Teologia, filosofia e scienze naturali in Karl Rahner

La vitalità del pensiero si manifesta nella sua attitudine a risolvere problemi creando prospettive nuove e inedite. Da più parti si lamenta la crisi di valori e ideali da cui pare affetto il mondo occidentale, capace di incredibili progressi tecnologici ma povero di motivazioni esistenziali. Lo stesso sviluppo tecnologico impone alla comunità scientifica e all’opinione pubblica una riflessione sui limiti dell’implementazione tecnica e sull’opportunità di tradurre in essere potenzialità e capacità della scienza. Un confronto serio e serrato tra linguaggi, scienze e saperi diversi appare imprescindibile per acquistare familiarità con l’ospite inquietante, il nichilismo, e per rispondere in modo adeguato alle sfide etiche e bioetiche della contemporaneità. In effetti le scienze empiriche, nella loro oggettività e solitudine, rischiano di ridurre l’uomo a mero aggregato di stati mentali e processi fisico-chimici, perdendo ciò che è proprio dell’essere umano: il suo corpo, la sua anima, il suo Sé. Ricordando che «mere scienze di fatto creano meri uomini di fatto»1, uomini incapaci di dare senso ai fatti, si afferma la necessità di costruire un concetto organico di scienza, in grado di toccare le corde più profonde dell’animo umano e al contempo di coordinare i risultati delle scienze naturali, le analisi filosofiche, le riflessioni della teologia e più generale i risultati di discipline e conoscenze diverse2. A questo scopo è sicuramente utile lo studio di un pensatore come K. Rahner, che ha meditato sul tema in oggetto proponendo osservazioni di un certo spessore teoretico.

Saranno prese in esame in un primo momento le tre fonti del corpus letterario rahneriano che si sono rivelate più utili per la presente indagine, e proprio a ragione della prospettiva generale e fondamentalmente filosofica da cui trattano l’argomento. Naturalmente si è rivelato necessario operare una selezione, che potrebbe apparire arbitraria, ma la cui bontà emergerà nel corso della ricerca. D’altra parte la produzione rahneriana è davvero sterminata: «la bibliografia di Rahner comprendeva (incluse le traduzioni) circa 800 numeri all’inizio del concilio […] e circa 4000 alla sua morte (1984)»3. Dalle fonti analizzate emerge un tema di fondo che, data la sua rilevanza, necessita di uno studio a sé ed esula dai limiti imposti a questo articolo. Si tratta dell’elaborazione, da parte del sapere filosofico, di una corretta teoria della conoscenza quale premessa per ogni ulteriore approfondimento. Senza una adeguata gnoseologia che riveli l’uomo come aperto ontologicamente alla trascendenza ogni dialogo è a priori inficiato da un vizio d’origine. In questa luce la filosofia riveste i panni di un sapere di collegamento, un sapere-ponte, che mette in relazione discipline agli antipodi e altrimenti incomunicabili. Ma la filosofia agisce anche in un’altra direzione, alimentando in realtà gran parte del discorso rahneriano. Infatti sotto il nome di teologia è sempre rintracciabile il procedere filosofico e non è sempre chiaro dove di situi il confine tra teologia e filosofia. In questo senso si spiega anche il titolo del breve saggio in oggetto: Rahner non usa esplicitamente il termine «filosofia», ma sotto il nome di teologia si nascondono analisi squisitamente filosofiche, nel metodo e nei contenuti. Per questo motivo il rapporto tra teologia e scienze naturali è sempre mediato dal sapere filosofico. In un secondo momento sarà preso in esame un altro gruppo di scritti che riflettono su alcune questioni particolari, relative ad ambiti circoscritti del sapere teologico, filosofico e scientifico. Esse risultano estremamente attuali e ciò dimostra che gli snodi concettuali di fondo non seguono i ritmi, velocissimi, della conoscenza scientifica e che una loro risoluzione richiede tempo e pazienza.

1. Prima parte. Fonti generali

1.1. Scienza come confessione?

Scienza come confessione?4 è il risultato di una meditazione tenuta a chiusura di un convegno di cultori di scienze naturali e ha per oggetto la confutazione della possibilità di considerare la scienza alla stregua di una confessione religiosa. Né le scienze della natura, né le scienze umane possono essere oggetto di fede, di un abbandono fiducioso. Rahner prende spunto dall’affermazione dello scienziato Kekulé5 il quale, a chi gli aveva chiesto a quale confessione religiosa appartenesse, rispose: chimico. Una affermazione forse provocatoria, espressione di un’epoca ormai passata ma che determina il pensiero dell’uomo contemporaneo di media cultura secondo il quale la scienza può essere, e spesso è veramente, oggetto di un credo religioso. Ciò significa però misconoscere il valore e lo statuto epistemologico delle scienze empiriche che si fondano sulla falsificabilità delle proposizioni di verità e che, conseguentemente, criticano ogni atteggiamento dogmatico. Per questo è utile innanzitutto delimitare ambiti e contesti di ricerca.

L’incipit della riflessione rahneriana è dato da una constatazione solo all’apparenza banale: «cominciamo sempre a muoverci non solo insieme ad un mondo di cose già dato, ma anche insieme ad un mondo spirituale precostituito»6. L’orizzonte di significato all’interno del quale ciascuno di noi è collocato ci precede ed è il risultato dell’agire e del pensare delle generazioni antecedenti. Concepito in una dimensione diacronica, in quanto esserci storico, l’uomo non può che esistere e conoscere a partire da un pre-dato storico. Pensato in una prospettiva sincronica, ontologica, l’uomo edifica la sua immagine del mondo su fondamenta metafisiche, su un pre-dato metafisico, o simbolico-culturale, che costituisce la struttura trascendentale di ogni conoscenza. Rahner definisce queste fondamenta proposizioni metafisiche pre-empiriche e porta degli esempi: «che la realtà è, che essa obbedisce sempre e ovunque al principio di non contraddizione, che fra le realtà esiste una connessione […] che tutto ha una ragione sufficiente, ecc.»7 . Sono proposizioni fondamentali, postulati di per sé indimostrabili, e tuttavia verificabili in ogni esperienza. Mentre la scienza è determinata dal pre-dato simbolico, storico e metafisico, la teologia ha che fare con l’apriori, col fondamento che regge ogni possibilità di esperire la realtà e se stessi. Essa sa che il fondamento è indisponibile e non può essere oggettivizzato, proprio perché anticipa la riflessione ponendola in essere. Il sapere teologico non può certo vantare il carattere assiomatico-definitorio delle scienze naturali, ma ciò deriva dal suo oggetto che, paradossalmente, non è un oggetto, ob-iectum, bensì sempre e solo un soggetto, sub-iectum.

La teologia «è il sapere che pensa qualcosa di non definibile […] in cui noi non afferriamo, ma siamo afferrati»8 e che si rivolge al punto più lontano logicamente, ma più vicino esperienzialmente, che è lo stesso esistere dell’uomo. La scienza non può quindi diventare confessione, credo religioso, perché la fede religiosa si situa su un piano qualitativamente diverso da quello delle scienze empiriche; essa si muove in un ambito della conoscenza che è inestricabilmente connesso con la più profonda dimensione personale, in cui nessun sapere scientifico si può trovare a casa propria, né, d’altra parte, vorrebbe abitare: si tratta di regioni della conoscenza differenti, di ontologie o sguardi sul mondo diversi. Detto questo, non va dimenticato che l’immagine del mondo in cui noi viviamo e parliamo di Dio è quella plasmata da secoli di scoperte scientifiche. Se per l’uomo pre-scientifico era relativamente facile pensare l’agire e la presenza di Dio nel mondo, per l’uomo contemporaneo Dio appare sempre meno necessario. Oggi si può spiegare il mondo, la realtà senza ricorrere a Dio, almeno come sua causa prossima. Dio è allora veramente lontano, ma contemporaneamente è più Dio e, nella lontananza, la sua visione può farsi più nitida. Lo sviluppo del sapere scientifico non dovrebbe arrecare danno alla teologia, al punto «che la scoperta della non-necessità di Dio per il mondo […] può anche essere intesa come una scoperta genuinamente teologica»9. Se la scienza non può essere una confessione, può però contribuire ad una conoscenza più profonda di Dio, purificando la fede da elementi magici che non le appartengono.

