And who slept with eternity? Eternity is scarcely found Until we’re underneath the ground Where thudding hooves will seldom sound. (E chi ha dormito con l’eternità? Non la si trova mai l’eternità Finché non si riposa sottoterra Dove il tonfo degli zoccoli raramente risuonerà) — Ernest Hemingway, Across the Board
I do not think about me at all any more (Non penso più a me, nel modo più assoluto) — Ernest Hemingway, Poem to Mary (second poem)
Nel momento che si affrontano i romanzi di uno scrittore noto come Ernest Hemingway uno degli elementi che per primi saltano all’attenzione riguarda la fitta descrittività che farcisce le migliaia di pagine stese dall’autore. Non si tratta di descrizione alla Thomas Mann, ovvero non d’eccessivo ed ossessivo particolarismo del quotidiano sino alla sua dissoluzione; l’attenzione dell’americano è rivolta alla descrizione di ciò che gli accade intorno, che accade proprio attorno a lui, comunque nel tentativo di tracciarne le linee essenziali. È stato più volte constatato che il fare hemingwayano si genera direttamente dalla sua formazione giornalistica; quella di riportare degli accadimenti è una debolezza che lo scrittore non tralascerà mai. Ogni suo libro, a partire dal primo successo, Fiesta, non dimentica di descrivere delle situazioni particolari, nel senso che sono di quella gente, usi e costumi, modi di dire, di comportarsi che sono di quelle persone. In Fiesta (1926) sono gli spagnoli ad essere osservati, sua grande passione, ma più precisamente i baschi, ed ancor più precisamente una loro festa tradizionale, quella di San Fermín. Il romanzo permette al lettore di figurarsi le celebrazioni delle festa come se vi avesse assistito: viene descritto come, ogni mattina per sette giorni, vengono liberati i tori per le vie transennate di Pamplona, e questi convogliati verso un’arena prontamente allestita per lo spettacolo finale; come alcuni temerari del paese usino «scortare» i tori lungo il tragitto correndo dinanzi alle corna affilate; come poi il toro venga mattato attraverso un rito che si ripete ad ogni corrida (gli ossequi del matador alla tribuna centrale del Presidente, la consegna della spada vincitrice a questi al termine della corrida, la folla indemoniata che non cede pietà ad atteggiamenti pavidi sul campo, il modo di finire il toro con una sferzata precisa alla base dell’attacco delle corna, ecc.). Il tutto farcito da termini propri, muleta, barrera, novillero, quite, picador. In mezzo a queste descrizioni Hemingway ci fa sapere che gli spagnoli sono soliti al contatto fisico sin nel dialogo formale, come per provare la tua appartenenza alla loro sfera: «Per qualche motivo davano per scontato che un americano non potesse avere afición. Poteva simularla o confonderla con l’eccitazione, ma non averla realmente. Quando poi vedevano che io avevo afición, e non ci volevano parole chiave né domande prestabilite per scoprirlo, ma piuttosto una sorta di esame spirituale orale con domande fatte sempre un po’ sulla difensiva e mai esplicite, c’era sempre quell’imbarazzato mettermi una mano sulla spalla o un “Buen hombre”. Ma quasi sempre il contatto fisico. Sembrava che sentissero il bisogno di toccarti per esserne sicuri».1 Ci fa sapere che in Spagna, a differenza che in Francia dove si ha una solida base (economica) sempre, «non sei mai sicuro di niente»,2 e via dicendo.
In Addio alle armi (1929) sono gli italiani ad essere osservati, e così veniamo a sapere che negli Abruzzi i contadini chiamano tutti «Don» e che quando salutano si tolgono il cappello, che sono molto ospitali e che suonano il flauto, ma è proibito farlo di notte «perché alle ragazze non faceva bene udire il flauto di notte»;3 sappiamo che gli italiani, per misurare la febbre, usano mettere il termometro sotto l’ascella a differenza degli anglosassoni che lo mettono in bocca; che gli italiani sono molto cerimoniosi, che usano quasi tutti la bicicletta; che la pianura veneta «è una campagna piatta e monotona e sotto la pioggia è ancora più piana»,4 mentre quella lombarda, irrorata di pioggia, è triste. Un tenente italiano, analizzando un suo collega americano, protagonista del romanzo, gli dice: «in realtà sei un italiano. Tutto fuoco e fumo e niente dentro».5 Ma Addio alle armi è un libro sulla guerra, una sorta di prontuario di come ci si comporta in situazioni belliche e di cosa comporta essere in guerra. Quando lo si è in un paese straniero è molto più semplice prendere delle decisioni, si è meno «emotivati», mentre nel proprio paese «non si può agire in modo molto scientifico».6 Durante una ritirata, e qui in specifico è descritta quella di Caporetto, motivo che costò la messa al bando del libro nel periodo fascista, insieme all’esercito si crea un esodo di civili e bisogna prestare maggiore attenzione ai propri fucili che a quelli nemici perché le linee interne non sanno mai chi gli si può presentare di fronte. Quando una città viene occupata dalle truppe nemiche non è del tutto un male perché almeno si ha la sicurezza che non vi saranno dei bombardamenti se non su precisi obiettivi militari. A Milano, durante la guerra di fronte, i giovani in borghese venivano guardati male come possibili vigliacchi o disertori.
Hemingway non fa altro che vivere le situazioni, registrarle e riportarle, a partire dalle sensazioni che tali dati possono suscitare. Non è essenziale riportare ciò che lo spagnolo o l’italiano fanno in date situazioni (feste, campagne, guerre, banchetti, cure, ecc.), ma anche cercare di capire che cosa significhi essere spagnolo o italiano. Hemingway, oltre a descrivere, giudica ed interpreta. E l’occhio che annota è quasi sempre esterno. In questo senso, Hemingway si discosta, letterariamente, dalla tradizione europea di stampo intimista che fece la sua apparizione massiccia sul volgere del secolo. Quella letteratura allo specchio che in Italia venne inaugurata da Svevo, che in Francia avvampò proprio negli anni di permanenza dello scrittore americano, non trova spazio tra le pagine di Hemingway protratte all’inseguimento della massima oggettività, dichiarata manifestamente nelle Verdi colline d’Africa (1935) dove «l’autore ha cercato di scrivere un libro completamente vero per vedere se il profilo di una regione e l’esempio di un mese di vita descritti con fedeltà possano competere con un’opera di fantasia».7 Gli unici momenti intimisti dei primi due romanzi si risolvono nell’annotazione che il protagonista teme la notte perché nel buio non riesce ad avere lo stesso lucido controllo su di sé di quanto avvenga alla luce del sole. Non una parola di più.
