Sergio Sorrentino e Hagar Spano (curatori), La teologia politica in discussione, Fridericiana Editrice Universitaria, Napoli 2012.
Il presente volume affronta una serie di questioni originate dalla complessa nozione di teologia politica. Se il contributo dei numerosi esperti, tra cui Sergio Sorrentino, Michele Nicoletti, Pier Paolo Portinaro, João Vila-Chã, Andrea Aguti, Francesco Saverio Festa, Francesco Ghia, nonché altri più giovani studiosi, evidenzia formazioni e orientamenti piuttosto eterogenei, esso però conferisce alla silloge un’inusuale completezza e una tangibile ricchezza tanto sul piano delle questioni trattate (dalle attualissime riflessioni sui processi di secolarizzazione fino al tema del pluralismo religioso), quanto in termini di «respiro» filosofico e di profondità storico-critica (si entra di fatto in molte pieghe della cultura occidentale nella sua ampiezza storica, dalle lettere paoline all’attualità degli assetti istituzionali e sociali). Il volume è inoltre impreziosito dalla prima traduzione italiana, a cura di Hagar Spano, di un documento sulla Storia delle controversie tra Papa Paolo V e la Repubblica di Venezia, affidato da Johann August Eberhard alle autorevoli pagine della «Berlinische Monatsschrift» nel 1784, nel vivo cioè del cosiddetto dibattito sull’Illuminismo.
Nei primi anni del diciassettesimo secolo la «guerra dell’interdetto» — tale è la denominazione con cui la controversia è passata alla storia — fu in effetti uno dei casi più scottanti in cui il potere politico, quello della Serenissima Repubblica di Venezia, tra le poche realtà autonome entro l’Italia spagnola (e cattolica) del Seicento, entrò in conflitto con l’autorità papale. Oggetto del contendere furono, in senso molto ampio, i limiti e la giurisdizione del potere temporale nei confronti della Chiesa romana. Soprattutto a partire dall’età moderna infatti emerge in forme nuove, e di fronte a problemi inediti, come la Chiesa viva nella contraddizione tra l’influenza diretta nello spazio pubblico del diritto e della politica e il suo porsi invece costitutivamente oltre il politico. È questo il tema antico (risalente almeno fino a Papa Gelasio I) della distinzione tra potestas temporale e auctoritas spirituale. Di esso ci occuperemo senz’altro più avanti in riferimento al dibattito che pure è presente nel volume.
Per ora ci sembra importante rimarcare che forse non è un caso che nel 1922 Carl Schmitt, figura intorno alla quale inevitabilmente ruotano diversi contributi del presente volume, muova i primi passi della sua proposta di teologia politica, e lo faccia proprio a partire dal contesto giuridico ecclesiastico. Pertanto la questione dell’impossibile potestas della Chiesa nel contesto del diritto pubblico e dell’ordine giuridico non può che rappresentare uno spunto assai incisivo dal punto di vista filosofico e storico-filosofico; esso ci è fornito appunto nel testo di Eberhard che viene proposto in Appendice. Questo, si accennava, arricchisce e integra sotto il profilo storico-critico la discussione sulla teologia politica, facendone risalire le coordinate alla cultura illuministica. Viceversa, è stata di taglio prevalentemente teoretico la discussione che ha animato il Convegno su «La teologia politica in discussione» — in occasione del quale il 10 e 11 novembre 2011 si è celebrato a Trento il decennale della Associazione Italiana di Filosofia della Religione — i cui materiali vengono messi in circolazione grazie a questo volume.
A voler individuare un comune denominatore del complessivo percorso critico tratteggiato nel libro, è possibile segnalare tre problemi fondamentali. Essi in misura più o meno manifesta attraversano in maniera abbastanza trasversale i contributi offerti dagli studiosi, alimentando un interesse generale che tenteremo qui di articolare sulla base di tre quesiti: 1) Cos’è la teologia politica? 2) Quale posizione assumere in merito al tema della secolarizzazione e/o al fenomeno del cosiddetto «ritorno» della religione? 3) Quale il rapporto tra teologia e politica, ossia, in senso lato, tra l’auctoritas del potere spirituale e la potestas del potere politico?