1.2. Teologia oggi

Il saggio Teologia oggi10 è il testo di una conferenza tenuta da Rahner il 14 aprile Münster, in occasione del giubileo della Westfälische Wilhelms-Universität Münster. Il contesto è dunque quello accademico e gli uditori sono naturalmente docenti e studenti universitari. Nella veste che gli è propria di teologo, Rahner cerca di rispondere fondamentalmente a due domande sulla teologia contemporanea: di cosa si occupa la teologia, qual è il suo oggetto? qual è la sua funzione nell’ambito dello scibile umano e in che rapporto sta con le altre scienze? non sono problemi secondari perché la posta in gioco è la legittimità, da parte della teologia, di presentarsi come sapere scientifico agli occhi del mondo accademico e, più in generale, dell’umanità. Per comprendere il ruolo della teologia nel consesso del sapere scientifico è logicamente necessaria una conoscenza previa di cosa sia la teologia. Il teologo tedesco offre una sintetica, ma al tempo stesso efficace definizione che dice: «la teologia ha a che fare con Dio»11; l’espressione «ha-a-che-fare», dal sapore chiaramente heideggeriano, sta a indicare il rapporto originario e pre-teoretico che vincola il singolo teologo a Dio. Un rapporto che non vede un soggetto indirizzarsi a un oggetto ma diversamente contempla un Io e un Tu già da sempre in relazione. Ciò significa che non è possibile fare teologia senza aver preso posizione, con maggiore o minore intensità e consapevolezza, nei confronti di Dio. Diversamente il fine stesso della teologia, che è la conoscenza di Dio, svanirebbe nel nulla e la teologia si ridurrebbe a ozioso chiacchiericcio, a storia (passata) della teologia o ad archeologia del fenomeno religioso, o nella migliore delle ipotesi a filosofia della religione.

Quest’ultima è però incapace di rendere «ragione della certezza della coscienza religiosa che afferma come reale la relazione al divino trascendente»12 e non può che limitarsi a una rilevazione puramente fenomenologica. Ma così facendo il filosofo della religione, che pur conosce il problema, non lo affronta; non si può avere a che fare con Dio come se Dio fosse un oggetto, tra gli altri, a nostra disposizione. La teologia deve affermare Dio per poterne parlare.

«se il discorso su Dio non volesse essere per noi in ultima analisi un discorso su Dio in sé, o se non fosse per noi possibile almeno un discorso su un’esistenza di Dio in sé […] allora la teologia sarebbe morta per suicidio.»13

Qualora la teologia non affermi con coraggio l’esistenza di Dio confrontandosi e, se necessario, scontrandosi con chi la nega, morirebbe suicida o di eutanasia. Ovviamente non è sufficiente affermare l’esistenza di Dio, bisogna altresì precisare chi, o cosa, si intende quando si afferma che Dio è, esiste: egli è il mistero inesprimibile, il mysterium ineffabile. La teologia si riferisce al fondamento del tutto, si interroga sull’intero e ha il privilegio, che è un onere, di essere chiamata a esistere e a pensare da Dio. Essa non si limita ad una riflessione filosofica sul significato dell’esistente, ma offre una risposta al quesito ultimo affermando che tale risposta è poi quest’ultima debba essere concepita, comunicata e vissuta è un problema che attiene all’elaborazione appunto teologica, ma, ancor più profondamente, al vissuto riflesso di ogni uomo. Se questa è la natura, in sintesi, del sapere teologico è legittimo chiedersi come possa relazionarsi con le altre scienze. La teologia in quanto discorso, parola di Dio, può svolgere almeno due funzioni essenziali, l’una critica l’altra propositiva. Nel momento in cui «il Dio incomprensibile viene realmente proclamato come l’unico centro […] allora tutto quello che esiste al di fuori di lui […] diventa relativo»14.

Ogni conoscenza scientifica si rivela incapace, a priori, di afferrare la dimensione definitiva del reale. Con ciò si evita il rischio di assolutizzare il particolare, che diversamente può diventare un idolo, generando aberrazioni disumanizzanti. La teologia, con l’umiltà che deve appartenerle dato l’oggetto-Soggetto di cui ha la pretesa di occuparsi, deve assumere una precipua funzione demitizzante nei confronti della scienza, nei confronti di «quel pericolo letale che inside in ogni disciplina scientifica, il pericolo cioè di porsi come assoluta e di ritenere che la chiave in suo possesso sia in grado di aprire ogni uscio»15. Non è quindi lecito dedurre una visione del mondo e dell’uomo né da una singola scienza né dalle scienze nel loro complesso. In quanto saperi, per definitionem, parziali, non potranno mai abbracciare il tutto, se non con forzature che potrebbero tradursi, come di fatto è avvenuto, in pericolose ideologie. Se la verità riposa solo nell’intero, se il vero è il Tutto, solo una «scienza», una sapienza, che si occupi dell’intero potrà dire una parola sensata sull’uomo e sul mondo. Dev’essere una scienza che non rinuncia a pensare l’uomo nello spirito, in quella dimensione metempirica che fonda la possibilità della libertà. Rahner non esclude che la filosofia metafisica possa assolvere questo compito e lascia ai filosofi di professione il compito di dimostrarlo. Sicuramente è il compito della teologia e del teologo, il quale «non è colui che fa luce, ma colui che proietta nel mistero incomprensibile di Dio tutta la realtà terrena debitamente illuminata»16, operando, di conseguenza, una riflessione sulla pretesa assolutistica del sapere umano.

Così facendo la teologia può, anzi deve, riportare la conoscenza scientifica all’uomo inteso come origine e fine del suo esistere. E così svolgere anche una funzione propositiva nell’indirizzare la ricerca scientifica verso un fine veramente buono. L’attività di ricerca può essere pilotata, e spesso lo è, da interessi che nulla hanno a che vedere con lo sviluppo pacifico della convivenza umana. D’altro canto le scienze non sono in grado di dare ragione delle loro finalità, a meno che non intendiamo con fine il mero incremento di conoscenze, di per sé positivo perché possibile. Se la scienza è neutrale rispetto allo scopo da raggiungere, allora spetta ad altri il compito di guidarla. Altrimenti ci troveremmo di fronte al paradosso di una scienza che sa sempre di più, ma che non ricorda perché sa. Quando lo scienziato perde contatto coi problemi originari dell’esistenza, del fine della sua esistenza individuale e della sua attività, non saprà più che scopo abbia il suo sapere. «Rassomiglierà all’uomo che, servendosi della sua sagacia, aumenta illimitatamente la velocità del suo apparecchio, ma intanto dimentica dove vuole andare.»17

1.3. Scienze naturali e fede razionale

Lo scritto più impegnativo che Rahner ha dedicato al tema del rapporto tra teologia e scienze naturali, per densità speculativa e per la molteplicità degli argomenti trattati, è sicuramente Scienze naturali e fede razionale18. Per un’esposizione sintetica ma esauriente preferiamo suddividere il saggio in due sezioni: la prima che affronta il tema da un punto di vista generale, «metodologico», la seconda che si occupa di questioni più particolari. In questo paragrafo ci interessiamo solo della prima sezione dato che alla seconda dedicheremo l’intero terzo capitolo. Il punto di partenza, afferma Rahner, per un dialogo fruttuoso è la conoscenza, da parte del teologo e dello scienziato, della propria disciplina, in particolare di «alcune questioni epistemologiche e teoretico-scientifiche circa l’essenza, l’autonomia, i punti di contatto, i limiti e i possibili casi di conflitto tra di esse in generale»19. A ben vedere ai dialoganti è richiesta in realtà una meta-conoscenza, ossia una riflessione sui principi metafisici che supportano il proprio sapere scientifico. È legittimo però chiedersi se tale meta-conoscenza sia necessaria allo scienziato per svolgere bene il suo lavoro e la risposta sarebbe, nell’immediato, negativa. Lo scienziato non è tenuto a riflettere sull’essenza della sua scienza per fare ricerca, ma per sapere cosa ricercare, entro quali limiti e a quali condizioni. Deve inoltre riflettere sulla sua disciplina se vuole dialogare con gli altri saperi, nella fattispecie con la teologia. E lo stesso vale per il teologo.

