Keine synthesis ist completa (R 3985).
Das Territorium der Metaphysik. Theile (R 3918).
1.
Non poche affermazioni di Kant potrebbero far pensare che sia fuor di luogo cercare nei suoi scritti una significativa riflessione filosofica sul frammento, che evidentemente non dovrebbe limitarsi a considerarlo nella sua mera contingenza. Ecco pochi esempi, abbastanza casuali, di queste frasi kantiane:
molti si immaginano che il sistema appartenga solo all’esposizione, ma esso appartiene all’oggetto della conoscenza e al pensiero; la nostra ragione […] dev’esser paragonata […] ad una sfera, di cui si possa trovare il raggio a partire dalla curvatura della sua superficie (a partire dalla natura delle proposizioni sintetiche a priori), così che se ne possa stabilire con sicurezza anche il volume e la delimitazione; La ragione è spinta da una tendenza della sua natura a oltrepassare l’uso empirico, ad avventurarsi, con un uso puro e mediante semplici idee, oltre gli estremi confini di ogni conoscenza e ad acquietarsi soltanto nel compimento del suo circolo, in un tutto sistematico per sé sussistente.1
La conoscenza, il pensiero e i loro oggetti sono presentati qui e in molti altri passi come essenzialmente sistematici e, poiché – come sappiamo – per Kant le loro condizioni di possibilità sono nella natura della nostra ragione, questa stessa dev’essere una totalità che nella sua funzione cognitiva tende alla costituzione e alla conoscenza di un tutto. Come può dunque esserci posto nella sua filosofia per una riflessione sul frammento? Tuttavia, quanto più riconosciamo il carattere sistematico della ricerca kantiana, tanto più dovremmo aspettarci che il suo pieno significato non possa manifestarsi a una rapida lettura di qualche frammento di testo estrapolato. E, in effetti, non c’è forse differenza tra il dire che qualcosa «è» sistematico e sostenere, come fa Kant, che il sistema «gli appartiene»? L’appartenenza è una relazione, mentre l’uso della copula suggerisce la definizione di un’essenza. E non è anche un indice del capovolgimento della tradizione ontologica il fatto che l’oggetto e il pensiero non vengano considerati in quanto appartenenti al sistema, ma – viceversa – questo come qualcosa che appartiene a quelli? Possiamo, inoltre, equiparare la «sfericità in potenza» della ragione, intesa come la fonte dei principi conoscitivi che emerge dall’autoanalisi logico-trascendentale, con la condizione reale della ragione in atto che si dispiega nell’esperienza? Ricordiamo che per Kant l’analisi dei principi deve potersi esaurire in una forma compiuta, cioè nell’esposizione di un sistema, mentre il progresso della sintesi dell’esperienza è costitutivamente indefinito e inesauribile, senza alcun inizio o fine assoluti. Nel terzo dei brani sopra citati, infine, la presenza dei termini «tendenza», «arrischiarsi», «mere idee» ci mette in guardia dall’identificare il circolo kantiano della ragione con quelli del tipo dell’idealismo hegeliano; qui la circolarità ha a che fare non con l’assoluto, quanto piuttosto con l’asimmetria tra ragione pratica e ragione teoretica che si pongono vicendevolmente compiti necessari quanto inestinguibili. Come scrive Cassirer: «aspirare all’incondizionato è la tendenza congenita, innata, della ragione; ma l’incondizionato ultimo a cui possiamo spingerci risulta il sistema completo delle condizioni della ragione stessa, teoretica e pratica»2 e in questa direzione sono da leggere anche i primi due passi. Non ci proponiamo tuttavia di approfondire ora questi temi, che resteranno sullo sfondo nelle pagine a seguire; ci serviva soltanto un primo sostegno di evidenza per poter proporre la tesi che in realtà non c’è affermazione kantiana che effettivamente neghi la manifesta perenne frammentarietà dell’impresa conoscitiva dell’uomo e della sua esperienza, sebbene la prima suggestione data dai frammenti dei testi appena letti non è falsa, perché il sistema è veramente un motivo e un tema fondamentale della filosofia trascendentale. Il problema è allora nel rapporto tra queste due dimensioni, il sistema e il frammento, che kantianamente potremmo iniziare a risolvere indicando le loro fonti, o meglio, e questo è il contenuto affermativo della nostra tesi, la loro fonte comune: la natura dell’intelletto umano.
2.
Prima di affrontare il tema soffermiamoci, sempre nel tentativo di corredarlo con una po’ di evidenza, sui «frammenti» di testo kantiani, che non sono tali nel senso letterale del termine, ovvero non sono parti più o meno lunghe di un testo perduto, delle quali si deve in qualche modo richiamare in vita il contesto e il significato originario, bensì riflessioni preparatorie, insomma non sono tanto frammenti da comprendere, quanto frammenti di comprensione sulla via verso il sistema delle condizioni della ragione.
