1. La domanda di Šestov
Lev Šestov è una figura intellettuale sui generis. Non si tratta di un filosofo accademico e neppure di un mistico o di un uomo d’azione, ma di un “diversamente pensante”, per usare una locuzione speriamo non inopportuna. Egli si confronta con un solo tema e lo sviluppa attraverso molteplici variazioni. Sennonché a taluno (ad esempio Camus)1 queste variazioni sono sembrate monotone. Eppure si potrebbe rispondere che per Šestov la stessa filosofia occidentale, “dalla Jonia a Jena” e oltre, non è che una monotona variazione ossessivo-compulsiva di un unico tema, ed esattamente: il reale è razionale- il razionale è reale.
Per ricostruire le fonti di questa interpretazione, occorrerà partire dalla peculiare interpretazione che Šestov fornisce di Hegel, autore che ad avviso del Nostro segna una pietra miliare della storia della filosofia. Commentando la propria affermazione «Ciò che è reale e razionale e ciò che è razionale è reale», Hegel, infatti, scriveva: «Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggera esistenza».2 Per il pensatore idealista, la vera realtà non è dunque l’effettualità quotidiana, ma ciò che si ricomprende nel gioco dialettico totalizzante della ragione. Da questo punto di vista, il primo atteggiamento del filosofo deve essere quello di innalzarsi nell’etere dell’Idea e da questo riguardare il senso del mondo, a prescindere dai propri casi e eventi particolari, di per sé meri accidenti nell’accadere storico globale. Šestov oppone a questa modo di procedere una domanda: ci si può chiedere se tale filosofia possa consolare chi, caduto dal “cerchio magico” delle altezze del generale, si trovi ad atterrare in un letamaio di lamenti, chi abbia perso moglie, figli, averi, una patria. Si pensi a Giobbe: cosa potrà farsene di una simile astrazione al generale? Non si tratta di una neutralizzazione dell’esistenza, di un farmaco, forse anche di una sublime mistica? Farmaco che induce un sonno tanto più tranquillizzante quanto più si attesti come comune e sia accettato dal “buon senso” come reale e razionale e, dunque, incontrovertibile. Occorre porre l’accento sul carattere d’incrollabilità, d’irremissibilità che qui si nota. Una legge è una legge, 2+2 fa 4, «un muro di pietra è un muro di pietra» (Dostoevskij), o ancora: un incidente stradale, che tronca la vita di quattro giovani in una notte buia, rimane vero e reale, non può essere revocato, non si può tornare indietro; esattamente come la legge dell’universo, ciò che produce non è reversibile. E mentre la ragione del filosofo idealista vede sia gli eventi contingenti sia le leggi eterne con la stessa indifferenza epochizzante di uno sguardo panoramico, per Giobbe o per i genitori di quei ragazzi ciò non lenisce affatto il dolore, non arresta il lutto e il lamento straziante, impossibile da sopire, di una ferità che non ha riparazione. Camus dice che «vi è un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».3 E questo è tanto più vero quando si perdono i propri cari, tutto ciò che arricchiva e dava un senso alla nostra esistenza. Ma Hegel invece proclama:
Il trapasso dall’essere particolare, finito, nell’essere come tale deve comprendersi come prima esigenza tanto teorica quanto pratica… L’uomo deve elevarsi a questa generalità astratta in cui tutto gli è eguale — essere o non essere, si tratti di vita finita o meno … Anche ’si fractus illabatur orbis, impavidum ferient ruinae’ come ha detto un poeta romano.4
Il che tradotto šestovianamente significa: non occorre curarsi dei propri accadimenti personali, ma si deve elevarsi all’universalità astratta del concetto, sicché ci diventi indifferente ciò che ci accade come ciò che non ci accade, perché si possa comprendere la razionalità del tutto. Come affermava Spinoza, il saggio deve
circa res fortunae, sive quae in nostra potestate non sunt, … utramque fortunae faciem aequo animo exspectare et ferre: nimirum, quia omnia ab eterno Dei decreto eadem necessitate sequuntur, ac ex essentia trianguli sequitur, quod tres ejus anguli sunt aequales duobus rectis. .5
Occorre consolarsi così, pensando che tutto è accaduto perché c’è un disegno superiore necessario. E se non sarà possibile elevarsi alle altezze della filosofia, almeno si aspetterà che il tempo curi le ferite. Anche la religione, per Šestov, non è che un dispositivo consolante, l’invito a un rinvio oltremondano, attraverso l’assunzione meritoria del dolore come passione o catarsi, prendere su di sé la propria croce… La religione edificante abbraccia la stessa logica della filosofia, che relega l’errore, il male nell’ inessenziale^[6] e vede solo la realtà con gli occhi comuni di chi, tanto filosofo che semplice uomo della strada, non può che constatare l’irremissibilità di una legge impassibile, di un’Anànke neutra e muta, di fronte alla quale si deve solo tacere e accettare.
Per Šestov tutto ciò significa, tautologicamente: il razionale è razionale, mentre il reale che non sia razionale è soltanto capriccio, errore, un male. Eppure, secondo il Nostro, è proprio il «capriccio», l’ineffettuale, il male, quello che ci sta più a cuore. Qui è la vita, e di fronte ad essa la filosofia non tace affatto. Essa cancella la vita, vuole consolare, con il sistema, con la teodicea, con l’etica o anche con la mistica. Una risposta mistica non potrà che doppiare quella di Wittgenstein: «di ciò, di cui non si può parlare, bisogna tacere». Ma Šestov non è un mistico, e non tace. La sua è una continua domanda, raramente urlata, spesso ironica, posta in un contegno austero: il reale è veramente razionale? E se non lo fosse, perché mai dobbiamo considerarlo tale? Solo perché “tutti” pensano così? Ma questo è un argomento definitivo? Quale forza ci costringe a ciò? La domanda di Šestov non è rivolta al vento. È rivolta verso un «Chi» ben preciso, il Dio biblico. È una preghiera, invocazione, interrogazione, una bestemmia forse, come quella di Giobbe davanti delle risposte consuete dei suoi tre amici, e di quell’ultimo, l’equivoco Eliu, che secondo un Midrash sarebbe il Satana ritornato sotto altra forma.6
Per disegnare il profilo del pensiero šestoviano ci proporremo di partire da queste prime considerazioni cercando di chiarirle, di porre l’accento sul luogo da cui esse traggono la loro pointe, riferendoci ad alcune citazioni, varie e asistematiche, alle quali Šestov si riallaccia. Infatti, sovente Šestov cita diversi autori, ma tali citazioni sono pretesti, e l’ermeneutica che ne deriva sconcerta per assenza di scrupolo filologico e storico. È da tenere sempre presente che, nel suo molto peregrinare per l’Europa, egli dovette ritenere molto a memoria e sedimentare l’essenziale di quanto scriveva in appunti, brogliacci, lacerti che spesso confluivano, con diverse forme redazionali, nei testi che andava producendo. Egli portava con sé i suoi appunti, i suoi libri sottolineati, nei quali proiettava le sue convinzioni inossidabili, interpellando, in un dialogo continuo, i suoi autori, sicché, come Socrate, egli doveva irritare, sconcertare e allontanare gli spiriti adusi al metodo accademico. Ne era consapevole, del resto:
Io provoco l’irritazione della gente, si dice, perché ripeto sempre la stessa cosa. Questa era anche la ragione dell’irritazione degli ateniesi nei confronti di Socrate. (AG, p. 1032).
