Ne I grandi filosofi Jaspers, dopo quelle che egli definisce “le personalità decisive”, ossia Socrate, Buddha, Confucio e Gesù, colloca “i grandi pensatori che si chiamano unanimemente filosofi”. Primi tra loro sono i “riformatori creativi del filosofare”: Platone, Agostino e Kant. Il presente lavoro prende in esame una parte specifica del saggio dedicato a Kant, la IV sezione, intitolata “Strutture della ragione in tutte le sue forme”, mettendo a confronto il testo di Jaspers, che è al contempo storico della filosofia e interprete, con i corrispondenti luoghi kantiani.
In circa cinquanta pagine1 Jaspers tratta la concezione kantiana della ragione nei suoi diversi campi di applicazione, chiamando in causa successivamente tutte e tre le Critiche. Il concetto di ragione è probabilmente il patrimonio più cospicuo che egli ritiene di aver ereditato dal pensatore di Königsberg. Un concetto che fa di Kant colui che apre un nuovo modo di filosofare decisivo, a detta dello stesso Jaspers, per la costruzione della sua filosofia dell’esistenza.
Il tema fondamentale, a monte, è la distinzione kantiana di intelletto e ragione, ovvero di conoscere e pensare, strettamente legata a quella di fenomeno e noumeno. L’importanza di essa sta nel fatto che nel momento in cui Kant delimita il campo della conoscenza oggettiva stricto sensu (il fenomeno, il sapere proprio dell’intelletto e delle scienze naturali), nello stesso tempo apre lo spazio infinito della ragione come pensiero che si rivolge al sovrasensibile, alla totalità.2
L’operazione compiuta da Kant, cioè quella di dis-oggettivare i tradizionali enti metafisici (Dio, l’anima, il mondo: “ho dovuto dunque eliminare il sapere, per far posto alla fede”),3 è la stessa che consente di pensare l’esistenza umana come libertà. È infatti dalla distinzione tra ambito fenomenico, oggettivo, e ambito noumenico, soltanto pensabile, che scaturisce la possibilità di concepire una causalità diversa da quella meccanica propria del mondo dell’esperienza sensibile.
In termini jaspersiani, la possibilità della trascendenza come dimensione inoggettivabile, e del suo manifestarsi simbolicamente attraverso le “cifre”, scaturisce dalla delimitazione kantiana del conoscibile a partire dalle condizioni della “coscienza in generale”.4
Non si affronta qui la questione di se e quanto la “trascendenza” jaspersiana sia sovrapponibile all’“incondizionato” di Kant, al di là delle affermazioni di Jaspers in tal senso, o se la lettura della tradizione metafisica come cifra di essa rimanga effettivamente nello spirito dell’illuminismo kantiano, o ancora se la concezione jaspersiana della libertà come accettazione consapevole della situazione di fatto sia effettivamente in accordo con la libertà morale della seconda Critica. Questioni queste attinenti a nuclei concettuali delle due filosofie che esulano dall’obiettivo più ristretto che ci si propone in questo scritto, di individuare alcune corrispondenze testuali tra i due pensatori.
Nella sezione de I grandi filosofi considerata, Jaspers fa riferimento a tre diverse manifestazioni, o campi di applicazione, della ragione kantiana: la dottrina delle idee della Critica della ragion pura, l’agire morale e il giudizio estetico.
La capacità della ragione è mostrata da Kant in primo luogo nell’efficienza delle idee (ragione teoretica), in secondo luogo nell’agire morale (ragione pratica) e in terzo luogo nella contemplazione del bello (facoltà del giudizio estetico).5
Per quanto riguarda la dottrina delle idee, si prendono in esame i diversi significati che Jaspers vi attribuisce, soprattutto quello “metodologico” e quello “oggettivo”. Il testo kantiano di riferimento è l’Appendice alla Dialettica trascendentale della prima Critica. Quello metodologico riguarda la possibilità di conferire unità sistematica alle leggi della scienza: ci si sofferma prevalentemente sui principi di omogeneità del molteplice, della diversità delle specie e della continuità delle forme. L’altro significato ha a che fare con la particolare “oggettività” posseduta dalle idee della ragione: un’oggettività solo indiretta e quindi ben distinta da quella propria delle categorie dell’intelletto, e che Kant paragona a quella degli schemi trascendentali.
L’agire morale, come delineato nella Critica della ragion pratica, rappresenta il secondo ambito di manifestazione della ragione kantiana indicato da Jaspers. Nella legge morale l’io è noumeno, soggetto incondizionato di una volontà svincolata dal dato empirico. In ciò Jaspers scorge un rimando all’“origine”, al “fondamento soprasensibile” che oltrepassa la ragione stessa. Tale varco sul soprasensibile è aperto dalla stessa concezione kantiana della felicità, oltre che dall’antinomia della ragion pratica che trova soluzione nel postulato dell’immortalità, il quale per Jaspers “parla in una cifra della perfezione”. Egli poi nelle stesse pagine tenta un superamento della presunta antitesi tra la kantiana morale dell’intenzione e la weberiana morale della responsabilità, riportandole ad un fondamento comune. La trattazione della morale kantiana si conclude con la considerazione della libertà, ratio essendi dello stesso imperativo categorico. Il filosofo di Oldenburg sottolinea l’inconoscibilità teoretica della libertà ed il suo esclusivo valore in sede pratica: la libertà non si sa, si agisce. Ma la sua inconoscibilità, il suo non essere oggetto del mondo, e nello stesso tempo il non poterne parlare se non in termini di linguaggio “oggettivo”, questa paradossale contraddittorietà, è per Jaspers il contrassegno che ne fa una verità per l’esistenza.
L’ultimo ambito preso in considerazione è quello estetico. Il riferimento stavolta è la Critica del Giudizio. In particolare ci si sofferma sul concetto di idea estetica, concetto che fa da pendant all’idea della ragione della prima Critica: come a questa non corrisponde alcuna intuizione sensibile, così quella non può essere esaurita da nessun concetto dell’intelletto. L’idea estetica “dà a pensare”, mette in moto la ragione aprendo, anch’essa al pari della moralità, un’estensione infinita di pensiero che ne fa “cifra dell’origine soprasensibile”.