Il dialogo, anche quando si traduce in scontro e all’apparenza sembra improduttivo, consegue sempre un suo risultato importante: obbligare gli interlocutori a conoscere meglio se stessi nel tentativo di rispondere alle critiche. Forse non è quanto di meglio ci si attende ma Rahner lo indica come il presupposto necessario, senza il quale non c’è possibilità di discussione. È il desiderio e la volontà di conoscere meglio la propria disciplina, di saggiare il proprio sapere nel confronto che porta al dialogo. Un primo ostacolo che si frappone al confronto sereno tra teologia e scienza è dunque la mancanza di riflessione sui reciproci principi metafisici; in particolare l’assenza di un vero interesse per le questioni generali della teoria della conoscenza: «il dialogo tra scienze naturali e teologia è molto difficile già a motivo dei problemi generali della teoria della conoscenza»20. Rahner si limita a questa breve osservazione e non ne approfondisce il significato. Se invece prendiamo in considerazione i punti nevralgici della sua teologia e della sua filosofia allora diventa chiaro come questo sia uno snodo davvero fondamentale e, per questa ragione, è opportuno presentare una prima sommaria riflessione sulla gnoseologia rahneriana.

Posta una definizione di religione quale relazione tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e trascendente21 e di teologia quale sapere scientifico che si occupa di tale relazione e del suo fondamento, che è Dio, nel momento in cui si afferma l’inconoscibilità, e/o l’inesistenza del fondamento medesimo, di Dio e del trascendente, la religione diventa superstizione, mero moto emotivo-sentimentale e la teologia viene in partenza squalificata. Per questo è necessario elaborare una teoria della conoscenza e una antropologia filosofica, che rivelino l’uomo come ontologicamente aperto alla dimensione spirituale. Secondo il nostro A. ogni ostacolo al dialogo è comunque fondamentalmente superabile e ciò in virtù di una ragione tanto semplice, quanto poco pensata e soprattutto poco praticata: «teologia e scienze naturali non possono in linea di principio cadere in contraddizione tra di loro, perché si distinguono in partenza e per il loro oggetto e per il loro metodo»22. Mentre le scienze naturali studiano i fenomeni sensibili dell’esperienza aposteriorica e le loro possibili connessioni, la teologia (o forse sarebbe meglio dire la filosofia) si occupa in un’indagine apriorica del tutto della realtà e del suo fondamento. È l’oggetto stesso delle scienze a delimitarne l’ambito di competenza, a precludere loro la possibilità di una ricerca del tutto e dell’esperienza stessa come totalità delle esperienze e come possibilità dell’esperire. Le scienze naturali, pur nella loro illimitata possibilità di progresso, non possono raggiungere una conoscenza sintetica dell’intero, «una formula del mondo abbracciante assolutamente tutto»23, perché tale formula dovrebbe comprendere l’atto (formulatorio) del formulante. Ma, come già notava Wittgestein, «nessuna proposizione può enunciare qualcosa sopra se stessa, perché il segno proposizionale non può essere contenuto in se stesso […] il segno funzionale contiene già l’archetipo del suo argomento»24. Una formula del tutto dovrebbe comprendere se stessa, ma ciò è appunto impossibile. A meno che la proposizione fondamentale non complichi soggetto, oggetto e la loro relazione attraverso il passaggio alla dimensione ideale o metafisica. In effetti la teologia ha a che fare con il fondamento della realtà, con il Principio. Proprio perché è il fondamento ultimo, Dio precede ogni singola esperienza umana, anzi, la possibilità stessa di ogni esperienza, di ogni relazione tra uomo e mondo. La ricerca teologica è apriorica perché ha di mira ciò che preesiste, ciò che fonda abilitando ogni ricerca. Qualora poi ci l’interrogazione vertesse sulla reale esistenza di tale fondamento, sulla possibilità per l’uomo di comunicare con esso, dovremmo rivolgerci, per avere una risposta competente, a un sapere che non può essere quello delle scienze naturali. Queste sono «metodologicamente atee»25 e per logica conseguenza metodologicamente amorali (non certo immorali). Esse devono escludere a priori l’ipotesi Dio dal loro campo di ricerca ma, allo stesso tempo, non possono porre a oggetto del proprio sapere il fine perseguito. O meglio lo possono e lo devono fare, ma ciò non è loro possibile con gli strumenti e col metodo di cui si avvalgono normalmente. Le scienze naturali non hanno accesso altresì alla dimensione personale del soggetto che fa esperienza. Sotto il peso del metodo, assolutamente obiettivo perché impersonale, e dell’oggetto, il soggetto scompare insieme alle domande che lo accompagnano nel corso della vita. Né la teologia può intervenire, come purtroppo è accaduto in passato, su questioni che attengono l’aspetto metodologico o teoretico delle scienze naturali.

Se questa è, in linea di principio, la situazione dal punto di vista teorico, nella pratica osserviamo invece innumerevoli casi di conflitto tra scienza e teologia che si trasforma in una guerriglia permanente in alcuni contesti culturali. Questo è dovuto, sottolinea Rahner, a casi sempre possibili di sconfinamento soprattutto in relazione a quei temi ad limina che interessano, seppur in modo diverso, entrambi gli ambiti di conoscenza. D’altra parte anche «la teologia possiede una storia categoriale, che può essere fatta oggetto di studio da parte delle scienze profane»26, così che i punti di contatto, nella logica dell’Incarnazione, sono sempre possibili. Il prevaricare dell’una sull’altra non pare comunque essere dovuto a una diversa qualità delle due (presunte) antagoniste, bensì al differente momento storico e contesto socio-culturale. Il dialogo è difficile anche a causa della condizione in cui versano teologi e scienziati. I primi hanno sovente una preparazione scientifica allo stato embrionale e comunque non in grado di reggere il confronto specialistico, mentre i secondi conoscono poco, e male, la metafisica e la teologia.

«Forse per il momento e per un periodo piuttosto lungo l’impossibilità del superamento di questa situazione costituirà addirittura il tema vero e proprio del dialogo tra cultori delle scienze naturali e teologi.»27

È evidente che il passaggio dalle teorie elaborate dalle scienze naturali alla teologia è molto brusco, quasi un salto logico, e che solo la filosofia può fungere da mediatrice: «il rapporto tra due scienze è una questione metafisica»28.

2. Seconda parte. Fonti particolari.

2.1. Spirito e materia

Il rapporto tra spirito e materia è certamente uno dei temi di confine che coinvolgono il teologo e lo scienziato, seppur da prospettive diverse. Se lo scienziato normalmente non è interessato a definire l’essenza ultima della materia, il teologo si trova in difficoltà nel momento in cui deve precisare la relazione che intercorre tra la dimensione spirituale e quella materiale e, «intimidito dalle scienze naturali odierne, non potrà più accontentarsi semplicemente delle sue posizioni tradizionali»29. La teologia scolare, pur conoscendo il concetto di forma (entelecheia) del vivente come appartenente al materiale non riesce a pensare la materia e lo spirito nella loro unità, se non nell’uomo e in Dio. Questa posizione pare oggi poco sostenibile sia a motivo delle nuove scoperte scientifiche, quali la teoria dell’evoluzione e gli studi di etologia, sia per ragioni propriamente teologiche: «la materia deve essere — per la sua origine e il suo fine — molto “spirituale”, se il suo Creatore è spirito assoluto e non può affatto essere causa di qualcosa che sia semplicemente privo di spirito»30.

Prima di riflettere sull’affermazione rahneriana è opportuno considerare le ragioni avanzate dai fautori del materialismo, tra i quali anche alcuni scienziati, che negano l’esistenza della dimensione spirituale. Ciò ovviamente impedirebbe qualsiasi discussione in merito e la possibilità stessa di parlarne. Rahner stesso ne è consapevole e si preoccupa di dimostrare l’infondatezza della posizione materialista:

«Se un materialista afferma che esiste solo la materia, gli si domandi che cosa intende per quella materia […] dalla risposta si vedrebbe subito che alla prima e all’ultima proposizione di un sistema materialistico non si può in assoluto attribuire alcun senso»31.

Se tutto è materia non esiste nulla al di fuori di essa capace di definirla. Inoltre non potremmo attribuire all’uomo la qualità di soggetto, dato che un soggetto è tale solo se si contrappone, consapevolmente, a un oggetto. A questo punto si potrebbe avanzare l’ipotesi, oggi non comune in occidente, che la materia non esista e che la realtà sia solo spirituale. Portata alle sue estreme conseguenze tale posizione squalificherebbe le scienze sperimentali che impiegherebbero le loro energie per studiare il rivestimento apparente, e quindi fallace, della realtà, sul modello di un platonismo spiritualizzato. Se tutto fosse spirito sarebbe impossibile, mutatis mutandis, definire la materia e il passaggio dallo spirituale al materiale. Materialismo e spiritualismo sono in effetti due facce della stessa medaglia, perché poggiano entrambi sull’incapacità di pensare la materia e lo spirito come tra loro comunicanti in una diversità ontologica ma non ab-soluta.