Se però Šestov sviava, con i suoi discorsi ingarbugliati e i suoi aforismi tranchant, e deviava dalla via maestra-sistematica del pensiero, il suo intento era di indurre a erranze, a sentieri poco battuti, dove poteva trovarsi — a suo avviso — un tesoro nascosto che, non appena toccato, come l’acqua di uno stagno immobile, smuoveva una serie di cerchi concentrici attorno a quell’eterno ed unico tema:
Unde malum? Da dove viene il male? Molte teodicee, con poche variazioni, danno a questa domanda risposte che non soddisfano se non i loro autori (ma li soddisferanno veramente?) e gli amanti di letture amene. Quanto agli altri, le teodicee causano fastidio, e quest’irritazione è direttamente proporzionale all’insistenza con la quale il problema del male assilla ogni individuo. E quando questo problema assume per noi l’importanza che ebbe, ad esempio, per Giobbe, qualunque teodicea apparirà sacrilega. Agli occhi di Giobbe, ogni tentativo per “spiegare” le proprie sventure non faceva che aggravarle; egli non sapeva che farsene delle spiegazioni, delle risposte e delle consolazioni … Ci sono domande il cui significato risiede precisamente nel fatto che rifiutano risposta, perché le risposte uccidono le domande… (AG p. 1049).
Ritroviamo qui quasi le stesse parole di Chuchani, il maestro di Levinas e Wiesel, riportate nel racconto-testimonianza scritto da quest’ultimo:
Quand’è che capirai che una bella risposta non è nulla, nient’altro che un’illusione. L’uomo si definisce per ciò che lo inquieta e non per ciò che lo rassicura.7
Ma forse questo primato della domanda non è casuale: tutti e tre gli autori citati erano ebrei, segnati dal malheur, erranti. Solo una cosa fu risparmiata a Šestov: la Shoa. E per ragioni meramente contingenti: morì prima che si spalancasse l’inferno.
2. L’itinerario biografico
Per illustrare adeguatamente il pensiero di Šestov non basta rivenire presunte fonti o condizionamenti filosofici, o seguire il peculiare carattere e lo stile in cui si presenta il suo pensiero, ma è opportuno ricordare la sua esistenza itinerante, nomade, sradicata, esiliata. Lev Isaacoviè Swarzman nacque a Kiev il 13 febbraio del 1866, da una benestante famiglia d’industriali ebrei non osservanti. Il padre gestiva un’azienda tessile, e il giovane Lev studiò giurisprudenza, per diventare avvocato, ma la censura zarista gli impedì la pubblicazione della tesi, forse perché troppo progressista. Da ragazzo acquisì i primi rudimenti della lingua ebraica, in seguito dimenticati. Risuonano tuttavia nella sua memoria i racconti e le leggende della tradizione familiare, che il padre, fervente sionista, raccontava a lui e ai fratelli. Echi di questo insegnamento ritorneranno nelle sue opere, sicché, se proprio non potrà dirsi un pensatore ebraico, certamente nella sua opera riecheggiano le voci di un “giudaismo perduto”.8 Il giovane Šestov iniziò a scrivere racconti (ci rimangono dieci novelle incompiute), sognando una carriera di scrittore. Rimase anche affascinato dalle liturgie della vicina chiesa ortodossa, dove spesso si recava durante le celebrazioni festive; ma s’immerse anche nell’atmosfera intellettuale del Secolo d’Argento. Nella ricerca della propria strada, tentò seriamente di dedicarsi alla lirica, ma ben presto si avvide di non avere il talento necessario per questa professione. S’immerse quindi nello studio, iniziando a interpretare i libri di Shakespeare e Kant, oltre che i classici romanzieri russi, e si avviò alla carriera di brillante critico letterario. Nel 1885 entrò in trattative per la traduzione dal tedesco, insieme a Rabotnokov, dell’opera in più volumi di H. Graetz, Geschicthe der Juden, di cui si trova un saggio di traduzione negli archivi ora giacenti presso la Sorbona di Parigi. Diventò amico di una giovane intellettuale di Kiev, Barbara Malakhievna-Mirovitc, con la quale approfondì la conoscenza di Tolstoj e dei poeti francesi. In questo stesso periodo ebbe una relazione sentimentale con una cameriera di famiglia, Anouta Listapopadov, dalla quale sarebbe nato un figlio naturale Sergej (morto durante la Prima guerra mondiale). Verso la fine del 1895 contrasse una forma di malattia nervosa che gli impedì di continuare il lavoro presso l’azienda familiare; la biografia scritta dalla figlia Nathalia Baranoff-Šestov9 suggerisce che tale nevrosi fosse dipesa in parte dal suo doversi consacrare a un’occupazione che non amava. Appartiene a questo periodo un non meglio precisato «evento tragico» nella vita personale (forse un dilemma morale legato alla sua possibile conversione al cristianesimo?), di cui gli stessi amici ignoravano la precisa natura: è certo che egli ne parlava come della sua «catastrofe interiore». Probabilmente ciò fu all’origine di una profonda depressione che gli rese necessaria una fuga dalla soffocante atmosfera familiare, fatta più pesante dal rifiuto paterno al matrimonio con la sua amica Barbara Malakhievna-Mirovitc. Si risolse dunque a lasciare la Russia per iniziare un lungo pellegrinaggio che doveva portarlo a Vienna, a Berlino (dove fu operato) e poi Parigi. Si recò di nuovo a Monaco, poi a Roma, dove conobbe la studentessa di medicina Anna Berezkovski, di religione ortodossa, che diventò sua moglie, e poi a Vico equense, dove risedette quasi un anno dedicandosi alla scrittura. Per nascondere la religione non ebraica della moglie, i coniugi furono costretti a mantenere a lungo segreto il matrimonio. Nonostante la sua salute precaria, Šestov continuava febbrilmente a lavorare al suo primo libro, Shakespeare e il suo critico Brandes (1898), che, dopo vari rifiuti, fu pubblicato a proprie spese a San Pietroburgo, con lo pseudonimo di Lev Šestov, firma della sua successiva produzione. Sempre in preda alla depressione e a vari malanni di natura psicosomatica, continuando a studiare scoprì, nel 1894, Nietzsche:
Avevo 28 anni quando lessi Nietzsche. Prima Al di là del bene e del male, senza averlo ben capito, forse a causa della forma aforistica. Poi la Genealogia della morale, la cui lettura iniziai alle otto di sera e terminai alle dieci del mattino. Quella lettura mi sconvolse, non riuscivo più a dormire.10
L’incontro con la filosofia nietzschiana mutò il suo orientamento speculativo, facendolo allontanare dal toltojanesimo kantianeggiante del suo precedente libro su Shakespeare. Passò l’inverno 1897-98 a Roma, dove nacque la figlia Tatiana, prima di trasferirsi a Berna, dove la moglie Anna riprese i suoi studi medici interrotti e dove risiedeva sua sorella Fanny, studentessa di filosofia, avviata successivamente alla pratica psicoanalitica da un allievo berlinese di Freud, Max Eitingon. Su invito del padre, assistette al secondo congresso sionista di Basilea, prima di tornare in Russia, recando nella borsa il libro Il bene nella dottrina di Tolstoj e Nietzsche. Dato il giudizio lusinghiero di Vladimir Solov’ëv, pubblicò questo libro, che appare nel 1900 riscontrando un notevole interesse nella società letteraria pietroburghese. Significativa la frase con cui lo conclude:
Il bene, l’amore fraterno, ce l’insegna esperienza di Nietzsche, non è Dio. Sventura a chi ama e a chi non ha niente al di sopra della sua compassione! Nietzsche ha aperto il cammino. Bisogna cercare ciò che è al di sopra della compassione, ciò che al di sopra del bene. Bisogna cercare Dio.11
Alla fine del mese di gennaio del 1900, Šestov ripartiva alla volta di Nervi, dove si dedicò alla stesura di un nuovo saggio dedicato a Dostoevskij e Nietzsche, col sottotitolo: La filosofia della tragedia. Pur continuando la sua attività nell’azienda familiare, ormai si consacrava completamente alla filosofia, ottenendo l’apprezzamento dell’intellighentzia russa. Un altro libro molto importante fu L’apoteosi dello sradicamento, pubblicato nel 1905, che attirerà diverse recensioni, spesso critiche, e gli permetterà di inserirsi pienamente nei circuiti filosofici religiosi di Pietroburgo e Mosca. Nel 1910 Šestov fece visita a Tolstoj, nella tenuta di Iasnaia Poliana. Il grande scrittore lo trattò con un cordiale distacco, scrivendo nel suo diario: «Ho ricevuto la visita di Šestov, Non molto interessante. Un letterato, per nulla un filosofo».12 Soprattutto disturbava Tolstoj quell’aria di famiglia con Nietzsche che gli faceva ritenere Šestov uno «scettico». Questi trasse dalla visita un’impressione negativa; Tolstoj era ormai a suo avviso «un relitto del passato . . ., un saggio grandioso ma mitico». Tra il 1910 e il 1914 Šestov risiedette a Coppet, in Svizzera, sul lago Lemano, presso una villa assai lussuosa che attirò la malevolenza degli anarchici locali, dedicandosi febbrilmente alla sua ricerca. Raccolse qui una serie di articoli precedente apparsi in Russia, intitolati Le grandi vigilie, e poi iniziò a studiare Lutero (facendosi recapitare i due volumi da poco editi delle giovanili Luther’s Vorlesungen über den Romerbrief 1515-156, Leipzig 1908, libro del quale il suo amico e traduttore Boris de Shloézer dirà trattarsi di un luogo centrale d’ispirazione per il suo pensiero maturo), i mistici medievali, la filosofia greca, e la Bibbia. Possedeva un grande volume del Pentateuco ebraico, alla cui lettura era pure assai impegnato. Occorre tuttavia convenire con chi afferma che la sua conoscenza della Bibbia non fu così approfondita da farlo qualificare come teologo. Venne però colpito dalla dottrina della giustificazione sola gratia di Lutero, che interpretò — alla sua maniera — dedicandovi un apposito studio. Durante questi anni di permanenza svizzera, infatti, Šestov aveva ideato un libro che avrebbe dovuto intitolarsi Sola fide, composto di due parti; La prima sulla filosofia greca, la seconda su Lutero. Per varie circostanze tale libro verrà pubblicato parzialmente sotto altro nome durante gli anni successivi (Potestas Clavium, 1923; La parte su Lutero sarà pubblicata postuma, nel 1966, a cura della facoltà protestante di Strasburgo). Il materiale scritto in questo periodo è molto importante perché costituisce, in qualche modo, l’autobiografia spirituale di Šestov .13
La rivoluzione di Febbraio e soprattutto quella di Ottobre, costrinsero Šestov all’esilio: «Se io avessi mostrato il passaporto, ove era menzionato che ero di religione ebraica, sarebbe stata la fine»; Giunto a Yalta, in Crimea, Šestov sollecitò la sua nomina a una cattedra presso l’università di Tauride nel caso non fosse riuscito a uscire dalla Russia. Tramite un suo amico professore, ottenne il riconoscimento accademico, e benché non un corso universitario, ciò che comunque gli valse la possibilità una volta giunto a Parigi (dopo un’ulteriore parentesi in Svizzera) di essere incaricato presso la facoltà russa della Sorbona. Giunto a Parigi, da Ginevra, ritrovò molti compagni di esilio, e la città sulla Senna divenne il centro politico e culturale della diaspora russa. Furono qui fondate diverse riviste (la più importante delle quali è Sovriemmiennyïe Zapiski [Annali contemporanei]), e centri culturali e accademici. La più importate di queste istituzioni fu la Facoltà russa presso l’Università La Sorbona che costituiva la sezione russa di studi Slavi in Rue de Michelet 9, a Parigi. Questo istituto, generalmente chiamato Istituto Slavo, ospitava più di quaranta professori. Tra essi Šestov tenne per sedici anni un corso di filosofia. Il compenso era sensibilmente inferiore a quello dei professori ordinari francesi, e, pur costituendo sen’altro un aiuto materiale, non gli assicurava un sostentamento sufficiente. Šestov cercò quindi di barcamenarsi partecipando ad altre istituzioni accademiche e soprattutto contando sull’aiuto degli amici e sui magri proventi delle sue pubblicazioni, sia dalle riviste dell’emigrazione, sia dalle traduzioni che venivano apparendo nelle lingue europee (altro centro molto importante della diaspora russa fu Berlino, dove la casa editrice Skify aveva iniziato la pubblicazione in tedesco di alcune sue opere). Egli comunque riuscì alla fine a divenire noto in Francia, attraverso vari articoli apparsi sulle principali riviste parigine, dapprima con uno studio dedicato a Dostoevskij nella Nouvelle Revue Fraçaise, poi con una recensione di Boris de Shloézer apparsa sul Mercure de France, dal titolo «Un penseur russe, Léon Chestov» (1922). Nel maggio del 1923 apparve Les Révélations de la mort, e nel giugno dello stesso anno La Nuit de Gethsémani, scritto in occasione del trecentesimo anniversario della nascita di Pascal.
Nel 1924, Šestov conobbe il filosofo Jules De Gaultier e lo scrittore ebreo rumeno Benjiamin Fondane, che diventerà suo amico e discepolo lascerà un’importante memoria biografica riportante i colloqui col maestro. Con l’aiuto di Boris de Shloézer, suo traduttore dal russo, Šestov pubblicherà poi Sur la balance de Job (1927), Kierkegaard et a philosophie Existentielle (1936) e Athènes et Jérusalem (1938), l’ultima opera apparsa in vita.14 La morte lo colse il 23 novembre del 1938 Nell’ultima fase della sua vita si stava dedicando allo studio della filosofia induista. Aveva appena finito di vergare l’articolo commemorativo su E. Husserl, che costituisce di fatto il suo canto del cigno. È significativo il fatto che nonostante i frequenti riferimenti, nelle sue opere, al Cristo e alla filosofia cristiana, Šestov vuole essere sepolto secondo i canoni della tradizione ebraica: un rabbino recitò il Kaddish sulla sua tomba, cosa che colpì molto Benjamin Fondane, il quale di là a poco subirà la sorte che al maestro sarebbe stata risparmiata per una mera contingenza anagrafica. Fondane fu deportato ad Auschwitz, dove morì nel 1944.