Infine, sul versante jaspersiano, nel considerare il dialogo ideale tra i due pensatori pur in un ambito così circoscritto non possono mancare riferimenti all’Appendice alla Psicologia delle visioni del mondo, primo testo in cui Jaspers fa propria l’eredità kantiana, soprattutto — sebbene non in modo esclusivo — in relazione alla dottrina delle idee.6
1. Le idee
Innanzitutto, alle idee non corrisponde alcun oggetto: «Per idea, io intendo un concetto necessario della ragione, cui non può essere dato, nei sensi, alcun oggetto corrispondente.7» Questo perché l’idea «si riferisce sempre unicamente alla totalità assoluta nella sintesi delle condizioni, e non trova mai una fine, se non nell’assolutamente — cioè sotto ogni rapporto — incondizionato».8 Nei termini del Kant della Critica del Giudizio, un’idea della ragione non può essere “esibita” in alcuna intuizione corrispondente.9 La sfera dell’oggettività, dei concetti “riempiti” dalle intuizioni sensibili, è quella dell’intelletto e della conoscenza scientifica così come delineata dalla Analitica trascendentale della prima Critica. Tuttavia le idee hanno un significato positivo, articolato in tre diversi aspetti:
Il primo significato, quello metodologico, è il più evidente, le idee sono cioè principi della connessione sistematica, schemi per guidare il progresso, funzioni euristiche […]. Il secondo significato si può dire psicologico: le idee sono forze che agiscono nella soggettività del conoscente, germi che promuovono uno sviluppo. Il terzo significato è quello oggettivo: nelle idee è presente qualche cosa che viene incontro a partire dall’origine di tutte le cose.10
Dei tre significati individuati da Jaspers, che nel testo kantiano non sono tra loro espressamente distinti, il primo è quello che si riferisce alle idee come “principi della sistematica del conoscere”, “regolativi per il progresso della ricerca”, il cui uso “è indispensabile come schematismo per il nostro pensiero legato all’oggettività”.11 La funzione regolativa delle idee è quella di conferire alla conoscenza la massima unità sistematica.
Il testo kantiano di riferimento della trattazione jaspersiana della dottrina delle idee è l’Appendice alla Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura. In essa si legge:
Ciò, di cui la ragione dispone in modo esclusivo, e che essa si sforza di costituire, è l’aspetto sistematico della conoscenza […]. Questa idea, di conseguenza, postula un’unità completa della conoscenza dell’intelletto, unità mediante cui questa conoscenza diventa non già semplicemente un aggregato contingente, bensì un sistema, collegato secondo leggi necessarie.12
Seguendo il testo di Kant, sotto questo primo profilo, metodologico, Jaspers prende in considerazione tre principi.
Il progresso dell’esperienza è sottoposto mediante le idee a certi principi, per esempio: 1) a quello dell’omogeneità del molteplice sotto un genere superiore; 2) a quello della diversità dell’omogeneo sotto specie inferiori; 3) a quello dell’affinità di tutti i concetti mediante termini intermedi (sono questi i tre principi della omogeneità, della specificazione e della continuità delle forme).13
Kant nel considerare il primo principio (l’omogeneità del molteplice) prende le mosse dal tentativo dei fisici di unificare le varie forze della natura in una sola forza fondamentale:
Il principio logico della ragione ci richiede di costituire per quanto è possibile tale unità; e quanto più le apparenze di due forze sono da noi trovate identiche tra loro, tanto più è verosimile, che esse non siano altro se non manifestazioni differenti di una sola e medesima forza, la quale può chiamarsi (relativamente) la loro forza fondamentale. Lo stesso si dica per le altre forze.
Questo non è che un esempio di quello che Kant chiama il “principo logico dei generi”:
Che ogni molteplicità delle cose singole non escluda l’identità della specie; che le varie specie non debbano venir considerate se non come differenti determinazioni di pochi generi, e questi a loro volta debbano venir trattati come determinazioni di stirpi ancora più alte […]: ecco una regola scolastica, o principio logico, senza di cui non può aver luogo nessun uso della ragione.14
Dal momento che non si può dire «che la ragione, in base ai propri principi, abbia dedotto in anticipo questa unità dalla struttura contingente della natura», ossia che tale principio della ricerca di generi sempre più ampi e comprensivi derivi in qualche modo dall’esperienza, allora «non si riesce a comprendere, come un principio logico dell’unità razionale delle regole possa aver luogo, se non viene presupposto un principio trascendentale, mediante cui sia assunta a priori come necessaria, e come inerente agli oggetti stessi, una tale unità sistematica».15 Pertanto:
In base a tale principio, nel molteplice di un’esperienza possibile viene presupposta necessariamente un’omogeneità […], poiché senza tale omogeneità non risulterebbe possibile nessun concetto empirico, e quindi nessuna esperienza.16
Accanto ad esso troviamo il principio contrario:
Al principio logico dei generi, il quale postula l’identità, si contrappone un altro principio, cioè quello delle specie, il quale richiede la molteplicità e le differenze delle cose. […] La ragione rivela qui due interessi, contrastanti tra loro, ossia, da un lato l’interesse dell’estensione (dell’universalità), a riguardo dei generi, e dall’altro lato l’interesse del contenuto (della determinatezza), rispetto alla molteplicità delle specie. […] Questa duplicità si manifesta altresì nel modo di pensare assai differente di coloro che indagano la natura: alcuni di questi (che sono eminentemente speculativi), quasi per avversione all’eterogeneità, tendono sempre all’unità del genere; gli altri (cervelli soprattutto empirici) cercano incessantemente di dividere la natura. […] Anche alla base di questo secondo modo di pensare sta evidentemente un principio logico, che mira alla completezza sistematica delle conoscenze.17
È il principio logico delle specie che, non potendo essere derivato dall’esperienza, come l’altro, ha alla sua base un principio trascendentale: la “legge trascendentale della specificazione”, la quale «impone all’intelletto di cercare, per ogni specie che ci si presenta, delle sottospecie, e per ogni differenza, differenze più piccole».18 Così commenta Jaspers:
Esistono scienziati che con ragione si basano su distinzioni sempre nuove e sottili e spingono la molteplicità fino all’imprevedibile. Altri sono mossi dalla tendenza di cercare ciò che è comune e che connette il molteplice. Gli uni e gli altri promuovono il progresso della conoscenza.19
Kant sullo stesso tema svolge una considerazione di particolare interesse:
Quando io vedo uomini intelligenti disputare tra loro riguardo alle distinzioni caratteristiche degli uomini, degli animali e delle piante, anzi, persino dei corpi del regno minerale, e quando io vedo gli uni, per esempio, ammettere particolari caratteri nazionali, fondati sulla discendenza, o anche distinzioni precise ed ereditarie fra le famiglie, le razze, ecc., mentre gli altri rivolgono invece la loro attenzione al fatto che a questo riguardo la natura ha dovunque disposto le cose identicamente, e che ogni distinzione si fonda soltanto su contingenze esterne, in tal caso io non ho che da considerare la costituzione dell’oggetto, per comprendere che tale oggetto è nascosto troppo profondamente alla vista di entrambe le parti, perché queste possano parlare basandosi su di una vera comprensione della natura dell’oggetto. Non si tratta di null’altro che del duplice interesse della ragione: una delle due parti prende a cuore, o finge di prendere a cuore, uno di questi interessi, e l’altra l’altro. Di conseguenza non si tratta d’altro che della divergenza fra la massima della molteplicità della natura e la massima dell’unità della natura: tali massime possono certo accordarsi, ma sintanto che vengono considerate come conoscenze oggettive, esse non soltanto producono conflitti, ma creano altresì ostacoli, i quali trattengono il progresso della verità.20
Jaspers riporta il ragionamento in maniera quasi identica.21 Tra “partito dell’unità” e “partito delle differenze” a tutti i livelli, non c’è un vinto e un vincitore, giacché non si tratta di verità oggettive ma solo di prospettive diverse da dare alla ricerca scientifica, entrambe legittime ed anzi indispensabili, che però si fanno ingannevoli se pretendono di avere una validità assoluta. «Ma gli uni e gli altri sbagliano quando trasformano il loro principio, che è una massima del progresso, in una conoscenza totale della cosa».22
È importante sottolineare come le idee in questione siano chiamate “massime”, termine che sta ad indicare delle regole di condotta. Questo indicherebbe che entrando nel dominio della ragione si sia in realtà abbandonato l’ambito teoretico in senso stretto per quello pratico, relativo all’agire, sia pure in questo caso relativo a quello specifico comportamento che è l’indagine scientifica. La ragione indica delle direzioni di ricerca, delle strade da percorrere. Per questo fornisce delle massime, termine che in Kant troverà ben più estesa applicazione nella Critica della ragion pratica.
