La post-secolarizzazione tra filosofia politica e filosofia della religione. Nota critica a Vittorio Possenti (curatore), Ritorno della religione?

Vittorio Possenti (curatore), Ritorno della religione? Tra ragione, fede e società, Guerini Studio, Milano 2009.

1. Introduzione

Le parole chiave da cui traggono spunto e svolgimento i differenti saggi contenuti nell’Annuario di filosofia 20091 sono certamente legate a concetti quali post-secolarismo, religione, ragione e società.

Filosofia, Teologia e Sociologia della religione dialogano in questo testo al fine di presentare, in primo luogo, i differenti rapporti attraverso i quali è possibile tessere un concetto di “verità” declinando il suo significato rispetto a specifiche questioni concernenti, per esempio, quali pretese di verità siano sollevate dalla fede, la rinascita di un pericoloso fondamentalismo religioso, la considerazione delle pretese di verità assoluta di un determinato credo. La riflessione teologico-politica ci conduce invece nella parte dell’Annuario in cui centro focale dell’analisi diviene la riflessione sulla società, sui suoi possibili risvolti all’interno della comunità politica e su quale ruolo la filosofia continui a svolgere nell’epoca che viene definita come post-secolare. Tale tematica è certamente correlata a quella della percezione di una nuova ascesa delle ragioni religiose nella sfera pubblica la quale a sua volta solleva inevitabilmente una revisione o rielaborazione ex novo del rapporto che intercorre fra religione e ragione e che contempla al suo interno la questione delle condizioni di ragionevolezza avanzate dalla fede;2 la considerazione del concetto di ragione come “espressione di rapporti” e dei suoi legami col “vero” e la religione;3 l’approfondimento della relazione che corre tra fede razionale e fedi storiche;4 gli sviluppi del teismo filosofico nell’ambito della filosofia analitica della religione.5 Nella seconda sezione dell’Annuario l’accento viene posto sulle conseguenze dell’ascesa della religione nella sfera pubblica, ritrovando le riflessioni a riguardo di Emmanuel Gabellieri che propone una rivisitazione del pensiero di Simon Weil e Maritain;6 Roberto Gatti analizza e dà una personale interpretazione delle posizioni habermasiane in materia di religione e sfera pubblica;7 una rivisitazione del pensiero agostiniano svolta da Massimo Borghesi il cui intento è quello di dissociare la lettura di Agostino dalle interpretazioni medievali che lo videro difensore di una teologia politica — volta alla legittimazione della supremazia del potere ecclesiale su quello statale — focalizzando invece l’attenzione sul “chiaro dualismo” del De civitate Dei.8 Charles Taylor arricchisce con un suo contributo in forma di intervista la riflessione sulla secolarizzazione, esponendo e approfondendo problematiche emergenti dalla lettura della sua opera, A Secolar Age;9 mentre con l’intervista a Robert N. Bellah si parla di religione in termini di “evoluzione” con particolare riferimento alle tematiche sviluppate nel suo ultimo lavoro.10

Prima di iniziare l’analisi del testo è però necessario a mio avviso un brevissimo tentativo di esplicazione riguardante la causa (o le cause) della rinnovata attenzione per il fenomeno religioso nella società odierna e delle sue implicazioni con ciò che concerne il piano più propriamente politico.

Risulta primariamente necessaria una chiarificazione su un concetto fondamentale: quello di società post-secolare. Una società che viene definita da più autori — provenienti sia da ambito sociologico che filosofico — come “post-secolare” può avere tra i suoi molteplici significati quello di una società nella quale ci si deve abituare a convivere con il “persistere della religione” dopo il quasi unanime abbandono — o quantomeno una profonda revisione da parte degli specialisti — del paradigma classico “forte” della secolarizzazione.11 Già con Klaus Eder12 troviamo affermazioni riguardo ciò che viene definito come un “paradosso”: in società secolarizzate come quella Europea ci ritroviamo di fronte a un’incessante crescita del discorso religioso; da questo se ne deduce, prosegue Eder, che la secolarizzazione “mise a tacere” la voce della religione ma che quest’ultima non scomparse del tutto: essendo considerata precedentemente soltanto come fatto “privato”, la religione torna invece oggi a reclamare a gran voce un proprio posto nella sfera pubblica.

In questo senso si può dunque parlare, con Casanova, di una “deprivatizzazione” delle fede — o dunque di una “desecolarizzazione” — e attraversando le linee di questo dibattito non possiamo non rivolgerci verso il pensiero di un’ autore imprescindibile come J. Habermas, i cui scritti dell’ultimo decennio non fanno che sottolineare come la questione del “ritorno della religione” necessiti di una sempre maggiore riflessione rispetto anche al suo ruolo e alle rivendicazioni che essa reclama nel pubblico dibattito.

Se Eder definisce dunque il concetto di “post-secolarizzazione” nei termini di un ritorno della religione nella sfera pubblica, con Habermas il discorso sulla società post-secolare procede attraverso lo snodarsi di varie problematiche inerenti questo ritorno e in particolar modo, del come far convivere le pretese di validità religiose — che i cittadini di fede intendono veder riconosciute nel pubblico dibattito di uno stato liberale moderno — con le rivendicazioni proprie a una ragione laica (come distinta da una “laicista”)13 e con le ulteriori pretese dei gruppi o persone proponenti etiche di vita differenti.

Tornando alla necessità di una revisione del rapporto tra religione e politica nello spazio pubblico, Habermas definisce dunque la coscienza pubblica in Europa nei termini di una “società post-secolare”14 la quale deve adattarsi a convivere con il persistere di comunità religiose15 e consequenzialmente con la certezza di una sempre maggiore richiesta di influenza pubblica delle pretese e ragioni della religione.

2. Nothing is ever lost

Le domande che Matteo Bartolini pone al professore dell’ università di Berkeley partono dall’analisi del grande libro Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age. Bellah inizia con l’analizzare il termine “religione” rispondendo in tono polemico a chi, come Richard Dawkins (nel suo The God Delusion16) sembra considerarla soltanto come «un sistema cognitivo, una sorta di scienza sbagliata che genera conseguenze sbagliate» e che vorrebbe dunque fosse liquidata. Il pensiero di Bellah a riguardo di un tale disfacimento della religione appare quanto mai improbabile e non auspicabile poiché la religione, pensata come «l’insieme delle risposte elaborate dagli uomini nella ricerca del senso» è considerata una sfera di vita ineludibile, rispondente ad un bisogno umano impossibile da cancellare.17

Alla domanda «cosa significa che la religione si evolve» e perché si parla di religione al singolare anziché, più correttamente, di religioni al plurale, Bellah sottolinea come le varie pratiche religiose che da sempre accompagnano l’esistenza dell’uomo possano essere considerate «come un tutto, come una singolarità dal punto di vista storico»,18 riportando dunque affermazioni ereditate dal suo maestro Wilfred Cantwell Smith.19

«La storia delle religioni è una sola»: con ciò l’autore non afferma che le religioni particolari siano identiche fra loro ma, al contrario, questo significa dire che esse sono storicamente connesse in quanto l’evidente varietà della vita religiosa risulta essere situata all’interno di un continuum storico che fa si che esse siano tutte tra esse legate.20

Partendo da queste assunzioni, ciò che Bellah intende mostrare nel suo libro su evoluzione e religione è che «da un punto di vista genealogico c’è una sola storia della religione, che tutte le religioni esistenti si sono sviluppate da radici comuni e si sono sempre intrecciate».21 Tali ipotesi potrebbero condurre, come fa notare Bortolini, ad una concezione funzionalistica della religione, e conseguenzialmente, Bellah dovrebbe rispondere ai problemi che da una teoria così definita emergono. L’autore di Religion in Human Evolution risponde che non può non dirsi, «in prima battuta, un funzionalista» ma è comunque consapevole di quanto la sfera della religione, così come qualsiasi altra sfera di vita, sia perennemente attraversata da tensioni e conflitti e ribadisce come il suo compito non sia quello di negare la particolarità in favore di un universalismo astratto ma nel comprendere come «la vera universalità possibile per gli uomini sarà una universalità nella particolarità, una particolarità capace di far nascere una universalità senza negare se stessa»22 e fa notare, come prova delle affermazioni sopra riportate, che ogni “particolare” può esemplificare i caratteri universali della religione, mostrando l’esempio di come tutte le religioni comprendano movenze corporee, performance e mimesis.23

La discussione si sposta poi verso la tripartizione che Bellah presenta nel suo libro tra cultura mimetica, mitica e teorica utilizzata al fine di rendere chiaro il processo evolutivo proprio della religione. Mediante la rielaborazione delle ricerche condotte dallo psicologo Merlin Donald, Bellah individua una prima forma di religione, quella “mimetica” consistente in pratiche corporee nell’ambito di una cultura prelinguistica24 e riscontrando nel rituale la sua forma elementare. La narrazione viene invece ad assumere un ruolo centrale con l’emergere del linguaggio (avvenuto tra 60 mila e 120 mila anni fa), ed è qui che si può iniziare a parlare, afferma l’autore riprendendo Donald, di cultura “mitica”.25 Infine, nella fase definita “teoretica”, il linguaggio assume «una forma concettuale, sia essa teologica o scientifica».26

Il vantaggio della teoria che Bellah propone risulta essere — a suo avviso — quello del poter trascendere il suo contesto e tentare di elevarsi sul particolare. Porta, come esempio a tale proposito, le trasformazioni assiali, non affermando che esse siano tutte uguali, bensì sostenendo che:

esistono delle somiglianze — ciò che le rende “assiali” — nella misura in cui tutte comprendono un nuovo elemento di teoria esplicita, in questo caso la capaità di criticare, di offrire ragioni per cui certe pratiche religiose, etiche o sociali sono sbagliate e vanno corrette.27

L’epoca assiale viene così ad essere considerata come il momento in cui emerge la cultura teorica.28 Nothing is ever lost, «nulla va perduto definitivamente»: Bellah spiega questo suo aforisma sottolineando come con tale affermazione non si sta parlando delle infinite pratiche che si sono susseguite nella storia («so perfettamente che molte cose vanno perdute»), bensì «delle forme elementari che la religione ha assunto nel corso dell’evoluzione dell’umanità»29 e ricordando come dei cinque stadi attraverso cui è passata l’evoluzione religiosa (quello primitivo, arcaico, storico, protomoderno e moderno — cosi come li definisce nel suo articolo “Religious Evolution” del 1964),30 nessuno di essi venga mai abbandonato, e sottolinea come tutti gli stadi continuino in qualche modo a coesistere con gli stadi successivi.31

La domanda che Bortolini pone in seguito risulta fondamentale e avvicina la discussione alle tematiche politiche contemporanee sicuramente legate alla questione del ritorno della religione nella sfera pubblica: la relazione tra religione e potere. Bellah entra nel merito della questione non affrontando direttamente tale tematica32 ma preferendo riportare l’esempio di un suo amico, Akbar Ganji, noto dissidente iraniano, il quale si rifiutò di accettare l’invito propostogli da George Bush alla Casa Bianca in quanto non intendeva essere associato in alcun modo a un potenziale attacco militare all’Iran e che definì i due presidenti (quello americano, Bush e quello iraniano, Ahmadinajad) come entrambi fondamentalisti. Bellah, afferma nell’intervista, non ha potuto che dirsi d’accordo con il suo amico, sottolineando come la questione della relazione tra religione e politica non appartenga al passato, bensì sia «qualcosa che ci riguarda molto da vicino».33 Secondo l’autore la relazione tra religione e potere appare come inevitabile e viene descritta attraverso una forma di “pendolarità” tra formazioni sociali egalitarie e formazioni sociali gerarchiche, evidenziando come, anche le prime formazioni sociali umane — le società di cacciatori e raccoglitori — , non fossero prive di una qualsiasi forma di gerarchia, bensì fossero basate su quella che Bohem34 definì come società aventi «gerarchia a dominio rovesciato»: all’interno delle quali «tutti i maschi adulti costituiscono una coalizione per impedire che uno di loro, da solo o con pochi alleati, possa dominare gli altri».35 Il professore sostiene che la religione, attraverso il rituale prima e la narrazione poi, sia stato un elemento essenziale nella preservazione dell’uguaglianza di base che caratterizzava le società originarie, garantendo con i suoi strumenti «una struttura di senso e autorità».36

La discussione prosegue ponendo l’attenzione sulle ulteriori evoluzioni che portarono alla rottura di questo equilibrio e alla formazione di società gerarchiche, del passaggio dalla società tribale a quella arcaica, nella quale «re e dio emergono insieme».37 Con la cosidetta “rottura assiale” si hanno drammatici cambiamenti nella relazione tra re e dio: ci si domanda ora chi sia il vero re, chi rifletta veramente la giustizia divina. Nelle maggior parte delle società attuali, afferma Bellah, si dà per scontata la democrazia come unica forma di governo legittima ma ci si dimentica troppo facilmente dell’«unità del potere politico e di quello religioso» tipica delle società arcaiche che «riaffiora continuamente nelle società che hanno fatto esperienza della rottura assiale» ricordando come ancora oggi ci siano «presidenti che affermano di agire secondo i dettami di un “potere supremo”» e che come tali non siano dunque da meno dei re che governavano per diritto divino.38

Al timore espresso nella domanda di Bortolini, per cui la persistenza della relazione tra re e dio possa in qualche modo mettere in dubbio i principi di libertà individuale, di laicità e quello di uguaglianza, Bellah risponde che la democrazia — “fragile fiore” — necessita di una pressione costante da parte della critica etica e religiosa,39 e di una sorta di religione civile mondiale che pareva all’autore auspicabile e possibile ai fini di «avviare la creazione di un ordine mondiale perseguibile e coerente»40 ma che oggi, anche in seguito alla complessa discussione scaturita dal saggio e all’opposizione che una tale idea suscitava tra le persone laiche e anche religiose, Bellah ha cessato di utilizzare, non ritendendo più possibile la realizzazione di una religione civile globale.

A proposito della possibilità dello sviluppo di una società civile globale — «una forma di opinione pubblica globale capace di criticare le oligarchie emergenti e di legittimare i politici e i leader che davvero operano per il bene comune»41 — il professore cita Habermas il quale, soprattutto nei suoi ultimi lavori, affronta la questione della possibilità di creare una società civile e forme di governance globali che limitino l’autonomia degli Stati-nazione. Bellah si domanda se il patriottismo costituzionale proposto dall’autore della Teoria dell’agire cominicativo sia sufficiente o se non vi sia la necessità di far entrare in gioco le risorse religiose le quali possono aiutarci a pensare «l’appartenenza a una società globale» al fine di creare un’identificazione generalizzata che vada al di là dei confini dello Stato nazione.42

Il problema rimane quello, evidenziato dalla domanda di Bortolini, del come le comunità religiose possano interagire fra loro. Il professore ritiene che i diritti umani siano sempre stati nel DNA del cristianesimo e cita il libro Christian Moderns dell’antropologo Webb Keane43 che considera la relazione tra cristianesimo, modernità e diritti umani come relazione globale tale da non poter essere ridotta a un fenomeno “occidentale”. Il pensiero fondamentale di Bellah risulta dunque essere quello secondo cui il cristianesimo — insieme a tutte le altre religioni e filosofie secolari — possa contribuire alla creazione della solidarietà globale solo mediante l’autocritica in quanto «nell’odierna crisi globale […] tutti abbiamo bisogno degli altri, ma abbiamo bisogno anche che ragione critica e fede profonda si sostengano reciprocamente».44

3. L’ età secolare in Charles Taylor

Fondamentale per un chiarimento sul concetto di “secolarizzazione” — imprescindibile all’interno di riflessioni su religione e post-moderno — è l’intervista a Charls Taylor a cura di Roberto Mordacci.

