1. Dal Convivio al De vulgari eloquentia
Incuneato tra la composizione dei primi tre libri del Convivio e la stesura del quarto,1 ubicato su un problematico piano di indagine in cui convergono filosofia del linguaggio, esegesi biblica, grammatica speculativa, retorica, e Ars poëtandi, spesso secondo intrecci imprevedibili e spiazzanti, il De vulgari eloquentia ripropone il tema della nobiltà dell’uomo secondo una prospettiva teorica consequenziale a quanto viene discusso nel trattato volgare. Dall’identificazione tra nobiltà dell’angelo e potenza speculativa del nostro intelletto, attuabile con l’esercizio della razionalità filosofica, si procede all’individuazione delle facoltà espressive tipiche dell’uomo, onde ribadire il concetto di una umanità non più vista sub specie damnationis, bensì come immagine radiosa del Padre. Nell’affermare questo legame di fondo tra i due trattati non si vuol certo sostenere la tesi di una pacifica continuità: le tensioni interne al De vulgari, sommate alle dissonanze che in molti punti lo oppongono al Convivio, soprattutto in merito alla quaestio circa la superiorità del latino rispetto alla lingua del popolo, ci danno il quadro di un pensiero in movimento, inquieto, forse intento a quella sistemazione definitiva che si darà soltanto con l’edificio della Commedia. E tuttavia, quella medesima nozione di nobiltà attorno alla quale ruota l’impresa speculativa del Convivio — non la nobiltà di stirpe in senso feudale, bensì quella individuale, che deriva dall’esercizio della virtù e dall’abito del filosofare — diviene adesso il fondamento di una filosofia del linguaggio e di una poetica che procede in forma di commento al libro della Genesi, sulla falsariga della tradizione esameronale. La cornice teologica dell’esegesi biblica, il rinvio ai topoi della tradizione patristico-scolastica, il costante richiamo al Filosofo fanno da sfondo a una ricerca presentata fin dall’incipit sotto il segno di una novitas che non riconosce precursori. Il presupposto su cui essa riposa rimanda alla consueta definizione aristotelica dell’uomo come zoon logon echon: ma l’aristotelismo dantesco si innesta di nuovo nel solco della metafisica della luce di ascendenza dionisiana secondo modalità già elaborate nel Convivio.2 Sono gli scritti dello Pseudo-Dionigi Areopagita, insieme alle suggestioni del Liber de Causis, talora con la mediazione dei commenti di Alberto Magno, a costituire l’ossatura di quella metafisica della luce specificamente dantesca da cui deriveranno le più potenti costruzioni geometrico-narrative del Paradiso.
Nel Convivio vi sono numerosi segnali premonitori che alludono a una imminente riflessione sulla natura del linguaggio, da condursi secondo quegli stessi principi che il trattato in volgare fa confluire nella teoria della beatitudine filosofica, affermando la natura angelica della mente umana. Non ci riferiamo soltanto alla celebre anticipazione circa il «prossimo trattato dell’eloquenza»,3 ma soprattutto a quei luoghi in cui il nesso tra razionalità ed espressione linguistica viene interpretato in riferimento alla natura «luminosa» della creatura umana:
Poi quando dico: E qual donna gentil questo non crede, pruovo questo per la esperienza che aver di lei [scil. la «divina virtude»] si può in quelle operazioni che sono proprie de l’anima razionale, dove la divina luce più espeditamente raggia; cioè nel parlare e ne li atti che reggimenti e portamenti sogliono esser chiamati. Onde è da sapere che solamente l’uomo intra li animali parla, e ha reggimenti e atti che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione.4
La luce divina si diffonde con maggiore speditezza attraverso le operazioni che costituiscono il proprium della specie umana in quanto distinta dalla natura angelica e dal bruto. Questo passo del Convivio preannuncia il teorema soli homini datum fuisse loqui, che farà da perno ai primi capitoli del De vulgari. Il linguaggio è operazione tutta «nostra», tipica dell’uomo in quanto essere razionale finito dotato di logos e fornito di una mente atta a ricevere la virtù divina. Se l’attività creatrice della Sapienza eterna si esplica attraverso la Parola proferita «in principio», la nobiltà del parlare umano consiste nel farsi mimesi partecipe del Verbo: attualizzando la propria entelechia esso diviene risplendente icona della parola divina. In quanto «animale linguistico» l’uomo riflette nella sua natura la stessa immagine del Padre Invisibile. Il rapporto di comunione tra Adamo e Dio, descritto nei primi capitoli del De vulgari eloquentia, definisce l’archetipo e il paradigma ideale di tale mimesi.