Parlando del terzo principio metodologico, quello “dell’affinità di tutti i concetti mediante termini intermedi” (come riportato da Jaspers), che egli chiama anche “principio di continuità delle forme”, Kant afferma: «Tale principio, peraltro, senza determinare alcunché, addita semplicemente alla ragione la strada verso l’unità sistematica».23
E a proposito dell’idea cosmologica, il “concetto del mondo, in generale” inteso come totalità assoluta e proprio per questo “idea”, Kant scrive:
La totalità assoluta delle serie di queste condizioni, […] è un’idea, che certo non può mai pienamente realizzarsi nell’uso empirico della ragione, ma che serve tuttavia come regola, indicandoci, a riguardo di tale derivazione, ossia per la spiegazione di apparenze date (nel regresso o nel progresso), che dobbiamo comportarci come se la serie fosse in sé infinita.24
Ciò che fa dire a Jaspers, parlando delle idee, che esse «sono dei compiti, non dei dati».25
Per quanto riguarda il secondo significato assegnato da Jaspers alle idee, quello psicologico, come “germi della ragione”, diciamo brevemente che ha a che fare col senso che si dà alle verità scientifiche. La semplice “giustezza scientifica”, dice Jaspers, “non possiede alcun senso”. La singola legge o scoperta scientifica lo acquista nel momento in cui viene inserita all’interno di un tracciato più ampio di cui essa non costituisce che un singolo passo. «L’idea lascia in piedi un compito»,26 anche se non sempre lo scienziato è del tutto consapevole dell’importanza (del valore) di ciò che scopre. Ossia, del posto occupato all’interno dell’idea. Per questo Jaspers afferma che «l’individuo vive in esse senza conoscerle».27 L’idea dà senso, indicando il cammino ulteriore, ma può accadere — ed è accaduto nella storia della scienza — che il senso di una verità sia oscuro e venga colto solo successivamente.
L’ultimo significato delle idee, secondo Jaspers, è quello “oggettivo”. Sarebbe soprattutto questa la “parte positiva della critica della ragione”28 contenuta nell’Appendice alla Dialettica trascendentale. Marzano ha rilevato come questa accezione dell’idea sia un tema ricorrente nella produzione jaspersiana: ad esempio in Filosofia, tra gli spunti kantiani presenti troviamo «il frequente affacciarsi della nozione di idea, sebbene, come già appariva nella Psicologia delle visioni del mondo, con un carattere più oggettivo di “rispondenza alla natura” e psicologico di forze esistenti in noi».29 Viene riportato un brano del volume I di Filosofia in cui Jaspers afferma che le idee
racchiudono entrambi i significati, di essere metodologicamente principi dell’indagine e praticamente dell’agire e con ciò di ottenere sia un’oggettiva anche se indeterminata realtà che di diventare una forza nel soggetto, che in esse e da esse vive.30
Ma in che senso è possibile attribuire una realtà “oggettiva anche se indeterminata” alle idee, che per definizione non hanno un oggetto corrispondente? Jaspers in effetti riprende la stessa espressione di Kant. Le idee «che l’uso empirico della ragione può seguire soltanto, per così dire, asintoticamente, cioè solo approssimativamente, senza mai raggiungerle, hanno nondimeno, in quanto proposizioni sintetiche a priori, una validità oggettiva ma indeterminata».31
Kant paragona l’idea della ragione allo schema della sensibilità: come lo schematismo trascendentale dell’Analitica, in quanto ponte tra intelletto e sensibilità, consente di unificare il molteplice dato sotto un concetto (categoria) formando in questo modo le leggi empiriche, così la ragione attraverso l’idea ha il compito — mai concluso — di connettere tra loro le molteplici leggi empiriche indirizzandole verso la completa unità sistematica.32 Pertanto anche le idee «avranno una validità oggettiva rispetto a tale oggetto [dell’esperienza], non già tuttavia per determinare qualcosa a questo riguardo».
L’“oggettività” dell’idea è quindi sui generis: essa non determina l’oggetto ma gli si riferisce solo indirettamente. È lo stesso tipo di oggettività del giudizio riflettente (e non di quello determinante, nel senso che le idee non “costituiscono” alcun oggetto, come invece fanno le categorie dell’intelletto, ma intervengono, per così dire, ad oggetti già costituiti, per conferire la massima unità al mondo dell’esperienza).
Vi è una grande differenza fra il dire che un qualcosa viene dato alla mia ragione come un oggetto assolutamente, e il dire che esso viene dato soltanto come un oggetto nell’idea. Nel primo caso, vi è in realtà soltanto uno schema, cui non viene attribuito direttamente alcun oggetto — neppure ipoteticamente — ma che serve soltanto a rappresentare altri oggetti a noi, mediante il riferimento a questa idea e in base alla loro unità sistematica, a rappresentarli cioè indirettamente.33
In questo senso, indiretto, possiede una certa realtà oggettiva anche l’idea di Dio.34
Si è vista l’affinità delle idee, in quanto “massime”, con i principi della ragion pratica. Ora, la ragione di cui Kant parla nell’Appendice alla Dialettica trascendentale è, per altri versi, la stessa modalità di pensiero che nella terza Critica sarà qualificata come facoltà del giudizio riflettente. Infatti io posso concepire la natura come un’unità sistematica solo se utilizzo il concetto di fine e quindi abbandono — o meglio integro — la considerazione causale-meccanica per quella teleologica.