L’autore di A Secular Age45 conduce nella sua opera «una ricerca sulle dinamiche storiche che rendono ragione dell’autocomprensione del mondo odierno circa la relazione fra fede religiosa e cultura secolarizzata».46 Il concetto di secolarizzazione viene approfondito e ricostruito nel testo, rendendo più complessa la sua storia e analizzando le cause che hanno condotto ad «uno spostamento da una società in cui la fede in Dio è incontrastata e persino non problematizzata, a un contesto in cui essa è concepita come un’opzione fra le altre».47 Le “storie della sottrazione” di cui parla criticamente Taylor e che egli intende revisionare, rappresentano la comune lettura (ritenuta valida sia dai credenti che dai non credenti) della nozione di secolarizzazione.48

Il rifiuto tayloriano delle storie della sottrazione viene elaborato a partire dal pensiero che non vi sia una direzione prestabilita del cambiamento storico; dunque Hegel sbagliò nell’assumere che vi sia una sola direzione di cambiamento, che vi sia cioè una sola linea di sviluppo che ci trascina in avanti; infatti gli umani “costruiscono” nuove identità e benché vi siano alcuni elementi di intenzionalità «vi sono anche una grande quantità di conseguenze non volute».49 Il termine “costruzione” viene dunque ad indicare che, sottolinea l’autore,

un mutamento storico importante non sorge perché semplicemente diffondiamo alcune credenze o alcune definizioni concettuali, ma che noi siamo sempre impegnati nella ridefinizione della nostra capacità di agire e stiamo sempre modificando noi stessi.50

Partendo dalle analisi presenti in A Secular Age riguardo la riforma protestante, Mordacci domanda cosa ne pensi l’autore dell’attuale atteggiamento critico della Chiesa nei confronti della scienza e di buona parte della filosofia contemporanea. Partendo dalla considerazione del Concilio Vaticano II, Taylor sottolinea come buona parte del presente atteggiamento della Chiesa cattolica «è una regressione verso un passato alla cui mano morta il Vaticano II aveva cercato di sfuggire». I moderni vivono una situazione problematica nel momento in cui una certa nomolatria cristiana51 s’incontra con numerose nomolatrie laiche; e avvisa come, la consapevolezza nota anche ai cristiani — quella per cui viviamo in un mondo bidimensionale — non debba essere dimenticata dal magistero. Questa è forse l’unica via percorribile, a suo avviso, per tentare di superare «la tensione tra il fine della fioritura umana e uno spazio per la dedizione a Dio».52

La discussione segue poi la chiarificazione di alcuni concetti fondamentali che si incontrano in A Secular Age come quello di immanent frame, “lo schema immanente”, il quale è presentato dall’autore come un tentativo di definire l’immaginario sociale e cosmologico delle modernità occidentale53 e che appare come certamente differente rispetto a quello di epoche precedenti in cui il senso del cosmo era fortemente legato al trascendente. Taylor considera tale schema come «un immaginario potente instillato dalle nostre pratiche moderne, ma che non corrisponde alla realtà ultima».54

Termina la sua analisi considerando come nella postmodernità — da lui vista come semplice continuazione di certe tendenze della modernità — sia necessaria «una qualche versione dell’ordine morale moderno per vivere vite decenti» ma che nel contempo non si debba avere «un’ adorazione feticistica per questi ordini» tale da pretendere che essi siano in grado di esaurire le nostre vite normative.55

4. Fede e ragionevolezza

A seguito degli interventi appena analizzati — che hanno avuto, tra le altre, anche la funzione di introdurre le questioni riguardanti il fenomeno religioso — si apre la prima delle due parti dell’Annuario dal titolo Ragione e Religione. All’interno di essa è possibile riscontrare una certa uniformità di intenti e vedute fra i filosofi che qui presentano i loro saggi, o almeno, una stessa percezione di quel fenomeno che vede la rinascita del sentire di tipo religioso nel mondo contemporaneo, e che porta con se interrogativi a cui ogni saggio tenta di dare una propria risposta.

La domanda che da il titolo al lavoro di Enrico Berti: A quali condizioni una fede può avanzare una pretesa di ragionevolezza? presuppone la chiarificazione preliminare dei termini quali ‘fede’ e ‘ragionevolezza’ affrontata dalla sua prospettiva di credente; credente che però non rinuncia, come filosofo, al pensare e scrivere «senza dare per scontata la verità di un qualche specifico contenuto di fede […] cercando di problematizzare ogni precedenti certezza».56

Per ‘fede’ Berti intende l’assenso liberamente espresso dall’intelletto e dalla volontà a un asserto o enunciato di cui non è accertabile il valore di verità, e intende quest’ultima come la conformità dell’asserto allo stato delle cose, cioè il dire come le cose effettivamente stanno. La fede, sostiene l’autore, non è evidenza, né può essere definita un sapere in quanto le verità proprie della fede non sono le “verità di ragione” — evidenti senza bisogno di fede — bensì le leibniziane “verità di fatto”;57 «io ho fede in ciò che non sono costretto a credere da nessuna necessità di evidenza o di dimostrazione, nè sono impedito di credere da qualche necessità contraria di evidenza, di dimostrazione o di esperimento».58

La fede religiosa risulta essere sicuramente la forma di fede più comune; essa è adesione al contenuto della presunta rivelazione divina su cui la religione si basa. Tale fede si fonda su testimonianze o dichiarazioni in forma orale o scritta. Alla luce di tale considerazione Berti si domanda quale sia la causa che ci conduce a dare valore di verità ad enunciati la cui verità non ci è nota. La risposta ci introduce alla tematica del testimone: al fatto che ci si “fida” di lui come autentico portatore della verità che egli ha personalmente constatato. Ma la “veridicità” (la sola buona fede o sincerità) del testimone non è ancora verità, sottolinea Berti, in quanto «indica una qualità morale del testimone, non la conformità della sua testimonianza ai fatti».59

L’autore intende svolgere la propria ricerca esplicando prima il concetto di rivelazione — la “parola di Dio” — che risulta essere comune oggetto della fede nelle tre grandi religioni monoteistiche, al fine di ricercare poi le condizioni della sua eventuale ragionevolezza. La “ragionevolezza” non coincide con la “razionalità” cioè con la necessità razionale. Il termine deriva da “ragione”60 ma la ragionevolezza viene qui comunque considerata come una qualità riconosciuta dalla ragione, nel momento in cui viene a coincidere con la “non contraddittorietà”, la “non assurdità” o la “non irrazionalità” di un asserto, cioè «la sua non contrarietà a un’evidenza a una dimostrazione o anche ad una verifica sperimentale».61 La ragionevolezza è dunque l’espressione di un principio della ragione, quello di non contraddizione; di conseguenza la «pretesa di ragionevolezza avanzata da una fede» consisterebbe nella sua non impossibilità dal punto di vista della ragione, dunque, nella sua non contraddittorietà.62 Ovviamente alcuni enunciati contenuti nella dottrina cristiana, quali per esempio, sottolinea Berti, la resurrezione di Cristo, la verginità di Maria o i miracoli in genere, risultano per la scienza (considerata come «conoscenza fondata su esperimenti e dimostrazioni»)63 asserzioni incompatibili con verità accertate sperimentalmente, e anche i misteri fondamentali del cristianesimo, come la trinità di Dio e la divinità di Cristo, appaiono essere irragionevoli poiché alla mente umana risulta incomprensibile ammettere la coincidenza di umano e divino o la coincidenza di uno e tre, in quanto numeri diversi.64 È qui che Berti si chiede allora come sia possibile, a proposito di alcuni enunciati contenuti nella dottrina cristiana, avanzare pretese pretese di ragionevolezza.

Per rispondere a tale quesito l’autore si richiama al discorso filosofico il quale, non essendo «né pura fede né pura scienza» è opera tuttavia della ragione, ponendo mediante esso una serie di condizioni a cui la fede cristiana deve rispondere per poter avanzare pretese di ragionevolezza, ossia di non assurdità o di non impossibilità.65

La prima delle quattro condizioni esposte da Berti è quella dell’ammissione dell’esistenza di Dio. La fede delle religioni monoteistiche, per essere ragionevole, deve ammettere che una rivelazione divina sia possibile, sottolineando come la realtà effettiva di tale rivelazione e i suoi contenuti siano comunque oggetto non della ragione ma solo della fede.66 Bisogna chiedersi se tale condizione, l’ammissione dell’esistenza di Dio, sia a sua volta ragionevole. L’autore afferma che la «ragionevolezza di tale condizione dipende dalla possibilità di escludere tutte quelle filosofie che invece affermano l’impossibilità dell’esistenza di Dio» (quelle che sostengono dunque l’autosufficienza del mondo di cui abbiamo esperienza).67 Da questo punto di vista, sottolinea Berti chi intenda negare la ragionevolezza (possibilità) di Dio, dovrebbe dimostrarne l’impossibilità e conseguenzialmente avrebbe l’onere di dimostrare inoltre l’autosufficienza del mondo dell’esperienza. A suo avviso, a tale proposito non sono stati portati argomenti molto convincenti, a differenza invece degli argomenti dell’esistenza di Dio che si propongono di mostrare «l’insufficienza, la non assolutezza, la problematicità del mondo dell’esperienza».68

La seconda condizione riportata da Berti è quella della “trascendenza di Dio” ossia la non coincidenza di Dio col mondo. A differenza di Plotino, secondo il quale il mondo “procede” necessariamente da Dio (e dunque il mondo verrebbe ad esistere necessariamente, «con la stessa necessità con cui esiste l’uno»)69 Berti ritiene che l’unico rapporto tra Dio e il mondo in grado di garantire la trascendenza — e quindi l’assolutezza di Dio — è la “creazione”, intesa come «una dipendenza totale del mondo da Dio […] dovuta a un libero atto di volontà da parte di Dio». Le tre grandi religioni monoteistiche hanno in comune la creazione da parte di Dio del mondo, e se tale creazione sia comunque dimostrabile razionalmente — come hanno tentato di fare filosofi cristiani, musulmani ed ebrei — per Berti rimane un quesito irrisolto, ricordando come Aristotele, Platone, gli stoici e i neoplatonici non abbiano mai concepito una vera e propria creazione dal nulla.70

La “personalità di Dio” viene proposta come terza condizione della ragionevolezza della fede, specificando con essa che Dio non solo esiste ed è trascendente ma viene considerato come un essere personale capace di intendere e di volere. Berti esplica brevemente il concetto più comune di “persona” secondo cui la capacità di parlare propria delle persone suppone la capacità di intendere e di volere e ricorda come tale capacità sia contenuta nel concetto di creazione in quanto libero atto dell’intelletto, inteso come capacità di prospettare possibilità diverse, e della volontà considerata come scelta tra tali possibilità — creare e non creare —.71 Contro l’ obiezione spesso rivolta alla concezione di un Dio personale — quella di essere antropomorfica — i teologi rispondono che in Dio, a differenza di ciò che avviene nell’uomo, intelletto e volontà non sono facoltà distinte, bensì coincidono tra loro e coincidono anche con la stessa essenza di Dio. Dio sarebbe dunque intelletto “e” volontà, ovvero libertà. Tale concezione di Dio è quella che risulta all’autore più convincente se comparata, ad esempio, con quella secondo cui «Dio sarebbe essenzialmente essere, cioè l’Essere stesso (Esse ipsum), l’essere per essenza»,72 la quale pensando Dio come contenente «l’esistenza nella sua stessa essenza» e dunque non dovendo a nient’altro la sua esistenza, incorre in una serie di difficoltà di ordine logico di cui l’autore si è occupato in vari saggi e articoli riportati in nota.73

Quarta ed ultima condizione analizzata è quella della “Onnipotenza di Dio” estremamente necessaria ad una fede religiosa come quella cristiana che ammette misteri e miracoli. Tale condizione renderebbe possibili (non contraddittori) quei contenuti della fede cristiana che risultano essere in contrasto con le leggi naturali accertate scientificamente (resurrezione di Cristo, verginità di Maria, miracoli). Essendo Dio non prigioniero delle leggi da lui stesso poste, egli «può benissimo violarle». I miracoli divengono così possibili «una volta che li si consideri opera di un potere superiore a quello delle leggi naturali, il quale può appartenere solo al creatore dell’universo».74

Per quanto riguarda i misteri della trinità e della duplice natura — umana e divina — del Cristo, il discorso appare più difficoltoso, infatti, ammette Berti, fra le tre grandi religioni monoteistiche il cristianesimo è quello che dal punto di vista della ragionevolezza pone più problemi; tenta comunque una spiegazione a tali misteri, che possono essere ritenuti ragionevoli, ossia non irrazionali o assurdi, «solo ammettendo che l’onnipotenza divina possa determinare stati di cose non comprensibili alla ragione umana» ma, sottolinea, il mistero rimane comunque «incomprensibile alla ragione e accettabile solo per fede».75

La conclusione a cui Berti giunge al termine del suo saggio è in particolare quella secondo cui «per ammettere la ragionevolezza della fede è necessaria una metafisica».76 Solo tale filosofia potrebbe dare o tenta di fondare razionalmente il “teismo” inteso come una concezione che riconosce «l’esistenza di Dio, la sua trascendenza, la sua personalità e la sua onnipotenza e quindi la sua capacità di rivelarsi e intervenire nella natura o nella storia umana».77 L’autore si sente di proporre una metafisica “debole” (sebbene a conoscenza degli equivoci che da tale aggettivo sono scaturiti) rispetto ad una “forte” che pretenda di spiegare e dimostrare tutto, in quanto tali metafisiche risultano più facilmente attaccabili rispetto ad una più povera e umile che «si limiti ad illustrare la problematicità del mondo dell’esperienza, cioè la sua non assolutezza, la sua precarietà, la sua insufficienza […]».78

Berti ricorda come, a suo avviso, la fede rimane una scelta libera non necessitata dalla ragione; infatti «nessuna dimostrazione dell’esistenza di Dio ha mai indotto qualcuno a credere in Dio».79 Rimane comunque compito di quei filosofi che professano una fede religiosa e che pretendono al contempo di avanzare pretese di ragionevolezza per la propria fede, rispettare la propria ragione, non considerando la fede come alternativa alla ragione ma non dimenticando comunque il fatto che:

la fede non è un sapere, cioè non soddisfa il naturale desiderio di sapere, è esposta al dubbio, è una situazione di inquietudine, richiede un continuo esercizio di rinuncia a capire e di fiducia in altri, insomma è una virtù ancorché ‘teologale’, cioè richiedente la cooperazione della grazia divina.80

5. Verità e religione

Il secondo saggio “Ragione, verità, religione” di Adriano Fabris, ha l’intenzione di ampliare la considerazione di ciò che viene generalmente definito come “ragione” fornendo un approccio non riduzionistico e unilaterale del termine stesso ponendo al centro della riflessione il suo essere «espressione di rapporti»81 il quale ci conduce a rivalutare in modo più complesso e problematico la relazione che intercorre tra esso e concetti quali verità e religione. La prospettiva dell’autore si rifiuta di ridurre la “ragione” a quell’accezione di argomentazione «in vista di un’intesa riguardo a ciò che è vero» tentando di superare quelle concezioni unilaterali le quali attribuiscono carattere ‘razionale’ solo ad una determinata procedura scientifica o a un particolare stile di pensiero.82 L’intenzione che muove Fabris è quella della ridefinizione del rapporto tra ragione, verità e religione, ed è dettata dal timore che, considerando la situazione emblematica del dibattito democratico e quindi l’ambito della sfera pubblica, si assuma «un determinato uso del termine verità ad esclusione di altri» e che una tale esclusione apporti un limite alla realizzazione e accrescimento di un sapere condiviso.83