2. Tra l’afasia dell’angelo e l’infanzia dell’animale
Innanzitutto, occorre dimostrare il teorema secondo cui il linguaggio appartiene essenzialmente ed esclusivamente alla specie umana. Dante argomenta utilizzando la stessa cornice antropologica del Convivio: nella compagine del cosmo l’uomo, animale razionale, è l’essere intermedio tra l’angelo e la bestia. E il linguaggio, a sua volta, presuppone l’esistenza dell’uomo. Infatti, soltanto l’animale razionale è dotato di logos — inteso come sinolo del pensiero e della sua manifestazione linguistica: la mente umana concepisce idee che necessitano di un veicolo fisico per diventare «visibili» e comunicabili agli altri esseri della stessa specie:5
Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. […] Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum.6
Per motivi simmetricamente opposti, angeli e bruti sono estranei alla dimensione della parola, in quanto il loro universo comunicativo si trova, rispettivamente, al di sopra e al di sotto della soglia del linguaggio inteso come sistema di segni dove ad ogni signans sensibile corrisponde un signatum intelligibile:
Si etenim perspicaciter consideramus quid cum loquimur intendamus, patet quod nichil aliud quam nostrae mentis enucleare aliis conceptum. Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua vel alter alteri totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum Speculum in quo cuncti representantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur, nullo signo locutionis indiguisse videntur.7
Adottando ancora una volta tesi eterodosse rispetto alla posizione tomistica, fondata sulla Auctoritas delle Epistole di San Paolo, Dante esclude l’esistenza di una «lingua degli angeli» e recupera, come ha mostrato Mengaldo, affermazioni «che, significativamente, appartengono non alle soluzioni tomistiche ma alle obiezioni che l’Aquinate si formula».8 Il «mezzo» linguistico, inteso come strumento di comunicazione, è fatto di un’anima razionale, il significato, e di un corpo materiale, il significante, stretti in un medesimo sinolo di materia e forma. Una volta affermata la priorità della dimensione comunicativa per definire l’essenza e la causa finale della locutio, la duplicità del segno diviene l’analogon della natura umana.
Se il Convivio ha stabilito che la speculazione della luce divina da parte degli angeli è sanza mezzo, il De vulgari trae il corollario che tali creature «comunicano» immediatamente, tra di loro e con Dio, senza aver bisogno di altro «mezzo» che non sia il loro stesso intelletto speculativo. L’assoluta trasparenza delle intelligenze celesti fa sì che i loro pensieri siano condivisi in un processo di reciproco rispecchiamento che oltrepassa i termini della condizione umana. Esiste una sorta di sincronia pura tra le gloriose concezioni delle menti angeliche, la medesima intimità che permette alle anime incontrate da Dante in Paradiso di leggere in anticipo i suoi dubbi e gli interrogativi destinati a sciogliersi nelle tappe successive dell’itinerario celeste. Da questo punto di vista, è come se ogni singolo angelo fosse parte di un unico intelletto in atto: come dire che per le menti angeliche sembra valere qualcosa di molto vicino alla posizione averroistica circa l’unità dell’intelletto. Gli angeli, specchi irradiati «per diritto raggio» dalla Luce fontale, esultano nella prossimità al Verbo di Dio, Egli stesso Specchio fulgentissimo al cui cospetto dimorano fin dal primo giorno della creazione.9 Le coorti celesti degli specchi creati intonano una silente polifonia di luci in cui riecheggia e si moltiplica la Gloria suprema dello Specchio Increato, Imago della divina Sapienza in cui e per cui tutto fu fatto in Principio. Essi comunicano immediatamente in un al di là del linguaggio che è tutt’uno con lo stato di letizia della «festa di Paradiso». La «comunicazione celeste» rappresenta il gaudio di un perenne perdersi in Dio, un’estasi permanente di cui gli «eccessi» del mistico, pellegrino del frattempo, non sono che un pallido riflesso. Anche gli angeli ribelli, prima di cadere in rovina, conobbero la loro malvagità attraverso una speculazione di questo tipo: il che può fornire una risposta all’eventuale obiezione di chi opponesse che i demoni, seppur privi di locutio, riconoscono da sempre la loro perfidia.