Nel 1923 Hemingway pubblica sul Toronto Star Weekly, il giornale per il quale lavorava come inviato, due poesie, una sugli americani (I like Americans) e una sui canadesi (I like Canadians), firmandosi by a Foreigner. In verità egli conosce entrambe le società, è sia americano (per nascita) che canadese (per formazione professionale); ugualmente si distoglie perché il suo interesse, burlesco e scanzonato se si vuole, sta nel guardare alle cose con occhio straniero. Egli analizza usi e costumi e comportamenti americani come se fosse canadese, e viceversa modi canadesi come se fosse americano, e riporta notizie con sincera prassi giornalistica e, si potrebbe dire, turistica. Leggere Hemingway prepara ad affrontare quel dato paese e quella data cultura, allo stesso modo di quel che si potrebbe leggere in una rivista turistica. È un collezionista di piatti dati e nozioni col chiaro intento dell’utilità pratica e letteraria, ovvero un’utilità asservita al conoscere chi e cosa si ha di fronte e asservita al fare letterario (scherzo, sarcasmo, critica, ecc.). Così egli ci dice che i canadesi in tram non cedono il posto alle signore, che il Canada è pieno di sale da tè ma mancano i cabaret; che è difficile imbrogliare un americano sull’Europa perché ci sono già stati; che non impiccano le assassine perché le mettono nel vaudeville; che gli americani quando fanno soldi ne fanno tanti; che in Canada è difficile arricchirsi ma facile vivere bene. Altrove veniamo informati che «i giapponesi sono un popolo straordinario che ama la danza e i vini leggeri».8
La condizione straniera è quella di Robert Jordan, volontario americano combattente con i guerrilleros sulle alture attorno a Madrid, protagonista di Per chi suona la campana (1940) dove considerazioni e pensieri sulla guerra e sul coraggio si spendono copiosamente. Contando che per Hemingway la situazione bellica è uno status del vivere quotidiano, nella quale sopravvivere, e sopravvivere nel migliore dei modi, è lo scopo supremo dell’esserci, rovistando tra le pagine si riesce a trovare una frase che riassume la visione aliena che è poetica letteraria e condizione dell’interagire sociale al contempo: «l’importante è di riuscire a vedere le cose con gli occhi degli altri, a sbarazzarsi del proprio io, come si deve far perpetuamente in guerra. In una guerra non ci può essere io. L’io c’è solo per perderlo».9 Il protagonista del romanzo si costringe a questa legge, lui americano per volontà in terra di Spagna, e di nuovo tornano le annotazioni sulla popolazione iberica, come metro di raffronto, con giudizio anche, per non smarrirsi nel labirinto della propria intimità che può essere identità che richiama se stessa. Il raffronto con l’altro è confronto con la diversità che si deve attuare sempre e comunque. In America uomini e donne mangiano assieme; tra i contadini madrileni le donne si siedono a tavola una volta che gli uomini hanno consumato il pasto, e nel frattempo devono servirli. E costume spagnolo è mangiare tutti dallo stesso tegame, in silenzio. Poi ci sono considerazioni sulla lingua, specchio dello spirito: «la parola aburrimiento che in spagnuolo significa noia, nessun contadino in nessuna parte del mondo l’avrebbe adoperata. Ma in bocca a uno spagnuolo, di qualunque classe, è una delle parole più usate».10 In linea, il francese è la lingua dei diplomatici, lo spagnuolo è la lingua dei burocratici; e tra le lingue più conosciute quella tedesca è la più spaventosa: tot è il più morto di tutti, rispetto a mort, muerto, dead; Krieg esprime la crudezza della guerra, altrimenti meno guerra, guerre o war. Vengono riportati detti popolari come «Hay que tomar la muerte como si fuera aspirina» che significa «Devi prendere la morte come un’aspirina». E lo spagnolo quando saluta lo fa in un modo tutto suo, «con quel brusco scattare il braccio verso l’alto come per buttare qualche cosa»; e a seguire il giudizio sul saluto, «che sembra la negazione di ogni saluto che meriti questo nome».11 Infine si trovano degli accorgimenti per chi mai volesse avventurarsi tra le popolazioni di lingua spagnola: egli sappia che vi sono «due regole che conviene osservare quando si vuole andare d’accordo con la gente di lingua spagnola: dar tabacco agli uomini e lasciare in pace le donne».12 E chi volesse approdare a Madrid tenga conto che la neve in maggio non è una rarità, «a Madrid, a maggio, qualche volta fa più freddo che in qualunque altro mese»; ma anche più caldo, «maggio è il mese dei grandi contrasti di temperatura […] Qui in Castiglia, maggio è il mese dei grandi calori, ma può anche portare molto freddo».13
Ne risulta un profilo della Spagna, degli spagnoli e della lingua loro che si fatica a non credere vero. Quindi questi latini sono un popolo burbero, grezzo, socialmente arretrato, maschilista; ma «che popolo meraviglioso!… Non c’è al mondo popolo migliore e peggiore, più buono e più crudele».14 La Spagna tutta è come il mese di maggio nella Castiglia. «E chi li capisce?», si domanda Jordan-Hemingway, rispondendosi immediatamente «Non io, sennò perdonerei tutto. Capire è perdonare».15
Il rischio è alto. Nella guerra perpetua che è questo nostro transitare comprendere l’altro, che è sempre e comunque un nemico, significherebbe perdonarlo, e ciò non è possibile, non è ammissibile. L’occhio deve rimanere esterno e la mente deve lavorare sull’evidenza dei fatti. È un bisogno di sopravvivenza. Ma lo stesso Hemingway, subito dopo aver asserito che capire è perdonare, giocando con le parole e coi significati, attesta che «non è vero. L’importanza del perdono è stata esagerata», divenire l’altro non può far perdere la coscienza del sé, e del sé scisso dall’altro. Fernanda Pivano, scrivendo dell’autore americano e dell’idea dell’amore che prende forma nelle sue pagine, ha detto che amare vuol dire tramutarsi nella persona amata sino a fondersi, divenire un tutt’uno amante, amare non la persona ma l’amore per la persona, e se anche l’altro agisce ugualmente ci si ama nell’amore. Così è per la Maria di Per chi suona la campana, così è per la Barkley di Addio alle armi. In The Sea in Being (1952) Thomas Hudson, il protagonista, in un momento di calma durante la caccia ad un sommergibile tedesco (siamo in piena seconda guerra mondiale) nelle acque delle Bahamas, si addormenta e sogna la prima moglie, madre del suo primo figlio. I due fanno l’amore e parte un dialogo:
E lei chiese: «Dovrei essere io nei tuoi panni o tu nei miei?»
«A te la scelta»
«Mi metterò io nei tuoi panni»
«Io non posso mettermi nei tuoi. Però posso provare»
«È divertente. Provaci. Non cercare di salvarti. Cerca di perdere ogni cosa e anche di prendere ogni cosa»
«Va bene»
«Lo stai facendo?»
«Sì» disse lui. «È magnifico»
«Capisci ora quello che abbiamo?»
«Sì» disse lui. «Sì, capisco. È facile rinunciare».16
Ma è solo un sogno. Tant’è che la moglie chiederà se è disposto a rinunciare a tutto. Egli nell’estasi onirica risponde di sì e poi si sveglia «e tutto il vuoto che aveva dentro era due volte più vuoto e c’era un altro vuoto per il sogno».