Partiamo dal primo quesito. Già nelle pagine della prefazione si tenta di enucleare una possibile definizione del lemma «teologia politica». Esso appare carico di significati molteplici, e dunque non immediatamente individuabili, nella misura in cui presuppone delle concezioni determinate della «teologia» e della «politica». D’altronde lo stesso Carl Schmitt nella formulazione del 1922 fa ricorso palesemente a delle precise prospettive di «teologia» e di «politica». Per Sorrentino, in particolare, esse fanno riferimento a una visione essenzialmente tradizionale e datata della teologia e della stessa politica. Essa infatti fornirebbe le strutture ideologiche e giuridiche di una società «perfetta» come la Chiesa cattolica, in grado di ordinare i rapporti verticali uomo-Dio e quelli orizzontali uomo-società. In altri termini Schmitt focalizza la teologia soltanto nella misura in cui essa è finalizzata alla strutturazione di una comunità politica e non quale discorso razionale sull’esperienza religiosa. La teologia viene dunque concepita e assunta come una mera razionalizzazione dell’assetto politico del gruppo sociale (la Chiesa appunto) che esprime il legame giuridico di subordinazione a un’autorità. Una teologia perciò che formalizza il giuridico e quindi già orientata al politico. Essa di fatto, più che relazionarsi alla religione e al suo vissuto, viene intesa in base all’esplicito compito di formare dei valori su cui fondare la società regolamentata dal diritto. Eppure — chiarisce Sorrentino nel suo contributo significativamente intitolato Religione, spazio pubblico e potere politico. Paradossi e potenzialità di una teologia politica — la teologia, se correttamente intesa come «ermeneutica del mondo e della vita», dovrebbe assumere nel suo spettro il vissuto religioso e la sua formazione in comunità.
In merito al rapporto tra le due componenti del lemma «teologia politica», nella parte iniziale del suo saggio Michele Nicoletti si occupa proprio di distinguere le varie tipologie che vengono a formarsi dall’incontro delle teorie politiche con la religione o con la teologia. a) La prima tipologia è il caso della religione politica, che prende vita quando le strutture politiche vengono proiettate sul divino; essa può manifestarsi per es. nel culto dello Stato. b) Al contrario nella religione di Stato le categorie della religione schiacciano quelle politiche e fanno nascere Stati confessionali, come la respublica cristiana. In un secondo gruppo di tipologie Nicoletti cataloga le forme di rapporto tra religione e ordine politico che si sforzano di coniugare insieme oppure separare tra loro il regnum e il sacerdotium. Si hanno allora c) la religione civile, come nella «religione del cittadino» di Rousseau, oppure d) il liberalismo classico, che mira a una separazione delle rispettive sfere di competenza; però quando si cerca di definirne statuto, limiti e pregi, si sollevano conflitti e problemi di non facile soluzione, e ciò da Tocqueville a Rawls.
Tutte queste forme non sono però da confondere con la teologia politica; e, anzi, proprio nella definizione del campo di quest’ultima consiste il contributo del saggio di Nicoletti. Più specificamente lo studioso trentino elenca alcuni modi principali in cui essa è stata intesa nella tradizione filosofica e teologica, manifestando peraltro una propria preferenza in merito. Difatti nella sua diagnosi la teologia politica si presenta o nella forma di una «ermeneutica teologica» della condizione umana concreta, come auspicano Metz e Moltmann, oppure, in senso più filosofico, nella forma di una «teologia civile», di cui Agostino discute nel VI libro del De civitate Dei. Tuttavia è nella lettura di Schmitt che ricorre più propriamente alla riflessione attuale. Per il giurista tedesco essa è «politica» in quanto «discorso razionale», e cioè mette in funzione sul piano dell’ordinamento giuridico l’elemento della ratio occidentale. Egli infatti intende la teologia politica non come applicazione politica, ovvero agita nel concreto, della teologia, ma come inevitabile congiuntura di teologia e politica nel medium della ratio occidentale. Chi misconosce questa triangolazione finisce per pensare la teologia senza ratio, oppure la politica senza riferimento a una sfera divina che la limita. Forse, se si tiene conto della tematizzazione di Schmitt, si potrebbe dire che il problema attuale non è tanto la proliferazione dei fondamentalismi, quanto piuttosto la de-teologizzazione dei concetti politici. In realtà secondo Nicoletti la fine del discorso razionale su Dio destituisce l’uomo dalla sua subordinazione a Dio e lo restituisce in esclusiva al rapporto orizzontale con i suoi simili, rendendolo così creatore di se stesso. Ma questa tematica introduce il secondo filo rosso del volume, ovvero la domanda sulla secolarizzazione dell’Occidente.