Una volta definito il termine superiore di raffronto, l’utopia di una comunicazione assoluta e silenziosa, privilegio delle intelligenze angeliche, occorre prendere in esame l’estremo inferiore: la distopia del rumore letargico in cui è relegata la bestia priva del lume della ragione. In maniera simmetrica, si procede a dimostrare per quali motivi la natura, che mai nulla fa invano, non abbia dotato gli animali della capacità di linguaggio:
Inferioribus quoque animalibus, cum solo naturae instinctu ducantur, de locutione non oportuit provideri: nam omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones, et sic possunt per proprios alienos cognoscere; inter ea vero quae diversarum sunt specierum non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus damnosa fuissset cum nullum amicabile commertium fuisset in illis.10
Gli animali non hanno una individualità che emerga al di sopra della comune essenza tipica della specie di appartenenza. Essi conoscono «atti e passioni» degli altri esemplari a partire dalle proprie reazioni istintive, e non avendo concetti da esprimere in quanto privi di mens, la «fine e preziosissima» parte dell’anima umana che è «deitade», non possono e non devono veicolare idee a un destinatario attraverso segni sensibili. Un presunto «linguaggio degli animali» sarebbe costituito da significanti privi di significato, materiale fonetico inarticolato dove non rifulge alcun lume di ragione. Angeli e bruti, pertanto, condividono una analoga estraneità alla dimensione della parola.11 Gli assi cartesiani della cornice dantesca sono ancora una volta gli stessi del Convivio: l’afasia delle intelligenze celesti costituisce un autentico «aldilà» del linguaggio, la trascendenza dello specchio angelico sine macula, ineffabile, incorporeo e incorruttibile. All’estremo opposto troviamo l’«infanzia» del verso animale, rumore inarticolato che si colloca al di qua della dimensione del linguaggio. Tra questi due estremi, il silenzio della speculatio Dei e il rumore del suono inarticolato, si colloca la parola umana, quasi in uno stato di oscillazione o sospensione perpetua che solo la poesia sembra essere in grado di esplorare in tutta la sua ampiezza. Qualcuno potrebbe obiettare citando alcuni passi biblici in cui ricorrono casi di animali parlanti: in questo caso basta ricorrere alla lettura allegorica, mostrando che in quella fattispecie gli animali sono strumento delle potenze angeliche. E se prendiamo in considerazione i casi di imitazione della voce umana da parte di animali come ad esempio le gazze, possiamo renderci conto del fatto che tali bestie si limitano alla riproduzione del dato fonetico avulso da una qualsivoglia espressione semantica. Il verso dell’animale, anche quando riproduce la voce umana, non è mai signum di un contenuto intelligibile: è pura vibrazione asemantica, evento acustico decaduto a rumore. Insistiamo su questo dettaglio perché il tema degli «animali parlanti» ricorre anche nel Convivio in termini identici a quelli del passo sopra citato, coinvolgendo ancora una volta la metafora dello specchio:
Onde è da sapere che solamente l’uomo intra gli animali parla […] E se alcuno volesse dire contra, dicendo che alcuno uccello parli, sì come di certi, massimamente de la gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti o vero reggimenti, sì come pare de la scimia e d’alcuno altro, rispondo che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti, però che non hanno ragione, da la quale queste cose convegnono procedere; né è in loro lo principio di queste operazioni, né conoscono che sia ciò, né intendono per quello alcuna cosa significare, ma solo quello che veggiono e odono ripresentare, secondo la imagine de le corpora in alcuno corpo lucido si rappresenta, sì come ne lo specchio. Onde, come la imagine corporale che lo specchio dimostra non è vera, così la imagine de la ragione, cioè li atti e lo parlare che l’anima bruta ripresenta, o vero dimostra, non è vera.12
Il mimetismo animale che riproduce la voce o il portamento dell’uomo costituisce il grado zero del pensiero, e quindi del significato. Nelle bestie manca il principio razionale che sorregge l’espressione simbolica dando luogo alla loquela e al comportamento. Il mimetismo è una emanazione dell’istinto, che è l’unico principio da cui derivano tutte le operazioni degli animali inferiori. Imitando il suono della voce umana, i cosiddetti «uccelli parlanti» in realtà non fanno altro che riprodurre la materia di un significante degradato a rumore inarticolato, come già aveva detto Aristotele. Pertanto, l’imitazione della voce umana fatta dagli animali è come uno specchio ingannevole che ci illude sulla presenza di un locutore dotato di ragione. La voce «chioccia» del demonio Pluto — nel celebre «Pape Satan, pape satan aleppe» con cui esordisce il settimo canto dell’Inferno — sembra costituire un esempio dello stesso tipo: la degradazione animalesca della voce costituisce il paesaggio sonoro dell’Inferno in quanto regno dell’abbrutimento umano portato agli infimi livelli di bestialità. Alcuni animali possono riprodurre l’immagine della voce umana come una sorta di eco priva intenzionalità significante, senza estrinsecare un vero e proprio atto linguistico che rifletta la luce della ragione presente nell’umana locutio. Lo specchio della voce animale non riflette alcuna luce, riproduce un’immagine sensibile denudata da ogni contenuto razionale. Dal confronto tra i passi del Convivio e del De vulgari si conferma l’idea di una «infanzia» speculante propria degli animali, analoga e diametralmente opposta all’afasia degli angeli. Questi sono specchi gloriosi della Luce dove ogni immagine si trasfigura nella fiamma della Gloria divina, mentre gli animali sono specchio ingannevole della voce umana ridotta al grado zero della mera immagine sensibile. L’opposizione tra angelo e bruto si riconduce all’antitesi tra il veritiero specchio incorporeo che riflette la luce — puro significato senza significante — e l’ingannevole specchio corporeo che reduplica le immagini — significante decaduto a materia fonetica informe, significante che non supporta né veicola alcun significato. Da un lato, la trasparenza assoluta che apre le intelligenze celesti alla reciproca compartecipazione della gloria, nella festa di Paradiso ove ciascuno contempla lo Specchio dell’infinita Sapienza; dall’altro, l’opacità inesorabile delle bestie immerse nella materia e chiuse all’interno della specie di appartenenza. Tra i due estremi si pone l’essere razionale e corporeo che comunica attraverso un sistema di segni dove ad ogni significante sensibile corrisponde un significato intelligibile, secondo un rapporto stabilito ad placitum.