La ricerca obiettiva e liscia della letteratura di Hemingway nasce certo dal senso di continuità con la tradizione realistica della grande produzione ottocentesca francese ed americana. «Tutta la letteratura americana moderna viene fuori da un libro di Mark Twain: Huckleberry Finn»,17 dal coraggio di Melville, da James, da Crane,18 da Zola. Heinrich Mann risulta illeggibile, mentre gli scrittori più validi sono quelli che si sono vissuti l’esperienza della guerra: Dostoievskij fu formato dalla Siberia, Flaubert si fece la Comune, la guerra più completa, quella combattuta all’interno del medesimo idioma linguistico. Ognuno di questi non ha potuto dimenticare ed ha riportato con fedeltà e drammaticità il senso pieno del vissuto. Ma la tradizione letteraria in America nasce coi pionieri, con gli europei che si scontrarono per primi con realtà inimmaginabili, diversissime dalle vite urbane nel vecchio continente e nelle neonate città di frontiera. L’impatto coi pellerossa spinse i conqueror a combattere e a mediare con le novità che gli si presentarono. Da ciò nacque l’esigenza di capire chi si aveva di fronte, ed ecco il fiorire di una letteratura sugli indiani d’America che si rivela sterminata. Queste stesure, spesso, non sono altro che opere di descrizione, di fotografie in parole corredate da disegni e grafici per meglio schematizzare il mondo degli indigeni. Joseph Epes Brown visse tra il 1947 e il 1948 nella riserva Sioux di Pine Ridge in compagnia dell’anziano Alce Nero. In questo periodo egli non ha fatto altro che trascrivere ciò che il mitico indiano gli raccontava sulle usanze del suo popolo; ha riportato con minuziosità ogni parola ed ogni frase, immaginandosi la vita naturale dei Sioux che non aveva più modo di constatare nell’alienazione della riserva. Ne risultò un libro scritto da Alce Nero stesso, come Brown tiene a far notare: «Alce Nero non è più, ma questo libro è suo; mia è la speranza che egli continui a vivere in quest’opera e che coloro che la leggono comprendano meglio ciò che costituiva il centro e la vera vita del suo grande popolo».19 La «vera vita» è il desiderio che anima opere ben più anziane, quali Letters and Notes on the Manners, Customs, and Conditions of North American Indians, pubblicato per la prima volta nel 1841, di Geroge Catlin, che fu principalmente un ritrattista, con tavole e pennelli, della vita nelle pianure. Egli avverte i propri lettori che non si trova nelle pianure per provare teorie sugli indiani, quindi non per analizzare o giudicare; il suo scopo è quello di illustrare, «riferire ciò che vedo al mondo, perché ne tragga le sue conclusioni».20 Ma il lettore, se vuole la verità, vada di persona sul luogo a vivere in mezzo a questi strani popoli, oppure prenda per vere le parole che gli vengono riportate.21
E molti altri libri ancora. Tutti libri che, illustrando il vivere selvaggio, contribuirono ad infuocare il mito della figura del capo pennuto seduto in un angolo del tipì con la pipa in bocca e dei pastori-contadini che all’occorrenza s’armavano di arco e freccia per diventare feroci e spietati. Letteratura che raccontava non solo degli indiani, ma anche di quegli sprovveduti temerari che s’avventuravano in lande inesplorate alla ricerca d’uno accordo dialogato con questa gente senza legge. Nel 1826 venne scritto quel The Last of the Mohicans di James Fenimore Cooper che sarà letto appassionatamente sino a più di cent’anni dal suo concepimento; testo che irruppe nel pensiero borghese con la forza spaventosa di una locomotiva priva di controllo; testo che tra i primi cantò le differenze sottolineando lo scontro tra le parti, l’incipienza di una superiorità aprioristica ed ostentata dal lato occidentale e il fascino vorticoso della dignità autoctona.
La ricerca obiettiva ed obbligata di certa letteratura avente più intenti scientifici che narrativi, sicuramente influì tutta una produzione di finzione che depone la sua matrice nel cuore delle esigenze del diciannovesimo secolo. Le società industriali in espansione richiedono di conoscerci nel nostro fare quotidiano e nelle nostre interazioni relazionali. I gruppi si gerarchizzano ed aumenta la consapevolezza delle differenze, interne ed esterne, e di conseguenza si materializza la figura dell’Altro. L’Ottocento segnerà il passaggio di interessi dalle scienze della natura alle scienze dello spirito, da uno scopo nomotetico ad una visione idiografica e frammentata del mondo. L’Altro si fa una figura complicata, fitta di sfaccettature o, per quanto semplice, diversa, quindi distante. La mostruosità di uno specchio distorcente può rilevare non solo un io che non si riconosce ma anche un io che non s’affratella ad un tu e ad un voi. L’occhio occidentale aumenta la propria gittata mentre le città si ingolfano di gente di tutte le provenienze. L’avvicinamento fisico spinge all’esigenza di un avvicinamento culturale, di una maggior comprensione.
Solitamente si tende a distinguere l’identità di un individuo da ciò che esso fa. Qualora ci si interroga su un’identità ci si risponde con una descrizione fisica seguita da un elenco del fare e dell’agire che caratterizzano tale individuo. Così avviene per una cultura: descrivere una cultura significa localizzarla, osservarla nelle sue fattezze fisiche e registrarne i suoi movimenti. Cultura ha un significato che s’approssima, e non di poco, al fare; una cultura è le sue azioni. Che io sia ciò che sono e non ciò che faccio, non è un dato socialmente accettabile. Così una cultura è ciò che agisce, ovvero è ciò che dimostra. La dimostrazione non è solo un apparire, un darsi a vedere; la dimostrazione è a sua volta un’azione che implica, oltre al soggetto, la sua controparte, il partecipante all’agire nel momento che questo si attua. Una dimostrazione viene necessariamente completata da una controvisione che stila un elenco di ciò che assiste.
Il verbo italiano «elencare», tra le quali accezioni i dizionari riportano «registrare o includere in un elenco»,22 si forma dal greco élenchos che significa «dimostrazione». Attuare una dimostrazione implica una messa in elenco di vari dati che vengono, da un lato, agiti, e dall’altro registrati. La dimostrazione, che viene solitamente interpretata come una singola azione, è in verità il risultato di un movimento duplice e sincronico tra un soggetto e il suo complemento oggetto. In una frase del tipo «io ti osservo», l’io e il tu sono, appunto, complementari: si compensano nell’intenzionalità significante del predicato. Il tu osservato non si limita a subire l’azione: anche se non volitiva, la sua «non-azione» è indispensabile allo scopo di ciò che si sta facendo. L’antico élenchos si fa mezzo di un’accezione più aulica qualora venga preso nell’uso della logica formale: si presenta come argomentazione diretta a cogliere in contraddizione l’avversario nelle dispute verbali che intavolavano le varie opinioni per essere sacrificate al servigio della verità. Socrate fu colui che fece da levatrice alla combutta dialettica come scavo nell’opinione, cercando tra il detto altrui e il contraddetto proprio i significati spuri dell’argomentare; spuri nel senso di anomalo, ossia qualcosa di inconsueto che vada ad affiancarsi all’opinione (parádoxa). Dunque, ciò che sono è un dato latente che va cercato tra il ciò che faccio (che si struttura anche sul ciò che dico) e la sua interpretazione. Quel che un individuo, o una cultura, diciamo un oggetto, va sostenendo non è mai fine a se stesso: né si completa né si conclude nel suo cerchio; ogni «fare» necessita, per esistere, di una lettura, di una interazione che è al contempo sociale e politica.