La suprema unità formale, che si fonda soltanto su concetti della ragione è l’unità delle cose, conforme a un fine; e l’interesse speculativo della ragione rende necessario il considerare ogni ordinamento del mondo, come se fosse scaturito dal disegno di una suprema ragione.35
Le idee della ragione costituiscono pertanto l’elemento di collegamento della prima Critica con le altre due, attraverso l’elemento finalistico che introducono: richiamando da un lato la libertà — come causalità secondo fini — della Critica della ragion pratica, dall’altro il principio di finalità, costitutivo del giudizio riflettente, della Critica del Giudizio. Jaspers afferma che le idee hanno realtà oggettiva nella misura in cui sono “adeguate alla natura”, ossia «conducono effettivamente a un’unità sistematica nel progresso dell’esperienza».36 Dalla natura «viene ad esse incontro ciò che corrisponde loro mediante la sistematica e l’unificazione riuscita». Cioè di fatto, nella pratica della conoscenza scientifica, le idee indicano una direzione che si rivela, via via, come oggettiva. Per questo «le forme ideali non possono avere un mero carattere tecnico-metodologico».37
Il fatto che le idee abbiano una loro sia pure sui generis realtà oggettiva, spiega l’elogio per certi versi sorprendente che Kant fa di Platone e che Jaspers riporta per intero:38
Platone vide molto bene, che la nostra capacità conoscitiva sente un bisogno assai più alto, che semplicemente di compitare apparenze secondo un’unità sintetica, per poterle leggere come esperienza; e notò benissimo che la nostra ragione si innalza per propria natura verso conoscenze, le quali procedono troppo oltre, perché sia mai possibile ad un qualsiasi oggetto, che possa essere dato dall’esperienza, di corrispondere ad esse, e le quali nondimeno hanno una loro realtà e non sono affatto semplici chimere.39
2. L’azione morale
L’azione morale, l’imperativo categorico, rappresenta l’altro ambito in cui ci si confronta con l’incondizionato, e quindi, jaspersianamente, con la trascendenza. L’incondizionato della legge morale è «la forma della volontà, la legge della sua legalità».40 Secondo Jaspers, con la sfera morale si dischiude l’ambito dell’essere autentico, non coincidente con la realtà fenomenica, oltre e al di sopra di questa:
quando tu agisci, sii consapevole che il mondo non è quale esso è, ma che con la tua azione contribuisci a produrlo. Ciò che autenticamente è, non lo sperimenti con la tua conoscenza ma con la tua azione.41
Il dover essere è visto come un livello di realtà superiore, in quanto incondizionato, rispetto agli oggetti empiricamente determinati. Il carattere proprio della morale kantiana, la sua estraneità al mondo dei fenomeni e della natura conoscibili attraverso le categorie dell’intelletto, e quindi condizionati, è ciò su cui Jaspers torna spesso: “l’obbligazione dell’incondizionato”, la “pretesa incondizionata”, “l’incondizionatezza morale”. La moralità, da cui soltanto secondo Kant può derivare “quel valore che, solo, gli uomini si possono dare da se stessi”,42 è
ciò che eleva l’uomo al di sopra di stesso (come parte del mondo sensibile), ciò che lo connette a un ordine delle cose che egli può solo pensare. È questo un ordine che sottopone a sé l’intero mondo sensibile e l’esserci dell’uomo nel tempo43
giacché l’incondizionato è sovraordinato rispetto al condizionato, ciò che è indipendente a ciò che non lo è.
«È l’indipendenza dal meccanismo dell’intera natura […]. Perciò il nostro esserci, in quanto appartiene al mondo dei sensi, è sottoposto all’esser-sé che appartiene al mondo intelligibile».44 Kantianamente, è il primato della ragion pratica sulla ragion pura. La legge morale, in quanto appartenente alla sfera pratica e non a quella teoretico-conoscitiva delle leggi di natura, «non è data ma prodotta, non guardata ma agita». È importante notare come, secondo Jaspers, nel momento in cui la ragione pone la legge morale, essa si dà un “sostegno”
mediante se stessa, e in pari tempo mediante qualcosa di più di essa. È quest’origine che crea nell’uomo il sentimento del rispetto di fronte alla sua stessa legge, la venerazione per il fondamento soprasensibile e il sentimento della soggezione della nostra persona da esso.
In questo modo la legge morale si fa cifra del soprasensibile, e quindi della trascendenza, «l’origine in cui deve essere ancorato ciò che ha una consistenza morale».45
Secondo Jaspers, anche la concezione kantiana della felicità apre un varco sul soprasensibile. In effetti, argomenta Jaspers, non è solo l’impossibilità della realizzazione del sommo bene, ossia dell’unione di virtù e felicità, in questa vita, a rimandare ad un’ulteriorità, ma lo stesso concetto di felicità appare problematico e sfuggente se non nella prospettiva della trascendenza. Definita come “la soddisfazione di tutte le nostre inclinazioni”, per averne un concetto determinato occorre che «tutti gli elementi della felicità devono essere sperimentati. L’esperienza deve insegnare a ciascuno, mediante il suo sentimento del piacere e del dolore, dove debba riporre la sua felicità». Ma tale processo «non ha mai una conclusione».46
Qui si ripete un ragionamento analogo a quello svolto nell’Appendice alla Psicologia delle visioni del mondo. Lì si giungeva ad affermare l’impossibilità di esaurire in una definizione l’individuo, e quindi ad affermarne l’“infinità”, sulla base della considerazione che per poterlo definire esaurientemente dovrei esaminare tutti gli infiniti predicati possibili in generale, per verificare poi quali di essi gli appartengono effettivamente e quali no: un compito appunto infinito e mai concludibile (in un’esistenza finita).47
Lo stesso discorso vale per definire la felicità. Non la sua nozione generale, ma la mia felicità, in cosa debba effettivamente consistere. Infatti per poter individuare “tutti i suoi elementi” dovrei esperire tutto ciò che è in grado di suscitarmi piacere (e quindi anche dolore). Solo allora saprei che cos’è, ma è inevitabile che dati i miei limiti spaziali e temporali io non possa che averne una nozione parziale e imperfetta, mai completa. A ciò va aggiunto il “mutare delle inclinazioni”: ciò che ieri contribuiva alla mia felicità procurandomi piacere, oggi potrebbe annoiarmi.
La felicità completa quindi è possibile solo in un tempo infinito, dopo aver esperito tutto ciò che può soddisfare le mie inclinazioni nella loro mutevolezza: la felicità non può essere di questo mondo, essa può essere raggiunta soltanto nell’immortalità. Viene poi riportata l’antinomia della ragion pratica, cioè il fatto che «la felicità è distribuita nel mondo senza connessione con il merito acquistato mediante l’azione morale».
È l’antinomia legata al concetto di quello che per l’uomo, in quanto essere “anfibio”, sensibile e razionale a un tempo, è il “sommo bene”: l’unione di virtù e felicità. Ma da tale contraddizione, dice Jaspers, «ne consegue per Kant non già l’avversione per la felicità e la disperazione, ma l’indizio del soprasensibile». L’antinomia trova soluzione nel «postulato dell’immortalità che, per quanto irrappresentabile e indeterminabile, parla in una cifra della perfezione».48
Pertanto, è il limite stesso della nostra costituzione, ciò che ci rende impossibile essere insieme perfettamente buoni e felici — e quindi raggiungere la santità — a lasciare intravedere uno spiraglio sulla trascendenza.