Per precisare il rapporto che intercorre tra materia e spirito, sì da evitare il materialismo e lo spiritualismo, è necessario aver ben chiaro che cosa sia lo spirito e che cosa la materia, o almeno uno dei due termini. Infatti, come insegna la filosofia cristiana medievale e tardo medievale, «comparativa igitur est omnis inquisitio medio proportionis utens»32, così che possiamo conoscere solo comparando un termine sconosciuto con uno conosciuto. Non è però il materiale, come di primo acchito potrebbe sembrare, ciò che è conosciuto come dato primo, bensì lo spirituale: «il significato di “spirituale” è un dato aprioristico della conoscenza umana, anche se ha bisogno di essere […] interpretato mediante la riflessione»33. Tuttavia lo spirito non è un oggetto della conoscenza umana al pari degli altri oggetti. Esso si situa nell’esperienza trascendentale la quale è attingibile, nella sua immediatezza, solo mediante la riflessione. Per questa ragione può essere misconosciuto, anche se non eliminato.

L’indagine trascendentale rivela lo spirituale come condizione di possibilità della conoscenza e dell’esistenza umana e personale e allo stesso tempo indica l’unità originaria di soggetto e oggetto quale elemento fondante dell’esperienza. L’unità originaria di soggetto e oggetto «dà anche il diritto di assumere il soggetto e l’oggetto sotto un concetto e termine comune»34, che identifichiamo con l’essere. Questo non significa appiattire le differenze perché l’essere non è un concetto univoco, né equivoco, bensì, nella tradizione aristotelico-cristiana, analogico. Predicare l’essere di un ente comporta nello stesso tempo l’affermazione dell’uguaglianza e della diversità, così che ogni ente è uguale per certi aspetti e diverso per altri, da un altro ente.

Nell’ambito intramondano due enti, per quanto grande possa essere la distanza che li separa, partecipano necessariamente dell’essere e si trovano de facto in una mutua relazione, che chiamiamo appunto analogia. Questa analisi è conseguente sia alla fede in Dio, creatore dell’esistente, sia al presupposto tacito delle scienze naturali, che devono presupporre l’unità del mondo fenomenico e l’interconnesione dei dati sperimentabili per porre in essere l’attività scientifica.

Conoscendo riflessivamente lo spirituale è possibile, per analogiam, cercare di comprendere il materiale. Lo spirito è l’apertura illimitata all’essere che caratterizza ontologicamente il soggetto conoscente. La conoscenza, che di per sé è evento spirituale, si fonda sulla conoscibilità degli enti e sulla loro partecipazione all’essere. L’uomo è spirito in quanto autocoscienza ed esistenza, che nel suo conoscere l’essere-altro è presenza a se stesso. Ma il movimento, la redditio, che sostiene la conoscenza poggia sul fondamento dell’essere di cui partecipano il soggetto e l’oggetto. Potremmo a questo punto definire il «puramente inconscio e solo materiale […] come uno spirituale che possiede solo la propria essenza spirituale»35, che nella terminologia scolastica si chiama forma, entelecheia. Allo stesso modo, se qualifichiamo lo spirito come apertura radicale all’essere, per analogia potremmo definire il materiale come quella realtà «del tutto chiusa al trascendimento verso l’essere»36.

Il materiale nella proposta rahneriana non ne risulta spiritualizzato nel modo di un panteismo o di uno panpsichismo, che vedono nella materia una presenza diretta del divino o dell’energia primordiale. La materia è spirituale perché è un momento dello spirito finito ed è ad esso finalizzato, così che la storia della natura non corre su un binario parallelo, mai incidente con la storia dello spirito. Diversamente «spirito e materia posseggono una unità nella loro storia»37, che ha in Dio un comune fondamento e uno stesso fine.

Questa prospettiva conduce di necessità al superamento di una rigida distinzione, che si traduce in una incomunicabilità di fatto, tra spirito e materia, tra mondo umano e infraumano. In particolare pare opportuna una «critica del dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa»38, che conduce a una svalutazione del mondo non-umano o, al contrario, a una sopravvalutazione del mondo animale con il rischio di eliminare la distinzione ontologica esistente tra l’uomo e l’animale. Questi a differenza del puro inconscio vive fuori di sé e interagisce con l’ambiente in maniera significativa. Certamente gli animali partecipano dell’essere in un modo qualitativamente diverso dal solo materiale, essi «hanno coscienza, ma non raggiungono se stessi con la riflessione»39. Esiste una gradazione interna all’essere osservabile però solo partendo dallo spirituale, dal soggetto umano il quale, nell’unità di spirito e corpo e nella sua realizzazione compiuta, rivela il significato ultimo del materiale e dello spirituale. L’unità di spirito e materia nella sua inevitabile storicità creaturale «si sviluppa, perviene nell’uomo al suo stadio decisivo e raggiunge il suo compimento nel compimento dell’uomo»40, nell’evento parusiaco che coinvolge l’umanità intera e con essa l’intera creazione.

2.2. Teologia ed evoluzionismo. L’esperienza creaturale

L’evoluzionismo, in quanto teoria delle scienze naturali metodologicamente ‘atee’, pare essere in grado di spiegare l’esistenza della vita umana e infraumana senza far ricorso a Dio, in una prospettiva che si qualifica per la «sistematica rinuncia al riferimento alla realtà di Dio nella spiegazione delle relazioni tra i fenomeni fisici e biologici del mondo»41. Creazionismo ed evoluzionismo sembrano in effetti due teorie opposte e contrarie (che logicamente potrebbero essere entrambe false), tali da escludersi reciprocamente. La situazione è determinata da una errata, perché superficiale, idea di creazione e allo stesso tempo da una concezione non scientifica della teoria evoluzionista. Un’analisi puntuale dei termini e dei concetti rivela una situazione diversamente articolata, Rahner, da teologo, si preoccupa di chiarire la nozione di creaturalità e solo in riferimento a quest’ultima, in un’ottica metafisica, si occupa della teoria evoluzionista. È importante sottolineare l’idea di fondo che sostiene il pensiero rahneriano quando si confronta con la scienza: il compito del teologo è di chiedersi se, in nome della fede cristiana, ha qualche obiezione da sollevare nei riguardi delle teorie delle scienze naturali, se «può vivere in loro compagnia»42. La teologia non deve aspettare i risultati della scienza per porre sul campo il frutto delle sue ricerche, perché la teologia ha a che fare con Dio e non con una realtà mondana tra le altre.

Naturalmente per assolvere al suo compito il teologo deve aver approfondito il significato delle proposizioni di fede, anche alla luce della visione del mondo positivamente influenzata dalle scienze della natura. Il teologo tedesco propone una prima chiarificazione di creazione divina, affermando che «la creaturalità del mondo è un’affermazione teologica, non delle scienze naturali»43. Il conflitto parrebbe quindi a priori escluso, ma di fatto non è così. La fede cristiana afferma che il mondo, lo spazio e quindi il tempo non sono eterni, appunto perché creati. Ma, soprattutto in riferimento alla dimensione temporale, non sono di facile soluzione le aporie in cui si imbatte il pensiero quando deve dimostrarne la finitudine o l’infinità, come esemplificato nella prima antinomia della ragion pura di Kant. Tali aporie sono risolvibili solo se nelle nostre considerazioni sulla temporalità includiamo sempre «il tempo interiore dello spirito personale con un inizio e una fine»44. A essere più precisi è solo a partire dalla storia dello spirito libero che la storia della natura assume un senso. Questo emerge con chiarezza anche da quanto detto in precedenza a proposito del rapporto tra spirito e materia, i quali costituiscono gli elementi fondamentali, nella diverse gradazioni, dell’intero creato. Solo nel soggetto personale e libero lo spirito perviene all’autoconsapevolezza rivelando il significato ultimo del materiale e dello spirituale, della storia della natura e della storia dell’uomo.

Quando la dottrina della creazione afferma che Dio creò in principio, all’inizio, intende dire che anche il tempo, quale qualità del mondo, è creato da Dio. Per questa ragione non ha senso la domanda sul prima del tempo, quasi che il tempo non fosse del mondo: «non esisteva un allora dove non esisteva un tempo»45.