Secolarizzazione e/o ritorno della religione? L’elemento centrale della teologia politica di Schmitt è indubbiamente il concetto di secolarizzazione, che in quel contesto vuole significare un trasferimento di categorie teologiche dall’ambito giuridico-ecclesiastico (rapporto verticale con Dio) verso la sfera della convivenza politica (rapporto orizzontale tra uomo e uomo). All’interno del volume è possibile rintracciare un’ampia discussione sui concetti di secolarizzazione e de-secolarizzazione, e anche in merito al cosiddetto «ritorno» della religione; con questo si intende un recupero della religione non improntato al fondamentalismo che si sarebbe verificato nel mondo negli ultimi decenni. Non sempre le due dinamiche sono interpretate in maniera condivisa.
Ebbene: a) Per un primo gruppo di studiosi la secolarizzazione è un fatto indubitabile nell’Occidente. Facendo riferimento alle posizioni espresse nel volume, si tratta delle presentazioni, sia pure con notevoli differenze tra loro, di Andrea Aguti, Antonino Drago (che espone la prospettiva di Lanza del Vasto) e Alice Gonzi (che offre una lettura di Georges Bataille).
Il primo ritiene che vi sia un «ritorno della religione», e che anzi si possa riscontrare una crescente consapevolezza del ruolo pubblico che può avere la religione. Ma per riconoscere pieno diritto a questo «ritorno», secondo Aguti, occorrerebbe operare anche il superamento di due idee cardine del Novecento: la fine della metafisica e il pregiudizio sul carattere violento che secondo alcuni studiosi si accompagnerebbe a ogni religione. Aguti tra l’altro solleva una interessante critica nei confronti di Carl Schmitt: il giurista tedesco assumerebbe in maniera acritica il modello politico di Hobbes improntato al pessimismo. Nella sua visuale politica infatti ha un ruolo centrale la contrapposizione amico-nemico, che riflette l’homo homini lupus di hobbesiana memoria. Impossibile allora non notare la radice essenzialmente moderna della teoria politica di Schmitt, che bene si accorda con la chiusura individualistica della religione. Si tratterebbe dunque, secondo Aguti, dell’affermazione del soggetto singolo, nella cui essenza rientrerebbe il conflitto con i suoi simili; questo porterebbe alcuni a stringere accordi tra loro (è questa la base del contrattualismo), altri invece a alimentare lo scontro e la guerra. Per questa ragione Schmitt ritiene che si debba creare la condizione per regolamentare il terreno di gioco, costruendo il jus publicum europaeum. Questo non mira a soffocare il polemos, bensì «consente la messa in scena dello scontro secondo un diritto» (P. Portinaro). La formalizzazione dello scontro evita infatti di criminalizzare il nemico, come spesso accaduto in età moderna, riducendo i rischi di assolutizzare del conflitto. Questo modo di impostare la convivenza tra gli esseri umani, nota Aguti, è del tutto assente dalla tradizione cattolica; essa riconosce al contrario il fondamento della politica nell’ekklesia, nella vita comunitaria, la quale mira precisamente ad arginare le conseguenze della caduta originaria, preparando l’umanità alla redenzione. È vero che non tutte le tradizioni cristiane aprono chiaramente la via all’agire politico, ma quella che si avvale della teologia naturale non è mai stata priva di un rivolto politico. È dunque discutibile la stessa posizione di Erik Peterson, secondo cui il Dio trinitario cristiano escluderebbe la possibilità di ogni teologia politica. In maniera opportuna Aguti rileva infatti che, benché resti un mistero, la Trinità offre comunque analogie possibili con le realtà mondane, al punto che Tommaso giudica la legge naturale quale «partecipazione della natura razionale alla legge eterna».
Antonino Drago, analizzando la posizione della singolare figura di Lanza del Vasto, sostiene che in lui ricorre parimenti l’idea della secolarizzazione dei concetti teologici, ma in senso inverso a quello inteso nell’impostazione di Schmitt. Lanza del Vasto infatti considera come «positive» le originarie intuizioni religiose, e invece come «negative» le istituzioni moderne, introducendo forse, a nostro avviso, un parametro valoriale che è assente dal discorso di Schmitt. Drago espone con puntualità questa prospettiva filosofica, secondo la quale c’è una base teologico-sapienziale in ogni religione. Tale nucleo originario non verrebbe alla luce nel discorso teologico, a sua volta troppo impegnato nelle distinzioni intellettuali e nelle affermazioni di fede, bensì diventa effettivo nella prassi sociale, nell’etica, insomma nella pratica religiosa concreta. Il riferimento di Lanza del Vasto è indubbiamente il Mahatma Gandhi, anche se egli evita sistematicamente il riferimento esplicito a Dio. Questa forte tensione a una religiosità universale e al riscatto etico-religioso presente in questa prospettiva induce in definitiva Drago a mettere in luce le sue affinità e le differenze con correnti teologiche maturate in altri contesti, quali la «teologia della liberazione» e persino alcuni aspetti sociali del neotomismo di Maritain.