3. Šestov e Husserl
Filosofo non accademico e autodidatta, se non fu allievo di questo o quest’altro maestro, Šestov respirò comunque abbondantemente l’aria dell’ambiente filosofico-religioso russo del “Secolo d’Argento”, che vedeva in MereŽksvski, Rozanov, Berdiaev dei compagni di strada, e soprattutto in Solov’ëv e in Dostoevskij e Tolstoj dei maestri. Questi ultimi due, che troppo facilmente in Europa si rubricano come scrittori, ebbero per la Russia il rango di autentici pensatori. Eppure, per sua particolare inclinazione, Šestov s’interessò prevalentemente di filosofia occidentale: Kant, interpretato alla luce del neokantismo, Nietzsche, da cui ebbe come ricordato uno shock decisivo, fino a Husserl. (Solo tardivamente, su suggerimento di Husserl, scoprì Kierkegaard). Caso volle che l’ultimo scritto šestoviano fosse dedicato a colui che il nostro individuava, paradossalmente, come il proprio maestro. Infatti, l’articolo che Šestov scrisse pochi giorni prima della morte, nel novembre 1938, in occasione della scomparsa del padre della fenomenologia, avvenuta il 26 aprile di quello stesso anno, apparve postumo in traduzione francese nel 1940 sul primo numero della Revue Philosophique de la France et de l’Étranger: «Á la mémorie d’un gran philosophe, Edmund Husserl».15 Questo articolo era l’ultimo di una triade iniziata circa vent’anni prima con «Memento mori» (1917), pubblicato in russo, e «Cos’è la verità» (1927). L’interesse šestoviano verteva soprattutto sulla lettura dell’articolo di Husserl Philosophie als strenge Wissenshaft, pubblicato nell’edizione russa di «Logos» nel 1911-12. Ma l’ultimo articolo di Šestov rappresenta, in qualche modo, il suo testamento filosofico, proprio nella polemica riconoscente verso il suo antagonista principale: è il legato finale di un pensiero che, individuando il proprio referente polemico privilegiato — assunto a sintesi della filosofia tout-court -, egli lasciava al mondo.
Ho conosciuto l’opera di Husserl una trentina di anni fa; allora erano uscite soltanto le Logische Untersuchungen. L’impressione di questo libro fu per me traumatica. Nella letteratura filosofica del principio del XX secolo sono pochi coloro che possano mettersi alla pari con Husserl per potenza, audacia, profondità e valore di pensiero.16
Ma cosa aveva sorpreso Šestov nell’opera di Husserl? Questi si era così rivolto a Šestov durante il loro primo incontro, ad Amsterdam:
Voi siete stato ingiusto quando vi gettaste contro di me con tanta asprezza e passione. Mi avete trasformato in una statua su un piedistallo, e poi con un colpo di martello avete frantumato questa statua. Ma sono davvero così pietrificato? Non vi siete accorto che cosa mi aveva costretto a porre, in modo radicale, il problema dell’essenza del nostro sapere e a riesaminare le teorie della conoscenza oggi dominanti e che prima soddisfacevano me in modo non inferiore degli altri filosofi […]. (I miei studi) erano la manifestazione della consapevolezza che se con gli sforzi della nostra ragione non saranno fugati i miei dubbi, se siamo cioè condannati come nel passato a rinsaldare più o meno accuratamente le crepe e le fenditure che si aprono ogni volta nelle nostre costruzioni gnoseologiche, un bel giorno ogni nostro sapere crollerà e ci ritroveremo davanti alle misere rovine della nostra antica grandezza.17
Per Šestov, le Logische Untersuchungen erano state «il tentativo grandioso e splendido di trovare, per il nostro sapere, una base contro la quale — mi si permetta la metafora — le porte dell’inferno non prevarranno».18 Nella risposta data a Husserl, Šestov riconosceva il merito del padre della fenomenologia, ma gli replicava che si era scagliato con tanta energia contro di lui perché sentiva «la grandiosa e incomparabile potenza del suo pensiero». Egli era consapevole del dilemma:
o accettare tutto quanto avete scoperto, ma anche tutte le conclusioni alle quali ci costringe la vostra filosofia, oppure insorgere contro di voi… Avevate perfettamente ragione voi, che avete annunciato che il tempo era uscito dai suoi argini, che si era spezzato il legame del tempo, […] ma bisogna mantenere ad ogni costo il nostro sapere. Bisogna far rientrare di nuovo il tempo nei suoi argini dai quali era stato gettato fuori? Ma forse è il contrario. Non bisogna forse spingerlo ancora di più. Perché si frantumi in mille pezzi?19
Entrambi, ricordando il monito di Amleto (The time is out of joints), volevano porre riparo: l’uno rimettendo il tempo nei suoi binari, l’altro scacciandovelo. Fuor di metafora: l’uno voleva riparare le falle del sapere, l’altro distruggerlo, aprendosi una nuova strada sulle sue rovine. I due filosofi non potevano certo intendersi, né il russo coglieva appieno il lavoro di analisi che il padre della fenomenologia stava compiendo (come del resto testimonia la dura nota polemica rivoltagli dal fenomenologo J. Hering), eppure Šestov aveva comunque toccato alcune corde dell’animo di Husserl. Infatti, a lui che sosteneva «la filosofia è una grande e suprema lotta», il tedesco rispose con asprezza: «Nein, Philosophie ist Besinnung!20». In seguito, Šestov fece leggere a Husserl Parmenide Incatenato, che commentò: «Le vostre strade non sono le mie, ma comprendo e stimo la vostra problematica21», rinviandolo alle opere di Kierkegaard (che nel ’28 il russo ancora non conosceva). Il nucleo di Parmenide incatenato era il concetto di verità costrittiva, quella verità che, da empirica constatazione di un fatto (la morte di Socrate, come esempio emblematico) pretendeva al rango di eternità. Era come se, accettando il sistema logico di Husserl, Šestov fosse indotto a rinunciare a salvare i fenomeni, e proprio quelli più cari, gli affetti, le amicizie, gli amori. Proprio per questo, forse, Husserl aveva suggerito al russo la lettura di Kierkegaard, quasi avesse intravisto un punto in comune tra i due, nel pathos verso la finitudine. Nel saggio «Cos’è la verità», in risposta a J. Hering, che contestava la scarsa scientificità delle critiche mosse da Šestov a Husserl, il russo chiariva quello che a suo avviso unificava il padre della fenomenologia con la totalità del pensiero speculativo, precisamente: «la riduzione dell’ontologia all’etica». La comprensione šestoviana di Husserl — come esposta ne «Á la mémorie d’un gran philosophe» - benché ignara degli sviluppi profondi della tecnica fenomenologica, sintetizza l’essenza della filosofia husserliana in questi termini:
a) La filosofia deve pervenire, al rango di scienza, sul modello delle scienze matematiche e fisico-naturali, al fine di evitare lo scetticismo cui in definitiva giungono il naturalismo e lo storicismo (filosofia della Weltanschauung);
b) La verità che la filosofia come scienza attinge è universale e necessaria e vale per qualunque essere razionale (uomini, angeli, dei);
c) L’evidenza fonda la pretesa della filosofia al carattere universale e necessario dei suoi giudizi;
d) Il metodo che bisogna seguire è l’epoché, che Šestov identifica tout-court con la riduzione fenomenologica e che comprende come messa tra parentesi di «tutto ciò che è reale effettuale, cioè i fenomeni mutevoli e passeggeri»;
e) Attraverso l’epochè si perverrebbe a un insieme di essenze ideali che definiscono l’ambito di significazioni assolute cui la filosofia tende come suo télos. Così, la filosofia comincia con quella riduzione che, secondo Šestov, non è altro che una forma di universalizzazione, per giungere in ultimo ai principi, alle fonti, alle radici dell’essere (rizòmata pànton). La riduzione aprirebbe la strada a una contemplazione disinteressata, cioè ad una visione teoretica svincolata da ogni interesse naturale e psicologico verso l’esistenza delle cose del mondo o del mondo stesso come totalità.
