Recensione a Claudio Tugnoli, Michele Cozzio (curatori), Significato del perdono: religione, antropologia, diritto

Claudio Tugnoli, Michele Cozzio (curatori), Significato del perdono: religione, antropologia, diritto, Tangram Edizioni Scientifiche, Trento 2023, pp. 263.

Perché il perdono e non la vendetta? È l’autentico perdono accessibile all’essere umano nella sua finitudine? Quali sono le fasi che compongono questo processo? È il perdono un obbligo morale? Richiede gratuità o implica una necessaria simmetria e reciprocità? Queste sono alcune delle domande aperte nelle loro declinazioni in vari contesti religiosi, antropologici e giuridici dai vari contributi raccolti in questo volume per iniziativa dell’Associazione Culturale “Antonio Rosmini” e dei suoi curatori Claudio Tugnoli1 e Michele Cozzio.2 Il testo viene dato alla stampa in un momento storico che chiama alla riflessione su temi come il perdono e, più ampiamente, la pace, in seguito all’intensificazione di tensioni internazionali complicate dalla pandemia di Covid-19 e al proliferare di contesti bellici come la guerra in Ucraina e la recrudescenza del conflitto israelo-palestinese.

Claudio Tugnoli introduce il lettore alla tematica (Il perdono difficile e necessario: nota introduttiva) mostrando come il perdono non sia solo una scelta ma anche e principalmente una necessità. Esso mette in connessione ogni uomo con il suo prossimo in quanto debitori l’uno dell’altro. In un mondo finito composto da azioni irreversibili, come quello umano, il perdono si configura come veicolo e garanzia di libertà. Citando Hannah Arendt: «solo attraverso questa costante e mutua liberazione da ciò che fanno, gli uomini possono rimanere liberi» (p. 15). Avendo chiarito la necessità del perdono a livello interumano, l’autore passa ad interrogarsi sul livello divino: cosa può fare l’uomo se è Dio ad infliggere sofferenze apparentemente ingiustificate e non un altro uomo? Il libro di Giobbe tratta proprio questo tema. La logica retributiva invocata dagli “amici” di Giobbe nel racconto biblico esige che ad ogni sofferenza corrisponda una colpa che possa giustificarla ma, come vediamo esplicitato in questa riflessione, il perdono non corrisponde alla logica della reciprocazione. Secondo la stessa, infatti, il perdono sarebbe più ingiusto della vendetta e della misericordia. Un Dio che seguisse la linea retributiva sarebbe certamente vendicativo. È Dio stesso nella conclusione del racconto a confermare a Giobbe, che non ha mai ceduto sotto il peso della presunta colpa assegnatagli dagli “amici”, che l’uomo non può intendere l’ordine divino e di certo nemmeno pretendere che Egli segua una presunta ratio umana. Assodato quanto detto finora, è illogico per l’uomo perdonare? Questa sembra essere la tesi di Tommaso Bertolotti.3 Egli trae la premessa della sua argomentazione dall’insegnamento evangelico sul dovere di perdonare sempre. Secondo la logica tale presupposto negherebbe la validità delle norme morali, infatti «a ogni regola morale R potrebbe corrispondere la negazione della stessa regola R» (p. 34), cioè grazie al perdono si nega la violazione della regola R. Questo secondo Bertolotti comporterebbe un’ulteriore violazione della regola già trasgredita. Tuttavia, fa presente Tugnoli, il perdono «non invalida la norma che è stata violata, ma soccorre colui che l’ha violata, aiutandolo a recuperare, con l’appartenenza al gruppo, la dignità di essere umano e il rispetto di sé stesso» (p. 38). Il malfattore infatti merita di essere sostenuto nel percorso riabilitativo sia mediante una giusta pena, sia mediante il perdono. Per concludere l’autore della nota introduttiva evidenzia il collegamento tra perdono e miracolo per cui il secondo permette di riacquisire la salute del corpo e il primo quella dell’anima. «Come il miracolo nel caso del corpo sospende la causalità della natura, il perdono sospende la causalità equivalente della logica retributiva. […] Dio ha promesso che avrebbe liberato l’uomo dalla morte e dal peccato; Dio, dunque, ci ha promesso il miracolo e il perdono» (p. 44).