Fabris si chiede se il termine “ragione” o anche la nozione di verità, nel momento di cui venga applicata a diversi ambiti del sapere — come ad esempio alla stessa riflessione religiosa — , mantenga la stessa accezione anche per chi lo usi nella logica del pensiero scientifico. La risposta è per l’autore certamente negativa, essendo in gioco qui «significati diversi, accezioni differenti degli stessi vocaboli».84 La pars construens della sua ricerca sarà quella di individuare cosa può significare ‘verità’ e cosa possa essere considerato ‘ragione’ in svariati casi, con particolare riferimento al significato che essa viene ad assumere all’interno di una prospettiva religiosa con l’obiettivo di mostrare come le diverse accezioni dei termini in gioco rappresentino il segno di una profonda unità. Ciò che l’autore intende sviluppare è una «teoria relazionale della ragione stessa: mostrando cioè che la ragione, il logos, sono fenomeni comprensibili […] con riferimento ad una relazione».85

Se il significato di ‘ragione’ può essere esplicato proprio come relazione — come «capacità di porre relazioni, di porsi in relazione, di mettere in opera relazioni, di sapersi come relazione» — , anche per ciò che riguarda la ‘verità’ è necessario articolare i molteplici significati appartenenti al termine, al fine di rendere evidente il nesso tra “ragione” e “verità”86 che solo permetterà «di inquadrare il modo specifico in cui si può parlare di questi temi nel quadro di una esperienza religiosa».87

L’autore intende in primis sfuggire ai problemi cui la nozione di “verità”, così come viene proposta dalla teoria della corrispondenza, è spesso soggetta; propone dunque un’analisi critica della nozione di verità così come essa viene intesa nella lettura semantica che ha prevalso spesso in filosofia88 e che affonda le proprie radici in Aristotele89 a cui seguono gli sviluppi apportati a tale teoria da Tommaso D’Aquino. Fabris evidenzia quei paradossi che da tale prospettiva scaturiscono, ricordando come sia da evitare il rischio che la “verità” stessa finisca per essere ipostatizzata e trasformata in un fatto: «nel fatto stesso dell’adeguazione fra il pensiero, ovvero l’enunciato e la ‘cosa’, il mondo».90 L’autore intende evitare di parlare “dela verità” in maniera tematica, rendendola oggetto di una teoria che, a sua volta, possa essere definita come vera o falsa. Tale “doppio ruolo” può essere allontanato se si riflette «nell’ottica di un esplicito recupero e con una decisa accentuazione di quell’aspetto dinamico che è insito in ogni relazione», e tentando di «smascherarsi dall’idea del ‘vero’ come tema di indagine o come soggetto di una possibile asserzione, a sua volta suscettibile di essere vera o falsa» al fine di cogliere il “vero” nel suo specifico farsi.91 A tale proposito l’autore del saggio rimanda al contesto religioso della tradizione ebraico-cristiana all’interno della quale «verità viene ad indicare l’attuarsi di un rapporto, l’aprirsi di una dimensione di coinvolgimento nella quale il credente si trova già da sempre inserito». La domanda «che cos’è la verità? » si converte nella domanda «come essa è? » legandosi indissolubilmente alla tematica della rivelazione, che verrebbe a coincidere qui con il darsi stesso della ‘verità’.92 La ‘verità’ che l’autore indaga all’interno di questa prospettiva viene ad assumere il significato de «l’attuarsi stesso di un rapporto, [… ] l’evento del rapporto in quanto tale, nonché la situazione che grazie a questo elemento si viene a creare».93 Fabris ricorda i diversi modi in cui tale rapporto può essere inteso, analizzando in particolare le interpretazioni che Hegel e Heidegger propongono della verità.

Proseguendo nella sua analisi della dinamica della rivelazione l’autore rende esplicito come tale processo richieda non solo un rilevante, ma anche un destinatario, ossia un testimone: «colui […] che è chiamato a rispondere su ciò e di ciò che gli si è manifestato».94 Fondamentale è l’accento riguardante la capacità di coinvolgimento propria della rivelazione, infatti essa comporterebbe «il mutamento di colui che l’accoglie, vale a dire la trasformazione di qualcosa nella sua vita, […] il rendere testimonianza di essa acquista il valore di una concreta realizzazione di ciò che viene rivelato».95 Fabris ricorda come non solo nella tradizione cristiana bensì anche nello stesso pensiero filosofico il legame fra testimonianza e verità sia una caratteristica essenziale portando come riferimento l’emblematico esempio della figura di Socrate.96 Il significato di “verità” che emerge da tale analisi è dunque quello per cui «il testimone, proprio nell’atto della sua testimonianza, produce la messa in opera di ciò che testimonia, […] lo ‘verifica’ con le sue parole e con la propria vita».97

La verità così considerata risulta essere “un atto” che si espone all’interno di una determinata relazione, un atto mediante il quale viene a incarnarsi il senso stesso di ciò che si è rivelato. I risultati delle analisi delle accezioni in cui la nozione di verità è stata intesa nell’intreccio fra pensiero filosofico e tradizione religiosa ebraico-cristiana conduce Fabris a ritenere che essa si presenta, in primo luogo, «come un concetto di relazione» da cui scaturiscono tre possibili modelli di rapporto veritativo: 1) «l’essere vero si collega alla verifica della corrispondenza» (accezione di verità intesa come sostantivo, pensata cioè come soggetto grammaticale); 2) l’essere vero inteso «come inveramento di una posizione globale mediante il suo manifestarsi come parte o come tutto di un processo» (mostrantesi in quel carattere verbale che è chiamato a esprimere l’accadere); 3) l’essere vero coincide con «la veracità del tesimone», dunque nel suo carattere grammaticale, «la prospettiva per cui qualcosa si realizza veramente […] solo qualificando l’agire in un senso ben determinato: vale a dire il vero considerato secondo un’ accezione avverbiale».98 L’autore evidenzia come il privilegiare una o l’altra di queste concezioni possa portare al rischio di assumere un atteggiamento unilaterale considerando o l’aspetto sostantivo, — che si realizzerebbe solo nela forma della corrispondenza — , o il carattere verbale che potrebbe condurre al risolversi del contenuto della forma, o l’accezione avverbiale, delineatosi nelle forme etiche, il cui rischio è quello di far dipendere tutto l’ambito del vero dalla pratica.99

A questo punto il concetto di “ragione” viene chiamato in causa e identificato con la struttura che rende possibile un “rapporto di rapporti” necessario dunque al fine di tenere assieme «le varie modalità relazionali in cui il vero, di volta in volta, si realizza nella sua molteplicità di aspetti e di significati»100 mettendo in luce, inoltre la relazione che collega le diverse forme di rapporto (quello, come abbiamo visto, della corrispondenza tra un “soggetto” e un “oggetto”; quello del venire a manifestazione, per il “soggetto”, di questo stesso legame; e infine quello della scelta di essere fedeli a questa manifestazione in grado di coinvolgermi). Solo se intendiamo la “ragione” come logos, suggerisce Fabris, si può comprendere come tale concetto indichi la struttura che «rende possibile, pone in opera e sperimenta in maniera riflessa proprio il legame fra quei rapporti che vengono variamente a espressione con la nozione di ‘verità’»;101 una ragione concepita dunque come ambito di relazioni e espressione di rapporti. L’obiettivo che l’autore persegue è quello allora di disvelare il carattere profondamente razionale dell’esperienza religiosa nel suo legame con il vero102 Questo compito è possibile solo se nell’attività che qualifichiamo come “razionale”, mettiamo in evidenza «la capacità d’istituire rapporti che in essa può attuarsi». Fabris è consapevole di come una tale ragione debba essere “qualificata”, ma si allontana da quel tipo di ragione meramente formale così come è presentata, fra gli altri, da Habermas, la quale viene convalidata solo attraverso il riferimento alla correttezza di una verifica.103

La domanda a cui il nostro autore deve rispondere è allora: «quale ragione è specificamente propria della religione? ». L’’autore giustifica “l’intreccio” fra religione e ragione considerandolo come un dato di fatto storico: lo stesso termine “religione”, attraverso l’analisi dell’etimologia che ne danno Cicerone e Lattanzio rimanda la campo semantico di una relazione,104 ed è proprio tale carattere relazionale a rappresentare, secondo Fabris, il “terreno comune” sul quale collocare religione e ragione.105 Viene poi sottolineato come entrambe, ragione e religione, pur radicandosi nel terreno comune della relazione, sperimentano questa e la mettano in opera in modi differenti, in particolar modo, la diversità di fondo consisterebbe proprio nel come si venga a realizzare, nei due casi, l’esercizio del rapporto. Infatti se nell’esperienza della ragione e delle sue articolazioni «siamo già da sempre coinvolti», lo stesso non può dirsi nell’ambito dell’esperienza religiosa, la quale si basa invece su «un’anticipazione del rapporto privilegiato con Dio» anticipazione che non può che essere frutto di una scelta, la quale, tra l’altro, può anche non venir compiuta.106 Fabris alla fine del saggio si riallaccia così alla sua parte introduttiva, nella quale, il timore di un approccio unilaterale “laicistico” nella sfera pubblica avrebbe condotto a divisioni e polemiche “pretestuose”.

Il suo concetto di ragione inteso in termini di “relazione” o “rapporto” (da lui esplicitamente intesi come sinonimi), lo ha condotto ad evidenziare quel carattere razionale della religione tale da permetterle di non dover essere più considerata, a suo avviso, come irrazionale agli occhi dei non credenti.

6. Fede razionale e fedi storiche

Con il successivo saggio di Virgilio Melchiorre, la tematica di riferimento è quella della relazione tra fede razionale e fedi storiche. L’analisi si divide in tre fasi della riflessione filosofica: la prima consiste nel «cogliere le costituzioni essenziali, le possibilità essenziali della coscienza religiosa»; il secondo passo sarà quello di interrogarsi sulle ragioni dell’esposizione di tale coscienza nelle diverse forme delle religioni storicamente date. Ultima analisi è quella di individuare la funzione — non solo fondativa ma anche ermeneutica — che la fede razionale è chiamata a svolgere nei confronti delle fedi storiche.107

Il presupposto da cui parte la ricerca è la constatazione per cui ogni religione rimanda a un fondamento assoluto, «a un principio costitutivo di ogni realtà» che eccede però come tale da ogni realtà esperibile; in questi termini, si parla appunto di fede — affidamento — poiché ogni religione implica una «sporgenza sul trascendente». La domanda che Melchiorre si pone prende avvio dalla questione per cui: se assumiamo la possibilità che tale affidamento sia inscritto nel tessuto costitutivo — ossia nella «necessaria sporgenza della vita coscienziale» — e se affermiamo che «alla base di ogni religione storicamente data sta la possibilità di una fede razionale», cos’è che distingue questa fede razionale dalla concretezza delle diverse fedi storiche?108Ricordando l’immagine dei due cerchi concentrici di Kant — secondo cui la fede storica rappresenterebbe una sfera più vasta della fede contenente al suo interno una sfera più ristretta, quella della pura religione razionale — tale metafora indicherebbe, avvisa Melchiorre, sia il carattere portante della sfera ristretta, sia l’idea di una reciprocità di funzioni per cui «la fede storica si dà come un’estensione della fede razionale», e, come secondo aspetto di tale reciprocità, Melchiorre sottolinea come Kant parli di una fede riflettente alludendo alla ragione che «si fa principio ermeneutico delle forme storiche della sua religiosità».109

L’analisi dell’autore inizia con il rilevare la costituzione trascendentale del vissuto coscienziale procedendo mediante un movimento riflessivo che risalga dunque alle sue condizioni di possibilità. Ponendo l’attenzione prima sul carattere patico della “meraviglia” (considerata come cominciamento della filosofia) in Platone, attraversando Leibniz e giungendo alla domanda heideggeriana: «perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente», Melchiorre mostra come la meraviglia porti con sé anche «l’ombra segreta dell’essere» la cui percezione si ritrova nel sentimento dell’angoscia, come indicato da Heidegger.110 Riportando un passo di Che cos’è la metafisica l’autore sottolinea come l’interpretazione di tale passo heideggeriano111 ci conduca a una linea di riflessione di tipo trascendentale — «quella che dal dato risale alle sue condizioni di possibilità» — in quanto la domanda sul perché dell’essente «ha la sua possibilità sul fondamento dello stupore ovvero sul rilievo dell’incombente nulla».112 Se ciò che fonda il discorso è dato dalla coscienza del limite, del negativo, il passaggio successivo — quello al trascendentale — risiederà nel chiedersi come possa darsi la coscienza del negativo. Melchiorre passa attraverso un’interpretazione della lezione di Tommaso e di Leibniz — ricordando la domanda «perché c’è qualcosa piuttosto che niente? » — e come a tale domanda possa essere data risposta solo arretrando sul piano delle sue condizioni di possibilità, conducendoci ad affermare che «all’origine sta sempre l’essere mai il non essere» proprio perché, con Tommaso, «la negazione non è un evento logicamente primario, non potrebbe mai darsi se non appunto come negazione di qualcosa: la sua condizione di possibilità sta pur sempre in una presa d’essere».113 L’autore fa notare come molte tra le più importanti argomentazioni teologiche, le prove denominate prove a posteriori, le quali ritengono di avere il proprio fondamento sull’esperienza, «si fondano sul presupposto di una reale ultimità di senso». Questo varrebbe tanto per la dimostrazione di Tommaso per cui «il rinvio non può essere infinito» quanto a proposito della via anselmiana verso Dio; «l’aspetto fondativo dell’a posteriori non è […] che il luogo iniziale di un processo riflessivo».114

Il percorso che Melchiorre propone passa attraverso la considerazione di una ‘gradualità dell’essere’ anselmiana, delle meditazioni Cartesiane fino a Kant — il rilievo del condizionato porta con sé il dato dell’Incondizionato — che ci ripropone dunque «l’a priori di un ultimo senso dell’essere» tale da esplicitare la paradossale situazione della coscienza per cui: «per un verso, la riflessione trascendentale rende chiara la fungenza, e dunque la presenza, di un incondizionato fondamento; ma, per l’altro verso, non può che indicarlo negativamente».115 L’autore si chiede allora che ne è della coscienza religiosa di cui si cercava la costruzione, ricordando l’aporia kantiana secondo la quale, dopo l’avvenuto riconoscimento, nella prima Critica, di un principio primo dell’essere e dell’ordine del mondo, tale principio primo risultava essere tanto imprescindibile quanto inconoscibile.116 Il pensiero rischia in questo modo di risultare «come un pensiero nullo» tale per cui «l’indeterminazione in cui si dà l’assero fondativo resta, infatti, nella tensione che sta fra un silenzio chiuso in se stesso e un silenzio tradotto in affidamente, in fiducioso abbandono. L’esercizio di una fede razionale resta, dunque, solo una possibilità».117 Melchiorre si chiede se ci si possa allora sottrarre a questa condizione aporetica che renderebbe si possibile l’edificazione — razionale e storicamente drammatica — di una coscienza religiosa tanto quanto però il suo possibile rigetto, così com’era avvento a partire dalla cultura deistica.118 La risposta indicata dall’autore rimanda ancora una volta a Kant, che nella Critica della forza di giudizio119 e nei Prolegomeni ad ogni metafisica futura,120 indica la cognitio simbolica come una concreta possibilità di coscienza religiosa, e ricorda come tale cognizione simbolica

si dà quando un’intuizione è per se stessa capace di esibire (Derstellen) indirettamente, per analogia, per trasparenza, ciò che la ragione pensa, ma senza che al suo pensare possa mai corrispondere una intuizione diretta.121

Si deve però andare oltre la lezione kantiana e percorrere un ulteriore passo fondativo notando come: «pur nella sua indeterminazione, il semplice assetto di un incondizionato fondamento costituisce per se stesso un principio di partecipazione».