Aristotele vide il metodo adottato da Socrate come incompleto e disonesto in quanto limitato al ragionamento che egli definì «peirastico», ossia privo della sua controparte detta «dialettica»:
I ragionamenti dialettici sono quelli che partono da opinioni accreditate per contraddire [l’avversario]. Quelli peirastici muovono dalle opinioni proprie dell’interrogato.23
La retorica classica tendeva a scindersi tra persuasione e dimostrazione, o meglio si vedeva nelle sue capacità fascinose ed è stata l’evoluzione secentesca, galileana e cartesiana, a contrapporvi la ricerca epidittica o dimostrativa. La critica successiva, moderna, ha illustrato poi quanto anche questa branchia fosse soggiogata alle regole retoriche, dato che pure il lavoro scientifico si espone tramite un linguaggio che deve convincere. Così Socrate, altalenando peirasticamente sui pareri dell’interlocutore, avrebbe mirato unicamente a tirare l’acqua al proprio mulino, il colloquiante sarebbe servito a rafforzare la contropinione socratica. A leggere i dialoghi platonici è facile convincersi di questo, ma l’esegesi socratica ha reso giustizia, nel tempo, al suo protagonista. Ad una lettura più attenta è altrettanto facile sentire come il filosofo ateniese andasse scavando non in sé né nei partecipanti ai suoi incontri verbali, bensì tra sé e loro. La ricerca non è strumentale; è asservita al suo scopo primario, a ciò che fa di una ricerca una ricerca. Per Socrate la verità è una trascendenza, ma una trascendenza umana; o meglio, è un trascendimento che dalla sfera umana parte per ritornare; non finisce tra gli dei, che non si sa bene quali entità essi siano prescindendo da una semina fatta di carne sangue e terra. Nulla è divino senza essere prima umano. Avere in sé l’idea di divino significa detenere il sentore di verità che travalicano l’essere qui ed ora. L’uomo non è presenza se non è parte costitutiva dell’essere umano, ovvero è ciò che è solo in un processo di sintesi tra ciò che è stato e ciò che sarà. Chiamasi «reminiscenza» questo farci essere ciò che siamo. Al di là del semplice ripensarsi, il ricordo è uno scavo in esplorazione di ciò che posso e che può essere. Le linee guida, il faro che illumina la strada o la bussola sono le opinioni, i pareri che si hanno a riguardo dell’oggetto cercato, che non sono mai così travisati da essere scissi da ciò che definiscono. Se ci si domanda cosa sia un letto mai nessuno risponderà, a meno di dirsi folle, ch’esso è una pietanza tipica svizzera. Così per concetti di più difficile inquadramento: alla domanda «cos’è la felicità» chi risponderebbe, a meno di ricercare effetti metaforici e fini poetici, ch’essa è un poliedro con tre gambe e due teste, o che è la capacità di coprire cento metri in cinque secondi?
L’ossessione di Socrate era data dal fatto che noi possiamo avere una parvenza di ogni nome che assegniamo: ma cosa ogni nome celi veramente possiamo saperlo? Egli, progenitore di quella branchia che oggi chiamiamo filosofia morale, non si curava tanto di capire cosa fosse una brocca o un cavallo, tanto invece di intuire per applicarlo il «giusto esserci». Noi qui ci siamo, ci percepiamo, ci tocchiamo e ci parliamo; noi sentiamo in qualche modo di esistere e di dirlo. Ma qual è il passaggio più appropriato; quale e dove la giusta sosta nel mondo?
Ognuno di noi, oltre ad essere un «io», un’identità unica ed irripetibile, è comunque un «noi», cioè siamo un «io» tra mille infiniti altri «io». È l’essenza nella relazione ad ingolfare la mente del pensatore ateniese: la ricerca morale di Socrate è la cronaca di un rapporto; la sua metafisica ugualmente si struttura sul medesimo modello; in ultimo, nel suo pensiero, metafisica ed esserci politico si relazionano indissolubilmente su di un porto di approdo comune definito morale. Ecco come il passo convulso ed oscillatorio della reminiscenza si costituisce quale riconoscere trascendente che ritorna per non perdersi nelle nebbie ontologiche. Il pensiero non è una facoltà se prima non è un dovere, quello di delinearsi in rapporto a quello che potremmo essere stati e quello che potremmo essere.
Io non fuggirò il carcere e la morte imposta, dice Socrate a Critone, perché io ho accettato a priori l’imposizione comprensiva dei suoi rischi. Io sono e sono stato in quanto in Atene; sarei stato altro se avessi scelto la Tessaglia. L’esserci non ha in Socrate il significato del Dasein in Heidegger; nella contemporaneità si trova molto più vicino al senso del «ci» dell’essere utilizzato dal de Martino: «l’esserci della presenza è tutto racchiuso nel “ci” […] in quanto il “ci” è storicità che si dischiude al valore, ed è al tempo stesso valore che si cala nella storicità, esso è rapporto con la tradizione, con il condizionamento culturale, forza effettiva di dialogo e di comunicazione, espressione di esigenze che trascendono l’individuo meramente biologico e naturale e che si iscrivono in una realtà sociale e culturale definita».24 E la forte storicizzazione dell’essere, di matrice ottocentesca, nasce proprio dalla ripresa del pensiero socratico, seppur sempre filtrato dalla personalità platonica.
L’idea della reminiscenza è il filo conduttore della filosofia di Wilhelm Dilthey (1833-1911), padre dello storicismo tedesco e strenuo difensore delle scienze dello spirito, fermamente convinto della loro autonomia da quelle della natura. Sul volgere del passaggio tra il secolo decimonono e quello appena trascorso, la teoretica diltheyana combatté per asserire che nulla è se non relazionato alle proprie trasfigurazioni temporali, le quali a loro volta si devono rapportare col tessuto sociale che le contengono. Ciò vuol dire che le differenziazioni temporali delle quali siamo capaci, passato presente futuro, sono concatenate tra loro in maniera diretta da un sistema di significato (Bedeutung), o di importanza (come lo chiamerà Ricœur), che traccia una continuità tra i vari passaggi dell’esistere. Dilthey distingue tra Bedeutung e Wert (valore), dando a quest’ultimo un senso, se si vuole, più vano, meno radicato: il valore «inerisce al godimento affettivo del presente»,25 è ciò che l’essere qui ed ora comporta come misura e che, in quanto affettivo, rende maggiore la difficoltà di definire. L’istante è ciò che interpreta il dato ricordato per farne un uso posteriore.
In questa prospettiva il tutto si risolve nel momento che sta per giungere e che, nella sua consapevolezza, è già fuggito. Quel che chiamiamo presente e che concepiamo come tempo in verità è solo un’idea, in verità non è vivibile; eppure, contraddittoriamente, è l’idea di cui più necessitiamo, è il concepimento del nostro esserci, del nostro esistere. La memoria e la volontà (di fare, di continuare) sono possibili in quanto si costituisce la facoltà di pensare il legame che ci identifica, in questo istante, sotto le fattezze di questo relè in carne ossa e spirito che emette contemporaneamente all’avvenuta ricezione. Il sapere è lo spettro intessuto dalla continuità dei tempi. Se anche passato e futuro sono solo un’idea (non possiamo immobilizzarle, non tastarle, non sentirle prettamente nostre), l’unico possedimento è dato dal pensare ciò che possiamo sapere. A partire dagli accadimenti più naturali (sappiamo che siamo stati neonati, poi bambini e adolescenti, che siamo cresciuti sino all’età adulta; sappiamo che incanutiremo e che dovrà esserci un termine a tutto questo) la nostra conoscenza si compone di strati che la storiografia ha definito «più complessi» (sappiamo che siamo stati scolari, che siamo stati o avremmo potuto essere chierichetti, che abbiamo dovuto affrontare l’evoluzione della nostra sessualità; sappiamo che dovremo dare un’educazione ai nostri figli, che non potremo ridere ad un funerale, che dovremo pagarci un giaciglio eterno). L’essere nel presente, per quanto ripulito ed esistenzializzato, si protegge le spalle con la mantella della socialità. Dilthey parlò di Erlebnis, di esperienza vissuta, che trascina in sé tutto ciò che un essere umano può o dovrebbe avere esperito. Quel «dovrebbe» non è né un giudizio né un eufemismo: nell’esperienza vissuta rientra pure l’indirettività del vivere, ovvero ciò che non si è vissuto sulla propria pelle. Si pensi, ad esempio, allo Stato: quanti hanno avuto esperienza diretta di quel che concepiamo come rappresentatività dello Stato? A meno che non si viva nei pressi del Quirinale, quanti hanno la sicumera dell’esistenza, e soprattutto dell’esistenza istituzionale26 (che mancherebbe anche agli abitanti del Colle), di ministri, presidenti e portaborse? Eppure lo Stato è una presenza che nessuno negherebbe. L’esempio, non casuale, ha voluto mirare direttamente al vertice del nostro essere sociale; scendendo molti altri esempi si potrebbero intavolare: vi sono individui che non hanno mai testato il sapore di caviale ed aragoste, ciò nonostante questi stessi individui detengono, se non il gusto, un significato della pietanza; altre persone non hanno mai dovuto ingerire bucce di patata benché esse, o meglio l’atto che le coinvolge, quello di mangiarle, portano un’idea di miseria e povertà. Ecco, idee. Non è forse ciò che teorizzava Socrate riguardo alla trasmigrazione delle anime, che il Tutto contengono in sé perché nell’ora della consunzione si vanno a riunire all’Anima del mondo?