Mi riferisco al lascito manoscritto pubblicato nella terza sezione dell’edizione delle opere dell’Accademia e in particolare alle riflessioni contenute nei voll. XIV-XIX.3 Chi apra questi libri si trova di fronte dei testi numerati progressivamente, lunghi da poche righe ad alcune pagine. Questa forma di presentazione è il frutto del lavoro del curatore dei volumi, E. Adickes, che aveva di fronte testi fittamente annotati da Kant, spesso a riprese e a strati successivi, e in primo luogo i manuali universitari di Georg Friedrich Meier e Alexander Gottlieb Baumgarten, da lui usati per molti anni, tra l’altro in osservanza al decreto che imponeva ai professori prussiani l’adozione di un manuale come filo conduttore delle lezioni. Kant fece rilegare i suoi manuali con pagine bianche interpolate per avere lo spazio necessario a prendere appunti e in molti casi le note occuparono man mano ogni angolo, creando grovigli indecifrabili per chiunque non abbia impegnato anni a rendersi familiare la scrittura di Kant in ogni suo aspetto. Adickes trascrisse le annotazioni, ma soprattutto individuò una serie di criteri oggettivi per attribuirle a 33 fasi e sotto-fasi diverse, databili con buona approssimazione. Un lavoro analitico forse irripetibile che ci mette a disposizione materiali preziosi per comprendere meglio e integrare le opere kantiane, a patto naturalmente che siano ricollocati nel loro contesto d’origine, che è quello definito dal rapporto con gli autori di riferimento, dai molteplici aspetti dell’evoluzione del pensiero kantiano e dalle opere pubblicate. In breve, come si diceva, le Reflexionen non sono frammenti autonomi per destinazione iniziale o divenuti tali per le vicende storiche, bensì parti di una complessa «configurazione orografica» da cartografare, diario (e per noi testimonianza) di un pensiero in movimento, che Adickes ha sezionato e catalogato a uso e consumo degli studiosi; sono dunque materiali da (ri)unificare secondo ipotesi di ordine oggettivo per comprendere il processo unitario da cui sono emersi, il tutto a cui appartengono.
Questo andava fatto in primo luogo a livello di edizione, il che purtroppo è avvenuto in modo solo frammentario nel corso della pubblicazione dei tomi, perché nel volume conclusivo della sezione (che doveva essere il XXI) era prevista un’esposizione sintetica con tutti i criteri, le giustificazioni, gli indici e gli strumenti del caso. Adickes non è vissuto abbastanza per realizzarla o portarla a «sistema» e nessun altro si è più trovato in condizione di sostituirlo in questo compito. Solo questa circostanza, causa prima della conseguente difficoltà a maneggiare il gran numero di annotazioni kantiane e a verificare le loro datazioni o altri dubbi (che comunque non mettono in discussione l’affidabilità complessiva delle lezioni e delle datazioni adickesiane), fa sì che le Riflessioni ci appaiano nella forma isolata e individuale del frammento. Il metodo della frammentazione analitica di Adickes non è poi stato condiviso dal Lehman, che (a parte la parentesi del vol. XIX) ha curato gli ultimi volumi di questa sezione, cercando soltanto di dare leggibilità ai manoscritti nello stato in cui gli erano giunti. La sua scelta intendeva essere di massimo rispetto dei testi, ai quali veniva risparmiato l’intervento anatomizzante e potenzialmente arbitrario del curatore, ma i risultati, soprattutto nel caso dell’Opus postumum, non sembrano avergli dato ragione, almeno dal punto di vista delle finalità di un’edizione. I lettori sono infatti costretti a riesaminare da sé i materiali per non farsi fuorviare da quelli spuri o per ricostruire l’ordine cronologico o tematico e riaccostare ciò che solo delle circostanze contingenti (la caduta di un fascicolo, il rimescolamento dei fogli, ecc.) hanno separato o congiunto; all’interprete viene dunque affidata non solo l’eventuale sintesi tematica, ma anche l’incombenza della corretta apprensione dei materiali e della loro analisi, per quanto facilitata dalla trasposizione data alle stampe.
Ecco dunque un piccolo esempio del fatto che tanto i frammenti senza ordine e non congiunti in una sintesi, quanto le totalità positive immediatamente date, e soprattutto queste ultime, non sono a noi incondizionatamente intelligibili. Il tutto incondizionato (anche solo nel senso relativo della forma di un’edizione non condizionata da scelte e interventi di un curatore)4 non s’incontra mai immediatamente con l’ordine discorsivo dell’intelletto, può essere appreso solo in modo indeterminato e va quindi frammentato, analizzato e ricomposto. Che è quanto Kant indica letteralmente in più luoghi, anche nelle Reflexionen, per es. nella seguente, dove contrasta questo stato di cose del nostro mondo fenomenico con il mondo noumenico:
i principi dell’esposizione delle apparenze presuppongono che queste siano tutte condizionate, quindi non assolutamente poste. Nessuna totalità assoluta (g totalitas secundum quid) [della sintesi] della composizione, e quindi progresso infinito (g assoluta limitazione in mundo phaenomeno. Inter phaenomena non datur universalitas absoluta). Nessuna assoluta (divisione) totalità della scomposizione, e quindi nessun assolutamente semplice […] non simplicitas absoluta. [Solo] «In mundo noumeno datur universitas […] monas […] libertas transcendentalis […] necessitas absoluta originaria».5
Anche se poniamo all’origine della conoscenza una totalità sistematica e aspiriamo a ricondurne le molteplici manifestazione nell’ordine sistematico che fa capo a un’unità incondizionata, di fatto siamo sempre tra gli estremi della totalità e del caos ad apprendere frammenti, unificarli, sezionarli, ricomporli, metterli in relazione, certi di approdare comunque ad altri frammenti, a universali sempre relativi, distributivi e mai collettivi, che non annullano la condizione del necessario riferimento ai frammenti di partenza che sono quelli colti dall’intuizione sensibile. L’importante è evitare l’idiosincrasia dei frammenti. In breve, «la generalità è un’azione continua, che in seguito può essere suddivisa».6
3.