L’ Incondizionato è da intendere, indica l’autore, come «la sorgente d’essere per l’ente che avviene nell’essere», tale per cui l’ente «nei modi e nei limiti del suo esserci si dà come una determinazione dell’Incondizionato».122 Dunque è proprio in virtù di questa relazione ontologica che il simbolismo può rivendicare una sua consistenza ontologica.

Melchiorre fa un richiamo al “discernimento ermeneutico” che rende possibile il non fraintendimento della dizione simbolica: la necessità di non equivocare il suo stato partecipativo, tale per cui

quel che dovrebbe darsi solo come rinvio analogico […] finirebbe per essere scambiato con una presenza in sé, come la realtà stessa o come l’esibizione diretta di ciò che invece può essere soltanto significativo, simplecimente riconosciuto non ap-presentato.123

Riferendosi prima alla tradizione profetica di Israele e al percorso di Gesù di Nazareth poi, l’autore ribadisce l’idea secondo cui ogni fede storica esprima nel vissuto dei suoi simboli, l’esperienza di una partecipazione che è insieme un rinvio, di una trascendenza immanente e d’una immanenza trascendente. Il criterio ermeneutico del discernimento religioso starebbe dunque nell’autenticità dei simboli in grado di coniugare strettamente partecipazione e rinvio «nell’avvertire la realtà della partecipazione senza però intenderla come un evento chiuso, come il luogo di una definizione assoluta».124

A questo punto sono poste le basi per un possibile dialogo interreligioso a cui l’analisi dell’autore era, in ultima analisi, indirizzata: proprio l’attenzione sulla vita dei simboli religiosi porta a focalizzare l’attenzione su «un’originaria intenzionalità per l’Assoluto» che attraverserebbe le diverse tradizioni storiche religiose al di là dei contesti culturali e dei differenti eventi fondatori. Considerando inoltre la dualità di ogni autentico simbolismo — consistente, come visto, nel suo dire dell’Assoluto solo in obliquo nominando e insieme sapendo dell’innominabile — si potrà comprendere il carattere veritativo non esclusivo manifesto in ogni evento religioso.125 Questa è una prima condizione, in negativo, di un possibile intreccio delle verità religiose. Per quanto riguarda la possibilità in positivo, di un dialogo interreligioso, Melchiorre richiama la figura dei cerchi concentrici kantiana: un ulteriore criterio ermeneutico sarebbe dunque dato dalla centralità «dell’a priori costitutivo di ogni possibile fede […] dal suo carattere trascendente che assicura un confronto fra le diverse fedi storiche […] dalla ricerca della maggiore o minore potenza ricomprensiva degli assetti simbolici»; un criterio di lettura e di vita dunque che sia fatto valere all’interno di ogni fede storica e che sia in grado di aprire una convergenza delle diverse prospettive di verità: «una convergenza che obbedisce all’utopia di una comunione per la quale i molti siano salvaguardati nell’unicum che li costituisce e li ricomprende».126

7. Teismo e naturalismo

Il saggio di Mario Micheletti — con il quale si chiude la prima parte dell’ Annuario — ci conduce nell’ambito del dibattito attuale in filosofia analitica che vede principali protagonisti il confronto tra il teismo e il naturalismo. L’intento dell’autore è quello di porre l’accento sulla progressiva rinascita del teismo filosofico e dunque dello studio della religione e della teologia naturale all’interno degli studi di filosofia analitica.127

Come primo passo della sua analisi Micheletti ci propone un’ampia introduzione e spiegazione del termine e significato di “naturalismo” facendone emergere la complessità e le varie forme che da esso sono scaturite. Tra i vari tipi di naturalismo l’autore indica 1) il “naturalismo metodologico”, la cui forma più rigorosa «consiste nella stipulazione che, a ogni livello di spiegazione, il livello di spiegazione successivo, più fondamentale, se c’è, deve essere cercato entro le risorse esplicative della dimensione naturale»; si parla invece di 2) “naturalismo epistemologico” nel momento in cui si ritiene che gli esseri umani abbiano accesso epistemico solo a realtà che rientrano nella dimensione spazio-temporale.128 Se con la definizione di “naturalismo ontologico” s’intende che «non c’è nulla in aggiunta alla natura, nulla al di sopra o al di fuori della natura», l’autore fa però notare come ci sia, tra i filosofi, chi distingue tra “naturalismo” e “fiscalismo”, e chi invece, considerando il termine “natura” semplicemente come un altro nome per indicare l’universo fisico, fa equivalere i due significati.129

Partendo dall’analisi di un recente lavoro Naturalism in Question130 Micheletti presenta la possibilità di un «naturalismo non riduttivo» che, nella sua critica al naturalismo riduzionistico o eliminativistico presenta tratti comuni con le obiezioni provenienti dall’ambito del teismo filosofico.131 L’attenzione si focalizza in un primo momento sul rapporto che intercorre fra ateismo e naturalismo: nonostante il perdurante disaccordo sulla formulazione del naturalismo, quasi tutti i naturalisti concordano nel sostenere che “esso implica un profondo rispetto per i metodi della scienza, collocati al di sopra di ogni altra forma di indagine” considerazione che conduce Michael C. Rea alla conclusione per cui il naturalismo non può essere una tesi filosofica sostantiva ma soltanto un programma di ricerca.132 Ma c’è chi come Fales, rifiutando l’interpretazione del naturalismo come programma di ricerca, intende il naturalismo e il fiscalismo come implicanti l’ateismo. Anche Plantinga, ricorda Micheletti, sostiene che il naturalismo si caratterizzi come una forma di “esteso ateismo” e Paul Draper, benchè in un differente contesto, definisce il naturalismo metafisico nei termini della negazione dell’esistenza di realtà soprannaturali.133

L’autore del saggio riporta ancora ulteriori distinzioni all’interno del significato di naturalismo citando le tesi di Mario De Caro, Barry Struod e Nielsen, i quali, pur nella diversità dei loro approcci, sembrano essere accomunati dalla tesi generale secondo cui il naturalismo è caratterizzato dal rifiuto di ogni forma di soprannaturalismo, interpretazione che conduce dunque al rifiuto, da parte dei sostenitori del naturalismo — sia nella sua forma “rigida” che in quella “liberale” — del teismo. Dopo questa esaustiva introduzione, necessaria a chiarire la complessità dell’attuale dibattito interno alla filosofia analitica della religione, Micheletti entra nel vivo della sua analisi considerando le obiezioni elaborate dal teismo filosofico nei riguardi del naturalismo inteso nelle sue forme riduzionistiche o eliminativistiche.134 Fra le critiche principali annovera «l’incapacità del naturalismo di rendere conto delle varie questioni normative»; il fatto che il naturalismo possa offrire basi per sostenere credenze morali ma che non sia in grado di rivendicare la verità; considera inoltre i classici temi dell’ intenzionalità e della coscienza, il cui carattere irriducibilmente soggettivo, porterebbe difficoltà per il naturalismo «di rendere conto adeguatamente dell’aspetto qualitativo dei suoi stati».135 Come nel suo saggio «obiezioni filosofiche al naturalismo»,136 l’autore mette in rilievo le maggiori critiche al naturalismo formulate da John Haldane, il quale attraverso gli strumenti concettuali ricavati da Tommaso D’Aquino e da Wittgenstein, propone il teismo filosfico come l’alternativa più ragionevole al naturalismo metafisico.137 In particolare il nostro autore richiama la posizione di Plantinga il quale non esclude la possibilità e la legittimità degli argomenti teistici, pur negando la necessità di ricorrere ad essi: lo strumento principale da lui utilizzato è principalmente quello dell’apologia negativa implicante la critica degli argomenti antiteistici.138

Micheletti nota come la rinascita della «metafisica del teismo» affondi le radici proprio nella considerazione dell’incompatibilità che oppone il naturalismo ontologico al teismo filosofico. L’autore ricorda però che è possibile incontrare anche chi, come Alston, intende rispondere alla sfida posta dal naturalista che nega la realtà divina trascendente, a tale proposito considera l’analisi di Plantinga la quale è tesa alla dimostrazione di come l’epistemologica naturalizzata dovrebbe anteporre il teismo al naturalismo scientifico, passando attraverso una difesa del teismo su basi teleologiche ricavata da una versione delle ‘quinta via’ di Tommaso D’Aquino.139 Gli obiettivi polemici di Plantinga si estendono anche, nei più recenti scritti, alle teorie di Dennet e Churchland, alla difficiltà dunque per il naturalismo «di rendere conto del pensiero in termini di interazione fisica fra oggetti fisici». Segue un’analisi delle confutazioni che Plantinga avrebbe effettuato nei confronti degli argomenti principali a favore del materialismo, tra i quali quella che fa leva sulle incongruenze della tesi dell’identità fra attività mentale e attività cerebrale.140

Un ulteriore ampliamento delle critiche al naturalismo provenienti da differenti approcci, sono indicate da Micheletti nel richiamo a due testi fondamentali a tale dibattito: Contemporary Philosophy of religion di Taliaferro141 e il volume Ateism and Teism di Haldane.142 La forza dell’argomento proposto da Taliaferro, che Micheletti sottolinea, è quello secondo cui per il teismo la contingenza del cosmo ci da ragione di risalire alla causa che lo sostiene, ovvero Dio.143 Il secondo, Haldane, muovendo le sue critiche al naturalismo avvalendosi principalmente della tradizione aristotelica atomistica,144 sottolinea ancora una volta quanto «la riduzione della ragione di un soggetto agente a cause univocamente interpretate nel senso naturalistico» non diano spiegazione del comportamento intenzionale implicito per esempio, in azioni come «scrivere una frase»:145 infatti un’azione si differenzia dal mero movimento in quanto è intenzionale e poiché mira a promuovere un interesse del soggetto agente; questo ci condurrebbe ad affermare, a suo avviso, che la relazione fra le ragioni di un soggetto agente e le sue azioni azione non è, in generale, una realziona causale.146

Il saggio di Micheletti ci ha così guidato all’interno di una rinascita poco percepita, a suo avviso, in Italia, del teismo filosofico; rinascita che tenderebbe ad evidenziare in particolar modo come il naturalismo «sebbene sia la forma di pensiero dominante nella filosofia analitica, non ne sia tuttavia la forma esclusiva».147

8. Politica e religione

Nella seconda parte dell’ Annuario di filosofia 2009 dal titolo: Religione e società: la questione teologico-politica contenente tre saggi che intendono esplorare i rapporti esistenti fra la sfera della religione e le sue implicazioni nella società attuale.

Con il saggio in francese di Emmanuel Gabellieri dal titolo Etica e “vita pubblica” come mediazioni tra religione e politica,148 si pone l’accento in particolar modo su quello che viene definito le dilemme moderne: la scelta fra politica e religione. L’autore riscontra chiaramente come il tratto più caratteristico della “modernità” risieda sicuramente nel rifiuto della «teologia politica»149: proprio il rifiuto del teologismo politico ha rappresentato per i Moderni «la proclamazione dell’autonomia del politico parallela all’autonomia moderna della ragione»; ma ciò che Gabellieri vede come necessario oggi, all’inizio del XXI secolo, è la necessità di ripensare il “dilemma” del rapporto tra religione e politica smorzando e tentanto di correggere la dottrina e il vocaboliario classico dei «deux pouvoirs».150 La confusione derivante da tale espressione si ritrova nel prolungamento della frase contenuta nel Vangelo «date a Cesare quel che è di cesare e a Dio quello che è di Dio»: l’autore sottolinea come il punto debole di tale vocabolario si ritrovi nel pensare il potere spirituale allo stesso modo del potere temporale, «come se tutti e due fossero della medesima natura», confusione questa che si è protratta negativamente nella storia del cristianesimo all’or quando la Chiesa giustificò l’ Inquisizione o le Crociate in termini di guerra santa.151 L’autore ricorda come solo grazie al Concilio Vaticano II si sia finalmente reso chiaro come — su di un piano ecclesiale — «l’influenza dell’ispirazione religiosa sul piano sociale e politico, non poteva venire da un’azione diretta della Chiesa, cioè del potere spirituale, sullo Stato e sulla società ma dall’azione di laici in sintonia con tutti gli uomini di buona volontà in seno al corpo sociale» mentre, sul piano intellettuale ricorda come il merito sia stato

per una larga parte dei fondatori laici delle correnti democratico-cristiane e personaliste ma anche di alcune dei pensatori più originali della fine degli anni Trenta, di avere teorizzato ben prima del concilio, questa intuizione di una trasformazione spirituale del temporale che non passava tramite l’azione diretta di un ‘potere’ spirituale, ma passava attraverso la trasformazione dell’ordine sociale e politico da parte dei cittadini portatori di una tale ispirazione.152

A questo punto Gabellieri inizia lo svolgimento di ciò che a suo avviso potrebbe a una prima considerazione sorprendere: l’analisi di una possibile convergenza tra il pensiero di J. Maritain e S. Weil, ritrovando una loro comune originalità nell’aver cercato di definire un modo nuovo di articolare tra loro religione e politica. La posizione comune riscontrabile nei due testi Humanisme intégral153 (1936) e L’Enracinement154 (1943) può essere riscontrata nella tesi secondo la quale «un’aspirazione religiosa può articolarsi in una filosofia della democrazia senza contraddirne il principio pluralista»155: una tale ispirazione li condurrebbe a ricusare tanto una politica dell’assoluto che una separazione radicale tra politica e religione ritenendo essi necessaria, ricorda Gabellieri, una “ispirazione” religiosa all’interno dello stesso principio democratico al fine di premunirlo dalle derive e dalle tentazioni sia relativiste sia totalitarie:

Lo schema regolatore è dunque a questo punto quello d’una relazione indiretta tra religione e politica precisamente sul modello di una ‘inspirazione’ che implica una distanza tra la sorgente dell’ispirazione e ciò che ella ispira. Così si può uscire dunque dal dilemma indicato dapprima tra politica e religione.