L’atto della reminiscenza supportato dal processo dialettico è la somma ricerca quotidiana che ogni individuo deve compiere; Dilthey, legato alle scienze dello spirito e scevro dalla vena moralistica che compone il personaggio socratico, direbbe che il flusso cognitivo intersecante le dimensioni temporali avviene, volenti o nolenti, con l’esperire, col semplice esserci. Nessuno può fuggire, a meno di essere rousseauianamente il «perfetto selvaggio», l’esperienza, e quindi l’idea, dello Stato, così come quella di altri concetti quali l’educazione, la religione, il linguaggio, il nome, il luogo, ecc.; e, se si vuole, secondo certe teorie sociali, anche quelli di felicità, di Dio, di sofferenza, di individuo, e così via.
L’introduzione dello storicismo, canalizzato dall’evoluzione subita dalle società occidentali all’albeggiare del secolo XIX, ha affascinato gli studiosi e il pensiero corrente tanto che ancora oggi è in atto il processo di discussione sul metodo, e questo in quanto pare visualizzarsi come il maggiormente esplicativo del nostro statuto sociale. «[…] il “ci” è storicità che si dischiude al valore», scriveva appunto de Martino; il mezzo di compassione nel quale siamo calati si chiama storia e si dice società.
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Bisognerebbe morire per ricominciare, ma non è semplice. Come ciò che è fatto è fatto, ciò che è dato è dato. L’intreccio collettivo indissolubile ci connatura nel fare, così io sono ciò che ho fatto e che probabilmente farò. Le possibilità del fare sono anch’esse strutturate socialmente, al modo dell’identità di ogni individuo. Ciò che ci rispecchia socialmente, la carta d’identità, oltre alla descrizione e all’ubicazione fisiche riporta la condizione famigliare (hai compiuto l’atto e l’impegno nuziale?), la condizione impiegatizia (studi, lavori, sei disoccupato?) ed eventuali azioni o condizioni ai danni della struttura sociale. In Grecia sul documento di riconoscimento viene riportata la religione d’appartenenza come auto-da-fé (atto della fede), professione collettiva di proprietà ecclesiastica. Come nel periodo dell’Inquisizione portoghese riportare il credo religioso significa dichiarare come si prega, dove e a chi si è devoti: rendere pubblica una modalità di attuazione. In una Europa cattolica e protestante la Grecia si trova isolata nella sua professione ortodossa, e da qui scatta la necessità della certificazione e della preservazione dell’identità.27 Nel mondo e nel pensiero contemporanei siamo attori della nostra identità.28
In Herr und Hund (Cane e padrone), Thomas Mann alla fine del capitolo che precede la descrizione de La bandita avverte il lettore che, per presentare «in tutta la sua magnificenza e nel suo elemento, in quella situazione esistenziale in cui è maggiormente se stesso, […] vale a dire la caccia» l’effettivo protagonista del racconto, il cane Bauschan, deve prima procedere con un’esatta descrizione della bandita «poiché essa è inscindibile dall’individualità di Bauschan».29 Il cane è in quanto caccia, e non solo: è in quanto scodinzola in presenza del padrone; è in quanto fa il matto quando questo si allontana da casa senza di lui; è in quanto sembra mogio e triste osservato nella solitudine della sua cuccia. Il cane Bauschan non è mai in quanto cane punto e basta. E la visione del padrone del cane non è mai solo relazionata ad esso, o meglio non solo direttamente; certe situazioni e certi ambienti acquistano significato attraverso l’occhio dell’osservatore; così il luogo di caccia «mi è caro, mi risulta familiare e significativo in un modo che me l’apparenta in tutto e per tutto a lui [al cane]».30 Questo è l’incipit, dice Mann, che giustifica «ampiamente la descrizione».
Come si diceva in apertura, la fitta descrittività adottata nella prosa dallo scrittore tedesco non ha lo stesso gusto di quella meno speleologa riscontrabile nelle pagine di Hemigway. Gli stili sono differenti e, a ben vedere, pure gli intenti; ma la pulsione generatrice della prassi descrittiva sembra rimanere il medesimo, quello di contestualizzare ed inquadrare l’esperienza, e quello di far propria tale esperienza. Ma la descrizione serve a condividere il vissuto con chi non c’era o chi non può esserci stato. Hemingway del suo viaggio in Tanzania dice che gli piacerebbe «scrivere qualcosa sul paese e gli animali, così come sono, per chi non ne sa proprio niente».31 La forza della mimesis è ingombrante, mai come nelle Verdi colline d’Africa occlude tutti i pori sino a soffocare il dubbio di potercela fare, che ogni tanto trapela ed è il dramma. A colloquio con Pop, suo compagno di ventura e di caccia, Hemingway rivela la sua impotenza di fronte agli spettacoli straordinari che l’Africa gli regala ogni giorno e che difficilmente (seppur tentandoci per tutto il libro) riuscirà a rendere sulla pagina. Egli vede nella lingua swahili lo scoglio più impervio, ciò che lo distoglie dalla penetrazione ambientale, ciò che non gli permette di immergersi con tutto se stesso in quello che sta vivendo. «Ma se scrivo qualcosa su questa esperienza sarà sempre pittura di paesaggio finché non l’abbia un po’ imparato [il linguaggio particolare, lo swahili]. La prima impressione che si ha di un paese è molto importante, ma probabilmente più per noi che per gli altri: questo è il male».32 Pittura di paesaggio era sostanzialmente quella praticata da Catlin, eppure egli credeva in questo operare tanto da spenderci una vita. Catlin considerava la pittura, secondo la tradizione rinascimentale, quale perfetta arte mimetica in anni in cui la fotografia ancora non aveva preso il sopravvento. Egli riproduceva quella realtà così come gli si presentava dinanzi agli occhi, quella realtà che chiamava verità. Hemingway sa della potenzialità del processo illustrativo, sa che la scrittura e i modi della retorica possono, come la pittura, rapire per ri-figurare. Ciò nonostante non si acquieta. Cos’è che non lo soddisfa; cos’è che, pur nella consapevolezza che «tuttavia bisognerebbe sempre scriverla [l’esperienza] per cercare di formularla, senza badare a quel che se ne farà poi»,33 lascia interdetto l’autore di fronte alle capacità del mezzo utilizzato?
