Recensione a Roberto G. Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel

Roberto G. Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel. Storia critica degli argomenti ontologici, Marietti, Genova, 2005.

Ad quod cum saepe studioseque cogitationem converterem, atque aliquando mihi videretur iam posse capi quod quaerebam, aliquando mentis aciem omino fugeret (Anselmo, Proslogion)

Non è certo semplice fare la recensione di un testo, come il presente, così vasto e così denso tale da far apparire la presente un «lunga» recensione, benché, al tempo stesso, essa non sia altro che una recensione edulcorante. Consola, se così può dirsi, il fatto che ciascuna recensione, pur a suo modo, lo è.

Nella storia della filosofia un posto particolare occupa, per l’importanza e per l’enorme numero di discussioni prodotte, la dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio elaborata per la prima volta da Anselmo d’Aosta, nota anche come «argomento ontologico» per via del suo (particolare) significato.

Costituisce certamente suo fondamento l’idea secondo la quale «Chi crede in Dio e vuole fondare la sua fede su argomenti razionali è certamente alla ricerca di una prova incontrovertibile delle sue convinzioni» (p. 11). Tale prova viene individuata in un’argomentazione logica che prende il nome di «prova ontologica», ossia una prova che, prendendo le mosse da nozioni ontiche, risulta in grado di fondare (razionalmente) la credenza nell’esistenza di Dio.

Ovviamente, si tratta di un argomento che ha suscitato parecchio interesse presso i teologi medievali, soprattutto lungo il periglioso crinale dei rapporti tra fides et ratio, e che, forse, suscita oggi minore interesse. La ragione di quest’oblio risiede però non nella sua definitiva falsificazione né tantomeno nell’allontanamento contemporaneo dalle argomentazioni metafisiche, ma nel progressivo allontanamento dell’indagine filosofica dai contenuti religiosi. Al contrario, stando a cuore dei medievali conciliare i data della Rivelazione con le idee della ragione, era importante trovare un’argomentazione che, essendo razionale, fosse in grado di dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’esistenza di Dio, una prova cioè che potesse andar bene per tutti gli uomini dotati di senno, da mettere d’accordo universalmente tanto i miscredenti quanto gli atei. Ciò che conferisce ad una siffatta prova proprio il carattere dell’evidenza razionale è il basarsi sulla logica, sulla scienza, cioè, del (l’universale) pensiero retto. In questo modo, la «prova ontologica» è stata nei secoli una prova logica dell’esistenza di Dio, a partire da Anselmo d’Aosta, il primo ad averla formulata, sino agli epigoni moderni, non ultimo Gödel, che l’hanno ripresa e sovente modificata.

Certo non appare trascurabile il fatto che il nucleo della «prova» sia, almeno inizialmente, un’intuizione mistica, «una percezione immediata del trascendente» (p. 16). Infatti, ciò ha la conseguenza, non trascurabile, che non appena si debba, o si voglia, comunicare ad altri il suo contenuto ci si scontra con una difficoltà formidabile: l’esperienza mistica «non si realizza certo attraverso ragionamenti logici» (p. 16), mentre una conoscenza è comune nel momento in cui tutti le riconoscano sensatezza, ossia depositaria della proprietà della razionalità. Dunque, il problema iniziale di Anselmo è «trovare una prova logica dell’esistenza di Dio» (p. 17) che non riguardi solo il mistico o il credente, ma possibilmente tutti gli uomini i quali, per definizione, sono dotati di ragione.

Dunque, una dimostrazione che voglia essere «logica», ossia valida per «la» ragione umana, deve consistere in «una serie concatenata di proposizioni derivate coerentemente le une dalle altre» (p. 19), secondo un ordine ben preciso e nella quale siano riconoscibili delle premesse vere che implicano una conclusione necessariamente vera. Perché, allora, una dimostrazione logica dell’esistenza di Do? Sicuramente perché il valore in sé della dimostrazione logica è generalmente riconosciuto, tanto in filosofia quanto in altri ambiti conoscitivi.

Considerato anche come tali dimostrazioni, dato che possono essere più d’una, possono essere distinte in a priori e in a posteriori, si tende a delimitare la denominazione di «prove logiche» solo «agli argomenti a priori» (p. 22), certo non intendendo che solo questi abbiano un significato logico, ma solo perché le prime procedono da «puri concetti a priori» (p. 23) e solo nel loro caso «ogni passaggio dimostrativo rimane all’interno della struttura logico-razionale (concetti, giudizi e inferenze) e si esplica esclusivamente attraverso l’analisi di un’idea non derivata dai dati empirici, ma già presente per qualche altro motivo nella nostra mente» (p. 23). Affinché sia possibile una dimostrazione logica dell’esistenza di Dio bisogna notare come non sia sufficiente un ontologismo secondo il quale di Dio è possibile una conoscenza diretta perché esistono nell’intelletto umano idee universali, tra le quali anche quella di Dio. Se così fosse, infatti, non vi sarebbe alcun bisogno di argomentazioni a posteriori poiché tutti gli uomini dovrebbero convenire sull’esistenza di Dio. In realtà, sappiamo come così non avvenga e che gli uomini non possiedono tutti la medesima idea di Dio, alcuni nemmeno l’hanno. Così un eventuale argomento di consensus gentium non si potrebbe considerare all’altezza di una dimostrazione (universale) dell’esistenza di Dio. L’esistenza della Trascendenza, dunque, non può essere data per acquisita o per immediatamente nota, «ma necessita di essere dimostrata attraverso i normali strumenti della conoscenza umana: l’esperienza sensibile e il ragionamento logico» (p. 27).

Quel che più sta a cuore della presente recensione, e che, forse, è anche l’intendimento del testo in oggetto, è mettere in luce il ruolo che viene svolto dalla logica, insieme complesso e fine: unire un insieme di proposizioni «sulla base di un legame di coerenza logica» (p. 46). Ossia, affinché gli argomenti logici possano essere considerati delle dimostrazioni nel vero senso del termine non è sufficiente «che risultino formalmente corretti, che cioè le premesse implichino coerentemente la conclusione, ma occorre anche che le premesse e la conclusione siano tutti enunciati veri» (p. 49). Si tratta di una condicio sine qua non che pone un problema preciso, riassumibile nel modo seguente: come possono ritenersi vere le proposizioni che fungono da premesse e conclusione in un’argomentazione mirante a dimostrare l’esistenza di Dio? Questo sicuramente costituisce un (possibile) punto di attacco per le obiezioni alle prove logiche.

Anselmo ammette la possibilità di una dimostrazione dell’esistenza di Dio senza avvalersi della sola fide, ma, al tempo stesso, ritiene che siano fondati quegli argomenti o quelle inferenze logiche in cui alcune proposizioni vere (le premesse) implicano necessariamente la verità di una conclusione, quegli argomenti che «conducono cioè ad asserti assolutamente chiari ed evidenti» (p. 71). Il procedimento anselmiano è eminentemente dialettico ed è in sua virtù che dai vari livelli dell’essere si risale sino alla sommità gerarchica di un Ente sommo «da cui tutte le cose dipendono per la loro esistenza» (p. 73), configurandosi Egli solo come causa sui. Questa è la ben nota dimostrazione oggetto di discussione del Monologion, «un procedimento di dimostrazione a posteriori che risale dagli effetti alla causa prima» (p. 74). Ma il risultato raggiunto non è di per sé soddisfacente poiché non si tratta di una dimostrazione prettamente logica, che unisca, in modo rigoroso, motivi razionali a metodi logici, e che, valendosi dell’universalità della ragione umana, consenta di raggiungere conclusioni necessariamente vere.

In Anselmo confliggono, cioè, opposti sentimenti: da un lato, «vi era la legittima soddisfazione per aver conseguito il risultato che si era prefisso, dall’altro si sentiva inquieto come se il suo compito di dimostrare la razionalità della fede non fosse ancora definitivamente compiuto» (p. 75). Le prove del Monologion, in altre parole, non erano soddisfacenti non perché intrinsecamente deboli, ma perché presentano «quell’immediata capacità persuasiva tipica della fede» (p. 76). Il desiderio dell’aostano era, in altri termini, quello di trovare «un’unica prova» (p. 76) dell’esistenza di Dio che assommasse in sé i caratteri della certezza della fede e della necessità razionale. Ossia, Anselmo si rendeva conto del fatto che per poter battere le obiezioni degli insipienti fosse necessario fondare razionalmente la credenza nell’esistenza di Dio. E per fare ciò appare fondamentale unire la certezza della fede da un lato e la necessità della ragione dall’altro. Per questo motivo, egli si volse verso la logica in quanto solo essa appare idonea a provare la necessità (logica) dell’Ente sommo, a dimostrare come Esso non possa «essere concepito come non esistente» (p. 76). La via logica, allora, detto altrimenti, consente la creazione di un unico argomento, un unum argumentum il quale, partendo «dal presupposto della fede» (p. 76), consente di realizzarne una sua «comprensione razionale» (p. 76). Il rovesciamento del tipo di prova, da a posteriori a a priori, avviene gradualmente nel passaggio dal Monologion al Proslogion. È in quest’ultima opera che si mette in scena il proposito anselmiano di mostrare come la fede cerchi l’intelligenza, al fine di, mediante gli strumenti razionali, dimostrare l’esistenza di Dio. In questo modo soltanto, appare corretto intendere il dibattuto motto anselmiano credo ut intelligam: «prima viene la fede e unicamente dopo l’intelligenza delle sue verità» (p. 77). La non comprensione del quale è stata infatti, in passato, causa di perplessità sull’effettiva portata del discorso anselmiano. La proposta distinzione dei piani tra ragione e intelletto tiene conto della tradizione platonico-agostiniana. La logica per Anselmo è, dunque, l’organum attraverso il quale l’esistenza di Dio, prima creduta dalla sola fede, viene colta dalla ragione. Qui, però, s’innesta una classica questione del pensiero teologico: com’è possibile cogliere il senso di una sostanza infinita da parte di una sostanza finita? Alla luce di questa difficoltà, come si realizza il progetto (razionale) del teologo aostano? Appare un’unica strada possibile: «si capisce subito come l’intenzione del nostro pensatore sia quella di formulare una dimostrazione per confutazione» (p. 81), di dare vita «al classico procedimento elenctico» (p. 81) in virtù del quale «per provare la verità di una determinata tesi si dimostra la contraddittorietà della tesi opposta» (p. 81). Il metodo seguito da Anselmo è, cioè, quello di confutare l’argomento opposto a quello che si sostiene, si dimostra la verità del proprio solo perché si dimostra incoerente, ossia contraddittorio, quello contrario. Il mezzo seguito è, allora, il ricorso alla confutazione dell’avversario dialettico, un mezzo che assume le sembianze dell’insipiens, confutando la tesi, opposta alla propria, la quale nega l’esistenza divina, si dimostra che Dio esiste. A ben vedere, è una dimostrazione indiretta, il cui procedimento elenctico evita alcune grandi difficoltà relative alla (non-) conoscenza di cosa sia Dio.