Tutto questo vale inevitabilmente anche per le interpretazioni del pensiero di Kant. Consideriamo un solo esempio, ormai classico, introducendolo con un giudizio di Cassirer:
il valore del lavoro dettagliato compiuto dalla Kant-Philologie degli ultimi decenni non è da sottovalutare, e i risultati a cui esso ha condotto nel riguardo storico e sistematico, andavano naturalmente presi in attenta considerazione […]. Tuttavia mi sembra che questo indirizzo dell’indagine dettagliata spesso abbia più frenato che non promosso l’intuizione viva di ciò che la filosofia di Kant significhi come totalità unitaria. Di fronte a un indirizzo d’indagine e di lavoro che sembra compiacersi soprattutto di scoprire le «contraddizioni» di Kant, e che alla fine minaccia di ridurre l’intero sistema critico a un aggregato di contraddizioni siffatte, ci sentiamo nella necessità e nel diritto di ritornare a cercare una visione complessiva di Kant e della sua dottrina.7
In questione non è ovviamente il lavoro filologico e di dettaglio, quanto la difficoltà, ma anche la necessità di comprendere man mano i particolari alla luce e in funzione di un’idea, di una «intuizione» dice Cassirer, che non riduca il sistema critico a un aggregato sconnesso di frammenti, riduzione non feconda e ben poco plausibile come afferma, qualche anno dopo Cassirer, anche J. Ebbinghaus in un saggio divenuto famoso.8 Il lavoro di quella Kant-Philologie è stato essenziale per «una lettura avvertita, non ingenua dei testi kantiani, volta a coglierne (soprattutto nel caso della prima Critica) il travaglio, le esitazioni, lo sforzo di formulazione»,9 ma talvolta ha confuso la genesi del sistema con la sua condizione di possibilità, che può risiedere soltanto nella sua unità a priori sotto un’idea.10 Distinzione ben chiara a Kant, che proprio mentre definisce le condizioni architettoniche dei sistemi, così descrive la loro origine:
Soltanto dopo aver peregrinato a lungo sotto la guida di un’idea nascosta in noi, raccogliendo in modo rapsodico molte conoscenze riferite ad essa, come materiale da costruzione, e componendole per lungo tempo in modo semplicemente tecnico, ci è infine possibile intravedere l’idea nella sua piena luce e progettare architettonicamente un tutto secondo i fini della ragione. I sistemi sembrano formarsi per generatio aequivoca, come vermi, dal semplice confluire di concetti ammucchiati insieme, all’inizio monchi, col tempo completi, per quanto avevano tutti quanti il loro schema, come germe originario, nella ragione che semplicemente si svolgeva.11
Impossibile, credo, non cogliere in queste parole il riflesso autobiografico delle peregrinazioni teoriche dello stesso Kant nei due decenni di ricerche che avevano portato alla maturazione del germe della filosofia critica. Né possiamo pensare che gli sforzi di comprensione dei suoi lettori si svolgano in modo più lineare e meno sofferto. Un altro grande interprete, J. H. Paton, pur condividendo la critica di Cassirer all’angustia di una lettura che si accontentava di frammentare il pensiero kantiano, chiamata da lui con una formula efficace e fortunata «Patchworktheory», ammette di essere rimasto anche lui vittima, se così si può dire, della frammentarietà della comprensione, confermando appieno la verità della descrizione kantiana appena letta. Vediamo prima un aspetto della critica e poi la confessione:
It is indeed a strange thing that so many of those who either explicitly or implicitly regard Kant as great, or at least an influential, thinker, ascribe to him views which can hardly be considered as anything but silly. Thus he is commonly supposed to mantain that no action can be moral if we have any natural inclination towards it or if we obtain the slightest pleasure from its performance; and again that a good man must take no account whatever of the consequences of his actions but must deduce all the manifold duties of life from the bare conception of moral law as such – without any regard for the characteristics of human nature or the circumstances of human life. When, some thirty years ago, I wrote about moral philosophy in The Good Will, I had not freed myself from the traditional interpretation of Kant, and I supposed that I was dealing with factors in the moral life – particularly teleological factors – which he had neglected or overlooked. A fuller study has shown me my error – an error which, I think, is by no mean confined to myself. One of the last thinks which I discovered in my study of him, thought it now seems to have been staring me in the face all the time, is that in his application of moral principles Kant takes into account most fully the desires and purposes and potentialities of men.12