Šestov ritiene di individuare dunque nell’epoché husserliana una parentela con l’epoché scettica, nell’essere in qualche modo, entrambe, atteggiamenti di immunizzazione dallo “scandalo del divenire”. L’epoché husserliana sarebbe in sostanza una nuova edizione del fondamentale atto etico che preside la comprensione dell’essere nella filosofia di tutti i tempi: la catharsis. Essa perverrebbe alla giustificazione del male attraverso l’elevazione del singolo al punto di vista della totalità ideale-razionale, implicante obbedienza verso di essa e rinuncia, con ciò, alla libertà originaria del singolo. Nell’ interpretazione di Šestov, Husserl si ricollegava ad Hegel, a sua volta erede di Spinoza, e via via risalendo, sino all’origine del sapere, tutti attingevano a quel mito di Anassimandro che segnava l’inizio della filosofia, e che pagava, come vedremo, la conquista della verità al prezzo troppo alto della cancellazione dell’unicità dell’individuo e dei suoi affetti. Abbiamo rilevato, infatti, come, per Šestov, Husserl segnasse il culmine e la sintesi del gesto del pensiero totalizzante, e come nella sua fenomenologia, la rinunzia all’effettuale e al particolare apparisse non tanto un metodo quanto piuttosto il fine cui approdava la speculazione. Eppure Šestov non manca di notare che se Husserl è il culmine della storia del pensiero, il padre è Aristotele. Questi aveva individuato il principio che presiede al rigore del sapere, il “principio di non contraddizione”. È esattamente questo principio che determina, secondo Šestov, quel «muro di pietra» oltre il quale non si può andare, quel limite che costringe tutto ciò che è stato a non poter che essere così e non altrimenti. Factum infectum fieri nequit, come dicevano gli scolastici: non è possibile che ciò che è accaduto possa essere reso non accaduto. Tale principio, affonda le sue radici, secondo Šestov, nell’«albero della conoscenza del bene e del male». Il rigore del sapere si mantiene e si fissa su questo perno senza il quale la casa del sapere crollerebbe al primo vento. Ma funziona quando si tratta di studiare le leggi della natura, esso si mostra inadeguato quando si accosta l’esistenza individuale esposta al male. In effetti, sancendo l’irrevocabilità di ogni evento come eterno, qualunque possibilità di porre un riparo al male — di aggiustare le cose una volta guastate o di riportare in vita Socrate avvelenato nel 399 a. C., oppure di ridonare a Giobbe i suoi figli — è destinata per principio e necessariamente al fallimento. È proprio il rigore del logos filosofico che pietrifica l’essere e paralizza ogni volontà e desiderio di evasione dal male da parte dell’esistente. La filosofia come scienza rigorosa di Husserl è quindi il frutto maturo del peccato originale.
4. I due miti antagonisti: Anassimandro e il Serpente
Nel 399 gli ateniesi avvelenarono Socrate. E Platone, il suo discepolo, costretto dalla stessa verità, non poteva non pensare che Socrate fosse stato avvelenato. […] In tutto ciò che egli ha scritto si percepisce sempre una domanda: c’è veramente un potere al quale sia dato costringerci ad ammettere definitivamente e per sempre che Socrate è stato avvelenato nel 399? Per Aristotele una tale questione, evidentemente assurda ai suoi occhi, non esisteva. Egli era convinto che la verità “Socrate è stato avvelenato”, così come la verità “un cane è stato avvelenato”, fosse superiore a ogni obiezione divina e umana. La cicuta non fa distinzione tra Socrate e un cane. E noi, “costretti a seguire i fenomeni”, “costretti dalla stessa verità”, siamo obbligati nei nostri giudizi mediati o immediati, a non fare alcuna differenza tra Socrate e un cane rabbioso. (AG pp. 243-244)
Anche la verità sperimentale più ordinaria, ciò che si chiama la costatazione di un fatto, non vuole essere una verità relativa e limitata: le verità di fatto reclamano, e con successo, il titolo e la dignità di verità eterne. (AG p. 239)
Questi due passi, tratti da Parmenide Incatenato (Prima parte di AG) costituiscono il punto di partenza dell’analisi šestoviana del concetto di verità, cui è connesso quello di sapere. Essi pongono l’accento sul carattere affettivo di una tale ricerca. Non si tratta di cercare le leggi dell’universo, si tratta di salvare Socrate, il giusto, dall’eternità dell’ingiustizia e del male subìto. Ma se il sapere, la filosofia, si basa su questo baluardo, allora l’unica risposta al problema del male sarà quella espressa dagli stoici: fare di necessità virtù, accettare l’inevitabile, sottomettersi al Logos: Fata volentem ducunt nolentem trahunt. Il senso comune conferma questa massima, l’uomo della strada non è da meno, quanto all’essenziale, al filosofo. Cercare una restitutio in integrum della realtà guastata sarebbe, al cospetto della logica, un pensiero delirante, una mostruosità. Šestov ingaggia la sua lotta proprio a partire da questa impossibilità razionale. Egli si domanda: cosa dà alla ragione il potere di decidere in ultima istanza sui beni più cari dell’uomo? Cos’è, in fondo, la ragione se non un potere tirannico, anonimo e totalitario, che invita alla sottomissione e all’idolatria? La ragione è forse Dio? O piuttosto è un idolo costruito dalle mani degli uomini sul modello della necessità matematica? Non sarà forse la ragione, e la verità da essa dischiusa, quell’impassibile indifferenza di cui parla Aristotele con il nome di Anànke invincibile, e di cui hanno scritto i maggiori filosofi, attraverso i molteplici avatar della storia del pensiero?
Šestov, per istruire questo problema, ritorna al luogo in cui, a suo avviso, si coglie l’atto nascente della filosofia. È un frammento, il primo, che ci viene dal passato, e che rivela, a suo avviso, l’essenza del sapere ben più di quanto lunghi trattati filosofici possano ricostruirla. Leggiamo allora il frammento di Anassimandro:
Là donde infatti gli esseri hanno la loro origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità; poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. (DK 12 B 1)
Commentando questo passo, Šestov dice:
Da dove viene il bene, da dove viene il male? Il primo filosofo greco, Anassimandro, insegnava che il male origina dalle cose particolari, perché si sono temerariamente strappate dal grembo dell’Uno ed empiamente hanno voluto affermare la propria esistenza individuale. […] Plotino, ultimo dei grandi filosofi greci, diceva che le anime individuali avevano avuto la temeraria audacia di distaccarsi dall’Uno, e che, nella misura in cui pretendono di essere indipendenti, vivono nel male. Evidentemente egli esprimeva, sia pure in maniera più corretta, il pensiero di Anassimandro. (BG p. 213)
Approfondendo l’analisi, Šestov ravvisa che il dovere di ubbidienza da parte dell’individuo verso l’Uno ideale, in cui consiste, di fatto, l’atto etico primigenio della comprensione, è l’unico modo che gli uomini abbiano potuto trovare per consolarsi dall’irremissibilità del destino:
Per questa x, che noi chiamiamo la natura, nulla e buono o cattivo. Buono o cattivo esistono soltanto per l’individuo, in particolare per l’uomo e, in specie, per l’uomo che riflette, ricorda il passato e si rappresenta chiaramente l’avvenire. […] Dinanzi all’ineluttabile, l’uomo è costretto a chinare il capo e accettare passivamente sia i doni sia i colpi del destino. La maggioranza, una maggioranza schiacciante, sopporta pazientemente la propria sorte: come dice il proverbio russo “la frustra spacca il ciocco” (BG, p. 214).