È necessario analizzare l’esperienza interiore del soggetto libero per intuire (non già de-finire) il significato dell’atto creativo. Solo nell’esperienza trascendentale l’uomo può incontrare la sua creaturalità, così che a ragione possiamo parlare di esperienza creaturale. Nel momento in cui il soggetto pone a tema delle sue riflessioni la possibilità stessa dell’esperienza, di ogni esperienza categoriale e ancor più radicalmente la possibilità della sua stessa esistenza, egli può sperimentare in un atto etico e noetico la propria creaturalità. L’esperienza creaturale è l’esperienza di una gratuità che precede l’esistente e che ha a fondamento la volontà libera creante. È evidente che tale esperienza è possibile solo nella coscienza dell’uomo ed è localizzabile nella dimensione metafisica-spirituale. Essa sfugge alle analisi delle scienze naturali che, con il metodo che è loro proprio, non vi hanno accesso. Il luogo dell’esperienza della creaturalità non è la serie dei fenomeni che si svolgono nel tempo, che sono oggetto della scienza, «bensì l’esperienza trascendentale in cui il soggetto sperimenta se stesso e anche il proprio tempo come sorretti dal fondamento incomprensibile»46. L’esperienza trascendentale è concepibile solo in una prospettiva metafisica ed è nella stessa prospettiva che occorre pensare l’agire creatore di Dio. In quanto trascendente, ovvero in quanto origine della trascendenza, Dio non è l’ente che sta al principio della catena dei rapporti di causa ed effetto, come una causa prima da cui tutto deriva. La relazione tra l’Assoluto e l’ente finito è ontologica e non può essere rintracciata nell’esperienza ontico-categoriale, di cui si occupano le scienze naturali. Per questa ragione la causalità divina è qualitativamente diversa dalla legge di causalità che il soggetto sperimenta nel mondo: «la causalità divina, infatti, non presuppone la distinzione tra Dio e la creatura, ma la pone e nel farlo la mantiene presso di sé in maniera unica»47.

Dio è causa dell’essere e dell’esistente nel senso che è la condizione di possibilità di ogni rapporto di causa ed effetto esperibile dall’uomo, ne è la causa trascendentale perché è meta e fondamento di ogni divenire in quanto ne è il «movente»48. Il concetto di causa va quindi purificato eliminando i residui ontici da cui è affetto nell’immaginario collettivo, ed è d’altra parte comprensibile che «qualcuno a volte rifiuti di usare l’idea di causa in riferimento a Dio»49. Dio ha creato il mondo o, meglio, Dio crea il mondo. L’azione divina creatrice non è un atto confinato in illo tempore, ma continua nel presente che nel vissuto riflesso del credente coinvolge il futuro. L’agire divino sostiene la storia, naturale e spirituale, conferendo l’essere alla novità creaturale la quale, pur derivando da una causa efficiente materiale, non si esaurisce mai in essa. Il novum costituito da una nuova forma dipende da Dio, quale assoluta pienezza di essere, per la sua novità ontologica, per l’essere in più che ogni inedito esistente possiede in quanto tale. Sinteticamente potremmo dire che Dio «crea un mondo in evoluzione, non solo agli inizi, ma anche nel suo pieno sviluppo, e lo realizza costantemente come un mondo in evoluzione»50.

Dio crea conferendo all’ente una reale capacità di autosuperamento, un’autotrascendenza attiva, anzi una «autotrascendenza entitativa»51 che ha appunto in Dio il suo fondamento e che scaturisce dalla partecipazione della creatura alla realtà del Creatore. Il principio ontologico dell’autosuperamento è quindi da una parte realmente in intimità con l’ente finito, dall’altro non appartiene costitutivamente ed esclusivamente alla creatura. Detto in altri termini la creatura partecipa di Dio ma non è Dio (panteismo) e l’assoluta trascendenza divina non è incomunicabilità. Se Dio non è, in quanto Creatore, una causa (la prima) intramondana, allora neppure la conservazione del mondo da parte di Dio va pensata in termini ontici. Dio crea e conserva all’essere ponendosi in relazione con l’altro da sé, il creato, e perseverando nella fedeltà in tale relazione. Dio è il totalmente Altro, il Mistero inconoscibile. Anzi forse sarebbe più corretto dire che «Dio non è l’Altro, perché è Dio»52, nel senso che Dio non è un altro accanto all’uomo, ma la fonte in senso proprio di ogni alterità. Dio come il residuo fenomenologico dell’alterità.

La teoria evoluzionista compresa scientificamente e concettualizzata metafisicamente non si oppone al dogma della creazione teologicamente pensato e creduto: «un’evoluzione generale del cosmo […] è ammissibile per la fede cristiana come tesi o ipotesi delle scienze naturali soltanto da inquadrarsi […] in un’immagine cristiana del mondo? La nostra risposta è sì»53. A due condizioni però, che riassumono quanto detto finora. In primo luogo è necessario ammettere che la causalità divina è oggetto di una conoscenza che è anteriore all’applicazione di un principio universale di causalità e che è apriorica rispetto alla conoscenza delle scienze naturali. In secondo luogo dobbiamo convenire sul concetto metafisico di autotrascendenza, quale cifra ultima e reale del divenire, non individuabile a priori dalle scienze empiriche.

2.3. Teologia ed evoluzionismo: la questione «uomo»

La contraddizione tra l’azione di un Dio creatore e la teoria dell’evoluzione potrebbe risolversi nella constatazione che Dio crea e conserva un mondo in evoluzione, per quanto poi tale affermazione necessiti di una adeguata riflessione. In realtà non si è ancora affrontata la questione più spinosa, che consiste nella creazione dell’uomo, anzi dell’anima umana. Rahner ricorda come il magistero ecclesiastico, almeno a partire da Pio XII, non sollevi obiezioni nei confronti della dottrina della derivazione biologica dell’uomo dal regno animale, «a patto che si salvaguardi la creazione diretta dell’anima spirituale da parte di Dio»54. Di primo acchito non è chiara la ragione che spinge Dio ad agire con due modalità differenti a seconda dell’oggetto posto in essere. Egli infatti creerebbe direttamente l’anima e lo spirito e indirettamente il corpo e la materia. Ciò comporterebbe però una contraddizione all’interno della stessa azione divina, risolvibile solo ricorrendo a una libertà e una onnipotenza dispotiche nella loro impossibilità e in-pensabilità logica, così che «occorre procedere con prudenza, quando si parla di “ciò che Dio può” in base alla sua onnipotenza»55. Inoltre la radicale separazione tra anima e corpo, tipicamente platonica, non si accorda né con i dati biblici che concepiscono l’uomo come un tutto indivisibile, né con le attuali conoscenze della scienze biologiche. Per ovviare a queste incongruenze è opportuno riprendere e approfondire la riflessione, di indole metafisica, sul concetto di divenire elaborata dall’A. e già introdotta nel paragrafo precedente.

Il divenire è inteso da Rahner, che si appoggia alla tradizione scolastica, come un divenire «di più» e non semplicemente come un divenire «diverso», quale può essere inteso dalle scienze naturali a priori occupate con la pura physis. Il divenire è quindi «una crescita di essere»56, un incremento qualitativo della densità ontologica. Ogni aumento di essere presuppone necessariamente l’essere stesso e, in fondo, l’Essere Assoluto quale condizione trascendentale di ogni esistente e di ogni divenire. La capacità di un ente di divenire e generare, la sua autotrascendenza attiva, è determinata dalla partecipazione al Fondamento, il quale dà l’essere come possibilità di un reale autosuperamento nella direzione di un «di più» qualitativo: l’azione creatrice di Dio è sempre trascendentale e nobilita l’essere creaturale dall’interno.

Il desiderio di rinvenire delle tracce (non delle prove) dell’attività creatrice all’interno del mondo fenomenico è certamente comprensibile, ma allo stesso tempo filosoficamente e teologicamente improponibile se non attraverso un attento utilizzo delle categorie di segno (semeion) e simbolo57. In sintesi è possibile dire che il rapporto del fondamento assoluto dell’essere e del divenire con l’agente finito appartiene a priori allo stesso agente finito, non però «in quanto rientra nella sua essenza quale causa efficiente finita o momento costitutivo della sua natura ma in quanto lo trascende ed è il fondamento della sua causalità efficiente»58.