Massimo Giuliani4 (Tra espiazione e riconciliazione: concetto e prassi del perdono nel giudaismo rabbinico) fornisce una panoramica tematica all’interno della tradizione ebraica. Questo discorso presenta due possibilità d’approccio: etica e teologico-religiosa. Per quanto riguarda la dimensione etica, l’autore utilizza come fonte principale un testo di etica ebraica il cui autore è un teologo e rabbino americano di nome Elliot N. Dorff.5 Questi sostiene che quattro elementi sarebbero fondamentali nel processo di riconciliazione: in primo luogo «il perdono deve contribuire alla rigenerazione morale sia della vittima sia del colpevole» (p. 51) e questo è il suo scopo, il secondo elemento è ciò che Dorff denomina “giustificazione del perdono” e implica «ancorare il perdono non a moti istintuali o passionali ma alla situazione oggettiva creata dal torto, […] una situazione che coinvolge anzitutto la giustizia come valore universale» (Ibidem). Il terzo elemento è il riconoscimento della violazione che implica la “confessione”, cioè un’ammissione di colpa. Quarto e ultimo elemento è il ricordo/memoria «che rende il perdono un processo di superamento di una situazione negativa e non la sua cancellazione» (p. 53). Per quanto riguarda la dimensione teologico-religiosa, la riflessione deve muovere da Talmud e Toseftà.6 Proprio nel trattato Bava Qammà all’interno di quest’ultima troviamo scritto: «Se una persona ha ricevuto un male, anche se l’offensore non ha chiesto il suo perdono in quanto parte offesa, deve comunque chiedere a Dio di mostrare compassione nei confronti dell’offensore» (p. 54). Sullo sfondo di ciò vi è la chiamata all’imitazione del Creatore, il quale è spesso concepito anche attraverso gli attributi di misericordia e compassione. Importante il criterio di middà ke-ne-ghed middà, misura per misura: Dio perdona l’uomo nella stessa misura in cui egli perdona il suo simile. Nonostante ciò il perdono non è mai pensabile come un diritto, una concessione automatica. L’accento non è tanto sul perdonare attivamente quanto sul farsi perdonare e sulla via corretta per rendersi degni del perdono altrui. Questa idea è inclusa nel concetto di teshuvà, la via della espiazione, tradotta come conversione, pentimento, ravvedimento e cambiamento di vita. A tale fine sono sempre richiesti quattro elementi: consapevolezza/contrizione - azione di rottura/riparazione - richiesta esplicita di perdono - impegno al futuro. Il perdono autentico dunque richiede sempre l’espiazione.

Don Stefano Zeni7 (La logica del perdono evangelico. L’esempio di Mt 18,21-35) analizza il passo matteano come paradigmatico per il modello di perdono evangelico. Il testo analizzato prende le mosse da una domanda rivolta a Gesù da Pietro: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?», alla quale Gesù risponde affermando: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». Subito dopo racconta una parabola che parla di un servo il quale ha contratto un enorme debito con il suo padrone, che per misericordia di quest’ultimo gli viene condonato interamente. Egli però, non mostrando la stessa capacità di compassione, fa gettare in prigione uno dei suoi compagni che gli doveva una piccola somma. Altri compagni che avevano assistito alla scena lo riferiscono al padrone, che ritira il suo perdono e consegna il servo agli aguzzini. L’insegnamento che si trae da questa parabola porta verso l’imperativo etico del perdono illimitato e ciò è richiesto su modello di ciò che avviene nel regno dei cieli. Come si è già precedentemente osservato per la tradizione ebraica, anche quella cristiana suggerisce l’imitatio Dei come via preferenziale. La logica è quella della gratuità e dell’amore di Dio. L’indignazione dei compagni che assistono alla scena deriva proprio dal tradimento di questa logica, nonostante la legge umana consenta legittimamente il comportamento tenuto dal servo. Egli non è in grado di reciprocare il perdono che ha appena ricevuto e questo è disdicevole. In senso generale, dunque, colui che richiede il perdono deve essere in primo luogo pronto ad offrirlo.