3. Coincidenza tra individuo e specie
Resta un ultimo corollario da trarre. Gli uomini non possono intendersi per intuizione intellettuale in quanto il loro spirito è occultato dallo spessore opaco del corpo; d’altro canto le loro vicende comunicative non avvengono «per atti e passioni», alla stregua degli animali. Pertanto, la razionalità che riluce nell’anima di ogni singolo individuo costituisce un fattore di differenziazione tale da indurci ad affermare che ogni essere umano costituisce quasi una specie a sé:
Cum igitur homo non naturae instinctu sed ratione moveatur, et ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus el passiones, ut brutum animal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contingit, cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus.13
La necessità della parola, scritta nell’ordinamento teleologico della natura, espressione della Sapienza e della Bontà divine, deriva dalla duplice costituzione di anima e corpo: per poter comunicare l’uomo ha quindi bisogno di un segno linguistico che sia a sua volta corporeo e razionale. Il segno, significante sensibile di un significato intelligibile, permette la comunicazione tra esseri che sono sospesi tra la pura spiritualità dell’intelligenza celeste e la assoluta corporeità dell’animale irrazionale. Fino a questo punto possiamo affermare che la specie umana si colloca in uno spazio equidistante tra gli estremi dell’angelo e dell’animale, ovvero tra lo specchio della Luce e lo specchio della materia. Tuttavia, se è pur vero che l’opacità del corpo costituisce un fattore di «grossezza» che allontana l’uomo dalla diafana claritas delle intelligenze celesti, resta pur sempre il fatto che ogni singolo essere umano si differenzia dagli altri in misura tale da rendere la nostra specie radicalmente distinta da quella di ogni altro animale: questi ultimi non hanno «individui», bensì «esemplari» che riproducono i medesimi caratteri della specie di appartenenza con un margine di differenziazione del tutto trascurabile. Il mondo degli esseri umani ha la prerogativa di costituire una variegata molteplicità di differenze che si dispiega come una infinita proliferazione di singolarità. Ciascun individuo si diparte dai suoi «simili» come una monade: il singolo essere dotato di ragione si individua come una specie a se stante per la sua «discrezione», per il giudizio e per la capacità di scelta.14 Questi fattori di individuazione ci permettono di considerare ogni essere umano come una specie a sé, quasi come un angelo del mondo sublunare. La coincidenza tra individuo e specie non è più un privilegio esclusivo delle intelligenze celesti, ma una proprietà immanente alla razionalità umana. Secondo la filosofia tomistica, l’identità tra individuo e specie spetta soltanto alla creatura angelica. L’Aquinate considera questo elemento un fondamentale principio di differenziazione gerarchica tra angelo e uomo: in quanto intelligenza separata priva di materia corporea, ogni angelo ha il privilegio di costituire da solo una specie a se stante, dato che la materia, in questo caso, non vale più come principio di individuazione.15 Nel mondo sopralunare gli enti vanno moltiplicati secundum necessitatem. In contrapposizione a Tommaso, Dante, seppur con la consueta cautela nel formulare la sua posizione, estende anche all’uomo l’equivalenza tra individuo e specie: l’assunto iniziale di una perfetta e simmetrica «equidistanza» tra intelligenza celeste e animale bruto viene abbandonato a favore di un innalzamento della condizione umana al rango del primo termine dell’opposizione. L’itinerario teoretico del De vulgari ripropone anche da questo punto di vista una volta la medesima impostazione del Convivio.