Sarà proprio lo sviluppo della problematica inerente la «purificazione dei mezzi tramite i fini» che accomunerà i due autori dagli anni ’20 del Novecento, la quale viene analizzata però, come sottolinea l’autore del saggio, non da un versante esclusivamente religioso bensì partendo dall’obiettivo di condurre un bilancio critico dell’ autonomizzazione della politica nei riguardi dell’etica a partire dal Rinascimento.156 Ispirandosi alla filosofia di Gandhi Maritain sottolineava la necessità di trovare «altri mezzi di guerra rispetto ai mezzi materiali di guerra»;157 si interroga infatti sulla possibilità che i “mezzi spirituali”, allo stesso modo di quelli materiali che hanno dato luogo a delle tecniche speciali, possano raggiungere anch’essi un fine simile, evidenziando come l’originalità di Gandhi sia stata quella di organizzare sistematicamente i mezzi della pazienza e della sofferenza volontaria in una tecnica particolare di attività politica.158 Gabellieri sottolinea comunque la distanza dei due autori per quanto riguarda la critica in Maritain del machiavellismo nel quale egli ritrovava l’origine teorica della subordinazione moderna dei fini ai mezzi insita nel principio per cui la politica non è prima di tutto la ricerca del bene comune ma soprattutto una scienza e una tecnica di conservazione del potere; Simone Weil non opera la stessa lettura di Machiavelli concentrandosi invece sulle analogie riscontrabili con Marx «per il quale la politica è innanzitutto una scienza di rapporti di forza», interessandosi in primo luogo alla definizione del «rovesciamento dei mezzi e dei fini».159 Gli scritti politici degli anni ’30 di Simone Weil sono volti innanzitutto all’analisi della trasformazione della rivoluzione russa in una burocrazia totalitaria, rapportando tale fenomeno all’incapacità del pensiero marxista-leninista di affrontare in tutta la sua profondità il problema della guerra e della violenza nella storia e con spirito critico si riferisce alla posizione marxista tradizionale opponendo al metodo materialista — consistente «innanzitutto nell’esaminare qualsiasi fatto umano» — di tener conto «molto meno dei fini perseguiti rispetto alle conseguenze necessariamente implicate dal medesimo gioco dei mezzi messi in uso».160 Il male essenziale dell’umanità — indagato in particolar modo nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale161 — risiederebbe nello «schiacciamento totale dell’individuo», nel fatto dunque che nessuna rivoluzione moderna abbia evitato che la «guerra rivoluzionaria» divenisse «la tomba della rivoluzione», tramite la negazione medesima del valore degli individui in nome dei quali essa pretende di combattere.162

Il filo comune tra i due autori viene rintracciato da Gabellieri quando i due filosofi si incontreranno a New York nel 1942, nel momento in cui Simone Weil richiede l’appoggio di Maritain per il suo «progetto di infermiere di prima linea» consistente nel nel proporre agli Alleati di non combattere Hitler con i soli mezzi della guerra classica ma, prendendo sul serio la dimensione psicologica e mistica data alla guerra totale da Hitler, di inventare dei mezzi di lotta analoghi a quelli costituiti dalle formazioni speciali come le SS le quali, «pronte non solamente a rischiare la propria vita ma a morire, sono animate da una diversa aspirazione rispetto al resto dell’armata, un’ispirazione che somiglia ad una fede, a uno spirito religioso»163. Tale progetto presuppone ciò che fa la forza del nazismo ossia quello di essere una mistica: il proposito era quello di creare dei corpi di infermieri di prima linea capaci, rispondendo in questo alle nuove tecniche di cura di urgenza, di opporre al fanatismo SS nel mezzo della battaglia un «servizio di umanità» e la sfida di uno spirito di sacrificio animato non dal culto della forza brutale, ma da una «tenerezza materna».164 Essendo la mistica del nazismo una mistica “falsa”, data l’assenza di ogni trascendentalità del Bene, l’unico modo per combatterla poteva essere secondo Weil solo quello di opporvi una mistica opposta, animata dunque da fini morali e religiosi, inventando mezzi di guerra non violenti. Alla risposta positiva di Maritain che appoggiava il progetto, l’autore del saggio si chiede se non si sia data sufficiente attenzione alle aspettative e aspirazioni dei due filosofi, che possono forse essere riscontrate storicamente in alcuni esempi durante tutto il XX secolo quali il movimento Solidarnosc in Polonia o la caduta del muro a Berlino che aveva sancito il crollo pacifico del sistema totalitario dei paesi dell’est: tali eventi potrebbero rappresentare, avvisa Gabellieri, un’analogia in Occidente di ciò che aveva pacificamente realizzato Gandhi in India.165 L’autore ritiene che mancano studi sufficienti su «una teologia delle folle non totalitarie» così come mancherebbe «una filosofia del legame tra fede e azione collettiva nelle società civili dell’est negli anni 80-90 che sia capace di completare l’analisi arendtiana della ‘tradizione delle assemblee’» in quanto questa analisi ha ignorato ogni articolazione avente un’ ispirazione religiosa.166 Fatti quali la convergenza tra umanesimo laico e ispirazione cristiana che ha animato sia i Solidarnosc in Polonia, sia le folle radunate nella Germania dell’est (in particolare tramite le chiese protestanti), insieme alla rivoluzione arancione in Ucraina di questi ultimi anni, verificherebbero, secondo l’autore, la possibilità di una convergenza tra imperativo etico e ispirazione religiosa nella laicità moderna e sottolinea come proprio la problematica della «purificazione dei mezzi attraversi i fini» comune a Maritain e a Simon Weil sia una problematica etica ispirata da una fede e da una mistica religiosa.167

In Maritain, sottolinea Gabellieri, la problematica della «purificazione dei mezzi tramite i fini» viene trattata in modo differente e in una dimensione altra rispetto a S. Weil ed esposta dal filosofo in particolar modo nell’opera Humanisme intégral dove si trattava di ridefinire la concezione cristiana del rapporto tra spirituale e temporale sia contro il laicismo moderno ma anche contro il modello sacrale del cristianesimo medievale. L’autore del saggio propone un’analisi dei punti essenziali di tale problematica riscontrabili nell’opera del filosofo, sottolineando come,

a un modello autoritario ed estrinsecato del rapporto religione politica è stato opposto un modello personalista, dove la relazione tra le due sfere è indiretta dal momento che passa tramite una mediazione etico-metafisica fondata sul rapporto di ogni persona con dei valori trascendenti.168

Ed è proprio precisamente questo rapporto indiretto tra religione e politica che, dichiara Maritain, conduce a «una sorta di rivoluzione copernicana della attività politica» implicando di non utilizzare innanzitutto i «mezzi materiali di forza» ma dei mezzi «di ordine spirituale».169

Riprendendo Simon Wail la quale considera la politica come un lavoro che guarda la giustizia allo stesso modo in cui le belle arti guardano la trascendentalità del bello, il punto focale che Gabellieri analizza è quello per cui, secondo la filosofa si tratterebbe soprattutto di pensare un modello di civilizzazione e di società dove «la funzione propria della religione […] consiste nell’impregnare di luce tutta la vita profana, pubblica e privata, senza tuttavia dominarla in alcuna maniera», tentando di fare questo in modo tale da non rompere con la laicità moderna.170 Questo non sarebbe possibile a parere di Maritain, senza che il legame tra religione e politica sia indiretto e passi attraverso la vita stessa delle persone e delle istituzioni tramite un’incarnazione dei valori spirituali nella cultura, nelle «condizioni di esistenza» e nelle necessità della vita sociale.171

La nozione in S. Wail di «vita pubblica» viene in seguito analizzata da Gabellieri il quale lo trova in analogia con il ruolo che nella Arendt era rivestito dall’espressione «spazio pubblico»;172 soprattutto negli scritti di Londra e in una lettera a Père Perrin del 1942, Weil va oltre la considerazione delle condizioni dell’azione collettiva necessaria alla resistenza francese e non si ferma alle riflessioni sulle future strutture politiche della Francia libera, bensì è tesa alla ricerca di un «metodo per instillare un’ispirazione a un popolo» espressa a proposito del modo d’azione che deve essere quello della Resistenza durante la guerra, che veicola dunque il desiderio di unire metodo e ispirazione, definendo “Jaillissement” tutto quello che sorge dalla profondità di un popolo senza essere stato l’oggetto di un’azione statale; “zampillamento” che inventa i propri tipi di azione e di espressione esattamente sul modello della “nuova santità”.173 Fondamentale è sicuramente, continua l’autore del saggio, la concezione che S. Wail ha della politica, la quale si oppone alla visione di essa come “tecnica della acquisizione e della conservazione del potere” considerandola invece come avente “bisogno di sforzo di invenzione creatrice la pari dell’arte e della scienza”; il fatto che la politica sia un arte non significa presso la filosofa, sottolinea Gabellieri, la sua riduzione a una tecnica ma al contrario, sta a significare che la politica non possiede verità al di fuori dell’associazione dell’ispirazione e del metodo d’azione.174 Maritain e S. Weil si incontrano dunque, sottolinea Gabellieri, nell’aver considerato la politica non nel senso arendtiano dello «spazio pubblico»: essi ritengono che la neutralità confessionale dello Stato non si traduca nella scomparsa delle religioni dalla sfera pubblica, riconoscendo così la possibilità di una laicità che consideri il fenomeno del religioso come facente parte della dimensione pubblica, e che veda religione e democrazia come entrambe consce della «trascendenza della persona umana sullo Stato».175

L’autore conduce in seguito un’analisi della trascendenza «che è incarnata in qualsiasi vita umana indipendentemente da una confessione religiosa esplicita» riportando gli studi wailiani sul concetto di persona e di diritto che la filosofa non riteneva sufficientemente articolati, e sottolineando come ad una nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo sarebbe stata invece necessaria una dichiarazione degli «obblighi verso l’essere umano».176 L’autore, passando poi attraverso l’analisi delle tre fasi in cui la filosofa propone la sua concezione del sacro nell’uomo, conclude il suo saggio affermando la necessità di una ridefinizione della dignità umana in un modo che non sia né laico né confessionale; una tale definizione avrebbe il grande merito di uscire dal dilemma tra laicità e religione presentato come un dilemma tra «libertà di coscienza» e «dovere verso Dio»; nello stesso tempo si interroga sulla possibilità che le democrazie e la laicità contemporanea possano ammettere una prospettiva che inviti in qualche modo a riconoscere «il legame di ciascun uomo alla trascendenza».177

9. Religione e sfera pubblica

Il saggio di Roberto Gatti178 ci conduce nell’attuale dibattito che vede coinvolto principalmente il fenomeno del «ritorno della religione nella sfera pubblica» e il problema teologico-politico ad esso connesso. Nella prima parte del saggio l’autore intende rendere evidente la complessità insita nell’espressione società ‘post-secolare’ avvisando come spesso essa non venga analizzata con il dovuto spirito critico.

Partendo dall’analisi del termine “secolarizzazione”179 — inevitabile ai fini della comprensione del cambiamento avvenuto nella nostra attualità storica che va sotto il nome, appunto, di post-secolarizzazione — Gatti pone l’accento prima sulla secolarizzazione interna alla religione cristiana — risultante dalla Riforma, indissolubilmente connessa la fenomeno del protestantesimo e rinviante al “cristianesimo ragionevole” così come espresso nella lettera sulla tolleranza di John Locke e alla “religione civile” di matrice rousseauniana180 — poi evidenzia come uno stesso processo di secolarizzazione si sia svolto anche nell’ambito della religione cristiano-cattolica.181 Riferimento principale risulta essere a tale proposito il confronto-scontro nella Francia seicentesca fra giansenisti e gesuiti; questi ultimi, essendo portatori di un razionalismo religioso tendente alla ricerca di un necessario compromesso con il mondo, accompagnano lo sviluppo del moderno, inteso, appunto, come processo di secolarizzazione.182 Pascal viene invece citato come colui che si oppose a una tale «scristianizzazione dell’Occidente» ma che, paradossalmente, finì con il favorire l’esito secolarizzante proponendo una strategia di confinamento della fede fuori dalla vicenda storica e politica.183

Nell’analisi sulla contemporaneità l’accento non può che essere posto sulla revisione del rapporto fra laico-liberali e credenti che rappresenta una tematica fondamentale propria dello Stato di diritto. A tale proposito l’autore conduce un’analisi delle posizioni a riguardo di uno dei maggiori rappresentanti del pensiero liberale, Jürgen Habermas. L’attenzione è posta in primo luogo sul noto confronto fra il filosofo e l’allora Cardinale Joaseph Ratzinger184 che partendo dall’analisi sui fondamenti morali pre-politici dello Stato liberale espone, avverte Gatti, oltre alle implicazioni etico-politiche, anche un «interrogativo fondamentale sullo statuto della religione cristiano-cattolica».185 Habermas invita a ripensare le potenzialità contenute nelle tradizioni religiose con particolare riferimento a quella cristiana, proprio a causa, in particolar modo, della constatazione di quello «scollamento della solidarietà» e della «modernizzazione destabilizzante» che avrebbe investito lo Stato liberale moderno, pensato sempre ancora come autosufficiente e legittimantesi attraverso risorse argomentative indipendenti da tradizioni religiose e metafisiche.186 Il filosofo intende introdurre, nell’ambito del discorso sulla società post-secolare, la possibilità che all’interno dello Stato laico liberale, avvenga un processo di apprendimento complementare per cui anche i cittadini privi di sensibilità religiosa siano favorevoli ad un confronto con i credenti tale per cui la religione non sia più considerata come avente uno statuto epistemico necessariamente irrazionale.187

La questione si sposta dunque nel rilevare la possibilità o meno di una “traduzione” dei termini religiosi in un linguaggio secolare che però non li privi della loro peculiare significatività e fertilità; la necessità dunque di un’ appropriazione critica dei contenuti religiosi che trova però un limite ben preciso: l’impossibilità di tradurre in termini razionali ciò che non può essere convertito nel razionale, come il tema del male e la questione della redenzione che appare appunto, esempio emblematico di quella “linea di confine” della ragione considerata anche da Kant.188

L’interpretazione che Gatti propone in questo saggio è quella di un Habermas perfettamente consapevole dei limiti della ragione di fronte ad una religione il cui linguaggio eccede quello di ogni realtà mondana e della necessità odierna dello Stato liberale di rivolgersi a quel “potenziale semantico” contenuto nelle grandi religioni universali.189 Ciò su cui Gatti invita maggiormente a riflettere è la possibilità del dover evitare, a suo avviso, un’interpretazione di Habermas che ci conduca a definire l’apporto che la religione può portare nello stato liberale meramente giustificato solo su di una base motivazionale.190 Il pensiero dell’autore del saggio a tale riguardo si muove attraverso un’analisi critica anche nei confronti di quel «frastagliato mondo cattolico» che avrebbe troppo investito sulle questioni dell’agenda pubblica da cui possono scaturire insidie rilevanti.191 Infatti, «se è vero che la ragione si autosmentisce quando viola la linea di confine che le è propria», non vale lo stesso — si chiede l’autore — anche per la religione cristiana nel momento in cui mediante «un gesto in qualche modo corrispondente […] finisce per giocare, sul tavolo del dialogo e del compromesso con il mondo, più di quanto è forse giocare?».192

Interessante è poi il riavvicinamento — legittimato anche dalla citazione che lo stesso Habermas fa di Adorno e Horkheimer in Fede e Sapere193 — che Gatti propone come riflessione rimandante a quella radice francofortese da cui Habermas aveva preso le distanze in particolare dopo la “svolta linguistica”.194 Secondo l’autore «l’idea della religione come spazio di un incondizionato che serve a misurare ed evidenziare i limiti dei poteri conoscitivi e operativi umani» potrebbe essere letta come il risultato di un recupero da parte di Habermas, del pensiero dell’ultimo Horkheimer.195 Il confronto fra religione e politica appare comunque difficile da percorrere in quanto, ricordando la posizione di Emmanuel Monnier e la sua critica contro ogni eccesso di istituzionalizzazione del cristianesimo essendo la Chiesa cristiana molto esposta nel giocare «in modo molto forte e connotato la sua partita sul piano dei temi dell’agenda pubblica»196 non approdi infine all’esito di concedere troppo al ‘mondo’ e di perdere così il suo potenziale universalistico,197 appiattendo la propria riflessione religiosa alla sola dimensione del valore e non esaltando invece come dovrebbe quella riserva escatologica in grado di relativizzare ogni valore e fine mondano tale da consentire alla chiesa di «mantenere la distanza critica rispetto a ogni realizzazione terrena […] » e di sfuggire ad una facile, quanto nociva identificazione di essa con «le culture, le forme politiche, le produzioni spirituali, di un tempo dato».198

Si riscontra dunque nella riflessione del nostro autore il timore che proprio a causa del ruolo attualmente giocato dalla Chiesa nelle questioni morali, civili e politiche si sia messa troppo da parte la coscienza dei credenti e che tale noncuranza potrebbe condurre «in modo preoccupante verso la logica della ‘religione civile’ che storicamente, nelle sue varie manifestazioni, ha incarnato proprio la tendenza a elidere lo scarto incolmabile tra fede e storia».199 Il pericolo che si affaccia dunque nella società post-secolare è quello di un deficit di incisività ed efficacia, da parte della Chiesa, nei confronti delle domande di senso riferite non unicamente alla sfera inframondana, ma tali da rinviare alle questioni ultime della nostra condizione umana nella sua finitezza e spesso nella sua «insondabile tragicità».200

10. Teologia politica e filosofia

Il saggio che chiude l’Annuario di Filosofia ci introduce nell’ambito delle problematiche inerenti la teologia politica.201 Massimo Borghesi intende presentare alcune delle più note interpretazioni che sono state date alla filosofia di Agostino, considerando in particolar modo la questione della teocrazia o della dualità presente nel De civitate Dei, al fine di proporre quella che ad egli appare come la più inerente e filologicamente corretta interpretazione del pensiero e degli scritti del teologo africano.