In quello che è forse l’aspetto più criticato della morale kantiana, il “formalismo”, Jaspers riconosce giustamente non solo il suo punto di forza, ma anche l’elemento che può farne una cifra del soprasensibile. Nella misura in cui l’imperativo categorico «viene soddisfatto solo dalla forma della legalità in generale»49 esso può essere il «segno di una forza fondata sul soprasensibile».50 Solo come “forma pura dell’incondizionato” la legge morale “riguarda un’origine eterna”; diviene «il filo conduttore che porta all’assolutamente incondizionato».51
Inoltre Jaspers considera falsa la contrapposizione tra una “morale dell’intenzione” — come di solito viene etichettata quella kantiana — e una morale che tenga conto delle conseguenze delle azioni, una morale non più solo “formale”: «l’etica dell’intenzione esige da sé che nell’azione concreta si pensi alle conseguenze sotto la guida dell’imperativo categorico».52
È esattamente ciò che Kant indica nelle “formule” che ha dato all’imperativo categorico, dove egli invita a considerare la propria massima come principio di una legislazione universale (o di una legge di natura), e quindi a domandarci “cosa accadrebbe se” la mia azione divenisse obbligatoria (o necessaria). La weberiana “etica della responsabilità” rimane secondo Jaspers nello spirito autentico del kantismo: «la verità è una terza [tra etica dell’intenzione ed etica del successo] che Kant, pur evidentemente pensandola, non ha espresso in modo esplicito, ma che è stata chiaramente espressa da Weber come “etica della responsabilità”». Per concludere: «l’etica della responsabilità è la vera etica dell’intenzione che cerca la sua via nel mondo».^[53]
La libertà costituisce il centro del discorso kantiano attorno alla legge morale, come sua ratio essendi.53 È nella libertà l’essenza incondizionata dell’io come noumeno. L’idea kantiana di una causalità della libertà è quella di un principio sottratto alla serie delle cause naturali e che, in quanto tale «non sta sotto ‘ad alcuna condizione del tempo’. Le azioni libere non hanno un’origine temporale ma un’origine razionale senza tempo».54 La coesistenza dei due ordini di causalità «non si può sostanzialmente pensare in modo oggettivo». Essa non può essere colta dal pensiero come intelletto, che qui cade nel “naufragio logico”55 che consiste nell’impossibilità di pensare l’intelligibile — l’incondizionato — come “oggetto”. L’azione dell’intelligibile sul fenomeno, cioè la manifestazione della causalità libera nel mondo dei fenomeni, ciò che avviene nell’agire morale, è un «effetto dell’intemporale sul temporale».
Non si può parlare di libertà per l’ordine intelligibile considerato di per sé; è anch’esso un ordine necessario, come è necessaria l’adesione della volontà al dovere (per questo Kant esclude che si possa parlare di libertà per esseri puramente razionali: la libertà è cosa esclusivamente umana data la nostra duplice natura): «nell’intelligibile stesso non è libertà, ma la necessità della ragione. La libertà è solo nel rapporto dell’intelligibile intemporale a ciò che si manifesta temporalmente».56
Se l’essere incondizionato porta al naufragio le categorie dell’intelletto, posso conoscerlo in altro modo? La risposta è negativa: «io non posso possedere in un sapere l’essere della libertà». Il sottrarsi dell’incondizionato alla conoscenza umana, kantianamente, ha un che di provvidenziale, come lo ha in modo analogo l’impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio.57 La libertà sfugge al sapere, potremmo dire, per far posto alla moralità: se potessimo conoscerla non avremmo bisogno di realizzarla nell’azione morale, nella volontà buona. «Se possedessi la libertà in questi termini [di un sapere oggettivo] allora finirei per non realizzarla con la mia azione».58
L’unico modo che ho per essere certo dell’esistenza della libertà è metterla in atto. Essa esiste se, e nella misura in cui, agisco liberamente, vale a dire moralmente, nell’esperienza del dovere. Ci cogliamo come soggetti liberi nel momento in cui diveniamo consapevoli dell’incondizionatezza dell’agire morale. Il concetto della libertà, scrive Kant, ci è dato “dalla nostra intuizione intellettuale interna (non dal senso interno) della nostra attività”. «Il riempimento della categoria di causa, allorché si parla della causalità della libertà, non può conseguire mediante l’intuizione ma solo mediante l’azione. » Azione che, come abbiamo visto, «non è sottoposta alle condizioni del tempo». La via al nostro essere autentico, alla nostra essenza pura, incondizionata, passa attraverso l’impegno etico. Ci si può riconoscere come uomini liberi solo agendo come tali. «Il pensiero di Kant c’insegna a divenir consapevoli di noi stessi nella serietà. Esso ci conduce ai limiti del temporale, verso l’essere intemporale, senza farci entrare in esso altrimenti che mediante la prassi della moralità. » E ancora: «mediante il dovere e la libertà l’uomo acquista la certezza di sé ‘non com’egli appare, ma come è in sé’».59 La libertà, al pari delle idee della ragione, costituisce
il punto in cui il sovrasensibile è presente in questo mondo, dove noi possiamo per così dire coglierlo con mano […], la ‘magnifica apertura che si verifica in noi mediante la ragione pratica e tramite la legge morale, cioè l’apertura di un mondo intelligibile’.60
Pertanto anche qui il tema caro a Jaspers è l’affacciarsi dell’assoluto tra le pieghe del relativo, dell’incondizionato in controluce alla condizionatezza dei fenomeni conoscibili dalla razionalità scientifica. Nella libertà kantiana, più ancora che nelle idee, Jaspers vede la cifra della trascendenza. Le necessità della comunicazione e della reciproca comprensione fanno sì che si debba parlarne in termini di “oggetto”, ma il contrassegno della trascendenza è lo scacco, il naufragio che segue al tentativo inevitabile di piegarlo alle categorie logiche. L’incondizionato non è oggetto e quindi resta inconoscibile, ma di esso si può parlare solo attraverso le modalità del linguaggio “oggettivo”.
Ogni volta che si discute su queste idee, quelli che discutono fra di loro possono solo parlarne in termini di oggetto. Che possiamo intenderci dipende dal modo in cui compiamo in termini di oggetto il pensiero trascendentale e c’incagliamo nell’oggettivo.
È necessario mantenere il discorso «sul piano di un filosofare trascendentivo con una paradossale contraddittorietà».