Sara Hejazi8 (Errare è umano, perdonare divino. Il perdono nella tradizione islamica) offre il suo contributo sul perdono nella tradizione islamica evidenziando chiaramente la differenza che lo separa dalle altre grandi religioni monoteiste. Nel Corano, per quanto concerne il perdono tra fedeli, è presupposta assoluta reciprocità, non può essere un atto unilaterale ed è necessario che sia posto riparo al torto fatto. È anche evidente il forte elemento comunitario per cui la risoluzione del conflitto tende ad essere più fortemente orientata verso la comunità piuttosto che verso le persone direttamente coinvolte. Parte fondamentale nel raggiungimento del perdono è il cosiddetto Istigfār, un vero processo espiatorio. Esso è composto dalla recitazione di formule che esprimono pentimento, accompagnate da gesti purificatori come le abluzioni, benedizioni, penitenze e atteggiamenti benevoli verso altri. Anche in questo modello di vita religiosa è rilevante l’imitazione di Dio che viene descritto come il perdonatore per eccellenza e inoltre anche del Profeta Maometto, esempio di comportamento perfettamente virtuoso. L’Islam incoraggia i fedeli a preferire il perdono alla vendetta seguendo questi modelli e ciò trova applicazione anche nella giurisprudenza. I crimini contro le singole persone, detti Quisâs, prevederebbero reciprocità nella pena (“legge del taglione”), ma il Corano incoraggia a perdonare il colpevole e convertire la pena in una richiesta di riscatto, ad esempio nel caso di un omicidio.

Massimo Raveri9 (Un percorso difficile, una scelta che libera. Il perdono nella spiritualità buddhista) evidenzia la compassione (e il perdono che ne deriva) come fondamento dell’Illuminazione nella tradizione buddhista. Nel Bhāvanākrama infatti leggiamo: «Poiché è noto che la causa fondamentale di tutte le virtù che caratterizzano un Illuminato altro non è che la compassione, essa deve essere praticata fin dall’inizio, nel venerabile Dharmasamgīti sūtra, infatti, è scritto: “Il Beato disse al bodhisattva, grande essere, Avalokiteśvara: “Colui che aspira all’Illuminazione non deve esercitarsi in molte virtù. Una soltanto è la virtù che deve ben sviluppare e ben realizzare affinché possa conquistare la perfezione di tutte le altre virtù. Qual è quest’unica virtù? È la perfetta compassione”» (p. 127). La compassione e il perdono sono entrambi difficoltosi doni di sé, si tratta di virtù che richiedono la disciplina e il coraggio di rinunciare a sé stessi in favore di ogni altro essere. Per il buddhismo si tratta soprattutto di impostare una sorta di terapia interiore che permetta di raggiungere l’obiettivo finale del perfetto distacco attraverso una consapevolezza autentica sulla natura del male. La libertà e gratuità di compassione e perdono si fondano sulla corretta interpretazione del tutto nella sua impermanenza, sulla radicale provvisorietà di esistenza dei buoni come dei malvagi. Il male altro non è che la conseguenza inevitabile di un Io che si è illuso di essere assoluto, potente e immortale. «Colui che riflette sull’universalità del dolore – è scritto nel Bhāvanākrama – deve indirizzare la sua compassione anzitutto verso sé stesso e sentire il proprio dolore e poi verso gli amici che in quel momento stanno provando sofferenza. Non vedendo differenza tra gli esseri, a causa della loro natura, […] egli deve volgere la sua mente compassionevole verso gli altri esseri cui non è legato da vincoli di amicizia e indirizzarla via via verso tutte le forme del mondo […] verso i nemici e verso coloro che sono nel male. E quando la compassione fluisce spontanea sotto forma di desiderio di liberare anche loro dal dolore di esistere, allora può essere detta Grande. È proprio questa grandezza che dà luce alla Via» (p. 129).