L’uomo è l’essere consegnato al linguaggio in quanto non è uno specchio, alla maniera dell’angelo o del beato. Collocato nel frattempo del peregrinare, in attesa del compimento escatologico, egli non contempla ancora la Luce divina nel supremo fulgore del Verbo. Senza la mediazione del significante nessun lume si offre all’umano intelligere. Senza il supporto fisico del segno, nessun pensiero si trasmette da un intelletto a un altro. D’alto canto, l’uomo non è uno specchio nemmeno alla maniera dell’animale (cosiddetto) parlante. A differenza di quest’ultimo, che può solo farsi eco illusoria della voce umana, il suo eloquio è espressione di una razionalità singolare e universale al tempo stesso. Nella prospettiva del De vulgari il corpo è meno un ostacolo che impedisce agli uomini di leggere nella mente altrui, che una condizione di possibilità felicemente indispensabile grazie alla quale siamo consegnati a quel nobile subjectum che è il segno. Non forziamo il testo dantesco, se leggiamo in questo aspetto un ulteriore conferma della tesi «audacemente» espressa dal quarto libro del Convivio: «certo da dovvero ardisco a dire che la nobilitade umana, quanto è da la parte di molti suoi frutti, quella de l’angelo soperchia, tuttochè l’angelica in sua unitade sia più divina».16 La filosofia del linguaggio dantesca è anche una filosofia del corpo. Non più considerato come «corpo di morte» marchiato dal peccato, secondo la concezione dell’umanità come massa damnationis di ascendenza agostiniana, l’involucro di materia che impedisce agli uomini di essere reciprocamente trasparenti come le intelligenze separate costituisce la condizione di possibilità (ontologica e «trascendentale») del linguaggio in quanto tale. La compiuta analogia che sussiste tra la natura umana e la natura del segno linguistico è ciò che rende l’uomo l’unico essere fatto «ad immagine e somiglianza» di Dio.
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Si tratta, come è noto, della proposta di ricostruzione filologica avanzata da Maria Corti in: Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Einaudi, Torino, 1993. ↩︎
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Secondo la metafisica della Luce risalente agli scritti dello Pseudo-Dionigi Areopagita, Dio viene raffigurato come il Sole sovrasensibile che comunica la propria bontà a tutte le creature, che la ricevono in modi e gradi differenti a seconda della loro capacità. Il terzo libro del Convivio dantesco utilizza ampiamente questo modello ontologico culminante nell’esaltazione della mente umana, raggio dell’infinita Sapienza divina. Come è noto, l’intera disposizione delle gerarchie dei beati e degli angeli nel Paradiso si ricollega allo stesso modello metafisico, così come viene descritto, in particolare, nel De colesti hierarchia dello Pseudo-Dionigi Areopagita. ↩︎
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Dante, Convivio I, v, 9, in: Dante Alighieri, Opere Minori, tomo I parte II, edizione critica a cura di Cesare Vasoli e di Domenico De Robertis, Ricciardi editore, Milano-Napoli, 1988, p. 34. ↩︎
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Dante, Convivio, III, vii, 8, op. cit. p. 380. ↩︎
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Quella dantesca è un’ennesima variazione sul tema offerto dalla classica definizione agostiniana del segno. Cfr. Sant’Agostino, De doctrina christiana II, 1, 1: Signum est enim res, praeter speciem quam ingerit sensibus, aliquid aliud ex se faciens in cogitationem venire; Idem, De dialectica, 5: Signum est quod et se ipsum sensui, et praeter se aliquid animo ostendit. ↩︎
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«Conveniva dunque che i membri del genere umano avessero un segno razionale e sensibile per comunicarsi a vicenda i loro concetti; razionale, perché deve ricevere e trasmettere da una ragione a un’altra; sensibile, perché nulla si può trasmettere da una ragione a un’altra senza un supporto accessibile ai sensi. […] Proprio questo segno è quel soggetto nobile di cui trattiamo: infatti, è qualcosa di sensibile in quanto è suono; è qualcosa di razionale in quanto significa qualcos’altro ad arbitrio». De vulgari eloquentia, I, iii, 2-3; in: Dante Alighieri, Opere Minori, tomo II, edizione critica a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Ricciardi editore, Milano-Napoli, 1979, p. 38. ↩︎