Il discorso che verte sull’assoluto non può che essere caratterizzato dalla contraddizione, dal paradosso — kantianamente, dall’antinomia — nella misura in cui utilizza il linguaggio dell’oggetto d’esperienza, dell’ente finito, del condizionato, peraltro l’unico linguaggio possibile.61
Vengono alla mente la cusaniana “coincidentia oppositorum” o l’hegeliana “contradictio regula veri”, senonché nel discorso di Jaspers, come in quello di Kant (della dialettica trascendentale) e Kierkegaard,62 la contraddizione resta insoluta, non c’è modo di ricomprendere la totalità in una qualche forma superiore di “sapere”. La conoscenza rimane vincolata al dato, al fenomenico, all’oggetto d’esperienza, al regno delle scienze della natura, ma questo non esaurisce necessariamente il reale:
erriamo quando prendiamo il presupposto […] che ogni conoscibile sta senz’eccezione sotto le leggi naturali e lo assolutizziamo nell’affermazione seguente: tutto ciò che è reale è natura e come tale conoscibile. […] Noi siamo più di ogni conoscibile. Siamo veramente qualcosa che non può mai divenire oggetto di una conoscenza psicologica o naturale, sebbene il fenomeno della nostra vera realtà resta studiabile psicologicamente in una estensione imprevedibile.
Parafrasando il discorso di Jaspers, in termini kantiani potremmo dire che l’affermazione “il reale è il fenomenico” non è un giudizio analitico: sono pensabili, in quanto non contraddittori, uno o più enti non soggetti alle leggi di natura (è una delle tesi della terza antinomia della cosmologia razionale della Dialettica trascendentale).
La filosofia kantiana della libertà si sviluppa in raggi di pensiero che partono da un centro. Questo centro è indicato nella “libertà trascendentale” come una pura possibilità di pensiero non contraddittorio, e si apre così il campo in cui si può accendere la fiamma della libertà.
Bisogna fare attenzione a non considerare fenomenicità e noumenicità come due dimensioni “oggettive” allo stesso modo. Questa, osserva Jaspers in Filosofia, «è una soluzione che possiamo invalidare in quanto in questa formulazione c’è l’obiettivazione in ‘due mondi’ poiché invece c’è un solo mondo di oggetti; ma in quanto non è che un’inevitabile formulazione per l’essere della libertà, è verità per noi».63
3. La visione del bello e l’idea estetica
Il terzo ambito qui preso in considerazione è il giudizio estetico. Le considerazioni di Jaspers risultano particolarmente pertinenti se riferite alla trattazione kantiana dell’“idea estetica”. Mentre l’idea della ragione — della prima Critica — non può avere nessuna intuizione corrispondente (in termini kantiani, non può essere “esibita” o “dimostrata”), invece l’idea estetica non può essere soddisfatta da nessun concetto dell’intelletto (non può essere “esposta”):64 «in un’idea estetica l’ intelletto, coi suoi concetti, non raggiunge mai l’intera intima intuizione dell’immaginazione».65
Ossia a tale prodotto dell’immaginazione l’intelletto non può mai fornire un concetto adeguato. Fortunatamente, potremmo dire, giacché in caso contrario la rappresentazione non produrrebbe piacere, non verrebbe goduta ma soltanto “capita”, spiegata. Al piacere estetico si sostituirebbe una comprensione di tipo causale-meccanico, del tipo della conoscenza scientifica. L’idea estetica supera i limiti dell’intelletto in quanto rappresentazione
che per se stessa dia tanta occasione a pensare da non lasciarsi mai racchiudere in un concetto determinato, e quindi estenda esteticamente il concetto stesso in un modo illimitato; l’immaginazione è in tal caso creatrice, e pone in moto la facoltà delle idee intellettuali (la ragione), facendola così pensare […] più di quanto in essa possa essere compreso e pensato chiaramente.66
L’idea estetica kantiana è il simbolo, elemento fondamentale dell’arte; simbolo che, come osservato da Ricœur, “dà a pensare”,67 propagandosi in una risonanza illimitata pur restando in qualche modo ineffabile:
per idee estetiche intendo quelle rappresentazioni dell’immaginazione, che danno occasione a pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o un concetto possa esser loro adeguato, e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili.68
Il potere proprio dell’idea estetica è quello di «vivificare l’animo, aprendogli una vista su di un campo smisurato di rappresentazioni affini».69 Estensione illimitata, campo smisurato. L’idea estetica dischiude un orizzonte infinito, in modo analogo al sentimento del sublime,70 sebbene l’infinità lì considerata sia di natura logica (sublime matematico) o morale (sublime dinamico). Ma nel sublime come nell’idea estetica siamo in presenza di una totalità inesauribile che trascende le capacità dell’intelletto. Jaspers così considera la “libertà estetica” (il “libero gioco delle facoltà” che produce il piacere davanti all’opera d’arte):
nella sua infinità essa è la presenzialità dell’intero essere. L’inesauribilità della fonte dell’essere diviene avvertibile nella corporeità di questo oggetto. […] L’indeterminatezza e l’indeterminabilità, l’infinità del concorso in quel gioco costituiscono l’essenza di questa libertà.71
Come nell’ambito morale, anche qui usciamo dalla sfera dell’intelletto, dalla dimensione teoretico-conoscitiva per entrare nel dominio del soprasensibile. Il bello è proprio «dell’opera che mediante l’intuizione fa infinitamente pensare ed è inesauribile come il mondo stesso». Avendo la loro radice nell’incondizionato, idee estetiche e dovere morale rimandano a un “sostrato soprasensibile”: «nel sostrato sovrasensibile risiedono assieme le idee estetiche e l’origine della moralità». Infatti il bello artistico è “simbolo della moralità” e “ci prepara all’accettazione delle idee morali”. Mentre “la vera realtà” del bello naturale è quella di poter essere ravvisato «come cifra dell’origine soprasensibile».72 La vicinanza di Jaspers alle tematiche della Critica del Giudizio è stata rilevata da Marzano:
le cifre, linguaggio della Trascendenza per la possibile esistenza, possono essere intese in una funzione che ha qualcosa di analogo a quella della terza critica. Se la concezione delle cifre è senz’altro più vasta del fenomenico essa rappresenterebbe però un modo di conciliazione non oggettiva ma leggibile solo dall’esistenza tramite la fantasia tra l’esserci in quanto fenomenicità che non rinvia a nulla e il mondo noumenico dell’esistenza Trascendenza.73
La “fantasia”, come la kantiana facoltà del Giudizio, funge proprio da ponte tra natura e noumenicità, consentendo di cogliere nell’oggetto d’esperienza74 un’infinita eco di significati. Si deve pertanto riconoscere «l’origine kantiana delle cifre, gli innumerevoli tratti che nella Critica del Giudizio sembrano anticiparle».75
4. Nota conclusiva
Uno degli ultimi paragrafi della trattazione dedicata a Kant ne I grandi filosofi è intitolato “Limiti della filosofia critica”. Jaspers osserva come
moltissimi uomini restano insoddisfatti di Kant, come se non ne ricavassero alcun nutrimento e fossero privati dell’aria da respirare. […] Essi tendono a ciò che ha contenuto, corpo, materia e che vorrebbero afferrare come la realtà soprasensibile, abbandonano Kant e si volgono irati contro di lui. Ma in tale critica a Kant potrebbe trovarsi una traccia di verità che fraintende se stessa entro i modi di questa critica, perché le sfugge il pensiero di Kant.76
La “traccia di verità” che si trova in questa critica è che in Kant si può constatare «una rinuncia alla pienezza del mondo». Oltre alla “chiarificazione della ragione” che troviamo nel pensiero kantiano, «ci sono le possibilità della chiarificazione dell’esistenza». Kant invece
non mira che all’intemporale, […] all’essenza dell’uomo la quale permane attraverso la molteplicità dei fenomeni. […] È rimasto al di fuori dell’orizzonte kantiano ciò cui le scienze storiche hanno dato significato di presenza attraente, e ciò che in tal modo, connettendosi con l’esistenza storica dell’individuo, ha posto le questioni che ancora oggi sono esistenzialmente e filosoficamente aperte.