Hemingway cerca la condizione sinestetica e simpatetica con l’oggetto descritto, e non la situazione di paesaggio. Senza questa condizione, che è essenza bloccata nel tempo, priva di movimento, qualsiasi descrizione perde la sua validità; mantiene una certa importanza solo nell’inconsapevolezza posteriore. Ma se ci si sofferma a pensare, se si avverte un’implicazione morale, ci si accorge di mentire continuamente. Hemingway cerca l’amore con l’oggetto; quell’amore in cui «io» e «tu» non esistono, in cui «io» e «tu» sono il «noi» unico ed inscindibile; quell’amore che svanisce al risveglio, come un sogno. Eppure non tutto può essere perduto: «the searchers for order will find that there is a certain discipline in the acceptance of experience» («chi cerca l’ordine scoprirà che c’è una certa disciplina nell’accettazione dell’esperienza»).34
Ebbene si mente, ma con rigore. La prima regola è dettata dall’onestà. Sembra che egli dica «io ti dico la verità mentendo», «ti riporto ciò a cui ho assistito senza conoscerlo», «per impressioni ti impressiono». Mentire verificando. Onestamente ingannare. E così sino alla formula magica, statuaria ed invalicabile litografata da Fernando Pessoa più o meno negli stessi anni:
Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente.35
Il tutto si risolve in quell’acceptance, nel sapere che altrimenti si cercherebbe l’incercabile, nella consapevolezza che tra gli uomini non esiste una verità che non sia mondana. La grande metafisica che segnò l’ossessione latina dal dissolvimento del Sacro Romano Impero sino alle confraternite medievali, perde il suo sapore nella modernizzazione della storia, detta anche laicizzazione. La nascita delle città e l’assembramento fisico in costituzioni di masse devono ulteriormente aver spaesato l’individuo nella sua elementarità spirituale. Più tragico si fa il silenzio del vicino piuttosto che quello di Dio; più angosciante diviene la diversità in terra che la speranza nel cielo. Le parole disperate e di rinuncia rivolte al Padre dal Cristo sulla croce e il cruore verbale di Sant’Agostino di fronte al dubbio spirituale; la ricerca di un’entità che ci giustificherebbe nel nostro essere transitorio; l’intimità di un pensiero sincero che sente e cerca di agguantare la propria sincerità implodendo nella compunzione substanziale, assumono oggi delle connotazioni che si definirebbero anacronistiche, laddove il contatto esistenziale non è mai così direttamente universalistico bensì relativizzato ad essere uomo tra gli uomini; laddove l’epiteto picassiano «Io non cerco, trovo» argomenta e contestualizza il «ci» dell’essere che insegue il vero nelle piazze e agli angoli delle strade. La tragedia epocale che si svolge sotto i nostri occhi che si chiama società e che vorrebbe nominarsi «globalizzazione», non lascia comunque spazio al rasserenamento delle menti. Ciò che disturba Hemingway non è di certo l’incomprensibile fluire sulla Terra, non la domanda «chi sono?»; chi siamo, cosa facciamo insieme, e come possiamo intersecarci nel migliore dei modi sono le questioni basilari dell’uomo moderno impegnato nel tentativo di dipanare le menzogne che ordinano il mondo.36 Perché menzognero è ogni nostro fare e ogni nostro agire; menzogneri sono il pensiero relativo e la comunicazione tra le parti; di conseguenza fallace è il nostro essere, questo «stare» che si presenta sempre come compromesso. Allora la rivalsa si dispone nella ricerca che trova, che deve trovare; non è ammissibile la disperazione cocciuta del contatto inesistente interiore. Le scienze sociali, antropologia in primis, partono da un presupposto di omissione dell’inconoscibilità intima per dirigersi immediatamente nello scavo della controparte secondo un operare che potrebbe essere inteso (e lo è stato) utilitaristico e strumentalistico. Ampia è la distanza con certa filosofia che, ancor oggi in brevi accenni,37 vede come punto di partenza il nocciolo io/dio.
Jean Starobinski, nel suo ultimo testo pubblicato ed in corso di traduzione in Italia nel quale prende in esame la dualità azione/reazione come stilema di pensiero e stampo di vita occidentali, scrive: «Noi viviamo nel reticolo di società e parola, e non conosciamo altro che emozioni seconde. Rari sono i momenti nei quali abbiamo l’impressione di risalire al di qua e di riaccedere ad una esperienza anteriore alle parole; nel piacere, nel dolore, nella poesia».38 Il reticolo società/parola ci inganna, non ci permette di esperire direttamente ciò di cui godiamo la sensazione di poter esperire. Ma come possiamo detenere una sensazione alla quale non possiamo attingere; come facciamo a sapere che quelle sensazioni sono secondarie e non primarie? Starobinski ci dà tre casi nei quali l’immersione è primigenia e coinvolgente: dolore, piacere e poesia. L’elenco è di estremo interesse perché tra due sentimenti forti è inserito un «modo» di usare la lingua. La parola non è più menzogna, eppure lo è. Pessoa ha reso tale pensiero con l’epigrafe sopra riportata; Emo scriverà che «la parola si fa inganno quando lascia le rive della pura presenza per farsi discorso».39 Allora non è la parola in sé, non il nome che tradisce, ma l’uso che se ne fa: la scarnificazione linguistica del detto, il drenaggio della parola che da significato si può fare senso, ovvero vivibilità piena del comunicato, trova la sua veridicità nella struttura letteraria che è propria di due modi, quello filosofico e quello versificatorio. Ma la questione non si può chiudere qui: se si vuole, stendere versi e fissare pensieri non è né difficile né realistico né veritiero. Harald Weinrich nel tentativo di distinguere la menzogna fine a se stessa dall’uso metaforico della lingua si fa forte di una constatazione di Sant’Agostino che cita: «mendacium est enuntiatio cum voluntate falsum enuntiandi», ossia l’allegoria si caratterizza nella sua volontà di non mentire, nella sentita probità di dire il vero.
Hemingway comprende ognuna di queste sfaccettature e cerca e dispera nell’impresa di rendere la propria letteratura la più convincente possibile. Egli né filosofeggia né scrive versi (se non come attività secondaria); la sua passione si riversa sulla prosa che egli vede la maggior forma d’arte in quanto dalle più alte possibilità mimetiche. E la prosa deve essere realistica, anzi non può essere altrimenti a discapito di infrangere la sua prima regola, quella di riportare ciò che realmente abbiamo vissuto e dobbiamo vivere; la prosa deve rendere la realtà come il cinema ci convince di fare. Questo è possibile solo attraverso «una certa disciplina nell’accettazione dell’esperienza». Lo scrittore, dice Hemingway, deve organizzarsi e non solo nella sua professione ma ancor prima nel suo essere uomo al mondo. Esperienza è quell’impasto che lega l’atto del riportare delle sensazioni e degli accadimenti a questi stessi vissuti. Non per niente gli scrittori completi sono coloro che hanno vissuto la guerra, che hanno attinto a sensazioni forti per poi riportarle sulla carta. L’esperienza va accettata così come va torchiata nella morsa disciplinare. Ma l’ossessione dell’americano travalica la descrizione, oltrepassa il fare giornalistico all’inseguimento della mimesis perfetta. Nel «diario» africano non si accontenta di vivere un’esperienza altra, di respirare un mondo differente dalle città occidentali; anzi, è proprio in una società così differente dalla sua che egli si accanisce di comprendere, di carpire, e così studia gli oggetti che lo fronteggiano sino alla nausea per farli suoi e per darli in pasto al lettore «così come sono». Durante una battuta di caccia egli osserva un vecchio cacciatore swahili, suo accompagnatore, e annota che «si era messo a ricercare secondo la sua idea di quello che il maschio avrebbe fatto»,40 capendo che questa è la completa condizione mimetica nella quale si deve calare se vuole riuscire nei suoi intenti. Per far capire al lettore quel dato personaggio swahili egli sa che dovrebbe lui, prima di tutti, divenire quel personaggio swahili. L’«io» e il «tu» che separano in questo caso osservatore-scrittore e cacciatore swahili devono tramutarsi in un «noi» totalizzante, e l’autore, di nuovo, deve compiere uno sforzo per trasfigurarsi in un «noi» che lo accomiati al lettore. Allo stesso modo, in The Sea in Being, Thomas Hudson, all’inseguimento dei marinai tedeschi fuggiaschi, cerca di ragionare con la loro testa, «cerca di ragionare come un intelligente marinaio tedesco con tutti i problemi che ha il comandante di questo sommergibile».41 Oltre ad immedesimarsi in un marinaio tedesco deve cercare di ragionare come il comandante di quel sommergibile, che si trova in quelle condizioni (di fuga, in avaria, in un posto sconosciuto — intorno alle coste di Cuba -); deve cercare di farsi le stesse idee che possono passare per la testa a loro.