La distanza storica di questi esempi ci facilita il discorso, ma ovviamente siamo ancora e sempre circondati da letture e critiche parcellizzanti. Alcune non si pongono consapevolmente in relazione con lo schema del sistema kantiano, altre tentano di portarlo alla luce e cercano di raggiungere almeno un’interpretazione di massima condivisa del suo pensiero, avendo intravisto la luce dell’idea da cui esso si dipana, chi più e chi meno paziente nel seguirne le manifestazioni e riportarle all’unità. Queste sono del resto le comuni dinamiche della storia delle idee e della vita delle tradizioni, anche se forse diventano particolarmente acute nel caso kantiano, dato che quanto più grande è la compattezza e consistenza di un sistema tanto più si fa mediata l’applicazione dei principi e cresce la specificazione del molteplice, rendendo difficile abbracciare il tutto con lo sguardo della mente, come Kant ci chiede di fare sempre.13 Insomma, ci sono senz’altro aspetti per cui l’opera di Kant è rimasta e non poteva non restare frammentaria (v. ad esempio i rapporti tra critica, filosofia trascendentale e metafisica, esempi di frammenti che sono sistemi e di sistemi che «appartengono» al pensiero e ai suoi oggetti senza liberarli dalla loro frammentarietà), ma come oggetto di studio il carattere sistematico gli appartiene in alto grado, come appartiene agli oggetti della natura e a quelli del genio («l’oggetto, – annota Kant – in quanto dato, è determinato senza soluzione di continuità, ma non in quanto viene pensato»),14 piuttosto è la nostra comprensione che, procedendo per analisi e sintesi, ha la natura del frammento. Essa porta a una conoscenza determinata sì, ma sempre ulteriormente determinabile di un tutto del pensiero, ovvero come unità di un punto di vista su un molteplice limitato di aspetti, temi o testi, che diviene immediatamente condizione della sua integrazione in un contesto più ampio e articolato.
4.
La tensione tra tutto e frammenti nel caso dell’edizione degli scritti di Kant e la relazione ermeneutica tra la ricostruzione sintetica dell’unità di una filosofia e l’analisi parcellizzante dei testi e degli argomenti corrispondenti, costitutiva di ogni interpretazione o critica, sono state richiamate alla memoria in quanto esempi del rapporto tra sistematicità e frammentarietà che troviamo in generale nella conoscenza. Ora possiamo avviare qualche considerazione sulla fonte trascendentale di queste due dimensioni o qualità dell’esperienza, senza dimenticare il peso esistenziale del nostro tema. Infatti, il progresso sintetico nell’aggregazione e unificazione del molteplice a posteriori dell’esperienza e della conoscenza non è affatto scontato, poiché – come lo stesso Kant sa e dice – è paradossale, almeno a prima vista, che le condizioni di possibilità della sintesi debbano essere ideali e a priori. E se invece fossero semplicemente principi soggettivi senza un dimostrato valore oggettivo? In tal caso per Kant verrebbe meno l’unità di principio dell’esperienza e quindi quell’indefinita determinabilità dei fenomeni che permette di considerarli non frammenti in sé, ma parti di un tutto progressivamente conoscibile e integrabile in un’esperienza e questo vale anche e a maggior ragione per i fenomeni della nostra coscienza. Infatti, per comprimere una tematica complessa con una sola frase di Kant, solo «Dio conosce tutto conoscendo se stesso. L’uomo conosce se stesso conoscendo altre cose».15 La perdita dell’unità dell’esperienza equivale alla perdita del sé, poiché «l’animo può divenire cosciente di se stesso solo attraverso le apparenze, che corrispondono alle sue funzioni dinamiche, e delle apparenze solo attraverso le sue funzioni dinamiche».16 Potremmo essere tentati di dire con Goethe che l’arte più grande nella vita del mondo e della cultura consiste nel saper trasformare un problema in un postulato17 e quindi postulare come evidenti l’unità del sé e l’affinità dei fenomeni, questo in un certo senso è anche quello che fa Kant, ma ciò che conta è come lo si fa.