Antonio Malo10 (Il perdono come dono che rigenera le nostre relazioni) nel suo saggio approfondisce alcune tematiche esposte nel suo testo Antropologia del perdono in cui l’autore risponde al quesito sulla necessità del perdono.11 Perché dobbiamo perdonare? Il perdono non è certo un diritto e quindi l’imperativo morale non può fondarsi su questo, esso deriva invece da un dono precedente. Tutti siamo perdonati, continuamente. Una concatenazione che ha fondamento trascendente, prende le mosse da Dio e dal suo perdono infinito. Tale pratica è la risposta al potere di contagio del male che si fonda su una logica simmetrica vendicativa, sull’imitare il male con un male uguale e contrario. Questa spirale discendente di violenza non ha freni se non quello posto dal perdono: «Per trasformare la relazione danneggiata in bene relazionale, quindi, si deve uscire dalla logica della reciprocità e tornare a quella asimmetrica del dono, si deve cioè tornare a darsi con fiducia, ovverossia a perdonare» (p. 148). Le tappe che formano questo processo in quest’ottica di bene relazionale sono legate al superamento di questa simmetria introdotta dal male. «Per vincere il desiderio di vendetta si ha bisogno della virtù della mansuetudine e dei sentimenti di empatia, simpatia, e compassione; per vincere la violenza reciproca si ha bisogno dell’umiltà e del buon umore e, per andare oltre alla giustizia retributiva, si ha bisogno della misericordia» (p. 157).

Maria Alessandra Varone12 (Timore e Tremore e il perdono impossibile: la filosofia del segreto rivelata dal cavaliere della fede tra scandalo e paradosso) affronta il rapporto tra perdono e filosofia dello scandalo e del paradosso in Kierkegaard e in particolare all’interno dell’opera Timore e Tremore. L’idea fondamentale sostenuta dal filosofo è che il perdono degli uomini rappresenti una tentazione che lega allo stadio etico impedendo un effettivo sbalzo verso l’autentica fede e Dio. Rappresentante di questo secondo approccio è il cavaliere della fede, Abramo, che viene inserito nell’opera in relazione alla narrazione biblica riguardante il sacrificio di Isacco in Gen. 22,1-18. Kierkegaard si concede un tentativo di interpretazione degli stati d’animo dei due protagonisti della vicenda; leggiamo nell’opera sopracitata: «Il volto di Abramo era soffuso di paternità, il suo sguardo mite, il suo discorso incoraggiante. Ma Isacco non riusciva a capirlo, la sua anima non poteva elevarsi. […] Abramo salì il Moria, […] era mutato: il suo sguardo era selvaggio, la sua figura un orrore. Prese Isacco per lo stomaco, lo gettò a terra dicendogli: “Schiocchino, credi tu ch’io sia tuo padre? Io sono un idolatra. Credi tu che questo sia un ordine di Dio? No, è un mio capriccio”. […] Abramo diceva parlottando con sé stesso: “Signore del cielo, è meglio ch’egli mi creda un mostro piuttosto che perda la fede in te» (p. 183). È quindi Abramo a sacrificare la sua eticità umana. Non ha altra scelta, deve rinunciare alla comprensione, alla consolazione e alla compassione dei suoi compagni umani e non cedere alla tentazione dello stadio etico. Non può essere né compreso né perdonato. Tuttavia il perdono è presente in questa vicenda sotto un punto di vista che Kierkegaard non tiene in considerazione per via della sua visione della religione come rapporto individuale del fedele con Dio, propria del luteranesimo. In un’ottica cattolica infatti «Dio offre il proprio Figlio, simboleggiato dal montone che Abramo sacrifica al posto di Isacco. Quindi, Dio perdona Isacco, rappresentante dell’Umanità colpevole, offrendo il proprio Figlio come riscatto. La relazione di fiducia mutua tra Dio e Abramo porta con sé il perdono di tutta l’Umanità» (p. 194).