È un’azione spossante: come è possibile tenere l’altro continuamente sotto la lente di ingrandimento senza subire degli inciampi, dei rimorsi, delle cadute di tono, dei ripensamenti? Hudson si sprona odiando. Come si diceva in apertura, avvicinarsi troppo all’altro può essere rischioso, ci si può vedere rispecchiati; comprendere significherebbe perdonare, e ciò non è possibile, previa la propria sopravvivenza. Nell’ultimo testo tradotto in italiano, Ben Okri annota che «la nostra percezione dell’altro dà la misura della nostra umanità, del nostro coraggio e della nostra immaginazione», e analizzando l’Otello di Shakespeare nella contrapposizione bianco (Iago) / nero (Otello) fa dire all’autore che «i veri stranieri non sono quelli che appaiono diversi. Perché i più pericolosi trionfino nella loro malvagità, essi dovranno essere del colore a te familiare e parlare con la tua voce. Non cercarli nelle differenze clamorose. Cercali all’interno, dove è più difficile trovarli».42 Hemingway sa tutto questo e stenta non ad ammetterlo bensì ad accettarlo, tant’è che Hudson, in un momento di calo, si domanda «Perché non pensi a loro come degli assassini e non provi per loro la giusta collera che dovresti provare? Perché continui solo a inseguirli come un cavallo senza fantino ancora in gara?», e si risponde «Perché siamo tutti assassini, […] siamo tutti da tutt’e due le parti, se valiamo qualcosa, e qualunque cosa non gioverà a nessuno».43
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I conflitti di Hemingway riportano alla storia tormentata di una disciplina chiamata antropologia, alla linea teoretica resa forte da un suo connazionale, Clifford Geertz, e allo squasso prodotto da un altro grande sostenitore, Bronislaw Malinowski, che proprio Geertz prese in considerazione ed argomentò profondamente.
La perdita di senso in quello che si fa rappresenta la tomba più greve che un uomo possa sopportare. Il diario di Malinowski, redatto in Nuova Guinea e nelle isole Trobriand durante le sue permanenze del 1914-15 e 1917-18 e pubblicato nel 1967, è costellato di insofferenze, di incomprensioni, di odii verso gli indigeni. Negli anni in cui l’antropologia, in seguito alle indipendenze nazionali delle colonie e al processo di melting pot in zona occidentale, andava dandosi un contegno sotto forma di tolleranza, tale diario creò scompiglio e disillusioni. Geertz si chiede come può essere stato possibile pensare che un individuo di formazione inglese si potesse trovare a proprio agio in una situazione completamente altra ed estraniante. È normale; chiunque, anche il più professionale dei professionisti, non si sentirebbe «come a casa» e di questo ne soffrirebbe. Ovviamente, il fulmine a ciel sereno irruppe all’interno della disciplina, ormai speranzosa di un impianto teoretico che sembrava saldo. Caratteristico delle scienze sociali, memori ed invidiose delle scienze cosiddette esatte, è di ammettere difficilmente i propri errori, e fatale sarebbe perdere il senso di ciò che si fa. L’illusione che l’antropologo fosse una sorta di mago capace di metamorfizzarsi in sembianze differenti a seconda del luogo e che gli «io» andassero diluendosi in un «noi» di serenità, sono fatti che più hanno trattenuto l’eruzione sino allo scoppio che è stato poi catatonizzato drammaticamente. Geertz ha cercato di mediare le disfunzioni tra le controparti tessendo un canovaccio teoretico improntato sulla comparazione interpretativa, dove le diversità in campo non vengono eluse bensì consapevolizzate. Da tale presupposto l’osservatore sa di essere Altro dall’Altro che ha di fronte ed attua una «descrizione densa» che non può mai essere se non interpretativa. Deve comunque fare attenzione a non giocare troppo su questo assunto e quindi distanziarsi: il suo compito risulta essere quello di ondeggiarsi tra una visione emica (interna) ed una visione etica (esterna), e deve cercare di riportare una descrizione che sia la più fedele possibile, non secondo un’accezione realistica di fedeltà, bensì secondo il modulo della tradizione ermeneutica. L’ideale totalizzante dell’osservazione partecipante propugnato da Malinowski pure non trova validità epistemologica, da una parte perché smentito dal suo sostenitore stesso nel Diary, dall’altra parte perché l’avvicinamento chiude in sé i medesimi pericoli condotti dal distanziamento. Geertz cerca il giusto mezzo epistemologico adagiando l’osservatore a metà strada tra i due estremi, posizione dalla quale in quanto moderata, in quanto non implicato il soggetto può permettersi una visione de-motivata, più scientifica.
Il richiamo ermeneutico non è casuale: Geertz dice di intendere una cultura, o comunque l’oggetto di studio quale esso sia, come un testo, e approcciarvisi da lettore. Egli porta in terra antropologica ciò che Ricœur ha utilizzato e teorizzato nell’ambito dell’interpretazione testuale. Il testo è un qualcosa che non è dell’autore (non è più suo), non è ciò che dice (perché è mezzo di trasporto del detto) e non è del lettore (non è già suo). Il testo è un’entità autonoma che Ricœur chiama mondo del testo e le quali chiavi di lettura si delineano lungo due tracce fondamentali dette importanza e pertinenza. L’importanza, come si è detto, si avvicina al concetto di Bedeutung in Dilthey; rappresenta i punti nodali di un testo, zone essenziali percepite tali nella diluizione del condimento. Si faccia un esempio culinario: quando si mangia un’insalata difficilmente la si ingerisce così com’è, ma la si insaporisce con olio, aceto, sale e spezie varie. Ognuno sa che l’elemento primario è costituito dalle foglie di insalata; mai nessuno direbbe di mangiare olio, aceto e sale, eppure sono compresenti e implicanti. La pertinenza, invece, deve tenere presente dell’esistenza del condimento e di numerose altre varianti: chi mangia l’insalata, da chi viene, perché la mangia, quando, dove, in quale contesto, ecc. Pertinere ad un testo significa porcisi davanti, non dentro, osservarlo, estrapolarne i punti focali e relazionarli con i dati aggiuntivi. Ricœur media tra la prospettiva ontologica heideggeriana della comprensione e quella distanziante (distanza dall’orizzonte) di Gadamer, ed arriva a dare al proprio metodo il nome di circolo ermeneutico, ossia quel defluire cognitivo perpetuo tra importanze e pertinenze, tra pertinenze ed importanze, per costituirne una lettura filologicamente fedele.
In Ricœur non si tratta di cercare, bensì di trovare ciò che un elemento precostituito (l’oggetto di studio) mette a disposizione, considerando però che tale oggetto non nasce dal nulla ma stilla da un’elaborazione intelligente a sua volta «chiusa» in un reticolo di importanze e pertinenze. Questi ultimi formano quel che la Mead chiamò patterns culturali, ma bisogna tener presente che essi rifluiscono per ri-formare gli altri dati secondo una strutturazione copartecipativa. Come l’onda del mare che si infrange sulla battigia e rientra, così l’essenza oscilla: per noi l’onda è onda, è acqua che si increspa per poi tornare acqua in quel concetto unificante che è il mare. Ma forse quell’onda, quell’acqua non sono mai quell’onda, quell’acqua, e noi ci lasciamo ingannare dalla similarità d’un tutto unificante.