La prima problematica che si presenta è quella che vede, grazie alla rilettura e agli studi su Agostino avvenuti nella seconda metà Novecento, un abbandono dell’agostinismo politico medievale, della posizione dunque che con il contributo del modello dionisiano, ha costituito la legittimazione teorica della supremazia del potere ecclesiale su quello temporale nel medioevo latino».202 Borghesi presenta le analisi condotte da Gilson, il quale procede alla delineazione di un quadro problematico che vede il contrapporsi di due paradigmi: il primo pone l’accento sulla dualità delle due civitates — la civitas Dei e la civitas terrena; il secondo, ridimensiona invece tale prospettiva facendo leva in particolar modo sul capitolo V dell’opera. In tale sezione s’incontra l’elogio a Teodosio che rappresenterebbe, avvisa Borghesi, un’eccezione tale da contrastare con l’impianto “dualistico” proprio del De civitate Dei, ma che trova comunque conferma nell’epistolario agostiniano in cui il teologo attribuisce allo Stato, retto da imperatori cristiani, «una funzione ministeriale nell’affermazione dell’unica verità religiosa» venendo in tal modo a modificare la sua concezione originaria.203 L’autore sottolinea con Gilson come la civitas Dei non possa mai trovare compiuta realizzazione nell’ambito della civitas terrena e passa all’analisi delle difficoltà inerenti lo Stato da un lato, la Chiesa dall’altro, sorte nel corso della storia a causa di un’errata interpretazione del pensiero di Agostino.204 A Gilson nella sua Introduzione allo studio di sant’Agostino205 va il merito di aver colto, secondo Borghesi, il cuore problematico della teoria agostiniana, risultante proprio dal rapporto di “esclusione-inclusione” dato dalla non esplicita formulazione in Agostino dell’idea di un governo teocratico, da un lato, e tuttavia, la possibilità che un tale ideale sia comunque conciliabile e dunque non negabile o escludibile con la sua dottrina dall’altro.206 Infatti Gilson evidenzia come inevitabilmente le circostanze politiche e sociali abbiano portato alla identificazione della città di Dio con un Impero teocratico, sebbene questo risulti un «autentico controsenso» favorito comunque da alcune prese di posizione di Agostino, come quella dell’ammettere «la legittimità del ricorso al braccio secolare contro gli eretici» o quello dell’imporre allo Stato di subordinarsi ai fini della Chiesa.207

Borghesi riporta una ricca bibliografia di studiosi che si opposero alla lettura unilaterale dell’agostinismo politico medievale il quale avrebbe legittimato la concezione strumentale dello Stato in Agostino. L’autore del saggio fa notare come Agostino, perplesso inizialmente di fronte a una legislazione repressiva, muterà idea in seguito alle disposizioni imperiali, affermando nelle Ritrattazioni il suo cambiamento rispetto alle precedenti posizioni.208 Si giunge così — attraverso il filo rosso tracciato da Borghesi che segue meticolosamente lo sviluppo del pensiero agostiniano in senso cronologico — alla descrizione dell’«ottica pedagogica agostiniana» che può riassumersi nel concetto di attrazione mediante il timore: paradosso che capovolgerebbe e contraddirebbe tutta la teologia agostiniana della grazia e che viene affermato come «criterio di azione pastorale e di azione civile» il quale condurrebbe dunque il teologo ad abbandonare la divisione tra l’ambito terreno e il regno escatologico divino.209 L’autore del saggio fa notare come Agostino giustifichi la sua opera coattiva anche attraverso una «ingiustificata distinzione» tra due epoche della Chiesa che egli pose in atto nella lettera 93210 ed è a questo punto che sarebbe sorto «l’agostinismo politico medievale con i suoi prolungamenti moderni» proprio in seguito alle posizioni sostenute anche nella lettera 185, chiaramente in favore della teocrazia.211 Ma questo, sottolinea Borghesi, non pregiudica comunque il modello delle due civitates che si presenta come essenzialmente non teocratico; infatti rileva con Cotta212 «il dualismo dialettico esistente sul piano delle due città mistiche non si riproduce sul piano politico»;213 tale considerazione porta dunque Borghesi ad affermare che il modello agostiniano — al di là degli accomodamenti teocratici propri del contesto post-teodosiano — «mantiene la tensione escatologica propria del cristianesimo degli inizi».214

Tra i pionieri degli studi volti alla dissociazione del pensiero agostiniano da ogni possibile uso teocratico di esso, Borghesi annovera Erick Peterson, il cui Der Monotheismus als politischer Problem215 rappresenta il punto di riferimento per le interpretazioni che evidenziano «l’irriducibilità della città di Dio alla città terrena». Tutta l’opera è attraversata dall’intento polemico dell’autore il cui scopo principale è quello della delegittimazione di ogni possibile teologia politica, dettato in particolar modo dalla sua critica nei confronti dell’avvenuta adesione nel 1933 della Chiesa evangelica al Nazionalismo, nonché della Politische Theologie di Carl Schmitt.216

Mentre Peterson fa leva sul mistero della trinità come garante dell’impossibilità di una monarchia terrena (la monarchia divina cristiana in quanto monarchia trinitaria non troverebbe un’ analoga forma terrena),217 Giuseppe Ruggeri preferisce porre l’accento anche sulla “differenza escatologica tra Regno e storia” che metterebbe al riparo da ogni riduzione ideologica o traduzione politica del cristinesimo e che è possibile comunque riscontrare anche nella lettuta petersoniana, punto che fu infatti evidenziato da Smith218 il quale notò come l’autore de Il Monoteismo come problema politico si attenesse fermamente alla dottrina agostiniana dei due regni al fine di liquidare la teologia politica.219 Il riferimento ad Agostino nel contesto tedesco del 1935, fa notare Borghesi, diveniva dunque un riferimento essenziale, “liberale”: «un presidio per la libertà religiosa e civile di fronte alla potenza del totalitarismo politico».220 L’opposizione petersoniana alla sacralizzazione degli ordinamenti politici è possibile dunque in virtù della tensione escatologica intrinseca alla civitas Dei. L’autore sottolinea come proprio una tale lettura di Agostino avrebbe contribuito a liberarlo dalle sue possibili declinazioni teocratiche in quanto non si darebbe affatto, per Agostino, un imperium christianum.221

Il saggio di Borghesi prosegue poi nella considerazione di un altro noto studioso e interprete di Agostino, Joseph Ratzinger sottolineando come anche la sua linea di pensiero si trovi in continuità con quelle precedentemente analizzate. Anch’egli è infatti a sua volta impegnato nel sostenere come, in nessun passo di Agostino, si possa parlare di «subordinazione dello Stato alla Chiesa».222 Ratzinger nel suo testo nota come la posizione di Agostino non intende elaborare «qualcosa come la costituzione di un mondo fatto cristiano» né la sua dottrina persegue l’obiettivo di ‘ecclesializzare’ lo Stato, né quello di ‘statalizzare’ la Chiesa. Tale interpretazione permette così di sfuggire alla «doppia limitazione» che sorge in seno alle ‘teologie politiche’ di Origene e di Eusebio.223 L’attualità di Agostino è colta da Ratzinger proprio nella prospettiva del dualismo tra le due civitates risultante dunque come condizione fondamentale per la costituzione di una democrazia liberale e non totalitaria, frutto del «bilanciamento di un sistema dualistico come fondamento della libertà». La lettura ratzingeriana presuppone pertanto, sottolinea Borghesi, la possibilità di dissociare Agostino dall’agostinismo politico.224 Il modello agostiniano viene comunque integrato da Ratzinger con il modello aristotelico, curandosi però di non eccedere, facendo questo, a un giusnaturalismo “cattolico”. Infatti, la reale autonomia dello Stato e della Chiesa, scaturente dalla consapevolezza dell’impossibilità di una sostituzione di uno dell’altro, conduce al rifiuto della teologia politica ma «pone l’ethos al centro» come luogo dell’incontro e dello scambio ideale tra sfera religiosa e sfera politica.225 È dunque la duplice “imperfezione” dello Stato e della Chiesa ad essere alla base di un dualismo «che non deve diventare monismo». Questo appare come il centro focale che Borghesi ha ravvisato nella lettura ratzingeriana di Agostino.

Il riferimento ai valori etici, alle riserve problematiche di senso e alle pratiche di solidarietà derivanti dalla sfera religiosa vengono richiamate in conclusione del saggio, quando la tematica di un dialogo fra Stato e Chiesa riconduce l’autore alla discussione sul teorema di Böckenförde, da accettare sempre e solo se la sua lettura avvenga «nel quadro di una autocritica degli effetti politici del cristianesimo».226

11. Conclusione

La raccolta di testi analizzata ci ha condotti attraverso una lettura della società post-secolare da parte di autori la cui proposta è certamente quella di una rilettura critica dei contenuti e del linguaggio della religione — in particolar modo di quella cristiana — al fine di una rivalutazione e un arricchimento dei rapporti tra religione e politica, fede e filosofia. L’analisi si è concentrata sui potenziali propri di una religione che intende porsi in dialogo con la società moderna e che ritiene il proprio specifico linguaggio come abilitato ad entrare nel pubblico dibattito.

Una problematica che in questa raccolta viene però solo accennata da alcuni autori — essendo una tematica che è in qualche modo complementare a quelle trattate ma che necessiterebbe per assere trattata di un ulteriore volume227 — è la questione delle “conseguenze” di una post-secolarizzazzione che vede protagonista non una sola religione, come quella cristiana, bensì visioni etiche e immagini del mondo provenienti dai molteplici credo affermati dai cittadini all’interno degli stati liberali moderni in cui viviamo.

Il problema, richiamato dallo stesso Habermas, è quello che riconduce alle riflessioni rawlsiane riguardo la possibilità o meno che la società mondiale multiculturale sia in grado di proseguire verso una “specificazione funzionale delle tradizioni e delle comunità religiose che ne preservi l’influenza pubblica” ma che nello stesso tempo non pregiudichi la politica, il diritto e la legittimazione laica o “freestanding” tipica delle società occidentali.228 Alla luce del “fatto del pluralismo” il problema diventa dunque quello di garantire a tutti i cittadini — provenienti da ambiti etico-culturali differenti e spesso in conflitto non sempre “ragionevole” fra loro — che la propria voce venga riconosciuta e considerata; questo impegno si traduce, dalla prospettiva liberale cui sia Habermas che Rawls appartengono,229 nella ricerca di una giustificazione del potere coercitivo dello Stato che sia però “post-metafisica”, che ribadisca dunque l’autosufficienza dello Stato costituzionale moderno — che si pone come neutrale, egualitario e pluralista — ma che non escluda dal dibattito i potenziali cognitivi e quelle risorse di senso da sempre insite nel linguaggio religioso.230

Le proposte al fine di un’equa inclusione delle pretese di validità della religione nelle discussioni pubbliche sono pervenute da vari filosofi, teorici politici e sociologi ma tutte sono state oggetto di ponderate critiche da parte degli specialisti che prendono parte a questo dibattito ancora in corso.

Se la clausola rawlsiana (anche nella sua versione “inclusiva”)231 sembra essere troppo restrittiva per pensatori come Wolterstorff e Wheitman,232 la questione relativa alla traduzione dei contenuti religiosi in un linguaggio che sia “universalmente accessibile” — stando ai criteri della “pragmatica formale” che Habermas propone — (traduzione che dovrebbe compiersi secondo il filosofo solo all’interno della sfera politica istituzionale e non in quella pubblica informale),233 condurrebbe però a spostare “solo di uno step”234 la problematica dell’onere asimmetrico cognitivo e dunque del peso che graverebbe sui cittadini religiosi ai quali viene richiesto di applicarsi in una traduzione in un linguaggio “altro” dal loro proprio al fine di veder introdotte le loro richieste in un ambito più strettamente istituzionale:235 c’è l’impressione che la proposta del filosofo tedesco non sia realmente una valida soluzione alle critiche rivolte a Rawls.236 Come sottolinea Lafont: fintantochè il criterio liberale di legittimità237 democratica non è in questione, non c’è una reale alternativa alla clausola rawlsiana. Così, nella misura in cui Habermas accorda con Rawls sul fatto che la legittimità democratica richieda alle decisioni legislative di essere supportate da ragioni che tutti i cittadini possano ragionevolmente accettare, non c’è alcuno spazio per dibattere sul se “ragioni propriamente politiche” debbano essere elaborate da tutti, ma solo quando sia il tempo più appropriato di fornirle.238 Pur con tutte le sue virtù, è possibile convenire con quanto sostenuto da Lafont e dunque sull’impressione che la proposta di Habermas non fornisca effettivamente una soluzione all’obiezione che s’intendeva affrontare; le obiezioni poste ad entrambi non sembrano essere state risolte spostando la clausola rawlsiana “di uno step”: dall’informale sfera pubblica alla cornice istituzionale.239

Lasciando ora da parte la specifica questione della traduzione, l’“apprendimento complementare”240 auspicato da Habermas può comunque venir considerato come una possibile guida all’interno di una questione di così viva importanza; ma c’è chi, come Zagreblesky,241 mette in luce le sue difficilmente attuabili potenzialità ritenendola persino pericolosa se applicata ad un contesto, quello italiano, nel quale già una ben precisa religione viene da più fronti accusata di “interferire” nella politica e in particolar modo nell’elaborazione delle leggi riguardanti l’ambito bioetico. Inoltre, sottolinea Zagreblesky, i temi di etica pubblica su cui oggi maggiormente si discute — e che interessano particolarmente il mondo cattolico impegnato sul piano politico — appartengono all’area del “non possumus”: quell’area nella quale entrambe le parti, laici e credenti, non possono rinunciare alle proprie peculiari pretese e ragioni, pena il non restare fedeli a se stesse. L’auspicata soluzione nel confronto proposta da Habermas appare come difficilmente raggiungibile: il costituzionalista non interpreta positivamente l’appello alle “chiese-ministre” le quali, una volta ancora nella storia dell’Occidente, vengono considerate come detentrici di forza sociale unificante di senso e riferimento unico di valori e principi. Ciò che rischia di essere gravemente messo in discussione è qui “la vita politica delle nostre società” caratterizzate da elementi imprescindibili quali libertà e democrazia. La possibilità di un autentico dialogo è resa possibile soprattutto dalla disponibilità all’auto-modificazione senza la quale si avrebbe un “monologo” al posto di un fecondo dialogo o, appunto, di un reciproco apprendimento. Una maggiore difficoltà sembra sorgere quando vengono affrontati discorsi provenienti dal pensiero religioso, il quale, rispetto a quello “razionale” e a differenza di quest’ultimo, risulta essere sostenuto da un’autorità “produttiva di dottrine vincolanti nel suo ambito”: questo renderebbe sicuramente più difficoltoso un dialogo con chi ha dietro di sé “una realtà legislatrice in materia di fede”. Il mantenimento della democrazia è possibile, a suo avviso, solo allontanando la possibilità di una “politica teologica” auspicata da una certa tradizione laica “opportunisticamente interessata alla capacità della religione di creare identità e convergenza rispetto a determinati valori civili tradizionali” da un lato, e di una “teologia politica” che la Chiesa intenderebbe riesumare al fine di allargare la propria influenza nella società, dall’altro.242 Lo spettro di una “nuova alleanza” dei due poteri sembra sorgere nell’epoca del post-secolarismo minando in tal modo le fondamenta su cui lo Stato moderno si è formato, il quale, non essendo Stato confessionale, aveva puntato alla “vanificazione delle religioni” — essendosi esse dimostrate elemento di divisione e conflitto — e garantendo la neutralità nell’ambito del suo spazio.243