Maria Chiara Italia13 (Perdono e tradimento nelle relazioni familiari) sviluppa il suo discorso a partire dalla visione di tradimento proposta dallo psicoanalista junghiano, saggista e filosofo James Hillman nella sua opera Puer Aeternus all’interno della quale è esplicata tramite una storia. Un padre chiede al figlio di salire una gradinata e lasciarsi cadere fiducioso che sarà afferrato, ma quando il figlio esegue l’azione il padre lo lascia cadere. Questo tradimento, seppur non giustificato, viene letto come possibilità di individuazione. Permette infatti al figlio di staccarsi e intraprendere un viaggio di scoperta di sé stesso che nasce dalla consapevolezza che il genitore può anche farlo cadere, può sbagliare. Questa operazione da parte del padre dunque rappresenta metaforicamente il non intervento all’interno di questo processo di sperimentazione e formazione. Sempre Hillman asserisce che senza il tradimento né fiducia né perdono acquistano piena realtà. Per quanto riguarda il perdono specificamente declinato nel contesto della mediazione familiare, l’autrice parafrasa Giancarlo Francini: «il processo perdonativo è un processo relazionale, meglio se a tre, e che avviene con il racconto e la rielaborazione della vicenda coniugale per uscire dal dualismo colpevole/innocente. Le condizioni sono almeno due: la prima è che se c’è stato un torto occorre che sia riconosciuto da chi lo ha commesso; la seconda è che chi ha subito un torto indirizzi lo sguardo non tanto alla colpa dell’altro ma alla sua responsabilità nella vicenda. Perché è impossibile perdonare l’altro se non si è capaci di perdonare sé stessi, […] il perdono è sostare nella ferita» (p. 208).

Vittorio Italia14 (Il perdono nel diritto pubblico) definisce il perdono come «atto di generosità che annulla ogni vendetta o punizione, e che talora è collegato con un risarcimento o un’indennità», esso «fa riferimento a un sentimento, quello della clemenza, che indica la mitezza, la moderazione, la benevolenza, l’indulgenza». L’autore procede esplicando le categorie normative a cui il perdono può essere ricondotto all’interno del diritto pubblico: l’amnistia che estingue reato e pena ma non la condanna, distinta in propria e impropria; l’indulto che riguarda la cancellazione della pena principale; la grazia, istituto giuridico più rappresentativo in questo senso, che può estinguere o commutare la pena per decreto del Presidente della Repubblica; infine il perdono giudiziale che determina la non responsabilità per i minorenni (non è quindi un perdono in senso proprio). Le finalità comuni a tutte queste categorie sono l’eliminazione di eventuali desideri di vendetta e la salvaguardia della pace sociale.

Sergio Bonini15 (Il perdono nel diritto penale. Note minime su rationes seminales, principi, classi, istituti, futuribili) prende in considerazione la possibilità di un perdono proveniente dallo Stato. Esistono una serie di istituti giuridici associati ad esso, quali ad esempio l’oblazione comune, l’estinzione del reato per condotte riparatorie, la sospensione condizionale della pena, la liberazione condizionale, la riabilitazione e molti altri che vengono qui analiticamente evidenziati. «Il perdono (qui, pensando al perdono da parte della vittima, più che a quello ordinamentale-statuale) è anche il frutto del diritto penale? No, se diffidiamo di operazioni di ingegneria sociale volte a immaginarci un uomo sempre perdonante e perdonabile, che però, si potrebbe osservare, non c’è stato, non c’è, e non ci sarà. […] Sì, se all’orizzonte vogliamo scorgere e implementare, secondo la formula radbruchiana, “non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale» (p. 232).

Ruggero Maceratini16 (Il perdono nel diritto canonico) principia il suo scritto ricordando le parole pronunciate dal Fondatore della Chiesa sulla Croce (“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”) che hanno funto da modello per l’ordinamento giuridico che ne deriva. Una breve rassegna storica evidenzia come si è modificata la posizione della Chiesa nei secoli rispetto al tema: agli albori si riteneva che alcuni peccati non fossero remissibili. Dal 140 d.C. si è iniziato a perdonare ogni colpa, ma solo una volta dopo il battesimo. Dal III secolo si abbandona definitivamente l’idea della colpa imperdonabile e si dividono i peccati in leggeri, espiabili tramite la preghiera, e gravi, per i quali è richiesta una penitenza. Il testo prosegue analizzando il tema all’interno dei due codici di diritto canonico del 1917 e 1983 ed evidenziando la differenza tra il concetto di assoluzione laico e quello presente all’interno del diritto canonico. Il primo è inteso come proscioglimento da un’accusa, esclusione della commissione di un reato. Il secondo invece implica che «colui che si pente ha causato il fatto che può essere un peccato o un reato che, in quanto tale è sempre peccato e, proprio per questa commistione, chiede il perdono, presupposto indispensabile per ricevere l’assoluzione» (p. 243).