Il ruolo principale nell’argomento elenctico è svolto dall’insipiens, da colui che dice in cuor suo “Dio non esiste”. Ma chi è l’insipiente? Solo uno che non sa (che Dio esiste)? Prendendo in considerazione un’ottica storicista, è corretto affermare come «l’insipiens non sia né un razionalista logico sul tipo dei logici pagani (es. gli aristotelici e gli scettici), né un ateo teorico che nega l’esistenza di Dio con precise argomentazioni (es. il sofista Prodico di Ceo), bensì l’archetipo dell’ateismo pratico, cioè di chi ritiene semplicemente di poter fare a meno di Dio nella propria vita quotidiana» (p. 83), colui il quale vive senza preoccuparsi dell’esistenza (o meno) di Dio. L’insipiente non sarebbe, allora, altro che la figura dell’indifferente. È attraverso l’insipiens che funziona la confutazione elenctica, è attraverso il ricorso alla prima mossa del negatore dell’esistenza di Dio che funziona la dimostrazione anselmiana. Infatti, pur negando l’esistenza divina, è ovvio che «l’insipiente intende il significato linguistico delle parole» (p. 83). Quindi, l’insipiente è anche in grado di capire l’espressione aliquid quo maius cogitari potest, che Anselmo utilizza per riformulare il concetto di Dio e con la quale si obietta al non credente. Nel momento stesso in cui l’insipiente «capisce il significato di tale espressione diventa evidente che tale idea esiste quanto meno nella sua mente» (p. 84), sebbene egli continui a negare l’esistenza reale di Dio. Ma se Dio, in quanto ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, esiste nell’intelletto deve di necessità esistere anche nella realtà, altrimenti, infatti, quanto potrebbe esistere nella realtà sarebbe maggiore di quanto esiste nel solo intelletto, con la conseguenza che non sarebbe vero quanto stabilito in precedenza, che quello che esiste nell’intelletto è ciò di cui non è pensabile nulla di più grande. In altre parole, è contraddittorio di Dio «ammettere la sua esistenza ideale senza contestualmente riconoscerne l’esistenza reale» (p. 84). Infatti, se è vero «che esistere nella realtà comporta una perfezione maggiore dell’esistere soltanto nel pensiero (un ente reale è cioè maggiormente perfetto di un ente unicamente ideale), allora non è possibile sostenere che «ciò di cui non si può pensare il maggiore» sussiste esclusivamente nella mente, poiché un ente analogo che esistesse anche nella realtà risulterebbe maggiore di esso, il che è assurdo» (p. 84). Anselmo chiama ad agire il principio logico di (non-) contraddizione nella sua dimostrazione per confutazione: non è possibile che Dio sia e non sia, allo stesso tempo, ciò di cui non è possibile pensare nulla di maggiore. Ragion per cui si deve convenire che Dio esiste tanto idealmente (exsistentia in intellectu) quanto realmente (exsistentia in re).

Gli interpreti hanno anche colto una differenza tra il procedimento elenctico del secondo capitolo del Proslogion e la dimostrazione discussa nel terzo. Il primo, infatti, «procederebbe dal concetto di «essere perfettissimo» («ens perfectissimus») e presupporrebbe la convinzione che l’esistenza reale è una perfezione maggiore della sola esistenza mentale» (p. 86), mentre la seconda «si baserebbe invece sull’idea di «essere necessario» («ens necessarium») e si sostanzierebbe nella conclusione logica secondo cui un ente necessario, se è possibile, non può non esistere» (p. 86). In realtà, v’è continuità tra le due dimostrazioni.

La dimostrazione in oggetto può venir articolata in due momenti distinti, ma collegati:

[prima argomentazione]

  1. premessa maggiore: l’insipiens comprende cosa s’intenda quando ascolta la nozione di Dio come Id quo maius cogitari nequit («Ciò di cui non si può pensare il maggiore»);
  2. premessa minore: ciò di cui si comprende il significato esiste nell’intelletto;
  3. conclusione: anche l’insipiens deve ammettere che il concetto di Dio quale Id quo maius cogitari nequit esiste nel suo intelletto.

[seconda argomentazione]

  1. premessa maggiore: ciò che esiste tanto nel pensiero quanto nella realtà è maggiore di ciò che esiste soltanto nel pensiero;
  2. premessa minore: se ciò di cui non si può pensare il maggiore (Dio) esistesse nel solo pensiero, allora si avrebbe una contraddizione (poiché si potrebbe pensare qualcosa ad esso maggiore che esista sia nel pensiero sia nella realtà) così che il Quo maius nello stesso tempo sarebbe e non sarebbe il Quo maius;
  3. conclusione: poiché la contraddizione non è logicamente ammessa, ciò di cui non si può pensare il maggiore (Dio) deve esistere tanto nel pensiero quanto nella realtà.

Formalmente palando, la dimostrazione per confutazione formulata da Anselmo è sicuramente valida perché «rispetta i criteri classici del procedimento elenctico» (p. 92). L’insipiens è, allora, colui il quale «nega Dio senza rendersi conto dei risvolti illogici della sua affermazione» (p. 93). Anche lui che nega deve ammettere di possedere nella mente (ossia, idealmente) il concetto di Dio.

Le due distinte argomentazioni possono essere unificate in un solo ragionamento:

  1. se ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste nel pensiero, allora deve necessariamente esistere anche nella realtà, altrimenti non sarebbe ciò di cui non si può pensare il maggiore;
  2. ma ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste nel pensiero;
  3. dunque, ciò di cui non si può pensare il maggiore (Dio) esiste necessariamente anche nella realtà.

In questo modo, l’unum argumentum assume la forma di un unico ragionamento basato sulla regola del Modus Ponendo Ponens, venendo a costituirsi secondo lo schema del condizionale (seallora). Ciò significa che il metodo dimostrativo anselmiano «confuta tramite contraddizione la tesi contraria a quella che si vuole dimostrare» (p. 95). Questa dimostrazione, poggiante su una considerazione a priori della nozione di Dio quale ciò di cui non è possibile pensare alcuno di maggiore, com’è noto, suscitò le obiezioni del monaco Gaunilone le quali possono essere sintetizzate nel modo seguente: (1) non è sufficiente avere in mente l’idea di Dio perché questa assuma direttamente consistenza oggettiva; (2) non è ammissibile il passaggio diretto dall’esistenza ideale (exsistentia in intellectu) all’esistenza reale (exsistentia in re). Ovvero, comprendere il significato di qualcosa non vuol dire che, di necessità, lo stesso esista nella realtà (es. se penso alle Isole fortunate, ciò non vuol dire che il loro essere nella mia mente comporti che esistano anche nella realtà). Le risposte di Anselmo confermano la sua idea alla base del Proslogion. In altri termini, Anselmo si limita a confermare in linea generale «le sue tesi per cui la comprensione del quo maius con l’intelletto è da intendersi come una forma di esistenza mentale […] e la legittimità del passaggio logico dalla sua esistenza ideale all’esistenza reale» (p. 103). In realtà, secondo Timossi la novità dell’impostazione anselmiana è da ritrovare non tanto nel secondo e nel terzo capitolo del Proslogion, ove non si trovano «due distinte argomentazioni logiche dell’esistenza di Dio» (p. 105), quanto piuttosto nella risposta a Gaunilone ove «per la prima volta compare l’argomento fondato sulla natura stessa dell’Ente perfettissimo» (p. 105) secondo il quale «se Dio è concettualmente possibile (ossia è ragionevole concepirne l’esistenza) allora necessariamente esiste» (p. 105). Si tratta della prima compiuta affermazione dell’«argomento ontologico», in virtù del quale si ha una dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio. Tale argomentazione (la cui forma simbolica è il seguente condizionale: ◊D⊃□D; “se è possibile che Dio esista, allora Dio esiste necessariamente”) poggia sulla (particolare) concezione anselmiana di Dio, secondo la quale la Sua essenza «implica un’esistenza sine initio» (p. 106), vale a dire «un’esistenza necessaria e senza tempo, al contrario di quanto accade per gli enti contingenti che hanno avuto un inizio spazio-temporale» (p. 106). Se a tale essenza necessaria «attribuiamo la caratteristica della «pensabilità», ossia della «non contraddittorietà» o della «possibilità logica», non possiamo non concludere secondo ragione che tale ente esiste necessariamente senza cadere in contraddizione» (p. 106).

Quel che può fare problema, o suscitare qualche perplessità, e nel corso del tempo lo fece, è invece l’unione dei piani (distinti) del pensiero (ossia della «logica») e della realtà (ossia dell’«essere»). È esattamente questa difficoltà a muovere le obiezioni di Gaunilone, così come dei suoi epigoni moderni.

Parimenti, è proprio l’equipollenza del piano logico e del piano ontologico a suscitare il maggior interesse nei confronti della ratio anselmiana. Quel che, invece, non suscita difficoltà logiche è la natura elenctica della dimostrazione: la possibilità di Dio, a livello ideale, non è incoerente con il resto delle credenze che abbiamo, siamo, cioè, coerenti in ciò. In altre parole, «se il concetto stesso di Dio implica necessariamente la sua esistenza e se tale concetto è conforme alle nostre conoscenze razionali, ne segue logicamente che noi non potremo concepire Dio se non come realmente esistente, altrimenti non sarebbe l’Ente dall’esistenza necessaria da noi pensato» (p. 106). In proposito, l’autore osserva come il procedimento qui adoperato non sia più elenctico e la nozione di Dio adoperata non sia più comprensibile anche per l’ateo, ma si tratta di presupposizioni che attingono direttamente al corpus dottrinale confessionale. Resta comunque fermo che la replica anselmiana alle obiezioni si basi sull’assenza di difficoltà nel vedere conciliare il credo religioso con l’indagine razionale: «bisogna prima credere per poter intendere, dopodichè ciò in cui si crede può essere meglio inteso con l’ausilio del nostro intelletto» (p. 107).

Una chiave di lettura di tale andamento può essere la seguente: Anselmo vive il passaggio epocale dalla Patristica alla Scolastica. Quindi, nel suo pensiero vi sono «tanto una ricapitolazione della tradizione platonico-agostiniana, quanto un inizio del metodo della Scolastica fondato sul ricorso alla ragione nella comprensione della fede» (pp. 108-9). Infatti, il Proslogion mostra questa tensione tra la «ricerca interiore» (p. 109) di Dio e la «riflessione razionale» (p. 109). Non a caso, infatti, le interpretazioni posteriori si appunteranno proprio sulla necessità di catalogare l’argumentum anselmiano: «è filosofico? È teologico? Oppure è soltanto misticismo?» (p. 109).

L’effetto immediato della dimostrazione anselmiana è certamente lo sconcerto: «provare con la forza del solo pensiero che il Quo maius esiste sia nella mente sia nella realtà rappresentava un fatto del tutto straordinario e inaspettato» (p. 111).

L’argomento ontologico anselmiano, come detto, esercitò una profondissima influenza sui posteriori tanto che venne più volte ripreso, sia in chiave elogiativa sia in chiave critica, nel corso degli anni sino ai giorni nostri.

Il primo a riprendere l’argomentazione di Anselmo fu Guglielmo d’Auxerre, seguito da Alessandro di Hales secondo il quale «Dio è il sommo bene che per sua natura non può esistere nel solo intelletto e non può essere pensato non esistente» (p. 112). Attraverso la mediazione di Alessandro di Hales l’argomentazione anselmiana ha trovato terreno fecondo presso i francescani, soprattutto in Bonaventura da Bagnoregio. Resta, comunque, assente in questi epigoni quello che è l’aspetto principale, e più importante, della prova formulata da Anselmo: l’articolazione «logica». Una sua ripresa invece si avrà con Giovanni Duns Scoto. In più, egli introduce un elemento nuovo: il filosofo scozzese ritiene necessario affermare che «se Dio è pensabile senza contraddizione, allora è anche possibile» (pp. 115-6). Il ragionamento scotiano è il seguente:

  1. se Dio è pensabile senza contraddizione (ossia, è possibile), allora non si può pensare qualcosa di maggiore senza contraddirsi;
  2. ma Dio è pensabile senza contraddizione (ossia, è possibile);
  3. dunque, non si può pensare qualcosa di maggiore di Dio senza contraddirsi.