In particolare «l’“io penso”di Kant che “deve poter accompagnare tutte le nostre rappresentazioni” non è affatto lo “io sono” della coscienza esistenziale (ma solo quello della coscienza in generale). » Lo stesso vale per l’io in quanto soggetto morale. «Se Kant trovava nella persona libera che agisce moralmente l’accesso al carattere intelligibile, questo non era poi altro che l’essere universale impersonale della buona volontà razionale».77
Ma a quella critica “sfugge il pensiero di Kant” perché non coglie il senso profondo del filosofare kantiano. L’operazione fondamentale di Kant, la delimitazione del campo della conoscenza oggettiva per dischiudere l’ambito del pensiero della ragione (e della fede), non è possibile se non a partire dalle condizioni del soggetto conoscente ossia dalla “coscienza in generale”.
Il limite può essere tracciato solo partendo dal Bewusstsein überhaupt, dal soggetto di quel sapere oggettivo che si intende delimitare (e che non è il singolo con la sua visione soggettiva, unica e diversa da ogni altra), sola prospettiva da cui è possibile distinguere il conoscere dal pensare, e quindi l’intelletto dalla ragione col suo compito infinito. Occorre calarsi in quella prospettiva, se si vuole davvero comprendere Kant. Certo Kant non esaurisce la storia della filosofia, anzi più di ogni altro apre un nuovo orizzonte di pensiero.
Kant costituisce un passo tutto unico nella storia universale della filosofia. Dal tempo di Platone non si è compiuto in Occidente un passo che abbia avuto così radicali conseguenze nell’acre atmosfera del pensiero. […] È ben difficile raggiungere il sentiero. È stato sempre così: non si è capito e ci si è adirati, oppure non si è capito e si è pur notato che qui stava il punto decisivo per tutto il nostro possibile filosofare presente.78
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K. Jaspers, I grandi filosofi, Milano 1973, pp. 550-601. ↩︎
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Cfr: F. Miano, Appropriazione e dialogo. La storia della filosofia in Karl Jaspers, Napoli 1999, p. 51: “Solo dalla consapevolezza dei propri limiti si apre per la ragione lo spazio per l’attuazione di se stessa e, nello stesso tempo, la presa di coscienza della trascendenza che la oltrepassa.” ↩︎
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I. Kant, Critica della ragion pura, Milano 1995, p. 33. ↩︎
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Cfr: F. Miano, Appropriazione e dialogo. La storia della filosofia in Karl Jaspers, cit., p. 33: “Dal superamento della pretesa di ridurre tutto l’essere al suo senso oggettivo nasce la possibilità di elaborare nuove dimensioni della soggettività e della oggettività, si delinea un ‘pensare in simboli’ […]”. E, citando Jaspers (Filosofia, vol. 3): “’l’oggettività metafisica non è più un oggetto, ma un simbolo’”. ↩︎
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K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 552. ↩︎
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Cfr: G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, Roma-Bari 2001, p. 32: “Il concetto kantiano di idea quale telos della conoscenza scientifica — a cui, peraltro, Jaspers si richiama esplicitamente nel 1919 nella Psicologia delle visioni del mondo — può rappresentare, in fondo, la vera chiave di lettura del processo scientifico.” Più oltre (p. 55) Cantillo osserva come anche la struttura della posteriore Filosofia rimandi alle idee kantiane: “L’interrogazione investe le kantiane idee della ragione — il mondo, l’anima (l’uomo), Dio. A tali domande corrispondono le tre parti della filosofia e di Filosofia, vale a dire l’orientazione filosofica nel mondo, la chiarificazione dell’esistenza, la metafisica come lettura delle cifre.” ↩︎
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I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 385. ↩︎
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Ibi, p. 384. Cfr: K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, Roma 1960, p. 539, ove è detto che la ragione possiede idee “il cui materiale non può essere dato in alcuna visione od esperienza possibile. Esse non possono essere date per via perspicua […] poiché si riferiscono all’infinito, mentre ogni contenuto della nostra visione è finito. Nelle idee perciò non si conoscono oggetti di sorta (Gegenstaende)”. ↩︎
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Kant, Critica del Giudizio, Roma-Bari 1989; p. 34. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 555. ↩︎
-
Ibi, p. 554. ↩︎
-
I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 660. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 554. ↩︎
-
I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 665. ↩︎
-
Ibi, p. 664. ↩︎
-
Ibi, p. 667. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibi, p. 668. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 555. ↩︎
-
I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 677. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 554: “Questi principi di progresso non sono conoscenze sull’essere delle cose. Perciò resta privo di fondamento ogni conflitto di principi tra vari partiti, conflitto che si ripresenta in aspetti molto diversi: per esempio a proposito della caratteristica delle piante, degli animali, degli uomini s’è questionato se esistano diversi caratteri dei popoli e tendenze razziali o se ci sia una disposizione unitaria dell’umanità.” ↩︎
-
Ibi, p. 555. ↩︎
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I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 678, corsivi miei. ↩︎
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Ibi, p. 691, corsivo mio. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 553. Cfr: K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, cit., p. 540: “Esse non sono date — così suona il famoso motto — bensì assegnate in compito.” ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 557. ↩︎
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Ibi, p. 556. ↩︎
-
Ibi, p. 557. ↩︎
-
S. Marzano, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, Milano 1974, pp. 26-27. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 674. ↩︎
-
Ibi, p. 675: “Rendere sistematica l’unità di tutti i possibili atti empirici dell’intelletto, è un compito della ragione, allo stesso modo che è compito dell’intelletto il connettere mediante concetti e sottoporre a leggi empiriche il molteplice delle apparenze. […] L’idea della ragione è dunque un qualcosa di analogo ad uno schema della sensibilità.” ↩︎
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Ibi, p. 679. Sempre riguardo al concetto kantiano di schema, Marzano nota come Jaspers se ne serva nel volume II di Filosofia: “i signa coi quali cerco il ‘se stesso’ (das Selbst) per incontrare il me stesso (mich selbst) hanno un carattere intermedio, analogo agli schemi kantiani” (S. Marzano, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, cit., p. 26, nota). Cfr: G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, cit., p. 65, nota: “I segni e gli schemi della Existenzerhellung possono far pensare allo schematismo trascendentale kantiano. Jaspers stesso suggerisce questa analogia, ma poi mostra le differenze nette tra ‘gli schemi kantiani della realtà oggettiva’ e ‘gli schemi completamente eterogenei della realtà esistenziale’.” ↩︎
-
Ibi, pp. 679-680: “Così io dico, che il concetto di un’intelligenza suprema è una semplice idea, ossia, che la realtà oggettiva di tale concetto non deve consistere nel suo diretto riferimento ad un oggetto (in tale senso, infatti, noi non potremmo giustificare la validità oggettiva del concetto): tale concetto, piuttosto, è soltanto uno schema del concetto di una cosa in generale, schema ordinato secondo le condizioni della massima unità razionale, il quale serve soltanto per ottenere la massima unità sistematica nell’uso empirico della nostra ragione.” ↩︎