Pienamente inserita un contesto secolarizzato è poi la teologia politica di Georges Bataille. Alice Gonzi enuclea l’ateologia di Bataille facendo riferimento alla rivista Acéphale. L’autore francese sulla scia di Nietzsche prospetta «l’impossibile comunità» dei liberi, cioè di coloro che sanno esprimere senza freni il sacro-dionisiaco. La secolarizzazione è qui interpretata come quel processo di burocratizzazione che allontana gli uomini dal sacro originario e li confina nell’individualismo, generando in loro un bisogno di comunità. L’esito della secolarizzazione è quindi il politico, anzi è la politica che esperiamo tutti i giorni, quella democratica, borghese e liberale, così come quella dei totalitarismi del Novecento. Bataille palesa così un curioso accordo con la scala di valori di Lanza del Vasto, perché per lui la politica democratica è propriamente il negativo, cioè quanto di più lontano vi sia dalla libertà. Inoltre la «teologia politica portata a Stato», cioè «il fascismo», non è così differente dallo Stato liberale: entrambe sono comunità umane «monocefale», orientate verso un fine comune che dona senso e finalità a un insieme di individui; eppure proprio in tale carattere unitario si cela l’assoggettamento degli esseri umani. La libertà è «policefala», poiché non sottomette gli individui a un unico Padre, sia egli capo, testa o ragione. Solo prendendo congedo da ogni teologia politica e fondando la comunità sull’assenza di Dio (ateologia politica) si può dunque esperire, come Dioniso, il sacro originario.
b) Un secondo gruppo, che annovera lo stesso Sorrentino, insieme a Portinaro e Festa, rifiuta invece questa interpretazione della secolarizzazione e riprende in qualche modo la tesi dell’egittologo Jan Assmann: il problema cruciale non è quello di una politicizzazione dei concetti teologici, ma al contrario quello di una «teologizzazione della politica»; che poi secondo qualcuno coinciderebbe con l’avvento del monoteismo. Secondo Assmann infatti in origine vi era il politeismo, ma quando Mosé distinse tra vera e falsa religione, introdusse nella prospettiva della religione un elemento che fino a allora era ad essa estraneo, ovvero la pretesa di assolutezza. Per primo Mosé ebbe «a disposizione» una Verità rivelata, depositata in testi sacri funzionali all’affermazione identitaria di un popolo determinato. Essa possiede un contenuto veritativo talmente assoluto che si è rivelato fattore di esclusione e di intolleranza nei confronti di altre religioni e di altri dèi, che in tale contesto appaiono meri «idoli». Assmann è convinto che vi sia stata una sacralizzazione del politico; essa ha determinato un’invasione del Sacro nel campo della politica, aggravata peraltro dalla violenza intrinseca al monoteismo. Quando per es. nel periodo medievale il Sacro concerne anche la coesione delle comunità, delle Leggi e della composizione di interessi individuali, esso esprime un’appropriazione della politica assoluta e squilibrata. Invece con la successiva de-sacralizzazione avvenuta in età moderna grazie alla separazione tra Chiesa e Stato, la politica riacquista man mano la propria autonomia. Quanto scrive Böckenförde, e cioè che la politica moderna consiste in una «neutralizzazione» delle pretese della Chiesa sullo Stato (significativo in proposito è il caso messo in luce da Eberhard nel testo riportato in appendice a questo volume), è senz’altro da leggere, dal punto di vista di Assmann, come il recupero di uno spazio che in precedenza era stato sottratto alla politica. A tal riguardo Festa riporta una felice battuta dell’egittologo, nella quale si palesa come il suo punto di vista sulla secolarizzazione si situa all’opposto di quello di Schmitt: «Quel che nell’età moderna è stato tirato giù dal cielo in terra, in epoche precedenti era stato trasferito dalla terra al cielo». Perciò, all’opposto di Schmitt, Assmann afferma che «tutti i concetti pregnanti della teologia sono concetti politici teologizzati».