Lo schema seguito, anche in questo caso, è quello del Modus Ponendo Ponens: (1) posta la condizione x, segue y (se x, allora y); (2) (ma) si verifica x; (3) (allora) si avrà y.

La medesima prova scotiana può essere considerata nei termini seguenti: (i) si dimostra che la nozione di un Ente primo incausato non è contraddittoria e che pertanto Dio è possibile; (ii) si spiega la ragione per cui se Dio è possibile, allora deve realmente esistere; (iii) si richiama, correggendola, la prova anselmiana per affermare che se Dio è pensabile senza contraddizione, allora non si può concepire niente di maggiore.

In altri termini, Duns Scoto afferma che:

  1. Se Dio è possibile (ossia, non contraddittorio), allora esiste;
  2. Ma Dio è possibile;
  3. Dunque, Dio esiste.

Come si vede, Scoto si serve nella sua dimostrazione, di nozioni modali le quali verranno utilizzate, per i medesimi fini, soltanto con Leibniz.

A causa dell’influenza di Tommaso d’Aquino e, in particolare, della sua opinione negativa nei confronti delle prove a priori, la ratio Anselmi verrà ripresa soltanto nel ’400 in Niccolò da Cusa il quale definisce Dio il «massimo assoluto» (p. 120), derivandone l’esistenza a partire da assiomi.

In seguito, Cartesio, procedendo dal suo complessivo impianto epistemico, considera Dio un’idea «chiara e distinta». Il suo cogito, secondo Timossi, non sarebbe un sillogismo ben congegnato, che unisce tre termini, pensare, dubitare, essere, ma «è il primo grande tentativo filosofico di risolvere la conoscenza del mondo all’interno della stessa mente umana» (pp. 122-3), di «prescindere dalle ingannevoli esperienze sensibili e fondare la certezza sul puro pensiero» (p. 123), su «idee chiare e distinte, di per sé evidenti e frutto di un procedimento intuitivo-deduttivo» (p. 123). Pertanto, la ripresa dell’argomento ontologico in Cartesio è influenzata dalla matrice metafisica del filosofo francese. Se in Anselmo poteva fare difetto la certezza dell’esistenza di chi pensava (e aveva, dunque, in sé l’idea di Dio quale Quo maius), il cogito cartesiano fonda la certezza dell’esistenza del pensiero umano. Una volta che si disponga della certezza che il pensiero esiste, si è anche certi che esistano i suoi oggetti. Cartesio «non può non essere più che sicuro dell’esistenza reale delle idee nell’intelletto» (p. 123) e tra queste si colloca l’idea di Dio. L’idea innata, ossia a priori, di Dio viene discussa da Cartesio nella quinta meditazione metafisica, ove la si esprime attraverso «sei concetti fondamentali» (p. 129): (1) l’idea di Dio è spontaneamente presente nella nostra mente in maniera chiara e distinta; (2) l’idea di Dio presente nella nostra mente è quella di un essere perfettissimo; (3) le idee chiare e distinte sono certe come quelle della matematica; (4) un’idea chiara e distinta corrisponde all’essenza di un ente; (5) l’esistenza è una perfezione; (6) l’essenza di Dio ente perfettissimo include necessariamente l’esistenza. Come si vede, allora, è Cartesio il primo ad includere, almeno in maniera esplicita, nella prova ontologica la nozione di ‘esistenza’ come perfezione (essendo Dio la summa delle perfezioni non può non esistere perché verrebbe a mancare una delle perfezioni) sulla quale si appunteranno le critiche di Kant.

Questi sei concetti possono, combinati tra loro, dare luogo a tre differenti ragionamenti:

[Prima_prova]

  1. Tutte le idee chiare e distinte sono certamente vere;
  2. L’idea di Dio come essere perfettissimo è chiara e distinta;
  3. Dunque, l’idea di Dio come essere perfettissimo è certamente vera.

[Seconda_prova]

  1. Se l’essenza di Dio è veramente quella di un essere perfettissimo, allora deve appartenerle necessariamente l’esistenza (dato che l’esistenza è una perfezione);
  2. Ma l’essenza di Dio è veramente quella di un essere perfettissimo;
  3. Dunque, all’essenza di Dio appartiene necessariamente l’esistenza.

[Terza_prova]

  1. Se l’essenza di Dio non può essere concepita senza l’esistenza, allora Dio esiste realmente;
  2. Ma l’essenza di Dio non può essere concepita senza l’esistenza;
  3. Dunque, Dio esiste realmente.

Le tre prove sono tra loco concatenate. Infatti, il passo (II) corrisponde alla conclusione della prima prova, così come il passo (2) corrisponde alla conclusione della seconda prova. Ciò vuol dire che le tre prove sono tre momenti mediante i quali si giunge alla dimostrazione dell’esistenza reale di Dio, a partire dalla nozione di Dio quale «idea chiara e distinta». In questo modo, Descartes può dire che «non è il nostro pensiero ad imporre o immaginare l’esistenza di un essere perfettissimo, ma è la natura stessa di Dio ad obbligare la nostra mente a intenderla come realmente esistente» (p. 131). Tuttavia, bisogna prestare attenzione alla diversità concettuale tra Anselmo e Cartesio altrimenti si finisce con assimilare «l’argomento ontologico cartesiano alla ratio Anselmi» (p. 132), richiamando in essere l’obiezione di Gaunilone (e tomista) all’illecito passaggio dalla ratio cognoscendi alla ratio essendi, «dall’ordine del pensiero o delle idee all’ordine dell’esistenza reale» (p. 132).

La dimostrazione cartesiana può essere ridotta ad un solo sillogismo:

  1. Tutto ciò che è concepito chiaramente e distintamente dell’essenza di un ente è vero;
  2. Dio è concepito chiaramente e distintamente come esistente per propria essenza;
  3. Dunque, Dio esiste veramente.

Come si vede, è mediante la propria concezione della natura delle idee (e, conseguentemente, del pensiero) che Cartesio elabora la propria dimostrazione. In questa impostazione, è anche possibile cogliere la profonda distanza dalla ratio Anselmi. È, dunque, possibile riformulare ancora una volta tale dimostrazione sostituendo alla nozione di perfezione quella di onnipotenza e introducendo connotazioni modali della natura divina. Così, si ha:

  1. Ciò che esiste per forza propria esiste necessariamente;
  2. L’ente sommamente possente (Dio) esiste per forza propria;
  3. Dunque, l’ente sommamente possente esiste necessariamente.

Quanto è stato detto in precedenza vale anche in questo caso: la natura del ragionamento, basandosi sulla forma inferenziale del Modus Ponendo Ponens, consente di derivare una conclusione che appare necessariamente dedotta dalle due premesse, ma questa necessità nulla può dire intorno alla (ipotetica) natura necessaria divina. In altri termini, che il ragionamento sia cogente non vuol dire che anche (l’esistenza di) Dio lo sia effettivamente. Per di più, è quanto mai opportuno osservare che la prova ontologica cartesiana non segue «il procedimento dialettico o elenctico privilegiato da Anselmo d’Aosta, bensì quello sintetico della geometria euclidea» (p. 137). Ciò ha l’infausta conseguenza che mentre il procedimento confutatorio della prova anselmiana è garanzia rispetto a (possibili) accuse di petitio principii, il procedimento (genetico) della prova cartesiana può benissimo incorrervi, assumendo all’inizio dell’argomentazione quanto intende provare con la conclusione. Ciò spinge a credere che mentre è valida la natura logica della presente prova, debole è la sua conseguenza metafisica: che Dio esista o no resta dubbio.

Tuttavia, il medesimo procedimento seguito da Cartesio, viene ripreso dai successivi epigoni della dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio. Il primo fu certamente Spinoza. Egli risolvendo «nella maniera più radicale» (p. 146) il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa ritiene (panteisticamente) che esista un’unica realtà «il cui concetto non ha bisogno di altro da sé per esistere» (p. 146). In maniera geometrica, allora, seguendo anch’egli la regola del Modus Ponendo Ponens, formula nei termini seguenti la sua prova:

  1. Se qualcosa è inteso chiaramente e distintamente dell’essenza di una cosa, allora appartiene veramente a quella cosa;
  2. Ma l’esistenza è intesa in modo chiaro e distinto come appartenente all’essenza di Dio;
  3. Dunque, l’esistenza appartiene veramente a Dio (ossia Dio esiste veramente).

Questa prova può essere formulata nella seguente: (x) Le essenze degli enti sono eterne e immutabili; (y) L’esistenza è l’essenza di Dio; (z) Dunque, l’esistenza di Dio è eterna e immutabile.

Quella spinoziana, allora, è una «dimostrazione dell’esistenza necessaria di Dio, poiché affermare che la natura eterna e immutabile di Dio implica l’esistenza significa sostenere che i concetti di «Dio» e di «essere» coincidono» (p. 149), ossia Dio non può non esistere. In questo modo, pur riprendendo la filosofia cartesiana, viene condotta alle estreme conseguenze l’unità di pensiero e realtà soggiacente nella forma mentis medievale, e che ispira la teologia anselmiana alla base dell’omonima prova: perfetta coincidenza tra ordo idearum e ordo rerum. Dunque, se l’argomentazione stabilisce che Dio esiste veramente, (certamente) Egli esiste realmente.

Malebranche, prendendo le mosse dalla necessità di trovare una soluzione al dualismo cartesiano, perviene all’idea di una conoscenza immediata di Dio il cui carattere è quello della certezza. Quest’ultima, pur avendo una genesi ideale, vale anche nella realtà. Pertanto, se Dio è necessario nel pensiero, allora è necessario anche nella realtà. Quest’esito non può che suscitare perplessità, soprattutto da parte di Berkeley: se il presupposto è in qualche modo la riduzione della realtà alle idee, perché non negare del tutto l’esistenza di corpi? Cartesio aveva il dubbio del rapporto tra due realtà certe, il «pensiero» e l’«essere», Malebranche pretende di risolverlo non negando quest’ultimo, ma attribuendo maggiore importanza al primo.

Tuttavia, è bene osservare come l’elaborazione cartesiana della ratio Anselmi consente di coglierne una natura «modale» quasi obliata nei secoli. Le prove innatiste, in altri termini, connettono le proprietà della necessità e della possibilità al fine di assicurare (non solo la plausibilità, ossia la possibilità dell’esistenza di Dio, ma anche) la necessità dell’esistenza reale della divinità. Così, la «prova ontologica dei cartesiani presenta dunque come cardine il concetto di «essere necessario» e la conseguente constatazione che l’esistenza è un requisito indispensabile per poter affermare la natura necessaria di qualsiasi ente, altrimenti si tratterebbe soltanto di un essere contingente» (p. 169).

Con Leibniz e con Locke, rispettivamente, sarà possibile osservare una ripresa entusiastica e un rifiuto della versione modale dell’argomento ontologico. Forse, è anche necessario dire come nel caso di Locke oggetto vero e proprio del rifiuto non sia tanto l’argomento dell’esistenza reale di Dio quanto la presupposizione secondo la quale le idee innate siano condizioni necessarie e sufficienti di conoscenza rigorosa.