Ne consegue ultimamente che:
Il “buono” del senso comune è precisamente il “male” originario, mentre il bene originario, il vero bene, è per l’individuo la rinuncia completa a ogni individuazione — la rinuncia a se stesso. È questa l’idea fondamentale della filosofia greca, ma è stata anche il punto di partenza della filosofia moderna. (BG p. 16).
Seguendo queste citazioni comprendiamo come Šestov accusi tutta la filosofia, sin dalla sua culla, di nostalgia dell’Uno. Non a caso l’idealismo hegeliano presupponeva, come suo inizio, l’innalzamento del pensiero sopra l’effettualità irrazionale, come ritorno alla totalità unitaria dell’Idea. A questo movimento centripeto della ragione, che invita l’uomo comune a svincolarsi dai propri beni, considerandoli accessori capricciosi, così come dai propri legami affettivi (movimento che secondo Sestov si rinviene anche nell’etica stoica, in Spinoza e in Kant, in quanto invito all’universalizzazione di contro all’eteronomia patologica come movente dell’atto etico), si oppone però un’altra narrazione, presente in un luogo diverso, che segna l’inizio di un pensiero di altro genere: quello biblico. Anche qui ci troviamo agli inizi: come il frammento anassimandreo inaugura la filosofia speculativa, questo frammento, che è innestato nel Libro che fonda la cultura giudaico-cristiana, inaugura, se ben interpretato, un’altra possibile dimensione del pensiero. Šestov si riferisce precisamente al mito biblico del peccato originale:
Qual è il contenuto dei capitoli della Genesi che si riferiscono alla caduta del primo uomo? Dio pose nel paradiso l’albero della vita e l’albero della scienza del bene e del male, e disse all’uomo: ex omni ligno comede; de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris. […] Il suo divieto è accompagnato non dalla sanzione, come noi siamo indotti a credere per semplificare il problema, ma dal motivo: il giorno in cui noi assaggeremo i frutti dell’albero della scienza, gusteremo la morte. É così stabilito un rapporto tra i frutti dell’albero della scienza e la morte. Le parole di Dio non significano che l’uomo sarà punito per aver disobbedito, ma che il sapere contiene in sé la morte. (AG p. 757).
Nelle parole di Dio, più che un «divieto», è contenuto un «consiglio» benevolo. Il divieto, infatti, implicherebbe un dovere d’obbedienza, una costrizione legale. Ma il rapporto d’origine tra l’uomo e Dio è, secondo Šestov, «la libertà» come a-nomia creativa. La libertà originaria si fonda sulla «somiglianza» tra Dio e uomo nello jubere creatore, che Dio partecipa direttamente all’uomo. Si tratta di una «libertà di comandare», che è «una forma di sapere consistente nel potere di assegnare il nome a ciascuna creatura». (AG 757). Non un sapere razionale, quindi, perché la ragione non è ancora entrata nel mondo. La ragione, prima del peccato, è ancora in potere della volontà e del desiderio di Dio e dell’uomo (dell’uomo «nome-e cognome», direbbe Rosenzweig), avendo essa solo lo statuto di «organo esecutivo» (AG p. 941) di quella alleanza. Prima del peccato non c’è il limite: là e allora «tutto era possibile». La libertà originaria è dunque per Šestov la possibilità reale della realizzazione di ogni desiderio. Dio stesso è capriccio, «arbitrio illimitato e disordinato» (AG p. 801), volontà di vita come volontà di pluralità e particolarità. In questo stadio iniziale il peccato è consistito nel fatto che l’uomo ha assegnato la propria fiducia al serpente, ha sciolto l’alleanza con Dio fondata sulla fiducia che costituiva il proprio ruolo di partner nella creazione. E ciò è avvenuto a causa dell’aver ceduto alla tentazione di un terzo, il serpente biblico, la cui figura Sestov non assume come semplice metafora, ma come forza ostile e malevola avente i connotati di un potere neutro e anonimo, che prometteva un dominio precario attraverso un sapere paralizzante:
Il serpente, il più astuto tra gli animali creati da Dio, domandò alla donna: perché Dio vi ha proibito di mangiare i frutti di tutti gli alberi del paradiso? E quando la donna gli rispose che Dio non aveva proibito di mangiare che i frutti di un solo albero per non morire, il serpente rispose: Voi non morirete, ma Dio sa che il giorno in cui voi mangerete di questi frutti aperientur oculi vestri et eritis sicut dei scientes bonum et malum. (AG, p. 759)
Il «padre della menzogna» è quindi il divisore, letteralmente dia-bolo. Quel sapere originario, di cui l’uomo disponeva prima della caduta, ha ceduto il posto a una nuova «prospettiva»: quella del serpente, cui l’uomo si è consegnato volontariamente, sotto la suggestione di un menzognero capovolgimento della figura paterna, presentata da questi come invidiosa e gelosa, invece che buona e alleata. La prospettiva trascendentale del serpente-ragione appare dunque reale, ma è in verità onirica, poiché dischiude un «sogno in comune» in cui l’uomo si muoverà come sonnambulo e medium di una potenza mortale. L’uomo sedotto dal serpente ha concesso l’entrata nel mondo alle leggi della ragione, dotata di quello «sguardo pietrificante» per cui l’essere, Dio, e lui stesso divengono schiavi di una neutra Anànke che comanda e inibisce, costringe e perimetra il reale attorno a quel limite ultimo che è la morte. L’ateismo della ragione si pone dunque sotto la cifra della sfiducia verso Dio. Circa il serpente, Šestov chiarisce, più volte, ripetiamo, non trattarsi di una «metafora» (e ciò in polemica soprattutto con l’interpretazione kierkegaardiana del peccato originale), ma di un essere personale e spirituale. In un scambio epistolare con Martin Buber (1932), Šestov ribadisce che l’origine del peccato non è il gesto di Caino, come ritiene il suo interlocutore, ma la commistione del frutto interdetto, e chiarisce che dal peccato originale nessuno può essere sfuggito:
E ora di nuovo al vecchio serpente. Lei mi raccomanda le pp. 19-23 del suo Chassidischen Bücher. Ma proprio queste pagine (ho il libro con me), come anche alcune citazioni che fa negli scritti chassidici, mi hanno ricordato le parole di Kierkegaard sul serpente. E anche ciò che lei scrive su Spinoza. Lei dice che l’ultimo libro — gli Zwiesprache — è il libro del suo cuore. Ma se anche il lettore ha il diritto di giudicare gli scritti autonomamente dall’autore — devo dire che ho avuto l’impressione che anche i Chassidischen Bücher siano il libro del suo cuore, e anche Ich und Du. Come in generale tutto ciò che lei pubblica viene dal suo cuore. Lei ha questa impressionante serietà di cui per Kierkegaard e Nietzsche abbiamo tanto parlato e questo rende tutto ciò che lei scrive così efficace. Capisco molto bene ciò che lei ha scritto nella sua lettera sul serpente e sul peccato originale. Ma guardi: lei cita (p. 321/371) le parole di uno tzaddik che dice della sua anima che è fuggita dal peccato originale di Adamo in cui tutte