Potrebbe anche darsi che i fenomeni siano tali che l’intelletto non li trovi assolutamente conformi alle condizioni della sua unità e così tutto quanto confonda, fino al punto che, per esempio, nella serie consecutiva dei fenomeni non si presenti nulla che ci fornisca una regola della sintesi e corrisponda dunque al concetto di causa ed effetto, di modo che questo concetto risulterebbe completamente vuoto, nullo e senza significato. Ciò nondimeno, i fenomeni offrirebbero pur sempre degli oggetti della nostra intuizione, giacché l’intuizione non richiede in alcun modo le funzioni del pensiero.18
Nella Critica della ragion pura questo passo serve a introdurre l’argomentazione che mira a fare del postulato dell’unità dell’esperienza possibile un principio dimostrato, ovvero la deduzione trascendentale della validità oggettiva dei concetti puri dell’intelletto. Da essi dipendono quei giudizi sintetici a priori di cui nelle citazioni iniziali si parlava in termini di curvatura della ragione umana. Se non fossero validi per ogni apparenza, per ogni oggetto dell’intuizione, la sfera della ragione rimarrebbe una pura e vuota potenzialità. Se quindi la natura dell’intelletto e quella dei fenomeni non avessero una relazione necessaria, il nostro mondo dovrebbe essere, più che frammentario, puntiforme e non potremmo (ri)conoscere alcuna regola della sintesi, che – come si accennava – non solo si fonda sull’unità trascendentale della coscienza o più esattamente dell’appercezione, ma al tempo stesso la rende possibile e reale quale forma della coscienza dell’io empirico.19
La frase che conclude l’ultima citazione, quella che afferma l’autonomia degli oggetti dell’intuizione rispetto alle funzioni dell’intelletto, sembra aprire una prospettiva empiristica. Questa tuttavia appare percorribile soltanto fintantoché si considerano i risultati già acquisiti della sintesi e non si riflette sul rapporto originario delle rappresentazioni dell’oggetto con noi stessi in quanto soggetti delle rappresentazioni e dunque sulle condizioni trascendentali della sintesi. La necessità di questo tipo di riflessione teorica è indicata forse in modo più visibile nella prima versione della deduzione, che indugia di più sul «come» della sintesi, mentre nella seconda versione si privilegia la compattezza formale della prova dell’oggettività delle categorie.
La prima evidenzia subito20 che perfino la riproduzione delle apparenze nell’immaginazione, che è la condizione ineliminabile di ogni appercezione, sia pure frammentaria e a-concettuale, dei fenomeni del senso interno e di quello esterno deve avere un fondamento a priori della sua unità nella natura dell’intelletto. Per quanto la cosa suoni ancora paradossale, è il sistema dei concetti puri dell’intelletto a fondare la conformità dell’insieme dei fenomeni (natura materialiter spectata) alle leggi della natura formaliter spectata, che non sono per noi nelle apparenze o nelle cose, ma nell’intelletto. La fondazione teoretica offerta dalla «Deduzione trascendentale» non afferma tuttavia la necessità assoluta della conformità delle cose, o delle loro apparenze, all’ordine dell’intelletto e conserva così inalterato il senso esistenziale della domanda da cui muoveva, dato che la sua argomentazione non è di tipo analitico-ontologico, bensì sintetico-finalistico. In quanto tale essa non autorizza alcun passaggio dal generale al particolare, non permette – in altre parole – di derivare dal sistema dei concetti puri dell’intelletto un sistema della conoscenza, piuttosto porta a comprendere il processo cognitivo che costituisce l’unità, la sistematicità e la pretesa di oggettività della conoscenza e dell’esperienza, non nei termini di un possesso definitivo, bensì come un compito legittimo e addirittura necessario,21 il cui successo non è mai scontato o completo e che rimane sempre esposto a scacchi, revisioni e involuzioni.
L’arte di fare del problema dell’esperienza possibile (che è unitaria e sistematica, eppure costitutivamente frammentaria) un postulato consiste dunque nel riconoscervi un principio a priori del fare. Riconoscere l’idealità, l’apriorità e la necessità dei principi e del fine di quella tensione alla sintesi in cui consiste la nostra esperienza, non significa dunque superare la coscienza della sua frammentarietà e casualità; anzi, per un verso, la riflessione trascendentale, e la prima Critica in particolare, spiega soltanto la normalità della «forma frammento», ovvero il fatto che tale è la forma noematica delle nostre esperienze, sempre e comunque unità parziali e potenzialmente determinabili secondo regole o leggi in relazione al tutto, che poniamo come sostrato dei fenomeni, e alla sempre aperta unità sistematica della conoscenza empirica. L’unità del sistema è, a un tempo, necessariamente presupposta dal soggetto (in quanto «i concetti della nostra ragion pura hanno per archetipo questa stessa ragione, sono dunque soggettivi»22 e formano un sistema secondo l’idea pura della sua unità) e tuttavia mai completamente raggiungibile nell’esperienza, perché la determinazione oggettiva di questa idea è vincolata alla contingenza del contenuto empirico. Infatti, da una parte «per determinare qualcosa dobbiamo avere un determinando, perciò la prima determinazione o quella completa sono impossibili»23 e dall’altra «il procedere infinito non può essere compreso e l’incondizionato non può essere reso intuibile»,24 quindi il sistema assoluto è impossibile per la natura stessa dell’intelletto umano, che pare ora non poter né sopravvivere nella frammentazione, né uscirne.