In Cudworth l’argomento ontologico presenta la seguente forma:

  1. Se di qualcosa possediamo un’idea in sé non contraddittoria, allora esso o esiste oppure (se non esiste) può esistere in futuro;
  2. Ma di Dio possediamo un’idea in sé non contraddittoria;
  3. Dunque, Dio o esiste oppure (se non esiste) può esistere in futuro.

Il fondamento innatista dell’argomentazione possiede una natura platonica secondo la quale la coerenza di un’idea attesta la sua possibilità, reale o futura. In questo modo, dato che tutti noi possediamo di Dio un’idea non contraddittoria, ossia coerente, dobbiamo riconoscere che Dio possa esistere, o attualmente o in futuro. Il fulcro della tesi di Cudworth è, dunque, il riconoscimento di una corrispondenza tra la possibilità logica, la quale si configura in genere nei termini di coerenza (epistemica), e la possibilità ontologica, la quale si configura in genere nei termini di un’apertura sull’essere. In questo modo, l’accertamento della possibilità epistemica dell’idea di Dio consente di dedurre la possibilità d’essere di Dio, se non nel tempo attuale perlomeno in un (imprecisato) tempo futuro. Come si vede, l’impostazione di Cudworth, pur differente da quella cartesiana e di Anselmo, presenta caratteri di entrambi. Dalla prima deriva l’equipollenza tra il piano ideale e il piano reale, dalla seconda il nesso tra le possibilità ideale e reale. Lo stesso argomento viene anche riformulato nei termini seguenti:

  1. Se Dio è l’essere eterno e necessariamente esistente, allora non può non esistere (altrimenti se non esistesse o esistesse in futuro si avrebbe una contraddizione);
  2. Ma Dio è l’essere eterno e necessariamente esistente;
  3. Dunque, Dio non può non esistere (ossia esiste necessariamente).

In questa nuova formulazione vengono esplicitati alcuni presupposti della precedente. Infatti, dal piano esclusivamente logico, ossia «ideale», si deriva che un’idea (necessaria) di Dio comporta la necessità di concludere che Dio non può non esistere. L’argomentazione di Cudworth è criticabile seguendo Locke stesso. Infatti, il passo (b) della seconda argomentazione è fonte di dubbio: davvero la definizione di Dio quale essere eterno e necessariamente esistente è universalmente condivisa dagli esseri umani?

Rispetto alle critiche di Locke (e di Kant), comunque, una ripresa “forte” dell’equipollenza idealità-realtà si trova in Leibniz il quale rafforza un’interpretazione modale dell’argomento anselmiano, secondo la ben nota idea metafisica dell’«armonia prestabilita» (la quale, a sua volta, trova giustificazione in una profonda, ancorché non riconosciuta come tale, teodicea). In Leibniz la prova ontologica «si colloca infatti al crocevia tra la sua logica e la sua metafisica» (p. 180). Tuttavia, la novità rilevante è il «ricorso a dei simboli grafici» (p. 181), ad una notazione simbolica, fortemente affine al procedere della moderna logica simbolica, tale da trasformare il ragionamento logico «in un vero e proprio calcolo algebrico» (p. 181). Pertanto, se l’esistenza di Dio è argomento di vivaci discussioni, ricorrendo al calculemus è possibile dirimere la polemica. Sappiamo, comunque, che a dispetto delle fecondi intuizioni del filosofo tedesco la formalizzazione algebrica del ragionamento umano non è sufficiente a comporre dissidi né tantomeno a costruire un linguaggio simbolico universale capace di render conto delle molteplici forme e sfumature del «mondo della vita».

È interessante osservare come Leibniz formuli una distinzione molto affine a quella vichiana di «verità di ragione» e «verità di fatto», tra «una forma di inferenza che produce verità necessarie» (p. 183) e un’altra «che invece produce verità contingenti o non necessarie» (p. 183), le prime sono le «verità logiche tipiche delle scienze dimostrative» (p. 183) (p. e. la geometria), mentre le seconde sono «le verità di fatto delle scienze valide solamente sino a prova contraria» (p. 183). Nonostante la grande distanza, cronologica e culturale, che ci separa da Leibniz, siamo tenuti ad ammettere come la proposta del filosofo tedesco sia ingegnosa e feconda. Infatti, così stando la struttura generale del pensiero leibniziano, la metafisica per intero viene fondata «sui principi logici di non contraddizione e di ragion sufficiente» (p. 183). Il fulcro della prova è semplice: se la nozione di Dio è coerente, ossia non contraddittoria, allora Dio esiste realmente. La natura modale di questo argomento è presto detta. La non contraddittorietà di una nozione equivale alla sua possibilità (altrimenti sarebbe impossibile, ossia del tutto infondata). Se qualcosa è possibile, allora esiste di necessità, altrimenti non sarebbe possibile. In logica modale valgono, per l’appunto, i seguenti principi: (1) ◊p⊃p; e, (2) □p⊃◊p. A questi due, alcune versioni forti, le quali ammettono l’iterazione modale, introducono un ulteriore principio secondo il quale: (3) □◊p⊃◊□p. Di conseguenza, è proprio il carattere della possibilità a consentire la derivazione finale secondo la quale l’esistenza di Dio è reale (ossia, necessaria). Se, infatti, una nozione di Dio è possibile il fatto che realmente tale nozione non esplichi i suoi effetti comporta confutare la medesima natura del «possibile». Se qualcosa è possibile, allora “deve” esistere (altrimenti non è possibile, ma impossibile).

In metafisica, «la possibilità corrisponde alla contingenza, l’impossibilità al puro non essere e la necessità ad un ente che non può non esistere» (p. 187). Quindi, Leibniz, basandosi sul presupposto secondo il quale l’essenza di Dio implica l’esistenza necessaria «prima ne dimostra la possibilità e poi ne afferma per deduzione logica l’esistenza reale» (p. 187). Ciò perché «Dio se è possibile, non può dunque non esistere, dal momento che la sua essenza non è mai separabile dalla sua esistenza» (p. 188).

Per Timossi, il filosofo tedesco fornisce almeno tre presupposizioni tra loro concatenate della prova ontologica. Queste sono le seguenti:

(P1)

  1. Siano A e B due perfezioni;
  2. Si formuli la seguente proposizione «A e B sono incompatibili»;
  3. Ipotesi: A e B sono irresolubili (ossia non possono essere ridotti ad altro o ulteriormente scomposti, essendo qualità semplici o elementari);
  4. Tuttavia, se la proposizione «A e B sono incompatibili» fosse vera, allora sarebbe dimostrabile;
  5. Ma la proposizione «A e B sono incompatibili» non è dimostrabile;
  6. Dunque, la proposizione «A e B sono incompatibili» è falsa.

Tale ragionamento mostra come due perfezioni siano tra loro perfettamente compatibili. Il concetto di compatibilità equivale a quello di «coesistenza possibile», in forza del quale prende forma la seconda formulazione:

(P2)

  1. Se la proposizione «A e B sono incompatibili» è falsa, allora A e B possono coesistere nello stesso soggetto;
  2. Ma la proposizione «A e B sono incompatibili» è falsa [conclusione di (P1)];
  3. Dunque, A e B possono coesistere nel medesimo soggetto.

La conclusione del secondo argomento consente, pertanto, l’esistenza di un Essere massimamente perfetto «che includa in sé tutte le perfezioni, ivi compresa l’esistenza reale» (p. 190).

In altri termini, (P2) può essere riformulata come segue:

  1. Se l’Essere massimamente perfetto è possibile, allora esiste (poiché l’esistenza è compresa nel numero delle perfezioni);
  2. Ma l’Essere massimamente perfetto è possibile;
  3. Dunque, l’Essere massimamente perfetto (Dio) esiste.

In Leibniz agiscono evidentemente due presupposti “metafisici”: 1) tutto «deve essere considerato come possibile sino a prova contraria» (p. 193); e, 2) «l’essenza di un qualsiasi ente non è altro che la sua possibilità di esistere» (p. 193). Una volta accettati come veri questi presupposti «siamo in grado di dimostrare da un lato che un essere la cui essenza implica l’esistenza è possibile e dall’altro che tale essere necessariamente esiste» (p. 193), altrimenti l’idea di Ens necessarium resta semplicemente l’idea di un ente come quelle di tanti altri «la cui corrispondenza o meno con la realtà va verificata tramite le osservazioni empiriche» (p. 194). In questo modo, la versione leibniziana dell’argomento ontologico «diventa obiettivamente efficace» (p. 194). Infatti, se si ammette che il concetto di un Essere necessario, ossia un ente che basta a sé stesso per poter esistere, non è contraddittorio, allora «si deve ammettere che esso esiste necessariamente, poiché la sua essenza implica l’esistenza» (p. 194), sostenere il contrario, allora, «significa cadere in contraddizione e quindi ragionare in modo illogico» (p. 194).

Nei testi leibniziani, sostiene Timossi, è possibile, a questo punto, rinvenire due differenti argomentazioni che vengono disposte nella maniera seguente:

[Leibniz1]

  1. Se l’Ens a se (ossia, l’Essere necessario) è impossibile, allora sono impossibili tutti gli esseri contingenti;
  2. Ma gli esseri contingenti sono possibili;
  3. Dunque, l’Ens a se è possibile.

[Leibniz2]

  1. Se l’Ens a se (ossia, ciò che esiste per essenza) è possibile, allora esiste;
  2. Ma l’Ens a se è possibile [il passo (c) dell’argomentazione [Leibniz1]]
  3. Dunque, l’Ens a se (ossia, l’Essere necessario) esiste.

La forma del ragionamento [Leibniz1] è la nota struttura logica del Modus Tollendo Tollens. Infatti, posto che ad A segue B, dato che si dà non-B, segue non-A.

La forma del ragionamento [Leibniz2], invece, utilizza la regola del Modus Ponendo Ponens. Infatti, posto che ad A segue B, dato che si dà A, segue B.

In questo modo, il filosofo tedesco giunge all’agognato desiderio: dimostrare logicamente l’esistenza di Dio.

Posto che nell’ontologia leibniziana esistere in virtù della propria essenza equivale ad esistere in virtù della propria possibilità e che «l’Ens a se e l’Essere necessario sono la stessa cosa» (p. 196), si può riformulare nella maniera seguente l’argomentazione leibniziana:

[Leibniz3]

  1. Se l’Essere necessario è possibile, allora esiste;
  2. Ma l’Essere necessario è possibile [come dimostrato con [Leibniz1]]
  3. Dunque, l’Essere necessario esiste.

La regola seguita in questa argomentazione [Leibniz3] è quella del Modus Ponendo Ponens: posto che se si dà A (“Se l’Essere necessario è possibile”) segue B (“allora l’Essere necessario esiste”), si dà A, dunque segue B.

La natura “logica” della dimostrazione leibniziana trova la propria forza (e fondamento) nella presupposizione seguente: «stabilito infatti l’assioma per cui Dio è l’Essere necessario la cui essenza implica l’esistenza e stabilito altresì che l’Ens a se non è contraddittorio (ossia è possibile), per via deduttiva si è ricavato logicamente come in un calcolo matematico che l’Essere necessario esiste» (p. 196).