Queste problematiche rappresentano dunque la naturale estensione delle discussioni disquisite durante la raccolta di saggi analizzata; le conseguenze, se così possiamo definirle, di una post-secolarizzazione che intende riflettere sul nesso fra religione e politica in un’ottica auspicata come “post-liberale”244 nella quale permangono però tutte le difficoltà di una traduzione ancora non completamente compiuta245 dei potenziali cognitivi “incapsulati religiosamente” e la mancanza di una convincente alternativa nel momento in cui la necessità di un linguaggio laico, del principio di legittimità liberale e di uno Stato che si ponga dunque come neutrale nei confronti di contenuti religiosamente espressi, venissero messi in discussione.246


  1. V. Possenti (a cura di), Annuario di filosofia 2009. Ritorno della religione? Tra ragione, fede e società, Angelo Guerini e Associati, Milano 2009. ↩︎

  2. Cfr. E. Berti, A quali condizioni una fede può avanzare una pretesa di ragionevolezza? In: Annuario…, cit., pp. 41-57. ↩︎

  3. Cfr. A. Fabris Ragione, verità, religione, in: Annuario…, cit., pp. 59-79. ↩︎

  4. Cfr. V. Mechiorre Religione e religioni, in: Annuario…, cit., pp. 81-95. ↩︎

  5. Cfr. M. Micheletti, Teismo e naturalismo nella recente filosofia analitica, in: Annuario…, cit., pp. 97-116. ↩︎

  6. Cfr. E. Gabellieri, Etique et “vie publique”, comme médiations entre religion et politique, in: Annuario…, cit., pp. 119-138. ↩︎

  7. Cfr. R. Gatti Il problema teologico-politico e il ritorno della religione nella sfera pubblica, in: Annuario…, cit., pp. 139-163. ↩︎

  8. Cfr. M. Borghesi, Da Peterson a Ratzinger: Agostino e la critica alla teologia politica, in: Annuario…, cit., pp. 165-186. ↩︎

  9. Cfr. Intervista a C. Taylor, a cura di R. Mordacci, in: Annuario…, cit., pp. 31-37. ↩︎

  10. Cfr. Intervista a R. N. Bellah, a cura di M. Bortolini, in: Annuario…, cit., pp. 13-30. ↩︎

  11. J. Habermas, La rinascita della religione: una sfida per l’autocomprensione laica della modernità? in Religione e politica nella società post-secolare, a cura di A. Ferrara, Meltemi, Roma 2009, cit., p. 25. ↩︎

  12. K. Eder, Post-secularism: A return to the public sphere; La religione liberata, entrambi consultabili su www.eurozine.com ↩︎

  13. J. Habermas, La rinascita…, cit. p. 36 ss. ↩︎

  14. Ibidem, p 28. Vedi anche J. Habermas, Perchè siamo post-secolari, “Per potersi definire post-secolare, una società deve prima essere stata secolare…” in Reset, n. 108 (2008) e I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in: Etica, religione e stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005. (Lo stesso saggio è nella raccolta: Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006 con il titolo Fondamenti pre-politici dello Stato di diritto democratico? pp. 5-18 ). “Con postsecolarismo non si intende soltanto il fatto che la religione continua ad affermarsi in un ambiente sempre più secolarizzato […]. L’espressione ‘postsecolare’ non tributa, inoltre, alle comunità religiose soltanto un riconoscimento pubblico per il contributo funzionale che esse esercitano per riprodurre motivazioni e atteggiamenti desiderati. Nella coscienza pubblica di una società postsecolare si rispecchia piuttosto una cognizione normativa (normative Einsicht), che ha conseguenze per l’interazione politica dei cittadini non credenti e credenti”. Postsecolarismo può significare, secondo l’autore, che la versione aggressiva della secolarizzazione è superata e che in una società che rimane secolare e ‘laica’ si va verso un rapporto non conflittuale e di possibili parziali intese tra religione e sfera pubblica (pp. 36-37). In tale società la coscienza pubblica comprende mentalità sia religiose sia secolari che interagiscono mediante un “apprendimento complementare”; viene indicata così una dimensione della vita sociale e culturale in cui ci si sforza di tradurre e comprendere reciprocamente la lingua laica come quella religiosa. ↩︎

  15. Cfr. J. Habermas, Fede e sapere in Il futuro della natura umana, Enaudi, Torino 2002, pp. 99-112; vedi anche: I fondamenti…, cit., p. 32. ↩︎

  16. R. Dawkins, L’illusione di Dio, Mondadori, Milano 2007. ↩︎

  17. Cfr. Intervista a R. N. Bellah, cit., p. 13. ↩︎

  18. Ibidem, p. 15. ↩︎

  19. W. C. Smith, Towards a World Theology. Faith and the Comparative History of Religion, Westminster Press, Philadelphia 1981. ↩︎

  20. Cfr. Intervista a R. N. Bellah, cit., p. 15. ↩︎

  21. Idem. ↩︎

  22. Ibidem, p. 16. ↩︎

  23. Ibidem, p. 17. ↩︎

  24. Idem. ↩︎

  25. Ibidem, p. 18; per cultura mitica s’intende: «la fase mitica in cui il linguaggio è sviluppato ma assume forme prevalentemente narrative» (Ibidem, p. 20). ↩︎

  26. Ibidem, p. 20. ↩︎

  27. Ibidem, p. 18. ↩︎

  28. Idem. ↩︎

  29. Ibidem, p. 19. ↩︎

  30. R.N. Bellah, “Religious Evolution”, American Sociological Review, vol. 29, n. 3, 1964, pp. 358-374. ↩︎

  31. Cfr. Intervista a R. N. Bellah, cit., p. 20. ↩︎

  32. Tematica che l’autore ha già trattato in numerosi scritti, riportati nella nota 9 p. 20. ↩︎

  33. Ibidem, p. 21. ↩︎

  34. Cfr. C. Bohem, Hierarchy in the Forest: the Evolution of Egalitarian Behavior, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2001. ↩︎

  35. Intervista a R. N. Bellah, cit., p. 21. ↩︎

  36. Ibidem, p. 22. ↩︎

  37. Ibidem, p. 23. ↩︎

  38. Idem. ↩︎

  39. Ibidem, p. 24. ↩︎

  40. così come l’autore affermava nel saggio “Civil Religion in America”Daedalus, vol. 96, n. 1, 1967, pp. 1-21; tr. it. “La religione civile in America”, in R.N. Bellah, La religione civile in Italia e in America, a cura di M. Bortolini, Armando, Roma 2009. ↩︎

  41. Intervista a R. N. Bellah, cit., p. 25. ↩︎

  42. Ibidem, p. 26. ↩︎

  43. W. Keane, Christian Moderns , University of California Press, Berkeley - Los Angeles 2007. ↩︎

  44. Intervista a R. N. Bellah, cit., p. 29. ↩︎

  45. C. Taylor, A Secular Age, Belknap Press 2007, tr.it. L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009. ↩︎

  46. Intervista a C. Taylor, cit., p. 31. ↩︎

  47. C. Taylor, A Secular Age…, cit., p. 3. ↩︎

  48. Intervista a C. Taylor, cit., p. 32; «il moderno si caratterizzerebbe per il venire meno dell’orizzonte teologico e metafisico offerto dalle religioni: la condizione naturale dell’uomo moderno emerge a causa della sottrazione della dimensione trascendente» (idem). ↩︎

  49. Ibidem, p. 33. ↩︎

  50. Idem. ↩︎

  51. Intesa come la tendenza di alcune Chiese cristiane a identificare se stesse quasi completamente con certi codici morali e certe istituzioni, ciò che tenderebbe ad allontanarle in ultima analisi dalla loro propria dimensione verticale (ibidem, p. 35). ↩︎

  52. Ibidem, p. 36. ↩︎

  53. Idem. ↩︎

  54. Ibidem, p. 37. ↩︎

  55. Idem. ↩︎

  56. Cfr. E. Berti, A quali…, cit., p. 41. ↩︎

  57. Ibidem, pp. 41-42. ↩︎

  58. Ibidem, p. 42. ↩︎

  59. Idem. ↩︎

  60. considerata come una facoltà posseduta da tutti gli individui di specie umana «per nascita da altri esseri umani» la quale consente di riconoscere come vere «le attestazioni dei sensi, ovvero dell’esperienza oppure le conclusioni di inferenze corrette dal punto di vista logico, o le risultanze di esperimenti» (Ibidem, pp., 43-44). ↩︎

  61. Ibidem, p. 44. ↩︎

  62. Ibidem, p. 45. ↩︎

  63. Ibidem, p. 46. ↩︎

  64. Ibidem, p. 45. ↩︎

  65. Ibidem, p. 45-46. ↩︎

  66. Ibidem, p. 46. ↩︎

  67. Ibidem, p. 47. ↩︎

  68. Ibidem, p. 48. ↩︎

  69. Idem. ↩︎

  70. Ibidem, p. 49. ↩︎

  71. Ibidem, p. 50. ↩︎

  72. Idem. ↩︎

  73. Ibidem, p. 51, nota 6. ↩︎

  74. Ibidem, p. 51. ↩︎

  75. Ibidem, p. 52. ↩︎

  76. individuando tale metafisica tra quelle definite come “trascendentalistiche”, quelle che pongono dunque un Dio trascendente (ibidem, p. 53). ↩︎

  77. Ibidem, p. 52. ↩︎

  78. Ibidem, p. 57. ↩︎

  79. Ibidem, p. 55. ↩︎

  80. Idem. ↩︎

  81. A. Fabris, Ragione, verità, religione, in: Annuario…, cit., p. 72. ↩︎

  82. Ibidem, p. 60. ↩︎

  83. Idem. ↩︎

  84. Idem. ↩︎

  85. Ibidem, p. 61. ↩︎

  86. Nesso consistente nello stesso carattere relazionale insito nel concetto di ragione ( Idem ). ↩︎

  87. Ibidem, pp. 61-62. ↩︎

  88. «L’interpretazione della ‘verità’ come quella situazione di fatto che consiste nel rapporto di corrispondenza, ovvero di adeguazione tra pensiero o enunciato, all’interno di un linguaggio particolare e stato di cose»( ibidem, p. 62). ↩︎

  89. Che per primo definì “vero” il «dire di ciò che è, che è, e di ciò che non è, che non è» (Aristotele, Metaph., IV, 7). ↩︎

  90. A. Fabris, Ragione, verità, religione.., cit., p. 63. ↩︎

  91. Ibidem, p. 64. ↩︎

  92. Ibidem, p. 65. ↩︎

  93. Idem. ↩︎

  94. Ibidem, p. 68. ↩︎

  95. Idem. ↩︎

  96. Ibidem, p. 68-69. ↩︎

  97. Ibidem, p. 69. ↩︎

  98. Ibidem, p. 70. ↩︎

  99. Ibidem, p. 71. ↩︎

  100. Idem. ↩︎

  101. Ibidem, p. 72. ↩︎

  102. Idem. ↩︎

  103. Ibidem, p. 75. ↩︎

  104. Ibidem, p. 77. ↩︎

  105. che rimandano rispettivamente a quel legere cogliere, raccogliere — e a quel ligare — legare, unire — che contraddistinguono anche l’attività razionale (Ibidem, p. 79). ↩︎

  106. Ibidem, p. 79. ↩︎

  107. Cfr. V. Mechiorre, Religione e religioni…, cit., p. 81. ↩︎

  108. Idem. ↩︎

  109. Ibidem, p. 82. Melchiorre rimanda a Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen del blossen Vernunft, in I. Kant, Werke in sechs Bänden, Insel Verlag, Wiesbaden 1956, IV, p.659, tr. it. Di A. Poggi, riveduta da M.M Olivetti, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 1979, p13. ↩︎

  110. Ibidem, p. 83. ↩︎

  111. «Solo perché nel fondo dell’esserci è manifesto il Nulla, può soprassalirci il senso della completa estraneità dell’ente e se solo questa estraneità ci angustia l’ente ridesta e attira su di sé lo stupore. Solo sul fondamento dello stupore, ossia dell’evidenza del Nulla, sorge il perché, e solo in quanto il perché è possibile come tale, noi possiamo domandare dei fondamenti e fondare in modo determinato» (M. Heidegger, Was ist Metaphysik, in Wegmarken, Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a.M 1976, vol. IX, p. 122, tr. it. Di F. Volpi, Che cos’è la metafisica, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 77). ↩︎

  112. Ibidem, p. 84. ↩︎

  113. Ibidem, p. 85. ↩︎

  114. Ibidem, p. 86. ↩︎

  115. Ibidem, p. 88. ↩︎

  116. Idem. ↩︎

  117. Ibidem, p. 89. ↩︎

  118. Ibidem, pp. 89-90. ↩︎

  119. I. Kant, Critik der Urtheilskraft, in Werke in zehn Bänden, Weishedel, Darmstadt 1983, tr. it. Di M. Marassi, Critica della forza di giudizio,Bompiani, Milano 2004. ↩︎

  120. Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, tr. it. di P. Marinetti, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, Rusconi, Milano 1995. ↩︎

  121. Ibidem, p. 90. ↩︎

  122. Ibidem, p. 91. ↩︎

  123. Idem. ↩︎

  124. Ibidem, p. 93. ↩︎

  125. Ibidem, p. 94. ↩︎

  126. Idem↩︎

  127. Cfr. M. Micheletti, Teismo e naturalismo nella recente filosofia analitica, in: Annuario…, cit., pp. 97-98. ↩︎

  128. Ibidem, p. 99. ↩︎

  129. Ibidem, p. 100. ↩︎

  130. “Introduction: The Nature of Naturalism” in M. De Caro, D. MacArthur (eds.), Naturalism in Question, Harvard UP, Cambridge -London 2004. ↩︎

  131. M. Micheletti, Teismo e naturalismo nella recente filosofia analitica, in: Annuario…, cit., p. 101. ↩︎

  132. Ibidem, p. 102, nota 18. ↩︎

  133. Ibidem, p. 103. ↩︎

  134. Ibidem, p. 105. ↩︎

  135. Ibidem, pp. 105-106. ↩︎

  136. M. Micheletti, Obiezioni filosofiche al naturalismo, in Hermeneutica 2007. Corpo e persona, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 131-149. ↩︎

  137. Ibidem, p. 107. ↩︎

  138. Ibidem, p. 108. ↩︎

  139. Ibidem, p. 109-110. ↩︎

  140. Ibidem, p. 111. ↩︎

  141. C. Taliaferro, Contemporary Philosophy of Religion, Blackwell, Malden-Oxford 1998, pp. 84-88. ↩︎

  142. J. Haldane, “Atheism and theism”, in J.J.C Smart, J. Haldane, Atheism and Theism, Blackwell, Owford 1996. ↩︎

  143. Ibidem, p. 113. ↩︎

  144. «che tende a considerare distintive delle persone umane la capacità di ragionare e l’intenzionalità» (Ibidem, p. 114). ↩︎

  145. Idem. ↩︎

  146. Ibidem, p. 114-115. ↩︎

  147. Ibidem, p. 116. ↩︎

  148. E. Gabellieri, Ethique et “vie publique”, comme médiations entre religion et politique, in Annuario…, cit., pp. 119-138. Ringrazio mio padre, il dott. Aldo Trenta, per avermi guidata nella traduzione di questo saggio. ↩︎