E allora non sorprende che la terza Critica rilanci la domanda trascendentale:
Infatti si può pur pensare che, malgrado tutta l’uniformità della natura secondo le leggi universali, senza di cui non si darebbe affatto la forma di una conoscenza d’esperienza in genere, la specifica diversità delle leggi empiriche della natura, insieme ai loro effetti, potrebbe essere nondimeno talmente grande, da rendere impossibile al nostro intelletto di scoprirvi un ordine afferrabile, di dividere i suoi prodotti in generi e specie, al fine di usare i principi per spiegare e intendere l’una cosa anche per spiegare e comprendere l’altra, e di fare un’esperienza interconnessa da un materiale per noi così confuso (propriamente: solo infinitamente molteplice, non adeguato alla nostra capacità di afferrarlo). La facoltà di giudizio ha dunque in sé, anch’essa, un principio a priori per la possibilità della natura, ma solo sotto il riguardo soggettivo, mediante il quale essa prescrive, non però alla natura (in quanto autonomia), ma a se stessa (in quanto eautonomia), una legge per la riflessione sulla natura, che potrebbe essere chiamata legge della specificazione della natura relativamente alle sue leggi empiriche: una legge che essa non conosce a priori nella natura, ma che ammette per un suo ordine, conoscibile per il nostro intelletto, nella divisione che essa fa delle sue leggi universali, quando vuole subordinare a queste una molteplicità di leggi particolari.25
La natura dell’intelletto e della ragione, la sua sfericità o – fuor di metafora – il fatto che i loro principi costituiscano un sistema, è sia la funzione della sintesi che il prototipo di ciò che attraverso quest’ultima cerchiamo di raggiungere,26 ma il risultato di una sintesi è sempre una cognitio ectypa, ovvero causata e mutuata da oggetti esterni,27 dei quali in vari modi e a diversi livelli diveniamo progressivamente coscienti nella rappresentazione. Questo significa di nuovo che il nostro intelletto, per quanto consista in un sistema organico di funzioni dell’unità, può conoscere in modo solo parziale, cercando di determinare progressivamente le parti per accrescere la sua conoscenza del tutto.28 L’intelletto non ha quindi un’intuizione immediata dell’intero e non può nemmeno esporre completamente ciò che gli offre la nostra intuizione sensibile (v. R 4529), ma riflette sull’intuizione di frammenti del mondo, dei quali cerca l’universale attraverso l’astrazione, ovvero per mezzo della rappresentazione immediata dell’intuizione «di cui tralasciamo molto e riteniamo soltanto delle note»,29 note che mettiamo in relazione tra loro attraverso il giudizio. La rappresentazione delle parti e quella dei loro rapporti è dunque sempre condizionata dalla contingenza di principio della sintesi empirica, che non sussisterebbe per un intelletto archetipo che conoscesse in modo sintetico il tutto e potesse procedere dalla sua rappresentazione a quella delle parti, le quali allora sarebbero immediatamente intuite in un ordine necessario di relazioni metafisiche. Un tipo di cognizione a cui possiamo pensare in astratto, ma che non possiamo nemmeno immaginarci.30 Invece per noi
Questa contingenza si trova del tutto naturalmente nel particolare che la facoltà di giudizio deve portare sotto l’universale dei concetti dell’intelletto; infatti mediante l’universale del nostro (umano) intelletto il particolare non è determinato; ed è contingente in quanti vari modi possano presentarsi alla nostra percezione cose diverse che pure convergono in una nota comune. Il nostro intelletto è una facoltà dei concetti, cioè un intelletto discorsivo, per il quale, certo, deve essere contingente quale e quanto diverso possa essere il particolare che può essergli dato nella natura e che può essere portato sotto i suoi concetti. l nostro intelletto ha quindi questo di proprio riguardo alla facoltà di giudizio, che nella conoscenza per mezzo di esso non è determinato il particolare mediante l’universale, e quello dunque non può essere derivato da questo soltanto; tuttavia però questo particolare, nella molteplicità della natura, deve armonizzarsi con l’universale (mediante concetti e leggi) per poter essere sussunto sotto di esso, un’armonia che, sotto queste condizioni, deve essere assai contingente e, per la facoltà di giudizio, senza un principio determinato.31
La facoltà del giudizio (Urteilskraft) deve avere un proprio principio trascendentale per la riflessione, perché sotto le categorie dell’intelletto la determinazione delle apparenze resta pur sempre nella frammentarietà e nella contingenza; l’intelletto è infatti solo la facoltà delle regole, ovvero dell’ordine trascendentale delle rappresentazioni secondo i modi possibili della loro unificazione sintetica, ovvero rispetto agli esponenti della determinazione della quantità, qualità, relazione e modalità dei fenomeni. Tali sono i concetti puri dell’intelletto che a voler essere esatti non sono né archetipici, né ectipici (che poi vuol dire semplicemente: sensibili),32 bensì «reflectentes»33, nel senso – un po’ diverso da quello che questa parola ha nella prima e in parte anche nella terza Critica – che essi rendono possibile la riflessione sul molteplice rispetto a una topica trascendentale di ciò che per noi deve valere universalmente, ma
le molteplicità ci nascondono quanto dell’archetipo è autonomo e originario. La rappresentazione astratta e generale sorge in questo modo, in cui noi tralasciamo molto e riteniamo soltanto delle note. Per noi tutto è apparenza. Platonismo. L’intelletto divino contiene ogni perfezione nell’archetipo, il nostro nelle regole. La nostra conoscenza intellettuale è discorsiva. Per suo tramite non sono date rappresentazioni immediate di oggetti, bensì tali rappresentazioni vengono portate sotto regole, o ciò che dà occasione a una regola.34
Eccoci dunque alla vera natura del frammento in quanto particolare per eccellenza: far parte di un molteplice che può essere portato sotto una regola o dare occasione a regole solo grazie al principio a priori della facoltà di giudizio, attraverso il quale si cerca quella regola o concordanza con l’universale, quella finalità ancora indeterminata verso le nostre facoltà cognitive senza la quale l’intelletto si ritroverebbe smarrito in un mondo non familiare. Per la natura dell’intelletto e grazie alla facoltà di giudizio il frammento è intessuto a priori nella rete delle classificazioni, delle predicazioni e delle relazioni reali, è sempre parte di un tutto o almeno di un orizzonte che è possibile «abbracciare con lo sguardo» o per noi semplicemente non è, perché se così non fosse risulterebbe inintelligibile al nostro intelletto al pari di quel maxi-frammento ipertrofico che sarebbe un sistema assoluto. In breve, il senso del frammento è la processualità dell’esperienza sintetica in cui si costituisce e «aggomitola» il nostro rapporto con il mondo.