Leibniz esercitò una profonda influenza sui pensatori immediatamente posteriori «i quali ripresero e riformularono l’argomento ontologico partendo dalla stessa convinzione che la semplice possibilità o non contraddittorietà di Dio ne implichi l’esistenza necessaria» (p. 200). È il caso di Wolff, Baumgarten e Mendelssohn. In Wolff «il possibile, l’impossibile e il necessario logici coincidono dunque con il possibile, l’impossibile e il necessario ontologici» (p. 203). È per via dell’equipollenza, ritenuta valida dalla filosofia dogmatica, tra dominio logico e dominio ontologico che si ritiene possibile dimostrare logicamente l’esistenza reale di Dio. Sarà proprio la mancanza di tale identità a spingere Kant non solo a respingere la prova ontologica, ma anche a criticarla. Inizialmente, Wolff formula il seguente ragionamento:

[Wolff1]

  1. Per tutti gli enti l’essenza coincide con la possibilità;
  2. L’Ens a se esiste perché la sua essenza implica l’esistenza;
  3. Dunque, l’Ens a se esiste perché possibile.

Successivamente, riprende l’argomentazione elenctica di Anselmo, producendo la seguente nuova forma della propria dimostrazione:

[Wolff2]

  1. L’Ens perfettissimus è possibile;
  2. l’Essere perfettissimo è Dio;
  3. Dio esiste necessariamente.

Infine, Wolff propose la seguente ulteriore argomentazione:

[Wolff3]

  1. Dio è l’Essere a sé (Ens a se);
  2. L’Essere a sé esiste in quanto è possibile;
  3. Dunque, Dio (l’Ens a se) esiste in quanto è possibile.

In Baumgarten vengono utilizzati dei principi (logici) chiamati a sorreggere la struttura dimostrativa: «il principio di non contraddizione; i concetti di «possibile», «impossibile» e «necessario»» (p. 211).

Così, egli formula la propria argomentazione:

[Baumgarten]

  1. «Necessario» è ciò il cui contrario risulta in sé impossibile;
  2. La non esistenza di Dio è in se stessa impossibile;
  3. Dunque, l’esistenza di Dio è in sé necessaria.

Sulla stessa scia, Mendelsshon formula la propria dimostrazione come segue:

[Mendelsshon]

  1. Se l’Essere perfettissimo non contiene nella propria nozione alcunché di contraddittorio, allora deve esistere necessariamente;
  2. Ma l’Essere perfettissimo non contiene nella propria nozione alcunché di contraddittorio;
  3. Dunque, l’Essere perfettissimo (Dio) esiste necessariamente.

In quest’ultimo caso, la regola seguita è quella del Modus Ponendo Ponens.

Le proposte di questi ultimi tre pensatori, esattamente come (parzialmente) quelle di Cartesio e dello stesso Leibiniz, soprattutto di quest’ultimo, devono fare i conti con il «problema modale della prova ontologica» (p. 221) consistente nella difficoltà di considerare legittimo il «passaggio dalla possibilità logica alla possibilità ontologica, dall’esistenza potenziale o ipotetica all’esistenza reale» (p. 221), difficoltà già presente in Anselmo e che la filosofia dogmatica non ha risolto. In effetti, la possibilità reale o ontologica «si riferisce all’ammissibilità dal punto di vista razionale dell’esistenza effettiva o futura di un determinato ente» (p. 225). La possibilità, infatti, dice soltanto che un dato ente può esistere come non esistere. Inoltre, non garantisce che un ente esista oggi ed anche domani, anzi potrebbe darsi il caso che non esista oggi ed esista domani. Diverso è il caso della necessità, per il quale più forte è l’impegno ontologico: qualche ente necessario è un ente che è e non può non essere. In questo senso, infatti, «potere: essere» e «necessario: essere» significano, rispettivamente, «potere: esistere» e «necessario: esistere». La modalità, nel caso presente, fonda la considerazione ontologica, costituisce una vera e propria “logica dell’essere”.

La rassegna della storia dell’argomento ontologico, dunque, benché non ancora conclusa, sembra presentare già un risultato “forte”: la prova a priori è impossibile perché non è possibile il salto che propone dal piano logico al piano esistenziale. Questo è, infatti, il nocciolo delle obiezioni (e delle stroncature) che nei secoli sono state offerte, a cominciare dal famoso monaco Gaunilone. Più incisiva è stata, invece, l’influenza tomista che ha condotto a ritenere comunque non valide le argomentazioni a priori, privilegiando la via a posteriori. Infatti, Tommaso ha proposto quinque viae per risalire all’esistenza divina. In realtà, l’enorme presa della filosofia tomista è indice di un profondo cambiamento nella leadership culturale del tempo: non più Platone, ma Aristotele viene considerato l’exemplum filosofico cui tendere. La Scolastica, infatti, si fonda su tale modello. È per questa via che Tommaso le seguenti critiche alla ratio Anselmi:

  1. la nozione di Dio quale «Id quo maius cogitari nequit» non è universale;
  2. anche ammesso che lo fosse, non si sarebbe autorizzati a concludere che esso esista effettivamente nella realtà;
  3. la semplice negazione dell’esistenza di Dio non implica necessariamente la possibilità di pensare qualcosa ad esso superiore.

Ciò comporta che «il passaggio da un’esistenza mentale ad un’esistenza reale è illecito» (p. 241) e che «non si dà contraddizione logica qualora si neghi l’esistenza reale di Dio dopo averne ammessa quella ideale, poiché si tratta di due livelli logici diversi e non immediatamente attinenti tra loro» (p. 241).

Anche Ockham critica la pretesa anselmiana poiché sarebbe impossibile «provare l’esistenza di Dio per via razionale» (p. 243), potendosi al massimo «formulare delle congetture su una causa prima» (p. 243), rimanendo irrisolto se tale causa prima «sia il Dio uno e trino della tradizione cristiana» (p. 244), «impossibile da dimostrare» (p. 244), che può solo «essere creduto per fede» (p. 244).

In epoca moderna, è Hobbes a muovere forti critiche alla ratio Anselmi. Per il filosofo inglese gli uomini non condividono la medesima nozione di Dio. Di conseguenza Egli può essere solo «un’ipotetica causa prima» (p. 247), parto della fede o dell’immaginazione che non può «trovare alcuna rispondenza nelle nostre conoscenze empiriche» (p. 247), non potendosi, dunque, dare «alcuna prova dell’esistenza di un Essere eterno» (p. 247). Lo stesso nominalismo spinge Hobbes a «contestare direttamente l’esistenza di un’essenza divina, dal momento che concetti come quello di Essere necessario sono per lui semplici nomi» (p. 247).

Toccò ad un altro filosofo inglese, Locke, muovere critiche analoghe all’argomento ontologico. Come Tommaso, egli prende le mosse dalla constatazione«della disparità dei punti di vista che regna nel consesso umano intorno alla natura e all’esistenza di Dio» (p. 248), utilizzandola quale «strumento di confutazione oggettiva dell’argomento ontologico» (p. 248). Se gli uomini non hanno de facto, e forse non possono avere nemmeno de jure, una nozione universale di’Dio’, non è possibile mettersi d’accordo sulla nozione (minima) di Dio quale «Id quo maius cogitari nequit», dato che è così sempre possibile qualcosa di maggiore (e, in termini di perfezione, di migliore). Venuta meno la (necessaria, in Anselmo) presupposizione dell’accordo minimo sulla nozione (da condividere) di Dio, viene meno la validità probante stessa dell’argomento ontologico: non è dimostrata l’esistenza di Dio, ma la possibilità dell’esistenza di qualcosa più estesa dell’intelletto umano. Beninteso, quella lockiana è sicuramente una confutazione degli esiti metafisici della ratio Anselmi, ma non è anche una confutazione della strutturazione logica della prova, la cui validità resta intatta.

Anche Gassendi assume a criterio di confutazione dell’argomento ontoteologico un presupposto ritenuto valido dai suoi formulatori. In questo caso, l’obiettivo polemico è il «problema dell’esistenza o meno di idee chiare e distinte» (p. 249) di Cartesio. Egli critica anche il privilegio accordato al metodo matematico quale garanzia della certezza «delle dimostrazioni razionali» (p. 249). Il presupposto scettico consente a Gassendi di criticare le dimostrazioni cartesiane poiché è «infelice il paragone tra l’esistenza necessaria di Dio in base alla sua essenza di Essere necessario e la necessità che per sua natura un triangolo presenti una somma prestabilita per i suoi angoli interni» (p. 250). La geometria, pur considerata ad esempio da Spinoza quale mirabile esempio di dimostrazione certa ed evidente, non è sufficiente a derivare conclusioni ontologiche.

La seconda critica di Gassendi dimostra come «sia sbagliato considerare l’esistenza una perfezione» (p. 250), perché in questo caso «si finirebbe inevitabilmente col cadere nell’errore logico della «petitio principii», poiché si darebbe per acquisita in premessa l’esistenza, mentre questa deve essere dimostrata nella conclusione» (p. 251). Il filosofo francese così respinge la tradizione agostiniana «che faceva dell’esistenza il massimo grado della perfezione» (p. 251). In questo modo, le critiche di Gassendi possono essere raccolte nei seguenti termini: (1) l’esistenza viene equiparata a una perfezione; (2) si confonde l’esistenza ideale con l’esistenza reale; (3) si cade in una petitio principii perché l’esistenza di Dio è data per acquisita piuttosto che essere derivata.

Un’altra penetrante critica viene presentata da Moore secondo il quale il punto debole dell’argomento ontoteologico risiede nell’erroneità del presupposto definitorio. Infatti, la definizione di un ente è sempre «un enunciato ipotetico rispetto all’esistenza» (p. 252), così quando «si afferma col pensiero l’esistenza di Dio, lo si fa sempre e soltanto in termini ipotetici» (pp. 252-3). Quindi, l’esistenza reale «non discende direttamente dalla definizione di Dio, ma casomai è la nozione di Dio che assume consistenza oggettiva dopo che se ne è verificata a posteriori la corrispondenza con la realtà» (p. 253).

Le critiche maggiori all’argomento anselmiano, comunque, vennero da Hume e Kant. Il primo attacca direttamente la strutturazione logica della prova, sostenendo come l’idea di Dio non possa in alcun caso avere una genesi empirica, ma è «un concetto prodotto dalla pura relazione tra idee del tipo di quelli della geometria o dell’aritmetica» (p. 263). Pertanto, una nozione di Dio che ne implichi l’esistenza «non potrà dunque mai costituire la premessa di un ragionamento logico che si concluda affermando la sua realtà effettiva o necessaria» (p. 263) perché «da semplici «relazioni di idee» non si produce mai un concetto concernente «materie di fatto»» (p. 263). L’adesione empirista conduce a criticare direttamente «il concetto di «esistenza necessaria» con il preciso intento di provarne l’insensatezza» (p. 266). In questo modo, emerge come l’argomento ontologico non ha tenuto «conto delle reali possibilità della ragione e di cercare di spingersi oltre i suoi confini» (p. 266). Gli ontoteologi hanno, in altri termini, ignorato i «limiti imposti alla conoscenza umana» (p. 266), cimentandosi «in un’impresa irrealizzabile» (p. 266).

L’estremo esito dell’empirismo trova sponda nella «filosofia critica» di Kant. Il filosofo di Königsberg ritiene, com’è noto, che «la conoscenza umana non si adegua più agli oggetti della realtà, ma sono questi ultimi ad essere disciplinati sulla base di strumenti a priori presenti nella nostra mente» (p. 271). Questo è il nocciolo della giustamente famosa «rivoluzione copernicana» di Kant: l’esperienza è la base di ogni conoscenza, ma questa è a sua volta predeterminata gnoseologicamente dalle «forme pure» di conoscenza presenti in ciascuno di noi, forme prive di contenuto, le quali costituiscono le possibilità di ogni conoscenza futura. In questo modo, si pongono limiti precisi all’estensione e alle modalità della conoscenza umana («criticismo») i quali le attribuiscono il giusto valore.