  1. Claudio Tugnoli, già docente di Filosofia e Storia nei Licei, ha conseguito l’Idoneità di Professore Associato in Filosofia Morale nel 2005, confermata dall’Abilitazione Scientifica Nazionale (2014). Per l’IPRASE del Trentino negli anni 1999-2003 ha curato una dozzina di pubblicazioni per la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti. Autore di qualche centinaio di articoli pubblicati su varie riviste anche internazionali, ha tradotto dal francese (Rousseau, Voltaire), dall’inglese (McTaggart), dal tedesco (Wundt). Accademico degli Agiati, membro del comitato scientifico dell’Associazione di Studi Emanuele Severino, segretario della rivista «Rosmini Studies» presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, Presidente dell’Associazione Culturale “A. Rosmini” di Trento, tiene un corso seminariale su Logica ed Etica dell’Argomentazione presso il Dipartimento di Sociologia dell’Ateneo trentino. Tra le ultime pubblicazioni: Il confine invisibile, 2019; Filosofia del dilemma, 2019; Filosofia del tempo e significato della storia, 2020. ↩︎

  2. Michele Cozzio è professore a contratto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento e svolge docenze in università italiane ed estere. Studioso ed esperto di diritto europeo, si occupa in particolare di contratti pubblici, servizi di interesse generale, politiche di governo del territorio specie in tema di sostenibilità. Coordina le iniziative dell’Osservatorio di Diritto Comunitario e Nazionale sugli Appalti Pubblici, componente della Red Iberoamericana de Contratación Pública (REDICOP). È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e saggi e consulente giuridico di Transparency International Italia (area appalti). Esercita la professione di avvocato, of counsel presso PizziniCosta&Partners a Trento. Socio fondatore di ALLS Consulting, società consortile che raggruppa imprese e operatori con professionalità multidisciplinari ESG. ↩︎

  3. T. Bertolotti, La logica del religioso. Come la New Logic può aiutare a spiegare alcuni aspetti fondamentali delle credenze religiose, in L. Magnani (a cura di), Introduzione alla New Logic. Logica, filosofia, cognizione, il melangolo, Genova 2013. ↩︎

  4. Massimo Giuliani è docente di Pensiero ebraico all’università di Trento; di Cultura ebraica all’università di Urbino; di Filosofia ebraica nel Diploma in studi ebraici dell’UCEI (Unione Comunità Ebraiche Italiane) e nella Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense a Roma. Ha conseguito il Ph.D. presso l’Università ebraica di Gerusalemme e ha insegnato per alcuni anni negli Stati Uniti. È membro dei comitati scientifici della Fondazione Maimonide (Milano), del Centro Rosmini (Rovereto) e di varie riviste accademiche. Collabora con i siti dell’ebraismo italiano Moked.it e Joimag.it e con le pagine culturali di Avvenire. Tra i suoi ultimi libri: Le corone della Torà. Logica e midrash nell’ermeneutica ebraica (Giuntina 2021); Antropologia halakhica, Saggi sul pensiero di rav Joseph Soloveitchik (Belforte 2021); Il conflitto teologico. Ebrei e cristiani (Morcelliana 2021); Mosè nostro maestro (San Paolo 2022). ↩︎

  5. E.N. Dorff, To Do the Right and the Good. A Jewish Approach to Modern Social Ethics, Philadelphia, The Jewish Pubblication Society, 2002, pp. 195-196. ↩︎

  6. Accanto al Talmud si è sviluppata una raccolta parallela, detta Toseftà [Aggiunta], che presenta la medesima struttura trattatistica della Mishnà [Ripetizione della Legge] e contiene materiali che integrano e illuminano sia la Mishnà che il Talmud. ↩︎