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R 2231, KGS XVI , p. 279; I. Kant, Critica della ragione pur, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, che riporta la paginazione originale delle due prime edizioni: A 762/B 790 e A797/B 825. ↩︎
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Ernst Cassirer, Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze1977, p. 498 (corsivo aggiunto), ristampato da Castelvecchi, Roma 2016, con una presentazione di G. Gigliotti. ↩︎
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Immanuel Kant, Gesammelte Schriften, Hrsg. Preussische Akademie der Wissenschaften (Bd. 1-22), Deutsche Akademie der Wissenschaften (Bd. 23), Akademie der Wissenschaften zu Göttingen (Bd. 24 ff.), de Gruyter, Berlin 1900 sgg., citato qui con la sigla KGS e un numero romano a indicare il volume. ↩︎
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A questo punto dovremmo almeno ricordare anche Benno Erdmann, che ci ha lasciato un’edizione parziale e ormai in disuso delle riflessioni kantiane scegliendo di raggrupparle in modo tematico, ad es. seguendo il filo conduttore dei capitoli della Critica della ragion pura, cf. il volume da lui curato, Reflexionen Kants zur Kritik der reinen Vernunft, Fues’s Verlag (R. Reisland), Leipzig 1884, ristampato a cura di N. Hinske presso Frommann-Holzboog, Stuttgat-Bad Cannstatt 1992. ↩︎
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“Prinzipien der Exposition der Erscheinungen setzen diese insgesamt als bedingt voraus, mithin nichts schlechthin gesetzt. Keine absolute Totalität (g totalitas secundum quid) [der Synthesis] der Zusammensetzung, mithin der […] progressus unendlich (g unbedingte Begrentzung in mundo phaenomeno. Inter phaenomena non datur universalitas absoluta). Keine absolute (Theilung der) Totalität der Dekomposition, mithin kein unbedingt einfaches (g non simplicitas absoluta). «g In mundo noumeno datur universitas […] monas […] libertas transcendentalis […] necessitas absoluta originaria», R 4759, KGS XVII, pp. 709, 710. ↩︎
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“Die Allgemeinheit ist eine stetige Handlung, die nachher eingeteilt werden kann”, R 4632, KGS XVII, p. 615. ↩︎
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E. Cassirer, Vita cit., pp. 3-4. ↩︎
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Julius Ebbinghaus, «Kantinterpretation und Kantkritik», in Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, II, 1 (1924) pp. 80-115, ristampato in Id., Gesammelte Aufsätze, Vorträge und Reden, WBG, Darmstadt 1968, pp. 1-23. Del resto ciò è quanto Kant stesso si vedeva costretto ad annotare dopo le prime reazioní alla pubblicazione della KrV: “Poiché tuttavia non si può contestare che proposizioni siffatte, che prescrivono a priori la regola dell’esperienza possibile (come, ad esempio, ogni cambiamento ha la sua causa), siano dotate di rigorosa universalità e necessità, e che siano nondimeno sintetiche, ne consegue che l’empirismo, che spaccia in blocco quest’unità sintetica delle nostre rappresentazioni nella conoscenza per una mera questione di abitudine, è affatto insostenibile […]. È da qui che provengono agli oggetti dei sensi la connessione e la regolarità della loro coesistenza, il fatto che è possibile all’intelletto afferrarli solo sotto leggi universali e rintracciare la loro unità secondo principi, un’unità che il principio di contraddizione non è sufficiente da solo a spiegare”, Quali sono i reali progressi compiuti dalla metafisica in Germania dai tempi di Leibniz e di Wolff, in I. Kant, Scritti sul criticismo, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 169 (KGS XX, p. 275). ↩︎
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A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari 19982, pp. 250-51. ↩︎
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“Con sistema io intendo però l’unità di molteplici conoscenze sotto un’idea. Ques’ultima è il concetto razionale della forma di un tutto, in quanto mediante tale concetto viene determinata a priori l’estensione del molteplice, come pure la collocazione delle parti tra loro”, Critica della ragione pura, cit., A 832/B 860. ↩︎
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Ivi, A 835/B 863. ↩︎
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J. H. Paton, The categorical imperative. A study in Kant’s moral philosophy, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 19713, pp. 15 e 16-17. ↩︎
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Critica della ragion pura, A 707/B 735. ↩︎