Così, egli critica le prove a priori, considerando valida solo quella «ontologico-modale di Leibniz» (p. 277), alla quale però vengono aggiunte modifiche. In particolar modo, Kant critica i concetti modali di «esistenza» e «possibilità». Infatti, qualcosa di possibile ha natura contingente, è qualcosa che può esistere, ma che nulla assicura che esista realmente. Così l’argomento anselmiano (e di Leibniz) può essere così riformulato:

[Kant1]

  1. Se esiste qualcosa di possibile, allora deve esistere un ente assolutamente necessario;
  2. Ma qualcosa di possibile esiste;
  3. Dunque, esiste un ente assolutamente necessario.

La modifica della concezione della teologia razionale trova nella prima Critica la sua definitiva formulazione. In essa, infatti, Kant indaga, in chiave critica, l’idea di Dio e dato che (1) da un lato, non proviene dall’esperienza, né trova conferma in essa; e, (2) dall’altro lato, esprime un’esigenza umana di incondizionato, d’assenza di limiti; il filosofo tedesco ne conclude che essa è un’idea pura della ragione, ossia della facoltà umana contenente le tendenze (potenzialmente) sovra empiriche.

Kant critica l’argomento ontologico perché quest’ultimo è fondato sulla contraddizione logica in cui cade chi intende «possedere la nozione di essere necessario o perfettissimo e nello stesso tempo negarne l’esistenza effettiva» (p. 287). Come si sa, la validità dell’unum argumentum consisteva nella prova per confutazione, nel procedimento elenctico poiché era l’ateo, ossia colui che «dice in cuor suo “Dio non esiste”», a cadere in errore, dato che andava soggetto ad una sorta d’irrazionalismo. Infatti, gli atei negando l’esistenza di Dio non negano soltanto l’attributo dell’esistenza necessaria, «ma negano soggetto e predicato insieme» (p. 287), negano «anche la sua natura di essere perfettissimo e necessario» (p. 287), e in ciò non v’è nulla di contraddittorio. In altre parole, Kant riafferma «la distinzione tra l’uso logico-linguistico del verbo «essere» (ossia come copula) e il suo uso ontologico (ossia come predicato reale), per ribadire che nel primo caso l’attribuzione dell’esistenza ad un soggetto resta un atto meramente formale o ipotetico […] mentre nel secondo caso è inammissibile perché l’esistenza non è una proprietà da aggiungere ad altre proprietà di una cosa, bensì la posizione assoluta della cosa stessa» (p. 289). Quindi, l’essere non rappresenta un predicato reale. In questo modo, «l’assegnare al concetto di un oggetto possibile anche l’esistenza non comporta nessuna modificazione o integrazione del concetto stesso, il quale resta infatti assolutamente immutato» (p. 289). Per Kant, in teologia «la nozione di Dio deve rappresentare il predicato e non il soggetto, deve costituire l’attributo di qualcosa che si è determinato come esistente tramite una dimostrazioni a posteriori e non un’idea astratta a priori» (pp. 291-2). Ogni ragionamento valido in teologia, dunque, dovrebbe concludersi «con l’affermazione «Qualcosa di esistente è Dio» e non porre invece la nozione di Dio come soggetto a cui attribuire il predicato di esistenza» (p. 292). In altre parole, è l’esistenza logica di qualcosa, non l’esistenza reale di un ente. Tornano così a separarsi le vie del pensiero, ossia della logica, e le vie dell’ontologia, ossia dell’esistenza reale e delle relative possibilità d’esistenza degli enti. In questo modo, anche il criterio della perfezione non vale a fondare la validità della dimostrazione poiché l’eventuale «maggiore perfezione dell’essere rispetto al non-essere riguarda dunque soltanto l’ontologia o la metafisica in generale e non la logica» (p. 295). Ai fini della validità logica della prova, «l’esistenza intesa come perfezione reale non dovrebbe pertanto avere alcuna rilevanza» (p. 295). Anche il criterio della perfezione non annulla la separazione tra l’ordine del pensiero e l’ordine delle realtà. Certo Kant ammette che in caso di teofania evidente, solo un pazzo «oserebbe non rispettare i precetti morali» (p. 296), ma in una situazione di deus absconditus si deve ragionare nell’agorà del dibattito pubblico etsi deus non daretur, guardando all’esperienza come l’unico terreno (oggettivo) di condivisione.

Le obiezioni kantiane sembrano aver suonato il de profundis per l’argomento ontoteologico, pur non essendo in alcun caso delle autentiche novità perché «si limitavano sostanzialmente a riproporre le classiche obiezioni sull’inammissibilità di un passaggio dall’ordine logico a quello ontologico e sulla natura empirica dei giudizi di esistenza» (p. 299). In realtà, anche quello che appare essere la confutazione definitiva dell’identità tra pensiero ed essere risulta alla fin fine soltanto una questione interpretativa. Accade così che proprio la (controversa) separazione (metodologica) tra fenomeno e noumeno venga superata con il suo rovesciamento. Infatti, nell’idealismo tedesco viene riproposta l’unità di pensiero ed essere, di soggetto ed oggetto, di noumeno e fenomeno. In questo modo, v’è distinzione tra Io e non-Io perché è l’Io stesso che, per auto-conoscersi, si aliena in qualcosa fuori di sé, prefigurando una circolarità del processo in una meta finale consistente nel ritorno a sé dell’Io. In questo modo, «soggetto» ed «oggetto» del processo conoscitivo sono soltanto finzioni dell’universale ed eterna storia dello Spirito. All’interno di tale storia dello Spirito un posto importante occupa l’argomento ontologico. Infatti, in Hegel l’«Assoluto, dimostrato dall’argomento ontologico o dalle altre prove dell’esistenza di Dio, si manifesterà dunque come meta conclusiva delle diverse tappe o momenti del percorso storico della coscienza verso la scienza dello Spirito» (p. 301). Il filosofo tedesco attribuisce ad Anselmo «il merito di aver imboccato la strada che porta all’unificazione di pensiero ed essere» (p. 303), pur non mancando di ravvisare come non sia stato in grado «di trarre la giusta conseguenza logica della perfetta corrispondenza del razionale con il reale, del finito con l’infinito» (p. 303). Le varie prove sarebbero equivoche in quanto, infatti, tendono erroneamente a «parlare dell’esistenza di Dio come se si trattasse di un ente finito, mentre il divino è per sua natura infinito» (p. 306). Il risultato finale, però, è quello di ridurre la prova ontologica «a mera appendice del sistema, piuttosto che risultare valorizzata in se stessa e per se stessa» (p. 309). Infatti, «la filosofia hegeliana rappresenta il trionfo del puro razionalismo nella forma dell’idealismo assoluto» (p. 309).

Meno entusiasta è, invece, Schelling il quale ritiene la prova ontologica incapace per la finalità prefissa, ma utile nel «segnare da un lato i limiti della filosofia negativa e dall’altro l’inizio della filosofia positiva» (p. 318).

Lo stesso parere viene espresso da Weisse secondo il quale la prova ontologica svolge la funzione (positiva) «di indicare le condizioni necessarie per la possibilità dell’esistenza di un Essere assoluto» (p. 321). In altri termini, essa sarebbe, propedeutica «alla comprensione di ciò che è logicamente possibile e di ciò che invece non lo è» (p. 321).

A sua volta Rosmini riprende la tendenza della teologia razionale, raggruppando in insiemi disgiunti le varie possibili prove: (1) prova ontologica; (2) prova delle verità eterne; (3) prova cosmologica; (4) prova antropologica. Il roveretano ritiene «che dalla sua essenza [di Dio] deriva necessariamente la sua effettiva esistenza» (p. 327). In altre parole, Rosmini riprende le nozioni modali alla base della lettura moderna dell’argomento ontoteologico, salvo concludere che la «possibilità» ontologica deve avere un primato rispetto agli altri suoi sensi. Tuttavia, va annotato come curiosamente la prova ontologica, esaltata dall’idealismo, in seguito «venne reputata una forma inaccettabile di idealismo e comunque fu ritenuta priva di qualsiasi interesse o valore per una serie indagine filosofica» (p. 331), come accade, nella seconda metà del XIX sec. con Lotze e Brentano. Per quest’ultimo, infatti, «non si può dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio a priori, ossia facendo a meno delle osservazioni empiriche» (p. 336). Sono accettabili le prove a posteriori, non quelle a priori. Infatti, in queste ultime si finisce col confondere nell’«uso del verbo “essere” il significato “definitorio” o “copulativo” con il significato “esistenziale”» (p. 340). Brentano ritiene equivoco il ragionamento ontoteologico seguente:

[Brentano_critica]

  1. A un esser infinitamente perfetto appartiene l’esistenza necessaria;
  2. Dio è un essere infinitamente perfetto;
  3. Dunque, Dio esiste necessariamente.

In questo ragionamento, la premessa minore (2) «può venire intesa in due diverse maniere: o come «C’è un Dio che è un essere infinitamente perfetto», oppure come «Si intende per Dio un essere infinitamente perfetto». Qualora la si concepisce nel primo modo […], allora si afferma chiaramente l’esistenza reale di Dio; ma a questo punto il ragionamento diventa circolare, perché pone in premessa l’esistenza necessaria di Dio che si vuole dimostrare nella conclusione, cadendo nell’errore della petizione di principi […] Nel secondo caso, invece, incontriamo una mera espressione definitoria […], con cui si spiega soltanto il significato del termine «Dio» quale «essere infinitamente perfetto», senza tuttavia proclamarne la reale esistenza. Essa non può dunque servire in alcun modo come premessa in una dimostrazione logica che si concluda con l’enunciato «Dio esiste necessariamente»» (p. 340). In altri termini, dunque, Brentano riprende la critica all’argomento ontologico secondo la quale al massimo essa afferma l’esistenza «meramente ipotetica e non reale» (p. 341) della nozione di Dio.

Un travisamento, se possibile, della prova dà in seguito Barth. Egli correttamente riconosce che bisogna «già possedere la fede per poterla compiutamente intendere con la ragione» (p. 347), ma finisce con rovesciare il fondamento razionale della ratio Anselmi nel misticismo calvinista. Infatti, non è stato inteso come «l’intento fondamentale del pensatore aostano non fosse quello di «provare» (probare) qualcosa, bensì di «comprendere» (intelligere) la realtà di Dio nella quale credeva per fede» (p. 35). L’intento non sarebbe stato così convincere, con la ragione, gli insipienti né «confermare nella fede chi già crede liberandolo dal dubbio, ma di porsi all’ascolto della parola di Dio con tutta la sua intelligenza e con tutto il suo animo al fine di comprenderla pienamente» (p. 352). Così stando le cose, nulla di apprezzabile dal punto di vista logico può essere trovato nella sua discussione della ratio Anselmi. Tuttavia, nonostante tutto, «l’argomento ontologico ha conosciuto nel corso del XX secolo un’inaspettata ripresa all’interno degli studi filosofici e teologici» (p. 361). Così quattro appaiono i filoni principali di questa sorta di «Anselm-Renaissance» (p. 361): (a) La disputa sulla natura della ratio Anselmi; (b) La controversia sulla validità logico-linguistica degli aromenti ontologici; (c) L’interpretazione esistenzialista e ermeneutico-fenomenologica dell’ontoteologia; (d) La riproposizione dell’argomento ontologico modale da parte di Kurt Gödel.