Infine l’ulteriore questione concerne la Chiesa nella sua aporetica collocazione tra potestas e auctoritas. In effetti il dibattito sulla secolarizzazione e le proposte affrontate permettono di introdurre la terza questione capitale in discussione nel volume: quella del potere e dell’agire politico dell’uomo religioso nel mondo, e segnatamente del cristiano e della Chiesa cattolica. In tal senso il contributo di Gabriella Caponigro mette in evidenza l’intreccio tra teologia e politica osservando il ruolo che ha assunto una certa rivisitazione delle lettere paoline durante la Repubblica di Weimar. Ella enuclea le congiunture politico-religiose che hanno spinto i teologi e i filosofi tedeschi (tra i quali, come ben ricordano Vila-Chã e Ghia, la Reichstheologie in ambiente cattolico e il movimento dei Deutsche Christen tra i luterani) alla ripresa di alcuni testi paolini sul rapporto tra politica e religione, come per es. la seconda lettera ai Tessalonicesi sulla fine dei tempi e sull’evento escatologico. Da una parte in effetti la situazione politica di Weimar induceva a teorizzare lo «stato di eccezione» come sufficiente a giustificare un intervento legislativo, dall’altro le nuove tendenze teologiche, soprattutto la cosiddetta teologia liberale, spingevano a una progressiva storicizzazione del messaggio evangelico, il quale man mano tende a situarsi nell’immanenza del mondo e non più nell’oltre dell’escatologia. Ecco allora che, per riprendere le parole di Erik Peterson, il messianismo inizia a configurarsi come un «problema politico».
A proposito del teologo tedesco, gli interventi di Francesco Saverio Festa, João Vila-Chã e Francesco Ghia si concentrano proprio sull’ampia riflessione di colui che pare prospettarsi come punto di riferimento teorico essenziale per una coerente separazione tra Chiesa e Stato. Per Peterson, come già ricordato da Aguti, soltanto la Trinità consente di preservare l’autonomia e la competenza rispettiva di cielo e terra. La Chiesa perciò possiede sì una auctoritas sul mondo, ma non una potestas politica, poiché essa non si confonde mai tout court con una parte del mondo. L’ordo della Chiesa non è riproducibile tra gli uomini, in quanto appartiene a un tempo a-venire, mai compiuto; essa è una «eternità in movimento» verso la Civitas Dei (di grande interesse in questo contesto sono le riflessioni di Heidegger sul tempo e sull’attesa, riportate nel citato contributo di Caponigro).
Peterson, che non a caso fu un importante studioso della Patristica, sostiene la propria tesi con il riferimento alla distinzione gelasiana tra auctoritas Ecclesiae e potestas Imperii, nonché ai padri cappadoci Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazanzio, che contestavano l’eccessivo coinvolgimento del cristianesimo nell’Impero Romano. Per Peterson la posizione di Schmitt è essenzialmente ariana, in quanto ricalca la fondazione teologica del potere terreno e la concezione monarchica di Eusebio di Cesarea; a esse poi si sono aggiunti uno pseudo-messianismo (tipico dei fascismi) e un apparato mitologico alquanto discutibile per un cristiano. Al contrario, anziché puntare sul rapporto tra la Chiesa e la politica terrena, questo «figlio della patristica» mette a fuoco l’inscindibilità tra la Chiesa e la teologia, intesa come quella «scienza» che, più ancora delle altre scienze, è chiamata a stabilire un rapporto veritativo con la realtà, con le cose concrete. Dal punto di vista cristiano non è allora possibile per Peterson alcuna teologia politica propriamente detta, poiché le sfere della teologia e della Chiesa richiedono impegni distinti nell’ambito pubblico (Öffentlichkeit). Il teologo infatti, proprio in virtù della concezione della teologia come rivolta zu den Sachen selbst, ha a che vedere con la Verità stessa presente nella nostra vita; egli quindi si rapporta allo spazio pubblico come testimone della Verità nel mondo.