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«Se infatti consideriamo con perspicacia qual è il nostro scopo quando parliamo, è chiaro che non si tratta d’altro che manifestare ad altri ciò che la mente concepisce. Dato che gli angeli, per effondere i loro pensieri glorificanti, possiedono una rapidissima e ineffabile capacità intellettuale, in virtù della quale ciascuno si fa in tutto palese all’altro per se stesso, o meglio, per mezzo di quello Specchio splendentissimo in cui tutti si riflettono nel pieno della loro bellezza e si riflettono con tutto l’ardore del loro desiderio, è evidente che essi non avevano bisogno di alcun segno linguistico»; Dante, De vulgari eloquentia, I, ii, 3, op. cit. pp. 32-34. ↩︎
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Pier Vincenzo Mengaldo, Linguistica e retorica di Dante, Nistri-Lischi, Pisa 1978, p. 192 e segg. ↩︎
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Ricordando il passo biblico di Sapienza 7, 25-26 — che sta all’origine dell’immagine dello Specchio Divino — diremo che la determinazione catottrica non va riferita tanto a Dio in se stesso, quanto alla seconda Persona della Trinità, la Sapienza divina da identificare con il Verbo, ovvero con il Figlio. L’immagine dello speculum fulgentissimum è un topos oggetto di innumerevoli variazioni soprattutto nell’opera di Bonaventura. ↩︎
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«Quanto agli animali inferiori, dato che sono guidati unicamente dal loro istinto naturale, non fu necessario dotarli di linguaggio; infatti tutti gli animali appartenenti alla stessa specie hanno in comune gli stessi atti e passioni, sicché attraverso i propri possono conoscere quelli altrui; mentre agli animali di specie diverse, un linguaggio che li unisse non solo no era necessario, ma sarebbe stato certamente dannoso, dato che tra loro non doveva esserci nessun rapporto amichevole»; Dante, De vulgari eloquentia, I, ii, 5, op. cit. p. 36. ↩︎
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È necessario distinguere nettamente l’afasia dell’angelo dalla «infanzia» dell’animale, come la divinità del silenzio si oppone alla bestialità del «rumore» animale. Ma sulla inquietante, e per certi aspetti enigmatica, convergenza tra animale e angelo negli «zodiaci» danteschi rimandiamo a Massimo Cacciari, L’angelo necessario, Adelphi, Milano, 1985, pp. 131-144. ↩︎
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Dante, Convivio, III, vii, 9 -10, op. cit. pp. 380-382. ↩︎
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«Dunque, poiché l’uomo non è guidato dall’istinto naturale ma dalla ragione, e questa assume a sua volta forme diverse nei singoli quanto a capacità di discernimento di giudizio e di scelta, al punto che sembra quasi che ogni uomo goda del privilegio di costituire una specie a sé, dobbiamo credere che nessuno comprenda un altro attraverso i suoi propri atti e passioni, come fanno le bestie. E neppure si dà che l’uno si immedesimi nell’altro per mezzo di un rispecchiamento spirituale come avviene per gli angeli, perché lo spirito umano è oscurato dallo spessore e dall’opacità di un corpo mortale»; Dante, De vulgari eloquentia I, iii, 1, op. cit. p. 38. ↩︎
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La ragione è principio di individuazione per la specie umana: (ipsa ratio diversificatur in singulis). Quanto alla «discrezione», intesa come capacità di distinguere e cogliere la destinazione teleologica delle creature, si vedano: Dante, Convivio I, xi, 4 e IV, viii, 1. ↩︎
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San Tommaso, Summa Theologica, prima pars, Q. L, art. 4, Respondeo: «Ea quae conveniunt specie et differunt numero conveniunt in forma et distinguuntur materialiter. Si ergo angeli non sunt compositi ex materia et forma, ut dictum est supra, sequitur quod impossibile sit esse duos angelos unius speciei. […] Unde perfectio naturae angelicae requirit multiplicationem specierum, non autem multiplicationem individuorum in una specie». («Le entità della stessa specie che differiscono nel numero hanno la stessa forma e si distinguono per la materia. Ma se gli angeli non sono composti di materia e forma, come si è detto prima, ne consegue che è impossibile che esistano due angeli della stessa specie. […] Pertanto, la perfezione della natura angelica richiede di necessità la molteplicità delle specie, e non la molteplicità degli individui all’interno della stessa specie».). ↩︎
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Dante, Convivio, IV, xix, 6-7, op. cit. pp. 741-742. ↩︎