La creazione diretta dell’anima umana parrebbe però contravvenire all’agire trascendentale di Dio, postulando così un’eccezione nel caso dell’anima umana. In realtà «si dovrebbe chiamare “categoriale” l’agire di Dio nel sorgere dell’anima umana solo quando non si potesse attribuire tale sorgere anche ad una causa intramondana»59, ma ciò di fatto non è necessario dato che i genitori sono la causa del figlio, inteso come unità di anima e corpo. Allo stesso tempo i genitori, pur essendo la causa efficiente della prole, non ne sono la causa sufficiente perché l’attività generatrice, quale capacità di autosuperamento, si fonda in Dio e ha in Dio la sua causa prima e ultima.

L’emergenza ontologica ravvisabile da una metafisica del divenire implica logicamente l’Essere che donandosi crea la possibilità della novità creaturale. L’aggettivo «diretta» attribuito alla creazione dell’anima umana esprime «quell’istinto globale morale della ragione e della fede»60 che, veritiero quanto a forma e contenuto, richiede altresì di essere presentato teoreticamente. Esso dice in positivo che l’uomo, nella sua precipua qualità di persona autocosciente e libera, è l’interlocutore privilegiato di Dio e della sua autocomunicazione e, in negativo, che tale qualità non gli deriva dalla pura materia; dice inoltre che l’uomo è il vertice della storia naturale e spirituale dell’autotrascendenza entitativa61 che ha nell’incontro con Dio, datore dello spirito, il suo fine. Ciò non esclude tuttavia che una creazione diretta non sia riscontrabile anche in altre situazioni e che «il senso del concetto di “creazione” applicato qui non si presenti in maniera formalmente identica in altri casi»62.

Certamente nel caso dell’uomo l’autosuperamento si manifesta ogni volta come generazione di un essere spirituale assolutamente unico e irripetibile, mentre nel mondo materiale la generazione si rivela essere la riproduzione della medesima specie, così che una reale autotrascendenza comporta il venire alla luce di una nuova e qualitativamente differente specie animale. Questo significa che più il divenire raggiunge gradi di essere complessi e superiori tanto più la novità sarà caratterizzata dallo spirito e dalla singolarità irripetibile. Sulla scia delle riflessioni rahneriane possiamo anche dire che «Dio crea l’anima “immediatamente”, ma Egli crea ogni cosa con uguale immediatezza. Perché “creare” non si riferisce soltanto al primo di una serie […] ma si riferisce a tutta la serie e a tutto ciò che vi è compreso»63. I motivi per cui il magistero sottolinea con forza l’immediatezza della creazione dell’anima sono almeno due: la difesa della personalità spirituale dell’uomo di contro a un materialismo sempre più diffuso e conseguentemente la possibilità per l’uomo di vivere una relazione autentica con Dio. Resta ora da chiedersi se l’esperienza metafisica di un’evoluzione e di un divenire come incremento di essere e la conseguente idea di uomo quale spirito, soggetto libero e responsabile, sia appannaggio della scienze naturali. Da quanto detto in precedenza la risposta non potrebbe che essere negativa, ma c’è un’affermazione di Rahner che induce alla prudenza. Trattando del rapporto tra teologia e tecnica il teologo tedesco si interessa alla (auto)manipolazione genetica, alla sperimentazione che l’uomo ha la possibilità di realizzare sui suoi simili.

Se in passato la libertà e la capacità di autodeterminazione, che competono all’uomo in via trascendentale, erano sperimentabili esclusivamente nel campo della conoscenza contemplativa, metafisica, nella relazione libera tra l’uomo e Dio, oggi la scienza e la tecnica rendono i trascendentali di libertà e autodeterminazione accessibili nell’ambito dell’empiria. Infatti «l’uomo non si crea più solamente come essere etico e teoretico davanti a Dio, sì invece come essere profano, fisico, storico […] si plasma sia in un orizzonte di eternità, sia di storia come tale»64. A ben vedere ciò non significa che le scienze naturali possano rintracciare, con il proprio metodo, l’esperienza trascendentale della libertà, ma semplicemente che i cultori di scienze sperimentali potrebbero rinvenire l’autodeterminazione trascendentale riflettendo sui presupposti metafisici che rendono praticabili le loro stesse scienze. Ma questo significa elaborare una gnoseologia metafisica e quindi, di nuovo, pensare la realtà tutta, compreso l’uomo, nella sua qualità spirituale. L’uomo «non è un essere chiamato all’esistenza di sua propria iniziativa. È invece una creatura immessa in un mondo […] che egli non ha scelto da sé come “oggetto” e contraltare della sua libertà»65. Di qui la condanna da parte di Rahner di una tecnica fine a se stessa, disumanizzante, che svilisce l’uomo riconducendolo in schiavitù, sfruttando la sua disperazione di fronte all’indisponibilità dell’esistenza66. Le scienze naturali, in quanto sapere per definizione aposteriorico, non possono afferrare con uno sguardo sintetico ed essenziale l’uomo nella sua peculiarità di soggetto autocosciente. Ciò che rende l’uomo umano non è l’andatura eretta, né la capacità prensile, né il suo sapersi organizzare in una società regolata da leggi. Anche un animale intelligente potrebbe un giorno saper fare tutto questo, senza per questo diventare umano. L’uomo è tale perché è spirito, apertura illimitata all’essere e soggetto autocosciente orientato costitutivamente al fondamento.

Per le scienze naturali l’uomo è effettivamente un animale intelligente e, dal loro punto di vista, hanno certamente ragione. La teologia ha comunque il dovere di ricordare all’uomo la sua umanità, mostrando l’infondatezza di una pretesa assolutezza del sapere scientifico. Nel momento in cui l’uomo decidesse di voltare le spalle alla sua specificità spirituale nessun sapere tecnico-scientifico sarebbe in grado di rianimarlo.

2.4. Il problema della morte

È opportuno terminare questa breve presentazione dei saggi rahneriani dedicati al rapporto teologia (filosofia) e scienza con il problema, che è ultimo per definizione, della morte. Sono diverse le ragioni che rendono interessante e urgente una riflessione su questo tema. È sempre più problematico, dal punto di vista scientifico, morale e filosofico, trattare della morte come di una realtà della vita. A una esaltazione della salute e del benessere corrisponde una cultura del rifiuto della malattia e della morte, quasi che queste fossero gli ultimi residuati di un mondo arcaico e pre-scientifico, con il rischio di dimenticare la costitutiva finitudine umana con il conseguente carico di dolore. La scienza ci dice che la morte è esistita prima dell’ominazione, che l’uomo è mortale e che non esiste causalità del peccato. Afferma in sintesi che la morte è un evento biologico, causalmente esplicito e comprensibile anche senza ricorrere a una qualche spiegazione metafisica67. Naturalmente anche il teologo si affida alle scienze mediche quando si tratta di stabilire l’avvenuto decesso, ma «decesso e morte non sono identici»68. La scienza può in effetti spiegare le cause del decesso, ma non è in grado di affrontare il problema della morte dell’uomo perché l’uomo non è solo materia.

A differenza dell’animale, che «muore meno mortalmente di noi»69, egli è invece unità indissolubile di materia e spirito autocosciente, è autocoscienza che liberamente vive e pensa. La tragedia del decesso sensibile diventa, per il cristiano, il dramma del morire spirituale e ciò è possibile perché è il concetto stesso di vita, cristianamente inteso, che rende possibile tale trans-figurazione: «la vita che l’uomo nella sua unità e interezza vive e subisce è il divenire, l’avviamento della vita eterna, data in maniera unitaria e totale solo nella piena realizzazione finale della sua essenza»70. Si tratta ora di dare ragione di questa speranza. Di fronte alla scienza la teologia non nega che la morte presenti anche un rilievo biologico, ma contemporaneamente afferma che essa non si riduce alla cessazione delle facoltà vitali. Proprio perché l’uomo è spirito incarnato «la morte deve avere un aspetto naturale e un aspetto personale»71, tanto da coinvolgere le dimensioni più profonde dell’essere umano. In quanto decesso la morte è naturaliter la fine di un organismo, ma essa è sempre anche la morte di un soggetto spirituale. La tradizione esprime l’aspetto naturale parlando di separazione tra anima e corpo, dove l’anima è da intendersi come principio spirituale della vita dell’uomo. In quanto unità di spirito e materia, anima e corpo, è l’uomo nella sua interezza che vive l’esperienza della morte. L’anima è l’essenza spirituale, il principio vitale inafferrabile dai sensi eppure sensibilmente presente, che si manifesta nella libertà e nella responsabilità di ogni autocoscienza.