  7. Don Stefano Zeni, nato a Rovereto (TN), è presbitero dell’Arcidiocesi di Trento. Ha conseguito la licenza in Scienze Bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico e il dottorato in Teologia Biblica presso la Pontificia Università Gregoriana. A Trento è docente stabile straordinario di Nuovo Testamento presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Romano Guardini”, di cui attualmente è Direttore. È docente anche presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Bolzano, la Facoltà Teologica del Triveneto e collabora con altre Istituzioni accademiche in Italia e all’estero. ↩︎

  8. Sara Hejazi è antropologa e giornalista. Nata in Iran e cresciuta in Italia, insegna “Global Studies” presso la Al-Farabi National Kazakh University di Almaty. Si è occupata a lungo di movimenti religiosi, di misticismo islamico e di monachesimo contemporaneo da una prospettiva interreligiosa. Ha tradotto, per i tipi di Psiche editrice (Torino, 2006), il Diwan del mistico Husayn Ibn Mansur al Hallaj e ha studiato per due anni le comunità monastiche soto zen in Italia, pubblicando per i tipi di Sperling & Kupfer una raccolta di dieci regole monastiche trasversali alle diverse tradizioni religiose. Per «Diario», «Il Sole 24 ore» e la «Radio Svizzera Italiana» ha realizzato diversi reportage sul sufismo contemporaneo, in particolare sulla Tariqa Naqsbandi di Cipro. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Monaci, uomini senza Dio? Pratiche, senso, essenza, Mimesis 2014; La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale, Lastaria Edizioni 2017; Il senso della specie. Perché la cultura planetaria è il destino dell’umanità, Il Margine 2021; Iran, donne e rivolte, Scholé 2023. ↩︎

  9. Massimo Raveri. Professore già ordinario di Religioni e Filosofie dell’Asia Orientale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Antropologo, si è specializzato nello studio delle religioni presso l’Università di Kyoto e di Oxford. Ha svolto le sue ricerche sul campo in India e in Giappone, studiando le tradizioni ascetiche del Buddhismo esoterico, le concezioni della morte e dell’immortalità e, ultimamente, le forme e i linguaggi della spiritualità contemporanea. Da anni è impegnato nell’analisi dei problemi della convivenza di fedi diverse e del dialogo inter-religioso. Fra le sue pubblicazioni Il pensiero giapponese classico (Einaudi, Torino 2014) e Ridere degli dèi, ridere con gli dèi (il Mulino, Bologna 2020). ↩︎

  10. Antonio Malo è Professore Ordinario di Antropologia presso la Pontificia Università della Santa Croce. È membro del Comitato scientifico della Rivista “Acta Philosophica” (Roma), del “Centro di Ricerche di Ontologia Relazionale” (ROR) dell’Università della Santa Croce, del ”Centro para el Estudio de las Relaciones Interpersonales” (CERI) dell’Università Austral (Argentina) e della Facoltà di Psicologia dell’Università di Piura (Perù). Professore visitante in varie Università americane. La sua ricerca verte sull’antropologia dell’affettività, la teoria dell’azione, le relazioni umane e la filosofia del dono. Tra le sue opere in italiano ricordiamo: Antropologia dell’Affettività (Roma 1999), Introduzione alla psicologia (Milano 2002), Il senso antropologico dell’azione (Roma 2004), Io e gli altri. Dall’identità alla relazione (Roma 2010), Cartesio e la postmodernità (Roma 2011), Essere persona. Un’antropologia dell’identità (Roma 2013), Uomo o donna. Una differenza che conta (Milano 2017); Antropologia del perdono (Roma 2018); Svelare il mistero. Filosofia e narrazione a confronto (Roma 2021) e *Invito alla lettura del De Anima. Un commento antropologico *(Roma 2022). ↩︎

  11. Cfr.: A. Malo, Antropologia del perdono, Edusc, Roma 2018. ↩︎

  12. Maria Alessandra Varone è laureata in Filosofia e attualmente dottoranda in Filosofia analitica e scienze empiriche presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si occupa di Storia della scienza, nella fattispecie del rapporto tra scienze naturali e metafisica in Europa tra la seconda metà del Settecento e la fine dell’Ottocento. ↩︎