le anime furono decise e che non ha assaggiato l’albero della conoscenza. Resta da vedere se queste eccezioni esistano in realtà — ma ciò attesta che anche gli tzaddikim hanno ammesso che noi tutti abbiamo peccato nel primo uomo. Che questo sia assolutamente inconcepibile per tutti noi (anche per me) lo concedo volentieri. Ma più divento vecchio, con più certezza sento che nel racconto biblico ci si rivela una verità enormemente importante e profonda. Ma la potenza del serpente su di noi è così grande che noi non siamo nella posizione di accettare questa verità. Nemmeno Kierkegaard per il quale, se non m’inganno, proprio questa verità era l’unica necessaria. È quasi impossibile parlare di questo in una breve lettera — forse lei verrà alla fine a Parigi e allora ci riuscirà il “dialogo” (Zwiesprache)! Ma forse, se legge il mio ultimo lavoro che tratta proprio del peccato originale, le sarà più chiaro perché io parlo così tanto del serpente. Per me è la bellua, qua non occisa homo non potest vivere, per parlare con Lutero.22
Ma anche il racconto biblico del peccato originale, venuto a contatto con mondo filosofico greco, è stato «trattato» dall’ermeneutica connessa al mito di Anassimandro, secondo cioè il paradigma obbedienza-disobbedienza. L’onnipervasività della ragione ha contaminato anche la rivelazione, consegnata, secondo il Nostro, a un popolo di pastori nomadi. Essa dovette fatalmente subire il trattamento del Logos, ed essere ricondotta entro i limiti della ragione che toto genere contestava. È inutile qui ricordare quanto sant’Agostino accentui l’elemento della superbia quale movente del peccato originale e invece veda nell’humilitas la giusta relazione che segna il rapporto con Dio:
Inizio di ogni peccato è la superbia. Non vollero mantenere in ordine a lui il proprio valore ed essi che sarebbero più perfetti se fossero uniti all’essere perfettissimo, anteponendosi a lui, scelsero di essere meno perfetti»23 […] «infatti, quando la volontà, abbandonando l’essere superiore, si volge alle cose inferiori, diventa cattiva, non perché è male l’oggetto cui si volge ma perché il suo volgersi è un pervertimento.24
Ovviamente, potremmo contestare la pertinenza filologica dell’interpretazione šestoviana della filosofia di sant’Agostino e della via maestra della filosofia cristiana medievale, ma Šestov fa di essa un punto fermo. Egli scrive l’intera quarta parte di AG, dall’ impegnativo titolo Concupiscentia irresistibilis, per rilevare quanto la comune interpretazione del peccato originale abbia causato quella commestione inglobante, da parte della ragione greca, nei confronti della fede ebraico-cristiana deviando così dal monito tertullianeo, secondo il quale Gerusalemme sarebbe dovuta mantenersi ben lontana da Atene. Potremmo egualmente discutere su quanto sia pertinente l’uso di categorie nietzschieane come parere e jubere, per connotare la disobbedienza, come sottomissione impotente e l’alleanza con Dio antelapsaria, come potenza creatrice, ma sta di fatto che la peculiare interpretazione šestoviana del peccato originale è il perno del suo pensiero e opera un ribaltamento di piano che pone sub judicio l’intera storia della filosofia e della teologia occidentali. Sottostimare o espungere tale focus interpretativo dal pensiero šestoviano significa ridurlo a un vago e disturbante irrazionalismo e scetticheggiante e depotenziarne la carica profetica e anti-idolatrica.
Il profondo legame tra il gesto della conoscenza e l’obbedienza all’Uno, come cifra del peccato, e, d’altra parte, il gesto della fiducia nella parola dell’Onnipotente come ristabilimento del valde bonum originario connesso al progetto iniziale della creazione, pone in rilievo un altro elemento fondamentale: a dispetto della accusa che si potrebbe rivolgere a Šestov, di essere un pensatore in cui l’etica sarebbe assente, prevalendo in lui una visione estetizzante e nietzscheanizzante, vorremmo rilevare come questa invece per Šestov sia centrale, e anzi sia il punto d’avvio del tipo di pensiero che egli propone. La ricerca šestoviana si mette in moto a partire dallo scandalo del male del prossimo, della sua mortalità, e se non cerca più obbedienza ad un Uno anonimo, è perché aspira con tutto l’affetto possibile al ristabilimento della misura umana della creazione e della somiglianza con Dio, al ripristino del mondo guastato dal peccato. Desiderio di rimodellamento del creato a misura del bene individuale e pluralistico che Dio aveva voluto per ogni essere creato, umano o animale. Frequenti sono in Šestov le citazioni evangeliche, specie quando si valorizza la fede come potenza tale da spostare le montagne, come cioè una dimensione attiva e creativa (qualcuno direbbe quasi magica) del pensiero. E forse non è peregrino l’accostamento di Šestov con la tradizione chassidica, suggerito da Massimo Giuliani, per connotare questa dimensione fattiva e produttiva della fede da parte dello tzaddik, per cui «la verità, secondo Šestov, è nascosta agli occhi del filosofo-scienziato e ha la forza di annientare la realtà delle evidenze e la conoscenza ‘concreta’ di questo mondo».25 Al gesto di Ulisse che lascia la sua patria e torna a Itaca, Šestov oppone quello di Abramo. Nel panorama filosofico contemporaneo, questo tema è presente in Emmanuel Levinas. E infatti il gesto del ritorno all’Uno è lo stesso che Levinas connota come cifra essenziale dell’idealismo e della fenomenologia, analogo a quello che alcuni anni prima aveva suggerito Šestov. Si confrontino queste due citazioni:
Il Dio dei filosofi, da Aristotele a Leibniz, passando per il Dio degli scolastici, è un Dio adeguato alla ragione, un Dio compreso che non potrebbe turbare l’autonomia della coscienza, la quale ritrova se stessa attraverso tutte le sue avventure, ritorna presso di sé come Ulisse che, lungo tutte le sue peregrinazioni, si spinge unicamente verso la sua isola natale. […] Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza.26
E Šestov scriveva nei primi anni ’30:
Dio disse ad Abramo: “Lascia la tua terra, i tuoi amici, e la casa di tuo padre e va nella terra che t’indicherò”, Abramo obbedì, e “partì senza sapere dove andava”. Ed è scritto nella Bibbia che Abramo credette in Dio “e questo gli fu imputato a giustizia”. Ma il buon senso ragiona in maniera completamente diversa: colui che parte senza sapere dove va, è un uomo debole e leggero, e una fede non fondata su niente (ma la fede è sempre fondata su niente, perché è essa stessa che vuol fondare) non può essere in alcun modo imputata a giustizia. La stessa convinzione, chiaramente e nettamente espressa ed elevata al rango di metodo, regna nella scienza che è nata dal buon senso. La scienza infatti non è tale se non perché non accetta la fede ed esige sempre dall’uomo che egli sia consapevole di ciò che fa e sappia dove stia andando. (AG p 1091).