-
Ibi, p. 692. E ancora a p. 694, dove l’idea della finalità della natura è definita come “un principio regolativo della ragione, che indica la strada per giungere alla suprema unità — conforme ad un fine — della suprema causa del mondo.” ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 557. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibi, p. 558. ↩︎
-
I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 375; K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 558, crosivo mio. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 568. Cfr: I. Kant, Critica della ragion pratica, Milano 1996, p. 31: “se da una legge si toglie ogni materia, cioè ogni oggetto della volontà (come motivo determinante), non resta che la semplice forma di una legislazione universale.” ↩︎
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K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 569, corsivo mio. ↩︎
-
Cfr: I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 80: “la moralità delle intenzioni (nelle quali consiste, e non semplicemente nelle azioni, l’alto valore che l’umanità può e deve procurarsi per mezzo della moralità)”. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 572. E’ evidente il richiamo alla celeberrima conclusione della seconda Critica, all’evocazione del cielo stellato e della legge morale, ove questa “innalza invece infinitamente il mio valore, come proprio di un’intelligenza, attraverso la mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile, almeno per quanto si può arguire dalla determinazione secondo fini che questa legge conferisce alla mia esistenza, determinazione che non si restringe alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito” (I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 181). ↩︎
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K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 572-573. ↩︎
-
Ibi, p. 573, corsivi miei. ↩︎
-
Ibi, p. 574. ↩︎
-
Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, cit., pp. 539 e ss.. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 575. ↩︎
-
Ibi, p. 576. ↩︎
-
Ibi, p. 577. ↩︎
-
Ibi, p. 579. ↩︎
-
Ibi, p. 580. ↩︎
-
I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 4, nota: “ricorderò semplicemente che la libertà è senza dubbio la ratio essendi della legge morale, ma che la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà.” ↩︎
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K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 581. Cfr: I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 108-109: “la libertà trascendentale è da intendersi come indipendenza da ogni elemento empirico, quindi dalla natura in generale, presa come oggetto del senso interno semplicemente nel tempo, o anche dei sensi esterni, contemporaneamente nello spazio e nel tempo […]. Ma lo stesso soggetto, che è peraltro consapevole di sé come cosa in sé, considera anche la propria esistenza in quanto essa non è sottoposta alle condizioni del tempo e guarda a se stesso come determinabile soltanto in base a leggi che egli stesso si dà mediante la ragione”. E ancora, a p. 110: “la ragione, quando è in giuoco la legge della nostra esistenza intelligibile (della legge morale), non riconosce alcuna distinzione di tempo”. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., pp. 581-582. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 582. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 118: “Soltanto il concetto della libertà ci permette di non uscire da noi stessi per trovare l’incondizionato e l’intelligibile per il condizionato e il sensibile.” ↩︎
-
I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 166: “la saggezza imperscrutabile che ci fa esistere non è men degna di venerazione per ciò che ci ha negato che per ciò che ci ha accordato.” ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 584. ↩︎
-
Ibi, p. 585. Cfr: I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 6-7, nota: “La congiunzione della causalità come libertà con la causalità come meccanismo naturale, riportando la prima alla legge morale e la seconda alla legge naturale, tuttavia in un unico e medesimo soggetto, cioè nell’uomo, diviene impossibile se l’uomo non è concepito, in relazione alla legge morale, come essere in sé e, in relazione alla legge naturale, come fenomeno.” ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 586. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 118: “Diviene così comprensibile perché nell’intera facoltà della ragione soltanto la facoltà pratica sia in grado di permetterci di uscire dal mondo sensibile e di procurarci conoscenze intorno a un ordine e a una connessione soprasensibili.” ↩︎
-
Cfr: G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, cit., p. 64: “Vi è una costitutiva paradossalità nella chiarificazione dell’esistenza. Essa ha bisogno del linguaggio dell’oggettività, dell’universale, quindi della riflessione che viene svolta nell’ambito della psicologia, della logica, della metafisica, delle scienze dell’uomo, ma, nello stesso tempo, non può identificarsi con il contenuto della riflessione oggettiva”. ↩︎
-
Cfr: P. Ricœur, Kierkegaard. La filosofia e l’eccezione, Brescia 1996, p. 50: “la funzione filosofica del paradosso, in Kierkegaard, è simile alla funzione filosofica del limite in Kant; si può anche dire che la dialettica spezzata di Kierkegaard ha qualche affinità con la dialettica kantiana, intesa come critica dell’illusione. Nei due casi, è per mezzo di un discorso spezzato che l’essenziale può essere detto.” ↩︎
-
S. Marzano, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, cit., p. 16. ↩︎
-
Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 205: “Un’idea estetica non può divenire una conoscenza, perché essa è un’intuizione (dell’immaginazione), alla quale non si può mai trovare un concetto adeguato. Un ‘ idea della ragione non può mai diventare una conoscenza, perché contiene un concetto (del soprasensibile), al quale non può esser mai data un’intuizione adeguata. Ora io credo che si potrebbe chiamare l’idea estetica una rappresentazione inesponibile dell’immaginazione e l’idea della ragione un concetto indimostrabile della ragione.” ↩︎
-
Ibi, p. 206. ↩︎
-
Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 174. ↩︎
-
Cfr: P. Ricœur, Il simbolo dà a pensare, Brescia 2002. ↩︎
-
Kant, Critica del Giudizio, cit. p. 173. ↩︎
-
Ibi, p. 175. ↩︎
-
Ibi, p. 99: “sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’ animo superiore ad ogni misura dei sensi ” ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 589. ↩︎
-
Ibi, p. 592. ↩︎
-
S. Marzano, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, cit., p. 29. ↩︎
-
Ibidem, “Non vi è nulla che non possa essere cifra”. Cfr F. Miano, Appropriazione e dialogo. La storia della filosofia in Karl Jaspers, cit., p. 34: “ogni cosa può diventare cifra, tutto può essere letto ‘come se fosse una scrittura cifrata della trascendenza’. La stessa realtà empirica può assumere agli occhi dell’esistenza un nuovo volto costituendosi come mondo di cifre.” ↩︎
-
S. Marzano, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, cit., p. 29, nota. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., pp. 691-692. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., pp. 692-693, corsivi miei. ↩︎
-
K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., pp. 703-704. ↩︎