Hemingway non si dà pace nella sua ricerca, ma forse è solo illusione di poter trovare. Il mondo è già lì e noi dobbiamo semplicemente scavarlo con astuzia ed intelligenza; è già lì in tutta la sua materialità, nel suo essere terra e carne. Così come, per Hemingway, la morte è il cadavere, la carogna che più non si muove e respira, il mondo è tattilità dell’esistenza, è taglio, ferita, dolore fisico, una risata di denti e una carezza di mani. Il mondo disgregato non può essere una realtà perché ciò che è passato è passato e il futuro ha solo da farsi. Robert Jordan sa che deve amare Maria lì, in quell’istante, mentre lei è carnalmente presente insieme a lui perché questo, e solo questo, rappresenta una sicurezza formale. «“È molto meglio essere sicuri”, pensò [Jordan]. “È sempre molto meglio essere sicuri”».44 Non ci si può abbandonare al dubbio, anche se rode, non ci si può fermare dinanzi alla parvenza dell’esistente se non è lì. Il rischio è quello di comprendere ed è disarmante, relega l’uomo nella sua instabile sicurezza, quella del perdono, quella del sentirsi assassini alla pari. E assassini lo si deve essere per poter mantenersi qui, con tutta la pregnanza dello stare qui. «Killing I know and I believe in. Or do not believe in but practice (Io che so uccidere e che in questo credo. O meglio che non credo ma lo faccio)».45
Hemingway non cercò, volle famelicamente trovare e si scontrò con la detonazione del suo fucile da caccia per farsi cadavere, lì, per sempre.
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Hemingway Ernest, Fiesta, Milano, 1999, Mondadori, p. 134. ↩︎
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Idem, p. 238. ↩︎
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Hemingway Ernest, Addio alle armi, Milano, 1999, Mondadori, p. 80. ↩︎
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Idem, p. 238. ↩︎
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Idem, p. 73. ↩︎
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Idem, p. 192. ↩︎
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Hemingway Ernest, Verdi colline d’Africa, Milano, 1985, Mondadori, p. 49. ↩︎
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Hemingway Ernest, Addio alle armi, op. cit., p. 83. ↩︎
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Hemingway Ernest, Per chi suona la campana, Milano, 1961, Mondadori, p. 464. ↩︎
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Idem, p. 53. ↩︎
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Idem, p. 164. ↩︎
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Idem, p. 32. ↩︎
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Idem, p. 207. ↩︎
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Idem, p. 368. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Hemingway Ernest, Isole nella corrente, Milano, 1978, Mondadori, pp. 412-13. ↩︎
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Hemingway Ernest, Verdi colline d’Africa, op. cit., p. 70. ↩︎
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Crane scrisse: «Decisi che quanto più un artista si accosta alla vita, tanto più si realizza come artista… Tolstoi è l’autore che ammiro più di ogni altro» (cit. da Pivano Fernanda, La balena bianca e altri miti, Milano, 1961, Mondadori, p. 108). ↩︎
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Alce Nero, La sacra pipa, Milano, 1993, Rusconi, p. 6 (ed. or., The Sacred Pipe, Oklahoma, 1953, University of Oklahoma Press). ↩︎
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Catlin George, Pellerossa. Usi, costumi, vita nella prateria degli indiani d’America, Milano, 1993, Rusconi, p. 231 (ed. or. Letters and Notes on the Manners, Customs, and Conditions of North American Indians). ↩︎
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Idem, p. 115. ↩︎
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G. Devoto, G.C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, 1995, Le Monnier, alla voce «elencare». ↩︎
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Aristotele, Confutazioni sofistiche, 165 b3-6. ↩︎
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De Martino Ernesto, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, introduzione e cura di Marcello Massenzio, Lecce, 1995, L’opera di Ernesto de Martino vol. 1, p. 106; cit. in Bontempi Marco, Identità ed esperienza simbolica. L’opera di Ernesto de Martino tra antropologia e sociologia, in Il mondo 3, anno III, n. 1-2, aprile-agosto 1996, p. 338. ↩︎
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Turner Victor, Dal rito al teatro, Bologna, 1986, Il Mulino, p. 138 (ed. or., From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, New York, 1982, Performing Arts Journal Publications). ↩︎
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Si tralasci il discorso, troppo complesso e qui fuori luogo, sugli organi di informazione che attestano e provano le competenze e i doveri, quindi la loro presenza istituzionale, di certi ambiti. ↩︎
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è cronaca recente la proposta del governo greco, in seguito all’entrata nell’Europa unita, di abolire l’appartenenza religiosa dalle carte d’identità, e la battaglia conservatrice della chiesa ortodossa e di buona parte della popolazione. ↩︎
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Si veda l’opera teorica di Goffman. ↩︎
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Thomas Mann, Cane e padrone, Milano, 1985, Fabbri, p. 206. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Hemingway Ernest, Verdi colline d’Africa, op. cit., p. 200. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Hemingway Ernest, Poesia, 1928 (Poem, 1928), in 88 poesie, traduzione di Vincenzo Mantovani, Milano, 1998, Mondadori, pp. 192-3 (ed. or., 88 Poems, s.l., 1979, The Ernest Hemingway Foundation and Nicholas Gerogiannis. ↩︎
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Pessoa Fernando, Una sola moltitudine, Milano, 1979, Adelphi, vol. I, p. 165; cit. in Pessoa Fernando, Il poeta è un fingitore. Duecento citazioni scelte da Antonio Tabucchi, Milano, 1994, Feltrinelli, p. 13. ↩︎
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Si pensi al notissimo Processo di Kafka. ↩︎
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Si veda il pensiero di Andrea Emo (Emo Andrea, Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973, Milano, 1998, Raffaello Cortina Editore), di formazione gentiliana, il quale interpreta come veramente inconoscibile il proprio essere, all’interno del quale l’identità è sempre diversità che tende ad identificarsi; non è mai identità dell’identità che, comunque, attraverso un processo di diversificazione (annullamento) deve passare: «L’Io è il tutto, il Sé è il nulla. L’Io è diversità, il Sé è identità» (p. 155). L’individuo è un tratto segmentato dell’essere palleggiato tra Io e Sé, tra diversità ed identità, e che potenzialmente tutto può scegliendo l’una o l’altra via o una commistione rifluente tra le due. Ma Emo è anche protagonista della distruzione delle possibilità di scavo interiore: «La verità è il mito di una realtà cosciente, ma la coscienza è sempre metaforica. Forse l’attualità e l’Essere sono una metafore dal nulla» (p. 117). Suprema è la facoltà individuale, maledetta l’illusione che tarpa le ali. ↩︎
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Starobinski Jean, Azione e Reazione. Vita e avventure d’una coppia, in corso di traduzione presso l’Editore Einaudi, Torino; cit. in Ossola Carlo (a cura di), Siamo uomini o molecole?, in Domenica. Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2000, n. 163, p. 25. ↩︎
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Emo Andrea, Supremazia e maledizione, op. cit., p. 25. ↩︎
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Hemingway Ernest, Verdi colline d’Africa, op. cit., p. 260. ↩︎
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Hemingway Ernest, Isole nella corrente, op. cit., p. 416. ↩︎
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Okri Ben, La tigre nella bocca del diamante. Saggi, paradossi, aforismi, Roma, 2000, Minimum fax, p. 78. (ed. or., A Way of Being Free, 1997, 2000). ↩︎
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Idem, p. 425. ↩︎
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Hemingway Ernest, Per chi suona la campana, op. cit., p. 354. ↩︎
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Hemingway Ernest, First Poem to Mary in London, in 88 poesie, op. cit., pp. 202-3. ↩︎