  149. Concetto volto a designare sia i modelli detti “teocratici” del paganesimo del giudaismo e dell’islam, sia la dottrina di distinzione dei due poteri — temporale e spirituale — che vede come riferimento principale la teoria agostiniana delle due civitates (Ibidem, p. 119). ↩︎

  150. Ibidem, p. 120. ↩︎

  151. Idem. ↩︎

  152. Ibidem, p. 121. ↩︎

  153. J. Maritain, Humanisme intégral, Aubier, Paris 1936. ↩︎

  154. S. Weil, L’Enracinement, Gallimard, coll. “Espoir”, Paris 1962, 1977. ↩︎

  155. E. Gabelleiri, Ethique et “vie publique”…, cit., p. 121. ↩︎

  156. Ibidem, p. 122. ↩︎

  157. J. Maritain, Primauté du spirituel, Plon, Paris 1927; Du régime temporel et de la liberté, DDB, Paris 1933. ↩︎

  158. E. Gabellieri, Ethique et “vie publique”…, cit., p. 123. ↩︎

  159. Idem. ↩︎

  160. Ibidem, pp. 123-124. ↩︎

  161. S. Weil, Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, Gallimard, coll. “Espoir”, Paris 1962. ↩︎

  162. E. Gabellieri, Ethique et “vie publique”…, cit., p. 124. ↩︎

  163. Ibidem, pp. 125. ↩︎

  164. Ibidem, pp. 125-126. ↩︎

  165. Ibidem, pp. 126-127. ↩︎

  166. Ibidem, p. 127. ↩︎

  167. Idem. ↩︎

  168. Ibidem, p. 128. ↩︎

  169. Ibidem, p. 129. ↩︎

  170. Idem. ↩︎

  171. Idem. ↩︎

  172. Ibidem, p. 130. ↩︎

  173. Ibidem, p. 131. ↩︎

  174. Ibidem, p. 132. ↩︎

  175. Ibidem, p. 133. ↩︎

  176. Idem. Gabellieri fa notare come proprio a questo punto si riscontri invece un motivo di opposizione esplicita a Maritain concernente il concetto di “legge naturale”. ↩︎

  177. Ibidem, pp. 138 ↩︎

  178. R. Gatti, Il problema teologico-politico e il ritorno della religione nella sfera pubblica, in Annuario…cit., pp. 139-163. ↩︎

  179. inteso come «il processo in virtù del quale, a partire dal tornante storico decisivo costituito dal XVI e XVII secolo, si produce, nel campo intellettuale non meno che nella prassi, l’ autonomizzazione rispetto ai fondamenti religiosi e teologici tradizionali» (ibidem, p. 139). ↩︎

  180. Idem. ↩︎

  181. Ibidem, p. 140. ↩︎

  182. Idem. ↩︎

  183. Cfr. R. Gatti, L’impronta di ciò che è umano. Saggi di filosofia, PLUS, Pisa 2006. ↩︎

  184. avvenuto il 19 gennaio 2004 presso la Katolische Akademie in Bayern, ora in: Etica, Religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005. ↩︎

  185. R. Gatti, Il problema teologico-politico…, cit., p. 141. ↩︎

  186. Ibidem, p. 142. ↩︎

  187. Ibidem, p. 143. ↩︎

  188. Ibidem, p. 148. ↩︎

  189. Ibidem, p. 151. ↩︎

  190. Ibidem, p. 154. ↩︎

  191. Ibidem, p. 155. ↩︎

  192. Ibidem, p. 152. ↩︎

  193. «Essa sa che non c’è nessun Dio epperò essa crede in lui» (J. Habermas, Fede e sapere, in Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Milano 2001, p. 110.) ↩︎

  194. R. Gatti, Il problema teologico-politico…, cit., pp. 155-156. ↩︎

  195. Ibidem, p. 156. ↩︎

  196. Ibidem, p. 157. ↩︎

  197. Ibidem, p. 158. ↩︎

  198. Ibidem, pp. 157-158. ↩︎

  199. Ibidem, p. 158. ↩︎

  200. Ibidem, p. 159. ↩︎

  201. M. Borghesi, Da Peterson a Ratzinger: Agostino e la critica alla teologia politica, in Annuario…, cit., pp. 165-186. ↩︎

  202. Ibidem, p. 165. ↩︎

  203. Ibidem, p. 166. ↩︎

  204. Ibidem, p. 166-167. ↩︎

  205. E. Gilson, Introduction à l’ étude de saint Augustin, Vrin, Paris 1929, tr. it. Introduzione allo studio di san’Agostino, Marietti, Torino 1983. ↩︎

  206. Cfr. M. Borghesi, Da Peterson a Ratzinger…, cit., pp. 167-168. ↩︎

  207. Vedi nota 7, pp. 167-168. ↩︎

  208. Vedi nota 13, pp. 169-170. ↩︎

  209. Ibidem, p. 171. ↩︎

  210. Agostino, Le lettere, tr. it. Città Nuova, Roma 1974. ↩︎

  211. M. Borghesi, Da Peterson a Ratzinger…, cit., p. 173. ↩︎

  212. S. Cotta, La città politica di sant’Agostino, Edizioni di Comunità, Milano 1960. ↩︎

  213. M. Borghesi, Da Peterson a Ratzinger…, cit., p. 173. ↩︎

  214. Ibidem, p. 174. ↩︎

  215. E. Peterson, Der Monotheismus als politischer Problem. Ein beitrag zur Geschichte der politischen Teologie im Imperium Romanum, Heigner, Leipzig 1935, tr. it. Il monoteismo come problema politico, Queriniana , Brescia 1983. ↩︎

  216. M. Borghesi, Da Peterson a Ratzinger…, cit., p. 175. ↩︎

  217. Idem. ↩︎

  218. C. Shmitt, Politische Theologie II. Die Legende der Erledigung jeder Politischer Theologie, Duncker e Humblot, Berlin 1984, tr. it. Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffrè, Milano 1992. ↩︎

  219. M. Borghesi, Da Peterson a Ratzinger…, cit., p. 177. ↩︎

  220. Ibidem, p. 178. ↩︎

  221. Ibidem, p. 179. ↩︎

  222. J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, Münchner Theologische Studien, II, Systematische Asteilung, Bd, Freising 1954, tr. it. Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca book, Milano 1978. ↩︎

  223. Cfr. M. Borghesi, Da Peterson a Ratzinger…, cit., p. 183. ↩︎

  224. Ibidem, pp. 183-184. ↩︎

  225. Ibidem, p. 185. ↩︎

  226. Ibidem, p. 186. ↩︎

  227. Una raccolta in questa direzione, contenente oltre ad un saggio di Habermas del 2007 anche i contributi di molti filosofi politici italiani, è quella curata da A. Ferrara: Religione e politica nella società post-secolare, Meltemi, Roma 2009. ↩︎

  228. J. Habermas, La rinascita della religione: una sfida per l’autocomprensione laica della modernità?…, in Religione e politica…, cit., p. 33. ↩︎

  229. E’ lo stesso Habermas a parlare infatti di una “discussione in famiglia” nel momento in cui fa un’analisi critica delle proposte del suo collega in L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 2008, cit., p. 64. ↩︎

  230. J. Habermas, Fondamenti pre-politici dello Stato di diritto democratico? In Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 5-18; Fede e sapere in Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002; La rinascita della religione…, cit. ↩︎

  231. A. Ferrara (in La forza dell’esempio, Feltrinelli, Milano 2008, cap. 3) sottolinea come nel testo rawlsiano L’ idea di pubblica ragione, una rivisitazione i deboli vincoli posti dalla concezione inclusiva della ragione pubblica vengono ulteriormente indeboliti; infatti nella “clausola condizionale” (proviso), la formula “in certe situazioni” (che si trovava in Liberalimo politico) diventa “in qualsiasi momento” (at any time). Diventa dunque lecito introdurre nella discussione politica la nostra particolare dottrina comprensiva, a patto che, sottolinea Rawls, si sia disposti, al momento opportuno (at the due time), a difendere i principi e le politiche che la nostra dottrina comprensiva sostiene portando ragioni appropriatamente pubbliche (L’ idea di pubblica ragione, una rivisitazione, in Il diritto dei popoli, Edizioni di comunità, Torino 2001). ↩︎

  232. “I cittadini di una democrazia liberale possono presentare nel pubblico dibattito politico argomentazioni dipendenti da ragioni derivanti dalle loro convinzioni morali, comprese quelle religiose, senza avvalorarle ricorrendo ad altre argomentazioni — purché credano che il loro governo sarebbe giustificato ad adottare le misure che essi caldeggiano, e siano pronti ad indicare ciò che secondo loro giustificherebbe l’adozione di tali misure” (P. J. Weithmann, Religion and the Obbligations of Citizenship, New York: Cambridge and University Press 2002 p.3); anche Wolterstorff propone una simile analisi sostenendo che sia implicita nel liberalismo una determinata interpretazione del principio di neutralità (espressa nel primo emendamento del Bill of Rights) come principio di separazione (di stato e religione) anziché come principio di imparzialità da lui sostenuto (Religion in the public square. The Place of Religius Convictions in Political Debate, Rowman and Littlefield Publishers, London 1997, p.76). ↩︎

  233. La sfera pubblica habermasiana è concepita come un insieme, differenziato al suo interno, strutturato in modo da favorire la partecipazione dei cittadini alla deliberazione politica. Le caratteristiche fondamentali che questa sfera deve assumere per rendere possibile tale partecipazione sono principalmente due: le sedi istituzionalizzate da un lato e il dibattito informale dell’opinione pubblica dall’altro. La sfera pubblica (informale) gode di una completa apertura per quanto riguarda sia le tematiche su cui dibattere che per la possibilità data ai cittadini di esprimersi nel linguaggio che essi preferiscono, mentre nella sfera formale-istituzionale — sfera della decisione politica nella quale vengono prese scelte vincolanti per tutti i cittadini — invece, s’incontra la necessità di un linguaggio che sia “universalmente accessibile” a tutti i cittadini, dunque, come vedremo meglio in seguito, propone solo per questo specifico ambito, l’obbligo di una traduzione (Habermas: L’inclusione dell’altro cit., p. 84; Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e associati, Milano 1996). ↩︎

  234. Cfr. C. Lafont: Religion and the Public Sphere: what are the deliberative obligations of democratic citizenschip? in Philosophy and Social Criticism, vol 35 no 1-2 2009; Religion in the public square: remarks on Habermas’ conception of public deliberation in post-secular societies, in: Constellations 14(2) 2007, p 239-59. ↩︎

  235. Connessa all’accusa dell’onere asimmetrico è stata presentata anche, da critici quali Perry e Murphy l’obiezione della “rottura dell’identità” secondo cui l’ideale di ragione pubblica porrebbe un ingiusto obbligo (onere) sui cittadini che devono dividere se stessi — nella giustificazione delle loro ragioni — in un sé pubblico e in uno non pubblico: i vincoli della ragione pubblica negherebbero la centralità giocata dalle dottrine religiose nelle vite delle persone conducendo dunque ad un dualismo tale da condurre i cittadini di fede a dover possedere due giustificazioni per le concezioni politiche (una religiosa e l’altra tradotta da essa in un linguaggio “neutrale”) ma soltanto una però plausibile di poter essere portata nella sfera pubblica. ↩︎

  236. La soluzione habermasiana può fallire nel momento in cui critici come Woltersorff e Weithman sottolineano come sia possibile la non accettazione sia dei vincoli della ragione pubblica di Rawls, sia dela separazione delle due sfere habermasiana, la quale implica che “al di là della soglia istituzionale solo ragioni secolari contano”; essi vedono una distorsione nel principio liberale stesso per cui a nessuno deve venir negato di appellarsi alle ragioni che si ritengono opportune (N. Woltersorff, Religion…, cit., p.115). ↩︎

  237. «Quali sono i principi e gli ideali alla cui luce dobbiamo esercitare questo potere, se tale esercizio deve essere giustificabile davanti agli altri in quanto persone libere ed eguali? Qui il liberalismo politico risponde che l’esercizio del potere politico è corretto, e quindi giustificabile, solo quando si accorda con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente attendere che tutti i cittadini accolgano i suoi elementi essenziali alla luce di principi e ideali accettabili per loro in quanto persone ragionevoli e razionali. Questo è il principio liberale di legittimità» (Cfr. J. Rawls, Liberalismo Politico, Edizioni di comunità, Milano 2004, cit., p. 186-7). ↩︎

  238. Comunque diversamente dall’approccio rawlsiano, la prospettiva di Habermas impone severe restrizioni sulle attitudini epistemiche appropriate alla cittadinanza democratica per entrambi i cittadini religiosi e secolari: quelli religiosi devono sviluppare una attitudine epistemica auto-riflessiva verso altre religioni, l’autorità della conoscenza scientifica e la priorità istituzionale delle ragioni secolari in politica; i cittadini secolari, da parte loro, devono sviluppare una attitudine epistemica auto-riflessiva nei confronti del mondo post-secolare nel quale vivono. Per esempio, i cittadini religiosi non possono appellarsi a ragioni religiose che negano l’autorità della scienza o la possibile verità di altre religioni, e i cittadini secolari, non possono appellarsi a ragioni laiciste che negano la possibile verità di credenze religiose ( Habermas elabora queste idee principalmente in: La religione nella sfera pubblica, in Tra scienza e fede, cit.). ↩︎

  239. C. Lafont, Religion and the Public Sphere: what are the deliberative obligations of democratic citizenschip? cit. ↩︎

  240. “Ai cittadini secolarizzati non è permesso, nell’esercizio del ruolo di cittadini dello Stato, né negare di principio un potenziale di verità alle immagini religiose del mondo, né contestare ai concittadini credenti il diritto di dare il proprio contributo alle discussioni pubbliche con un linguaggio religioso. Una cultura politica liberale può persino aspettarsi che i cittadini secolarizzati partecipino agli sforzi per tradurre rilevanti contributi del linguaggio religioso in un linguaggio pubblicamente accessibile” J. Habermas, I fondamenti…, cit.p. 40). ↩︎

  241. G. Zagrebelsky, Stato e Chiesa. Cittadini e cattolici, in Religione e politica…, cit., pp. 42-63. ↩︎

  242. Ibidem, p. 48. ↩︎

  243. Ibidem. ↩︎

  244. V. Possenti, Riformare il paradigma liberale su religione e politica. Per una ripresa post-secolare del tema teologico-politico, in Religione e politica…, cit., p. 246. ↩︎

  245. Il problema è anche quello che sorge nel momento in cui, la traduzione in un linguaggio secolare (e dunque l’appropriazione critica da parte della ragione) di contenuti peculiarmente religiosi, non sembra riuscire in quanto ci si trova di fronte a dei limiti insormontabili ad un pensiero secolarizzato; in tal modo, una “linea di confine” è infatti delineata da Habermas (e prima da Kant) per quanto riguarda ad esempio il “tema del male”o la questione della redenzione. Ci si scontra qui con l’impossibilità di tradurre in termini razionali ciò che “razionale non è”: C’è un punto in cui questa appropriazione non può essere attuata: quando tenta di «trasferire il male radicale dal linguaggio della bibbia al linguaggio di una religione-di-ragione» (J. Habermas, Fede e sapere…, cit., p. 108). ↩︎

  246. Si veda C. Mancina, La laicità ai tempi della bioetica, Il Mulino, Bologna 2009; Emanuela Ceva Pluralità etico-religiosa e giustizia politica, in Religione e politica…, cit., pp. 177-194. ↩︎