Se è tutto l’uomo a essere coinvolto nella morte allora anche l’anima vive la morte, non ovviamente nel senso di una sua estinzione, ma di una trasformazione delle relazioni che essa intrattiene con il mondo. Quindi, se prescindiamo dallo schema antropologico-teologico neoplatonico, potremmo pensare che l’anima, nella morte, si apra in maniera più profonda all’unità del mondo, a quell’unità ontologica che è il principio costitutivo del mondo. Detto altrimenti, posto che l’uomo è apertura illimitata all’essere, con la morte tale apertura, lo spirito, vive una relazione nuova con il mondo, una relazione meta-fisica nella quale coglie in modo qualitativamente diverso cioè sintetico (con un atto puramente noetico) la realtà più vera ossia l’unità del cosmo quale principio ontologico del reale. Ciò che è certo e fino a un certo punto chiaro, è «che l’uomo e la sua storia, […] sono ben più che un semplice episodio biologico calato nello spazio e nel tempo e perdentesi […] nell’anonimato della realtà fisica»72. La morte, in quanto atto personale, non è altro dalla vita. Diversamente essa è il compimento di una storia di libertà e risposta che in questa storia già è presente e operante. L’uomo è veramente essere-per-la-morte, nel senso che l’essere umano pensa e agisce nella prospettiva dell’incontro definitivo con Dio. L’essenza quindi della morte naturale è l’essere condizione di possibilità di un incontro e di un giudizio, di salvezza o di perdizione, e ciò proprio a motivo del carattere velato della morte. Nonostante ogni uomo sia consapevole che la morte è un evento ineluttabile, non può tacere la protesta e il rifiuto contro la fine della vita. Questo è indice di quello che Rahner definisce «il permanente esistenziale soprannaturale»73 della morte come atto personale dell’uomo e che consiste nel suo essere creato per la vita eterna. Nello status viatoris la morte non appare mai nella sua essenza propria e rimane così un mistero carico di ambiguità. Da quanto detto si comprende perché la morte è stipendio del peccato: non perché, senza il peccato, il decedere non avrebbe avuto luogo, come accade agli dei e ai semidei; piuttosto perché il peccato allontana da Dio e, con un’azione mistificatrice, non permette di vedere la morte nella sua verità di atto personale libero ed eticamente responsabile. La nostra morte, quale momento che ci appartiene, è sempre e comunque indisponibile nel suo carico di ambiguità. Ma è appunto il peccato che rende la morte vuota e terribile, inizio reale, seppur solo intuito, della terrificante e ultimativa morte eterna.

La dogmatica cristiana, che si colloca come detto in posizione a priorica o ontologica, afferma che «perfino la morte è da considerarsi un avvenimento di salvezza per chi è in grazia»74.

La scienza è certamente in grado di spiegare, con una terminologia aristotelico-tomista, la causa materiale e la causa efficiente della morte ma le sfugge la causa formale, ciò che fa della morte un evento umano e la causa finale, ciò che fa della morte un atto personale compiuto, ossia «l’avvento della storia compiuta dalla libertà dell’uomo dinanzi al mistero assoluto, dinanzi a Dio»75, anche se vissuto nella dialettica di azione e passione. La teologia ha quindi la possibilità e il dovere di interagire con le scienze mediche quando queste hanno a che fare con la morte dell’uomo, rammentando loro almeno alcuni dati fondamentali: la spiritualità, invisibile ma reale, dell’uomo e la sua assoluta dignità di persona.

3. Conclusione

Al termine di questo breve percorso è ora possibile riannodare sinteticamente i fili del discorso per evidenziare i dati più significativi. Dall’analisi delle fonti sono emersi, tra gli altri, almeno tre aspetti fondamentali che Rahner sottolinea riflettendo sul rapporto tra teologia e scienze naturali. In primo luogo il diverso statuto epistemologico che diversifica fondamentalmente, cioè nei costitutivi strutturali e formali, teologia e scienze sperimentali. Queste ultime hanno infatti per oggetto i fenomeni sensibili dell’esperienza aposteriorica, il mondo nella sua realtà ontica. Esse presuppongono perciò un pre-dato storico e metafisico in quanto sono il risultato di una ricerca arricchentesi nel tempo e, contemporaneamente, poggiano su presupposti metafisici che esse, proprio per la loro specificità, non mettono a tema ma appunto premettono quali condizioni (irriflesse) della loro possibilità.

Diversamente la teologia (filosofia) si configura come indagine apriorica del tutto della realtà e del suo fondamento. Essa si interroga sul Mistero ineffabile da cui è chiamata all’esistenza e da cui dipende l’intero per la sua stessa possibilità di esistere. Mentre la scienza si rivolge necessariamente al particolare, la teologia guarda, altrettanto necessariamente, all’universale avendo però come punto d’osservazione l’autocomunicazione di Dio. Per questo la teologia ha a che fare con Dio ed è sapienza naturalmente relazionale. Date le opportune differenze resta da chiarire quale rapporto possano intrattenere le due diverse forme di sapere. Le scienze naturali contribuiscono sicuramente ad accrescere la conoscenza del mondo fenomenico, fornendo alla teologia una pre-comprensione del dato umano-cosmico, una grammatica empirica della creazione che permette la purificazione della riflessione teologica da residui magico-esoterici. Dal canto suo la teologia può, anzi deve, avere una salubre e salvifica funzione demitizzante nei confronti della scienza, relativizzando il contenuto della ricerca scientifica e mostrandone la sua non definitività in ordine al significato ultimo, escatologico dell’esistenza. Così facendo la teologia può riportare la conoscenza scientifica a servizio dell’uomo, dell’umanità, in ultima istanza guidandola verso un fine che sia realmente e senza ambiguità buono. Certamente questo è auspicabile ma perché si dia un dialogo tra teologia e scienza è necessario, ricorda Rahner, elaborare una corretta teoria della conoscenza. E questo è un compito che solo la filosofia è in grado di assolvere e proprio in virtù della sua razionalità organica e pluridimensionale.


  1. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 35. ↩︎

  2. Tra le molti voci favorevoli alla prospettiva interdisciplinare citiamo lo storico A. Politi, secondo il quale «il compito attuale comune alla storia, come a tutte le scienze sociali e umane, è formulare nuovi modelli antropologici» (in A. Politi, La storia lingua morta, ed. Unicopli, Milano 2011, p. 34), e questo per elaborare una costituzione culturale condivisa, fondata su valori fondamentali da tutti riconosciuti. ↩︎

  3. A. Raffelt, H. Verweyen, Leggere Karl Rahner, ed. Queriniana, Brescia 2004, p. 139. ↩︎

  4. K. Rahner, Scienza come confessione?, in La fede in mezzo al mondo, ed. Paoline, Alba 1965, p. 217. Titolo originale: Wissenschaft als ‘Konfession’?, in Schriften zur Teologie II, Heisiedeln, Benziger, 1956, pp. 455-472. ↩︎

  5. Friedrich August Kekulé von Stradonitz (1829-1896) fu un chimico tedesco, professore a Heidelberg, Ginevra e Bonn. Le principali teorie odierne sui composti del carbonio, sulla valenza, sul collegamento degli atomi a catena o ad anello chiuso, sui composti eterociclici poggiano su concezioni da lui elaborate. Studiò la costituzione del benzene e pubblicò un manuale di chimica organica che divenne celebre. ↩︎

  6. K. Rahner, Scienza come confessione?, in La fede in mezzo al mondo, op. cit., p. 218. Da questo passo risulta con evidenza l’influenza del pensiero heideggeriano e, più in generale, dell’esistenzialismo. Sul tema si può vedere A. Raffelt, Leggere Karl Rahner, op. cit., pp. 30-60, e I. Sanna, Teologia come esperienza di Dio. La prospettiva cristologia di Karl Rahner, ed Queriniana, Brescia 1997, pp. 67-72. ↩︎

  7. K. Rahner, Scienza come confessione?, in La fede in mezzo al mondo, op. cit., p. 218. ↩︎

  8. Idem, p. 229. ↩︎

  9. E. Jüngel, Dio mistero del mondo, ed. Queriniana, Brescia 2004, p. 33. ↩︎

  10. K. Rahner, Teologia oggi, in Nuovi saggi IX. Scienza e fede cristiana, ed. Paoline, Roma 1984. Titolo originale: Theologie heute, pubblicata in H. Dollinger (a cura di), Akademische Festreden zum Jubiläum 1980. Schriftenreihe der Westfälischen Wilhelms-Universität Münster 1/1980, 43-54. ↩︎