Riemerge così la lettura di Kierkegaard invalsa nel contesto della cultura tedesca tra le due Guerre, nonché la prospettiva della vita cristiana come di una scelta per la vita mistica, ovvero per l’imitatio Christi. La questione fondamentale, come ricorda Vila-Chã nel suo saggio, è allora quella di saper distinguere da un punto di vista qualitativo la Öffentlichkeit della Chiesa dallo spazio pubblico della politica; è su questo punto che teologi cosiddetti dialettici e liberali offrono un cattivo servizio alla Chiesa, perché entrambi sembrano dimenticare l’umanità viva del Cristo. Secondo Peterson, da un lato von Harnack, che intende la Chiesa come una associazione volontaria (come spiega di F. Ghia), relativizza la portata dei dogmi, e trasforma il Cristianesimo in una dottrina etica, senza fare i conti con la drammaticità della scelta per la vita mistica; dall’altro lato i dialettici Bultmann e Barth incentrano invece la teologia soltanto sulla Parola di Dio e trascurano la Chiesa. Peterson viceversa intende salvare a tutti i costi l’oggettività della Chiesa nella realtà visibile e concreta; essa richiede la manifestazione in un corpo visibile, nel culto e nella liturgia, e persino in quegli aspetti giuridici spesso sottoposti a critica. In proposito Sohm scriveva che «l’essenza del diritto della Chiesa è in contraddizione con l’essenza della Chiesa». In sostanza, per Peterson l’oggettività della Chiesa come comunità di fede necessita di una presenza concreta nella medesima vita politica delle persone; tuttavia non nel senso di un potere terreno sul mondo, ma in quello di un agente reale capace di testimoniare la Verità; e non uno tra i tanti agenti nel mondo, ma l’unico che possiede l’auctoritas oggettiva a cui prestare ascolto e obbedienza in quanto testimone della Rivelazione.
Non avrebbe torto quindi Étienne Gilson quando distingueva il soggetto che «fa» politica dal cristiano che «si occupa» di politica, che cioè esercita un’influenza nella sfera politica con riferimento a valori eterni. È di qui che passa la distinzione tra auctoritas e potestas, spesso confuse sia in ambiente pagano (Ottaviano Augusto) che in ambito cristiano (teocrazia medievale, lotta per le investiture). In questa sede è bene però notare che in ambiente pagano l’identificazione tra auctoritas e potestas nell’unico sovrano fu puttosto rara. Infatti anche le forme monarchiche meno raffinate dal punto di vista del diritto, come quella persiana, prevedevano una distinzione tra il potere meramente politico e l’auctoritas; per cui ad es. il re di Persia, per quanto semi-divino, regnava ma non «governava». Il re pagano, semi-divino o anche divino, di fatto non si occupava del governo dei territori, che era affidato in modo federale agli dèi nazionali, il cui riflesso erano i governatori locali. La Pax augusta significò la liquidazione del pluralismo dei territori e il successivo accentramento politico, che per Eusebio di Cesarea rappresentava un passo avanti nel cammino provvidenziale verso l’unità imperiale. In ambiente cristiano la tendenza unificatrice venne così interpretata come il compimento delle profezie dell’Antico Testamento e da Costantino in poi aprì la strada teologica alle teocrazie cristiane successive (come quelle medievali). Invece la concezione «forte» di Chiesa presente in Peterson, attribuita invero al Cristianesimo delle origini e dei Padri, viene intesa precisamente come un baluardo contro le tentazioni teocratiche.
Nell’ambito di una problematica analoga Francesco Ghia mostra come in Emanuel Hirsch, studioso di Fichte e esponente del già citato movimento dei Deutsche Christen, si annunciano tendenze soggettivistiche. In lui viene meno la consapevolezza dell’oggettiva Öffentlichkeit della Chiesa, in quanto la sua visuale si basa essenzialmente: a) sull’universale figliolanza del genere umano, senza mediazioni ecclesiali (in termini idealistici, sull’unità tra uomo e Dio); b) sulla distinzione tra Cristianesimo storico e Cristianesimo autentico, metafisico, seguendo in ciò alcune tendenze della teologia liberale; c) sulla preminenza della Chiesa metafisica, quella «invisibile» (il corpo mistico di Cristo), sulla Chiesa concreta, pubblica, oggettiva. Ebbene, venendo meno la mediazione forte della Chiesa, Hirsch non ebbe difficoltà a identificare il Regnum Dei con il Terzo Reich. Ecco perché, come emerge dal contributo di Caponigro, dobbiamo coltivare con Paolo l’idea che soltanto la Chiesa è katechontica. Infatti soltanto la sua condizione paradossale permette l’irruzione della prospettiva escatologica, trattenendo il cristiano dalla tentazione di porre in questo mondo l’ordine ultimo, che avrebbe l’ultima parola sul creato. Pertanto l’urgenza della teologia politica va ravvisata nella salvaguardia della distinzione tra le modalità di potere nel mondo; si tratta di una differenza qualitativa che va affermata in modo netto e inequivocabile, se si vuole salvare, come insegnava il Papa Gelasio I, l’autonomia e il dialogo tra le due sfere, cioè «la sacra auctoritas dei papi e la potestas dei re».