Su Anselmo, è corretto riconoscere come egli «desidera certamente dimostrare l’esistenza di Dio attestata dalla fede sulla base di rationes necessariae […] quindi con l’ausilio dell’universalità delle regole logiche» (p. 362), ma tale suo intento «è comunque sempre subordinato al primato del Credo, ossia alle sue convinzioni di cristiano fedele ai dogmi della Chiesa cattolica» (p. 362). Ciò potrebbe indurre a credere che nel Proslogion «non sussisterebbe dunque una prova ontologica così come è stata concepita dalla filosofia moderna da Descartes in poi» (p. 365) dato che, per Barth e Stolz, «l’argomento ontologico anselmiano non avrebbe come scopo quello di probare (provare) l’esistenza di Dio, ma soltanto di intelligere (comprendere) le verità di fede» (p. 365). Questa non appare un’opinione condivisibile.

È, forse, nell’ambito della logica moderna che è possibile cogliere una modalità nuova d’intendere la prova anselmiana, non essendo più centro dell’attenzione il (dibattuto) rapporto tra fede e ragione, ma il vagliarne la validità logica. Infatti, è il trattamento “formale” l’unica apprezzabile novità di una filosofia che prenda sul serio la sfida per l’intelligenza lanciata dalla ratio Anselmi.

In questo modo, si riconosce come «Russell è stato con tutta probabilità il primo pensatore di orientamento «formalista» ad esprimersi sulla validità logico-semantica della prova ontologica» (p. 382). In questo caso, il trattamento formale s’inserisce nel problema più ampio del significato dei termini utilizzati, su come si possano tradurre in un linguaggio convenzionale, come quello della logica, enunciazioni del linguaggio naturale connotate da intrinseca polisemia. Uno dei primi tentativi in questa direzione fu compiuto senza dubbio da Gottlob Frege. Seguendo l’idea di base del progetto fregeano, che per ovvi motivi non può essere né presentato né discusso in questa sede, «Russell riteneva anche di poter superare tutte le questioni metafisiche connesse alla nozione di «esistenza»» (p. 388). Egli ritenne, così, di dover confutare, su base formale, l’argomento ontologico. Infatti, essendo l’argomentazione classica:

  1. L’Essere perfettissimo ha tutte le perfezioni;
  2. L’esistenza è una perfezione;
  3. Dunque, l’Essere perfettissimo esiste.

la si può trasformare nella seguente:

  1. C’è una e una sola x che è perfettissima;
  2. Essa ha tutte le perfezioni;
  3. Dunque, questa entità esiste.

Nota Timossi che «l’introduzione della variabile «x» al posto del sintagma «Essere perfettissimo» rende non denotativa la prima premessa dell’inferenza e quindi fa perdere ogni significato referenziale all’intero ragionamento» (p. 388). Secondo Russell la mancanza di una prova (ossia, di una dimostrazione empirica) della prima premessa impedisce di poter considerare «l’argomento ontologico un’autentica prova logica» (p. 388).

Anche Ayer s’è cimentato con Anselmo. Egli ritenne che la nozione di Dio che vi ricorre, di Ens necessarium o Ens perfectissimum, «sono delle mere tautologie e, in quanto tali, non dicono nulla sulla realtà fattuale» (p. 391). Così un ragionamento logico costruito su tautologie avrà come conclusione un’altra tautologia. Dunque, «l’argomento ontologico è sicuramente una prova a priori, ossia è composto da tautologie, e quindi non può essere ritenuto una dimostrazione valida della reale esistenza di Dio» (p. 391).

Sulle posizioni di Ayer si pone anche Ryle secondo il quale «tutti i giudizi di esistenza non possono risultare verità logiche o tautologie, ma debbono presentare carattere sintetico, ossia discendere dall’esperienza» (p. 393). Così, l’esistenza di Dio, come di qualsiasi altro ente ipotetico, non può «venir dedotta direttamente dalla sua essenza o dal suo concetto, ma va provata empiricamente» (p. 393).

Kneale, invece, pur considerando non valida la prova anselmiana, per una serie di motivi inerenti al mancato riferimento estensionale della stessa, riconosce che «la definizione anselmiana «Id quo maius cogitar ipotest» è sì discutibile, ma non contraddittoria e quindi logicamente accettabile» (p. 394). Ciò vuol dire che, a dispetto dalla generale propensione a considerarla capziosa, nessuno sinora è riuscito a dimostrarne in modo compiuto l’infondatezza logica. Ciò fa sì che essa continui ad esercitare un notevole fascino sulle menti moderne tanto aliene dalla cultura al cui interno il l’abate di Bec ha inteso trovare un argomento unico che confortasse la fede in un Essere tanto supremo quanto indisponibile alla percezione empirica.

Findlay è anch’egli del parere che Anselmo non dimostri effettivamente l’esistenza di Dio, ma che nel far ciò egli addirittura dimostri «l’inesistenza di Dio» (p. 398). Infatti, partendo dalla nozione wittgensteiniana di «tautologia» e dall’idea secondo la quale quanto è «necessario» non lo è per oggettività fattuale ma per convenzione linguistica, egli ritiene di poter (ri-) formulare nella maniera seguente l’argomentazione anselmiana:

  1. Se Dio esistesse, sarebbe un Essere necessario;
  2. Ma la nozione di Dio come essere necessario è impossibile (contraddittoria), dato che il concetto di esistenza è di tipo sintetico, ovvero contingente (non necessario);
  3. Dunque, Dio quale Essere necessario non può esistere per necessità logica perché il suo concetto è auto-contraddittorio (ossia impossibile).

Un’idea abbastanza simile di coerenza (logica) è professata da Rescher. Egli ritiene che la dimostrazione d’esistenza di un Essere necessario non procede dal suo concetto tramite deduzione, ma è una «consequenzialità del tutto intrinseca alla stessa esperienza religiosa» (p. 402).

Invece, più interessante appare la posizione di Malcom il quale ha «sostenuto la validità logica della prova a priori almeno nella sua versione moderna» (p. 402). In particolare, egli sostiene essere presenti nel Proslogion due differenti prove: «una fondata sul concetto di esistenza come perfezione e una basata sulla nozione di esistenza necessaria. La prima versione sarebbe rintracciabile nel secondo capitolo del Proslogion ed è la dimostrazione propriamente denominata fin dal medioevo «ratio Anselmi» […] La seconda versione, invece, si troverebbe nel terzo capitolo della stessa opera e procederebbe da una premessa logicamente più solida, perché costruita sul concetto di Ens necessarium» (p. 403). È la prima versione a cadere sotto i colpi della critica, da Gaunilone a Kant. Diversa è la sorte della seconda versione. Infatti, «rispetto alla nozione di «esistenza necessaria non si può sollevare l’obiezione di una sua intrinseca incongruenza e soprattutto non si può negare che possa venire attribuita a quell’ente che designiamo solitamente con il termine «Dio»» (p. 404). Mentre è assunto implicitamente che la natura di Dio è tale che «la dichiarazione della sua non esistenza equivale a una contraddizione, ovvero ad una impossibilità logica» (p. 404) tale che «è logicamente impossibile che un Ente perfettissimo e necessario non implichi l’esistenza» (p. 404). In questo modo, Malcom così riformula l’argomento ontologico:

  1. O l’esistenza di Dio è impossibile o è necessaria;
  2. Ma l’esistenza di Dio non è impossibile, poiché il concetto di Essere perfettissimo non è contraddittorio;
  3. Dunque, l’esistenza di Dio è necessaria.

Il senso della conclusione è, dunque, chiaro: Dio esiste necessariamente.

Sulla valorizzazione della lettura modale della ratio Anselmi si sofferma in modo particolare Plantinga. Le sue considerazioni intorno all’argomento ontologico sono importanti per il «tentativo di riformulare la prova anselmiana nel contesto dei «mondi possibili» della logica modale» (p. 407). In linea generale, se per «Dio» intendiamo Dio, allora si deve riconoscere che deve «esistere come Ente supremo e perfettissimo in tutti i mondi ipotetici per poterne affermare l’esistenza necessaria nel nostro mondo» (pp. 409-410). La semantica dei mondi possibili impone in questo caso che perché si possa affermare l’esistenza necessaria di Dio nel mondo attuale, ossia nel nostro, Dio deve esistere nei medesimi termini, ossia come Essere supermo e perfettissimo, in tutti i mondi possibili, alternativi a quello attuale. Si deve subito riconoscere come «provare che Dio esiste davvero in tutti i mondi possibili non è una cosa semplice» (p. 410). Ciò significa anche che le argomentazioni ontologiche sinora «hanno al massimo dimostrato che in qualche mondo potrebbe sussistere un Ente perfettissimo, senza attestare che tale Essere esiste realmente» (p. 410). Quel che appare un risultato importante, chiarire il senso dell’interpretazione modale della prova di Anselmo, a ben guardare risulta invece un passo indietro. Infatti, a questo punto si deve riconoscere che non appare possibile dire nulla di più delle critiche mosse da Gaunilone sull’argomento ontologico: Anselmo dimostra che l’esistenza di Dio è possibile, nel senso che non è contraddittoria ma coerente con il quadro epistemico umano. Quel che non fa, invece, è dimostrare che l’esistenza divina sia necessaria, ossia reale. La modalità, infatti, ci dice che Dio è possibile, non anche che sia necessario, ossia che esista attualmente. Per superare questa difficoltà, Plantinga formula quella che a suo dire è «l’unica versione modale «vittoriosa» della prova ontologica» (p. 410):

  1. Postuliamo che una grandezza insuperabile equivalga alla massima eccellenza in ogni mondo possibile;
  2. Postuliamo che esista un mondo possibile in cui una grandezza insuperabile risulti manifesta;
  3. La proposizione «Una cosa detiene una grandezza insuperabile se e soltanto se possiede la massima eccellenza in ogni mondo possibile» è necessariamente vera;
  4. La proposizione «Tutto ciò che ha la massima eccellenza è onnipotente, onnisciente e moralmente perfetto» è necessariamente vera;
  5. Quanto possiede un’insuperabile grandezza è immediatamente presente in ogni mondo;
  6. Se ciò che possiede un’insuperabile grandezza è immediatamente presente in ogni mondo, allora è immediatamente presente anche in questo mondo;
  7. Dunque, esiste attualmente un essere che è onnipotente, onnisciente e moralmente perfetto, il quale esiste e ha queste proprietà in ogni mondo possibile.

A dispetto delle attese, comunque, è possibile muovere alla formulazione plantinghiana un’obiezione formidabile (tra le tante possibili): «essa parte da postulati che non tutti sono pronti ad accettare per veri» (p. 411). Il limite della condivisione delle nozioni così come dei presupposti che operava nella critica lockiana alla prova ontologica ritorna qui come uno dei limiti fondamentali alla formulazione di qualsiasi argomento conclusivo sull’esistenza di Dio. A dire il vero è presente già nella dinamica della prova in Anselmo: è perché l’insipiens non condivide la medesima nozione di «Dio» che può dire in cuor suo «Dio non esiste»; ma proprio perché crede questo s’inganna, non è coerente; dunque, la sua proposizione fondamentale è contraddittoria e «Dio esiste».