  11. Id., Teologia oggi, op. cit., p. 90. ↩︎

  12. C. Greco, L’esperienza religiosa. Essenza, valore, verità. Un itinerario di filosofia della religione, ed. San Paolo, Milano 2004, p. 166. L’autore mostra con chiarezza la necessità di un momento critico-veritativo all’interno della filosofia della religione, dopo un’analisi fenomenologica e una relativa operazione ermeneutica. Resta da chiedersi se il momento critico-veritativo possa ancora dirsi filosofia della religione. ↩︎

  13. K. Rahner, Teologia oggi, op. cit., p. 90. ↩︎

  14. Idem, p. 95. ↩︎

  15. K. Rahner, La teologia in dialogo con le scienze moderne, in La teologia nella ricerca interdisciplinare, (a cura di) J. B. Metz-T. Rendtorff (GDT 78), ed. Queriniana, Brescia 1974, p. 58, anche in K. Rahner, La teologia nel dialogo interdisciplinare, in Nuovi saggi V, op. cit. Abbiamo ritenuto opportuno non presentare questo saggio in un paragrafo a sé stante, visto e considerato che le tematiche più rilevanti sono riprese ed esposte, con rilevanti approfondimenti, nello scritto che stiamo analizzando. ↩︎

  16. K. Rahner, Una teologia con cui poter vivere, in Nuovi saggi IX, op. cit., p. 159. ↩︎

  17. Id., Scienza come confessione?, op. cit., p. 241. ↩︎

  18. Id., Scienze naturali e fede razionale, in Nuovi saggi IX, op. cit. Titolo originale: Naturwissenschaft und vernünftiger Glaube. Pubblicato in ChristlicherGlaube in moderner Gesellschaft, vol 3, Freiburg 1981, 34-78. Seconda parte dell’articolo «Weltall – Erde - Mensch», la cui prima parte è stata composta da K. Rawer. Un piccolo inciso: forse sarebbe più corretto tradurre vernunftiger Glaube con fede riflessa, nello spirito rahneriano. ↩︎

  19. Idem, p. 30. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. La religione è una virtù che «proprie importat ordinem ad Deum», Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, q. . 1. ↩︎

  22. K. Rahner, Scienze naturali e fede razionale, op. cit., pp. 32-33. ↩︎

  23. Idem, p. 34. ↩︎

  24. L. Wittgestein, Tractatus Logico-Philosophicus, 3.332 e 3.333. ↩︎

  25. Idem, p. 36. ↩︎

  26. Id., Sul rapporto intercorrente tra teologia e scienze naturali, op. cit., p. 148. ↩︎

  27. Idem, p. 43 ↩︎

  28. K. Rahner, Uditori della parola, ed. Borla, Roma 1977, p. 31. ↩︎

  29. Id., Scienze naturali e fede razionale, op. cit., p. 45. ↩︎

  30. Idem, pp. 46-47. ↩︎

  31. Id., Il problema dell’ominizzazione, ed. Morcelliana, Brescia 1969, p. 57. ↩︎

  32. N. Cusano, De docta ignorantia, I, 1. ↩︎

  33. K. Rahner, Il problema dell’ominizzazione, op. cit., p. 56. ↩︎

  34. Idem, p. 59. ↩︎

  35. K. Rahner, Scienze naturali e fede razionale, op. cit., p. 47. ↩︎

  36. Id., Il problema dell’ominizzazione, op. cit., p. 61. ↩︎

  37. Id., L’unità vigente tra spirito e materia, in Nuovi saggi I, ed. Paoline, Roma 1968, p. 264. ↩︎

  38. S. Morandini, Darwin e Dio. Fede, evoluzione, etica, ed. Morcelliana, Brescia 2009, p. 144. ↩︎

  39. P. Schoonenberg, Il mondo di Dio in evoluzione, ed. Queriniana, Brescia 1968, p. 47. Il teologo olandese sviluppa alcuni temi propri del percorso teoretico e teologico rahneriano. Per questa ragione terremo in particolare considerazione le sue osservazioni sul rapporto tra teologia ed evoluzionismo. ↩︎

  40. K. Rahner, L’unità vigente tra spirito e materia, op. cit., pp. 269-270. ↩︎

  41. S. Morandini, Darwin e Dio, op. cit., p. 18. ↩︎

  42. K. Rahner, Scienze naturali e fede razionale, op. cit., p. 53. ↩︎

  43. Idem, p. 50. ↩︎

  44. K. Rahner, Considerazioni teologiche sul concetto di tempo, in Nuovi saggi IV, ed. Paoline, Roma 1973, p. 376. ↩︎

  45. S. Agostino, Confessiones, XI 13, 15. ↩︎

  46. K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, op. cit., p. 114. ↩︎

  47. Id., Scienze naturali e fede razionale, op. cit., p. 57. ↩︎

  48. Id., Il problema dell’ominizzazione, op. cit., p. 87. ↩︎

  49. P. Schoonenberg, Alleanza e creazione, ed. Queriniana, Brescia 1970, p. 105. ↩︎

  50. P. Schoonenberg, Il mondo di Dio in evoluzione, op. cit., p. 59. ↩︎

  51. K. Rahner, La cristologia nel quadro di una concezione evolutiva del mondo, in Saggi di cristologia e mariologia, ed. Paoline, Roma 1965, p. 142. ↩︎

  52. R. Guardini, Mondo e persona, ed. Morcelliana, Brescia 2002, p. 54. ↩︎

  53. K. Rahner, Scienze naturali e fede razionale, op. cit., p. 59. ↩︎

  54. Idem, p. 64. ↩︎

  55. Id., Riflessioni teologiche sul monogenismo, in Saggi di antropologia soprannaturale, ed. Paoline, Roma 1965, p. 270. L’agire di Dio non è puramente arbitrario, così da poter sembrare assurdo e insensato. ↩︎

  56. Id., Il problema dell’ominizzazione, op. cit., p. 80. ↩︎

  57. «il mondo non è pieno di cose con il marchio «fatto da Dio (made by God)» […] ma abbiamo due luoghi in cui possiamo aspettarci di scorgere con maggior chiarezza i segni generali della presenza divina. Uno è il vasto cosmo […] l’altro è quella «canna pensante» che è l’essere umano», J. Polkinghorne, Credere in Dio nell’età della scienza, op. cit., p. 5. ↩︎

  58. Id., Il problema dell’ominizzazione, op. cit., p. 80. ↩︎

  59. Idem, pp. 97-98. ↩︎

  60. Id., Il problema della manipolazione genetica, in Nuovi saggi III, ed. Paoline, Roma 1969, p. 362. ↩︎

  61. Cfr. Id., La cristologia nel quadro di una concezione evolutiva del mondo, op. cit., pp. 148-153. ↩︎

  62. Id., Il problema dell’ominizzazione, op. cit., p. 99. ↩︎

  63. P. Schoonenberg, Il mondo di Dio in evoluzione, op. cit., p. 82. ↩︎

  64. K. Rahner, L’uomo come oggetto di sperimentazione, in Nuovi saggi III, op. cit., p. 319. ↩︎

  65. Id., Il problema della manipolazione genetica, op. cit., p. 370. ↩︎

  66. Cfr. Idem, pp. 344 e sgg. ↩︎

  67. Cfr. Id., Scienze naturali e fede razionale, op. cit., p. 71. ↩︎

  68. Id., Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, in Nuovi saggi IV, op. cit., p. 391. ↩︎

  69. Id., La vita dei morti, in Saggi sui sacramenti e sulla escatologia, ed. Paoline, Roma 1965, p. 446. ↩︎

  70. Id., Il mistero della vita, in Nuovi saggi I, Paoline, Roma 1968, p. 243. ↩︎

  71. Id., Sulla teologia della morte, ed. Morcelliana, Brescia 1966, p. 15. ↩︎

  72. Id., Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, op. cit., pp. 401-402. ↩︎

  73. Id., Sulla teologia della morte, op. cit., p. 40. ↩︎

  74. Idem, p. 64. ↩︎

  75. Id., Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, op. cit., p. 401. ↩︎