gli fa vedere, innanzi tutto, un altro liberalismo. E, inoltre, non gli fa trovare l’unico perno su cui avrebbe potuto poggiare molte delle sue pur condivisibili intuizioni: la persona.