Sulle medesime esigenze di chiarificazione del linguaggio si collocano i filosofi analitici mentre, per contrasto, i cd. continentali si collocano sull’esigenza di trovare un fundamentum in re per l’uomo e la sua storia. Tra questi Jaspers si pone il problema di come interpretare la ratio Anselmi. La sua conclusione è che «unicamente con un «filosofare originario» che procede dalla nostra condizione esistenziale che si può accedere a Dio: questo è quanto cerca di fare il filosofo d’Aosta» (p. 419). Certo siamo così lontani dallo spirito iniziale: dimostrare per via logica l’esistenza di Dio. Al massimo, s’interpreta l’esigenza anselmiana di un unum argumentum in chiave antropologica odierna, ottica rispettabile ma storiograficamente dubbia.

Anche Levinas s’è occupato, e in «modo originale» (p. 422), dell’argomento ontologico. Il filosofo francese ritiene come la speculazione di Anselmo sia utile contro alle pretese totalizzanti della filosofia occidentale. Infatti, nell’argomento ontologico «accade che il concetto di infinito vada oltre il semplice pensiero della nostra mente, fino a cessare di essere un pensiero» (p. 423). In questo modo, anche come risultato dell’eredità fenomenologica, la prova ontologica «prepara il terreno al vero significato del pensare l’infinito che può essere colto soltanto nel rapporto tra il Medesimo e l’Altro, ossia nell’accettazione del volto dell’Altro, che costituisce il fatto etico fondamentale capace di fornire una nuova idea di Dio diversa da quella della metafisica occidentale» (p. 423). Anche in questo caso si deve riconoscere una sovra-interpretazione da parte di opzioni teoriche contemporanee troppo distanti dal tempo di Anselmo per coglierne la reale portata, l’autentico significato.

Più interessante, invece, appare legare l’interpretazione logica della prova anselmiana alla cd. crisi dei fondamenti, «conseguenza del tentativo compiuto dai logici matematici di rintracciare per i loro sistemi dei principi irrefutabili di completezza e coerenza logica» (p. 432). Fu, forse, Gödel l’autore che per primo individuò una vincente strategia di risoluzione della crisi. I suoi teoremi, infatti, «palesavano come in un qualsiasi sistema ben formalizzato non fosse sempre provata l’identificazione della verità con la coerenza logica» (p. 437), aprendo la strada all’idea della costitutiva indecidibilità di qualsiasi sistema formalizzato. Contrariamente a questa idea, che suona come la resa ai limiti logici del pensiero umano, Gödel «si propose di riprendere la prova ontologica leibniziana con l’intenzione di corroborarla avvalendosi dei moderni strumenti della logica modale» (p. 437).

Sembra che la sua formulazione dell’argomento ontologico apparirebbe come l’attestazione della «necessità logica della presenza di un Ente che assommi in sé tutte le qualità positive» (p. 439). Sulla base di definizioni, assiomi e teoremi ben precisi che non possono trovare espressione in questa sede, Gödel fornisce diverse dimostrazioni dell’esistenza di Dio:

[Gödel_prima_dimostrazione]

  1. Se G è un ente di natura divina, allora possiede tutte e soltanto le proprietà positive;
  2. Ma G è un ente di natura divina;
  3. Dunque, G possiede tutte e soltanto le proprietà positive.

[Gödel_seconda_dimostrazione]

  1. Se G è un ente di natura divina, allora è una proprietà positiva;
  2. Ma G è un ente di natura divina;
  3. Dunque, G è una proprietà positiva.

[Gödel_terza_dimostrazione]

  1. Se G è una proprietà positiva, allora è necessariamente una proprietà positiva;
  2. Ma G è una proprietà positiva;
  3. Dunque, G è necessariamente una proprietà positiva.

[Gödel_quarta_dimostrazione]

  1. Se G possiede tutte le proprietà positive, allora possiede anche l’esistenza necessaria in quanto è una proprietà positiva;
  2. G possiede tutte le proprietà positive;
  3. Dunque, G possiede anche l’esistenza necessaria.

[Gödel_quinta_dimostrazione]

  1. Se G è un ente di natura divina, allora la proprietà dell’esistenza gli appartiene per essenza;
  2. Ma G è un ente di natura divina;
  3. Dunque, a G appartiene per essenza la proprietà dell’esistenza.

[Gödel_sesta_dimostrazione]

  1. Se G è una proprietà positiva, allora è logicamente consistente;
  2. Ma G è una proprietà positiva;
  3. Dunque, G è logicamente consistente.

[Gödel_settima_dimostrazione]

  1. Se G è consistente, allora esiste necessariamente;
  2. Ma G è consistente;
  3. Dunque, G esiste necessariamente.

Per Gödel «la natura divina rappresenta un’essenza e poiché a ogni essenza corrisponde un solo ente, l’essere la cui essenza implica l’esistenza deve risultare esclusivamente uno soltanto: Dio» (pp. 443-444). Cioè, per Gödel «non è dunque logicamente plausibile ammettere la possibilità di un unico essere dotato di tutte le “proprietà positive”, inclusa ovviamente l’esistenza, e poi non riconoscergli una realtà effettiva, perché ciò rappresenterebbe una evidente contraddizione» (p. 444).

Al di là di facili conclusioni, che potrebbero indurre a credere come la prova ontologica sia stata coronata dal successo, più realisticamente, si deve riconoscere come la ratio Anselmi sia attuale data la «vivacità del dibattito contemporaneo» (p. 447). Concludendo, tre appaiono essere gli approcci fondamentali: (1) logico-formale: ci si limita a vagliare la validità logica dei ragionamenti; (2) teoretico: si prende in esame il valore speculativo delle argomentazioni; (3) storico: ci si sofferma sull’evoluzione nel tempo delle prove logiche.

Trasversalmente a questi raggruppamenti, si possono avere differenti versioni del medesimo argomento anselmiano:

[Argomento_definitorio]

  1. Dio è per definizione l’essere che possiede tutte le perfezioni;
  2. Ma l’esistenza è una perfezione;
  3. Dunque, Dio esiste in quanto è per definizione l’essere che possiede tutte le perfezioni.

[Argomento_concettuale]

  1. Noi intendiamo Dio come l’ente di cui non si può concepire il maggiore;
  2. Ciò di cui possediamo il concetto di ente di cui non si può concepire il maggiore non può non esistere, altrimenti non sarebbe l’essere di cui non si può concepire il maggiore;
  3. Dunque, Dio inteso come l’ente di cui non si può concepire il maggiore deve esistere.

[Argomento_ modale]

  1. Se Dio è possibile, allora esiste necessariamente;
  2. Ma Dio è possibile;
  3. Dunque, Dio esiste necessariamente.

[Argomento_meinonghiano]

  1. Gli oggetti la cui nozione è dotata di senso devono essere concepiti come oggetti reali;
  2. Dio inteso come essere necessariamente esistente è dotato di senso;
  3. Dunque, Dio deve essere concepito come un oggetto reale.

[Argomento_esperienziale]

  1. Il termine «Dio» può avere un significato per l’esperienza religiosa soltanto se Dio esiste;
  2. Il termine «Dio» ha un significato per l’esperienza religiosa;
  3. Dunque, Dio esiste.

[Argomento_mereolgico]

  1. Se esistono le parti, esiste anche la somma di tutte le parti (il Tutto);
  2. Esistono sicuramente degli enti parti di un tutto;
  3. Dio assomma in sé tutti gli enti esistenti come il Tutto comprende in se stesso tutte la parti;
  4. Dunque, esiste Dio come somma di tutti gli enti esistenti, ovvero come il Tutto che è somma di tutte le parti.

[Argomento_hegeliano]

  1. L’Assoluto è l’essere;
  2. Dio è l’Assoluto;
  3. Dunque, Dio è l’essere.

Quel che emerge è «un ricorrente tentativo di dimostrare l’esistenza di Dio sulla base della pura logica» (p. 450). Anche se questa è certamente una delle possibili ottiche mediante le quali prendere in considerazione la prova di Anselmo. Ad ogni modo, appare incontrovertibile «la natura a priori del procedimento logico-dimostrativo connesso con le prove logiche dell’esistenza di Dio, dal momento che tutte le argomentazioni ontologiche hanno la pretesa di partire da puri concetti, di prescindere cioè dai dati dell’esperienza sensibile» (p. 450). Sotto la considerazione meramente logico-formale, si deve anche riconoscere come «la dimostrazione modale è sicuramente più rigorosa della dimostrazione assiomatica» (p. 451). Infatti, «mentre la prima deduce correttamente l’esistenza necessaria di Dio dalla nozione di Essere necessario, la seconda fa invece discendere la realtà oggettiva dell’Ente perfettissimo dalla tesi controversa secondo cui l’esistenza sarebbe una perfezione» (p. 451). Si consideri, ad esempio, l’obiezione di Eco: se la perfezione inerisce alla non-esistenza, sarebbe meglio per Dio non esistere anziché esistere.

Ad ogni modo, anche la versione modale presenta, come s’è visto, dei difetti, p. e. l’inammissibile «subordinazione del “necessario” al “possibile”» (p. 452). Di contro, l’argomento anselmiano, invece, non possiede «una struttura dimostrativa di tipo assiomatica, ma elenctica o confutatoria» (p. 452), proprio ciò le garantisce correttezza formale.

Sulla (presunta) interpretazione moderna in forza della quale Anselmo avrebbe nel Proslogion dato luogo a due differenti argomentazioni, si deve riconoscere come si tratti in realtà di «due formulazioni o versioni di un’unica prova» (p. 452), sussistendo un’«identità ontologica tra perfezione ed esistenza necessaria» (p. 452).

Che Anselmo abbia colto in una sorta di illuminazione mistica la natura dell’esistenza di Dio è un fatto come certamente lo è l’aver contestualmente tentato di presentare in una forma razionalmente condivisibile tale risultato. Dunque, si potrebbe anche riconoscere come la «ratio Anselmi rappresenta in tal senso un caso esemplare nel quale ad una intuizione intellettuale, per altro preparata da almeno un anno di intensa riflessione razionale, viene fatta seguire una dimostrazione rigorosa secondo il metodo della dialettica medioevale» (p. 456).

Al di là delle numerose, talvolta vivaci, e tuttora inesauste discussioni intorno al valore dell’argomento ontologico, è possibile, giunti a questo punto, ritenere come le prove a priori presentino «dei risvolti positivi e non di poco conto. In primo luogo esse pongono in risalto la funzione centrale della logica nella speculazione filosofica, che non sempre è stata ritenuta di importanza fondamentale. In secondo luogo fanno emergere due verità di indubbio valore per la teologia filosofica» (p. 467), ossia: (1) l’idea di Dio quale essere perfettissimo e necessario è logicamente possibile (cioè, non è in sé stessa contraddittoria); (2) l’esistenza di un essere necessario non può venir concepita sullo stesso piano di un qualsiasi altro ente. Ciò potrebbe anche condurre a una limitazione delle possibilità per l’insipiente di ogni tempo: «può legittimamente negare la corrispondenza di qualcosa di reale con l’idea di Essere assoluto, può cioè rifiutare di ammettere l’esistenza effettiva di Dio, ma non può logicamente opporsi alla sua possibilità, alla sua “ragionevolezza”» (p. 469). In questo modo, l’attualità dell’argomento ontologico anselmiano può essere spiegata come il tentativo del monaco aostano di parlare «sia ai credenti sia ai non credenti con l’intento di dimostrare, al di là di ogni dubbio, la razionalità della fede» (p. 470). In questo caso, è evidente come la ragionevolezza della fede venga mediata dalla ragionevolezza del pensiero, che può essere espressa attraverso l’argomentazione logica.