  13. Maria Chiara Italia è mediatrice familiare A.I.M.S. (Associazione Internazionale Mediatori Sistemici), coordinatrice genitoriale A.Co.Ge.S. (Associazione Coordinazione Genitoriale Sistemica), giornalista pubblicista e recentemente laureata anche in psicologia (corso di laurea magistrale in psicologia LM51) con una tesi sulla Fenomenologia del tradimento nelle relazioni familiari. Filosofa di formazione all’Università di Pavia – dove ha conseguito la prima laurea nel 1997 con una tesi sullo psicodramma in psicologia dinamica (relatrice prof.ssa Silvia Vegetti Finzi) – ha poi collaborato a progetti di ricerca nell’ambito della Teatroterapia (è autrice del saggio Esperienze teatrali nell’area del disagio psichico, in I fuoriscena, Euresis, 2000). Come mediatrice familiare e coordinatrice genitoriale collabora con studi legali e di psicoterapia, l’associazione Difesa In Famiglia (DIF www.difesainfamiglia.it) e il Centro di Terapia dell’Adolescenza di cui attualmente coordina il settore separazioni conflittuali: i corsi di formazione e il servizio di sostegno e presa incarico delle separazioni conflittuali. È inoltre co-autrice – con la dott.ssa Elisa Ceccarelli e l’avv. Enza Milone – del Codice dei minori e della famiglia, edito da Key Editore, maggio 2023, aggiornato alla Riforma Cartabia. ↩︎

  14. Vittorio Italia, avvocato in Milano, ha insegnato come Professore straordinario e ordinario di Diritto Amministrativo nelle Università di Pavia e di Milano, ed è stato Preside della Facoltà di Scienze Politiche. Esperto in materia di Enti locali, ha pubblicato varie opere su questo settore con il Sole 24 Ore e l’Editore Giuffrè. Tra le recenti pubblicazioni monografiche stampate da Key Editore, vi sono: Consonanze e dissonanze nelle leggi, 2021; Il sillogismo giuridico, 2021; Le probabilità nelle leggi, 2021; L’equazione nelle leggi, 2021; La congiunzione nelle leggi, 2022; I legami ed i nodi nelle leggi, 2022; La forza e la gerarchia nelle leggi, 2022; I “valori” nelle leggi, 2022; Le finalità nelle leggi, 2022; La propaganda nelle leggi, 2022; I teoremi nelle leggi, 2023. ↩︎

  15. Sergio Bonini è professore associato di diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, ove attualmente insegna nei corsi di Diritto penale avanzato e di Diritto penale comparato. È autore delle monografie Doping e diritto penale (CEDAM, collana del Dipartimento di Scienze Giuridiche della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, 2006), L’elemento normativo nella fattispecie penale. Questioni sistematiche e costituzionali (Editoriale Scientifica, Napoli 2016) e La funzione simbolica nel diritto penale del bene giuridico (Editoriale Scientifica, Napoli 2018), e di altre pubblicazioni relative a differenti temi della parte generale e della parte speciale del diritto penale. È membro del Collegio docenti del Dottorato di ricerca in Studi giuridici comparati ed europei, istituito presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, nonché componente del Comitato dei revisori in più riviste scientifiche. ↩︎

  16. Ruggero Maceratini, divenuto assistente ordinario alla cattedra di Diritto canonico presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Macerata e Mitarbeiter al Max-Planck-Institut di Francoforte sul Meno, nel 1989 è stato chiamato, a seguito di concorso nazionale, come professore associato della Facoltà di Giurisprudenza di Trento, dove ha svolto ininterrottamente sino al settembre del 2017 tutta la carriera universitaria fino all’ordinariato nelle materie d: Diritto canonico, Storia del diritto canonico, Diritto comparato delle religioni e Diritto ecclesiastico. I suoi interessi prevalenti sono la storia del diritto canonico (sulla quale ha pubblicato due monografie e numerosi articoli) e diritto canonico per cui ha pubblicato articoli e organizzato a Trento un convegno nazionale. ↩︎