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“Der Gegenstand, so fern es gegeben ist, ist durchgängig bestimmt, aber nicht, so fern er gedacht wird”, R 4304, KGS XVII, p. 501. ↩︎
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“Gott erkennt alles, indem er sich selbst erkennt. Der Mensch erkennt sich selbst, indem er andere Dinge erkennt”, R 3826, KGS XVII, p. 304. ↩︎
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“Das Gemüt kann sich seiner selbst nur durch die Erscheinungen bewußt werden, die seinen dynamischen Funktionen correspondieren, und der Erscheinungen nur durch seine dynamischen Funktionen.” (R 4686, KGS XVII, p. 675, righe 13-15). ↩︎
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“Die größte Kunst im Lehr- und Weltleben besteht darin, das Problem in ein Postulat zu verwandeln, damit kommt man durch”, lettera di J. W. von Goethe a C. F. Zelter del 9 agosto 1828. ↩︎
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Critica della ragion pura, A 90-91/B 123. ↩︎
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V. anche la R 4679, KGS XVII, particolarmente il primo cpv. di p. 664. ↩︎
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Cfr. Critica della ragion pura, A 100-2. ↩︎
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Nel senso di tale necessità si può anche declinare con G. Prauss l’intenzionalità come Erfolgsintention, riportando questo concetto alla lezione kantiana, cfr. Id., Einführung in die Erkenntnistheorie, WBG, Darmstandt, p. 198. ↩︎
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“Die Begriffe von unserer reinen Vernunft haben zum Urbilde diese Vernunft selber, sind also subjectiv”, R 3982, KGS XVII, p. 375. ↩︎
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“Um etwas zu bestimmen, müssen wir ein bestimmendes haben, daher ist die erste oder vollstandige Bestimmung a priori unmoglich”, R 4686, KGS XVII, p. 675. ↩︎
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“Der unendliche Fortgang kann nicht begriffen und das unbedingte nicht anschauend gemacht werden”, R 4759, KGS XVII, p. 709, righe 19-20. ↩︎
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I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni, H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999, Introduzione § V, p. 21, pag. originale: XXXVII. Cfr. il primo cpv. con A 90-91/B 123 cit. con la n. 19. ↩︎
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«Die reine Vernunftbegriffe haben keine exemplaria, sondern sind selbst die Urbilder; aber die Begriffe von unserer reinen Vernunft haben zum Urbilde diese Vernunft selber, sind also subiectiv und nicht obiectiv», R 3981, KGS XVII, p. 375. ↩︎
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«Cognitio prototypa: causa rerum. Cognitio ectypa: causatum», R 3825, KGS XVII, p. 304, ↩︎
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Questo significa che né l’analisi né la sintesi possono mai giungere a compimento in un tutto della composizione o della divisione (R 3985, KGS XVII, p. 37), che dunque a noi non è mai dato un tutto, un Ganze in senso proprio, poiché la nostra conoscenza procede dal molteplice all’unità e non viceversa, bensì solo quello relativo della sintesi di un molteplice dato, dunque più una Zusammensetzung incompleta e problematica, ma adequata alla possibilità della conoscenza empirica nell’ambito dei fenomeni (R 5299, KGS XVIII, pp. 147-48 e 5639, KGS XVIII, pp. 276-78). ↩︎
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“Aus welcher wir vieles weglassen und nur Merkmale übrig behalten” (R 4347, KGS XVII, p., 514, righe 21-22) ↩︎
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Cfr. ivi, pp. 514-15. ↩︎
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Critica della facoltà di giudizio, cit., § 77, cit., pp. 238 e 239, paginazione originale 346-47 e 348. ↩︎
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V. la R 3978, KGS XVII, pp. 373-74. ↩︎
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R 4687, KGS XVII, pp. 675-76. ↩︎
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“Die Mannigfaltigkeiten verbergen uns das Selbstständige und ursprüngliche des Urbildes. Die abstracte und allgemeine Vorstellung entspringt auf diese Art, aus welcher wir vieles weglassen und nur Merkmale übrig behalten. Vor uns ist alles Apparentz. Platonism. Der göttliche Verstand enthält jede Vollkommenheit im Urbilde, der unsrige in Regeln. […] Unsere Verstandeserkenntnis ist discursiv. Dadurch werden keine unmittelbare Vorstellungen von Gegenständen gegeben, sondern solche nur unter Regeln gebracht, oder dasjenige was zu einer Regel Anlas giebt” (R 4347, KGS XVII, p. 514). ↩︎