E cosa poteva attrarre Abramo indietro, se non una terra di schiavitù, la terra anonima dell’Anànke, o, per dirla con Levinas, «la terra del radicamento contadino […] ove vige un esistere pagano, in cui l’essere nomina l’esserci come costruttore e coltivatore, nel quadro di un paesaggio familiare, in una terra materna. Anonimo, neutro, lo concreta eticamente indifferente e come libertà eroica, estranea a ogni colpevolezza rispetto agli altri».27 Sembrano quasi le stesse parole di Šestov:
Tale è il vero significato della concupiscentia scientiae: un’enigmatica concupiscentia irresistibilis ci spinge verso la verità impersonale, indifferente a tutto, che eleviamo al di sopra della volontà del vivente. Non è chiaro che siamo in potere di una forza nemica terribile, di quella forza di cui parla la Genesi? (AG p. 853).
Dal fondo materno della terra, in cui si vive l’obbedienza all’essere come patria, occorre sradicarsi e fuggire senza guardarsi indietro. L’essere non è un ente, è un neutro che costringe e guida il pensiero e gli enti; occorre staccarsi verso la vera patria, quella dove non domina un’Anànke indifferente a tutto cui bisogna obbedire,28 costrittiva, totalitaria e violenta. Fuggire senza guardarsi indietro, per volgersi non verso un “essere anonimo” retrostante ma verso un “Chi” davanti a noi, un “ente” pieno di affetto, di sollecitudine, di tenerezza, in comunione con il quale instaurare rapporti di comunione con altri. La fede per Šestov non è mistica, ma è «una seconda dimensione del pensiero», e al contempo una nuova dimensione dell’azione: presuppone l’individuazione, la relazione affettuosa con i propri oggetti e le persone care, siano pure strappati e impossibili da riottenere. La fede šestoviana, al contrario del sapere, che presuppone sempre la Besinnung (lo sguardo incurvato su di sé della ragione con cui essa produce-raffigura la realtà in base alle proprie leggi immanenti), è lotta per riconquistare quanto di più caro la ragione-realtà ci ha tolto, e innanzitutto per riorientare lo sguardo di umanità verso il creato e i volti delle creature. È sì «agonismo agonico» (Jankélévitch), ma solo perché si muove in un territorio ostile dove domina incontrastato un tiranno impietoso nei confronti del quale occorre resistere ostinatamente, con la dura cervice di chi combatte per la propria «difficile libertà». È agonismo perché è in esilio (la ragione è l’esilio), e deve passare per l’esodo dalla ragione perché non può tornare in nessuna casa familiare che ha già conosciuto, in quanto, tutto ciò che si conosce è il gia-da sempre conosciuto-prodotto della ragione, la casa della servitù (o degli specchi) dell’Anànke, il volto pietrificatore di Medusa. La proposta di Šestov è una lotta senza quartiere contro la ragione e contro il suo prodotto alienante e massificante, la realtà, dove non ci sono “nomi propri”, ma solo numeri, repliche, fatti che sono tanto più reali quanto meno sono individuali, già nel loro essere sottoposti allo sguardo dello scienziato:
Quale scienziato si ferma a osservare questa goccia d’acqua sospesa sul filo del telegrafo, o quell’altra, la goccia di pioggia che scivola sulla finestra? (AG p. 203).
E come se anticipasse la reificazione avvenuta nei campi di sterminio, prevedendo gli orrori che il sapere come tecnica — macchinazione cieca e neutrale — stava per approntare, Sestov avrebbe senz’altro citato i numeri tatuati sulle braccia dei prigionieri dei campi di sterminio, spesso usati come cavie per lo sviluppo della scienza, ridotti a mere repliche, da parte di uomini resi medium di una potenza demoniaca. Quella che la scienza (e con essa la filosofia dominante) individua come la realtà, è solo la realtà razionalizzata, o la ragione realizzata, quella dove tutti i possibili sono già attuali e previsti, anzi dove, letteralmente, non esistono veri possibili. Ogni vera possibilità è negata dove domina la cieca necessità, che il filosofo deve intelligere, senza flere né ridere, come insegnava Spinoza. Di fronte ad essa, Šestov riafferma i diritti dell’affettività, della capricciosa e zampillante esistenza, carica di emozioni grida lacrime tenerezze e amore, di tutta quella «difettiva e passeggera esistenza» che Hegel aveva screditato. Occorre però indicare dove possa cercarsi questa fede; essa è senz’altro “grazia” (qui deve aver svolto un ruolo ispiratore la conoscenza delle opere luterane), ma grazia che si produce attraverso uno strappo nella quotidianità, uno shock causato, all’interno della placida vita dell’uomo, dall’incursione del male.
5. La visita dell’angelo
La parte prima del libro Sulla bilancia di Giobbe è intitolata: Le rivelazioni della morte. In essa sono descritte quelle figure tragiche che hanno fatto un’esperienza straordinaria di risveglio dal mondo “incantato” della ragione. Si tratta precisamente di un presentimento vissuto della morte, di un’esperienza straordinaria che rende possibile la «seconda visione». Non si tratta dell’heideggeriana anticipazione della morte, giacché non vi è in essa nulla che l’uomo possa operare attivamente, nulla di progettabile o scelto: la rivelazione, o meglio le rivelazioni della morte giungono sempre «all’improvviso», «non richieste», «grazie ad un concorso di circostanze puramente accidentali» (BG p. 162). Nel sintagma rivelazioni della morte il genitivo non è soggettivo ma oggettivo. La morte non è, infatti, l’oggetto della rivelazione, ma solo il punto d’innesco. Essa è un enigma che contiene rivelazioni, ma soltanto se «si parte da essa»29 per allontanarsi dall’«universo comune a tutti; […] bisogna imparare a pensare in tutt’altro modo da come si pensa nell’“universo comune a tutti”» (BG p. 153). Come tale, quindi, la morte non è connotata positivamente. Nell’aforisma intitolato «Lo strale della morte» (BG §50, p. 303), Šestov chiarisce che essa è una realtà spaventosa, innaturale, anzi «l’anti-naturale, ciò che è contro natura, che non può esistere […] il meno naturale il più enigmatico, il misterioso». L’autore non si riferisce solo a quelle esperienze di pericolo estremo che si possono correre nella vita quotidiana, ma anche dell’esperienza della morte di altri, dell’orrore che si prova di fronte a un cadavere, soprattutto dei propri cari. Solo quando si trova di fronte all’orrore estremo della morte «l’anima si decide a compiere lo sforzo senza il quale non giungerà mai a elevarsi sopra il “quotidiano” … la deformità mostruosa della morte e le sue sofferenze ci costringono a dimenticare ogni cosa, […] e a partire alla ricerca di una realtà nuova». (Cfr. BG pp. 303-305) Lo stesso «pensiero» della propria morte ha la funzione di orientare l’uomo verso la ricerca en gémissant di «ciò che più importa» (ò timiòtaton): «Quando l’uomo pensa all’ora della sua morte, come mutano le sue priorità, i suoi criteri di valutazione! ». (BG p. 194). La funzione della morte, e dei «terrori a essa connessi» è fondamentalmente quella di «troncare tutti i fili sensibili che ci legano ai nostri simili, e condizione prima, inizio della rigenerazione dell’anima umana, è la solitudine assoluta» (BG p. 177).
Analogo ruolo hanno il dolore, la sofferenza, la follia, perché innanzi tutto essi isolano dalla «omnitudine». La solitudine assoluta è la condizione in cui all’uomo, tis ànthropos, irriducibile a ò ànthropos30, cioè questo singolo irripetibile e essere umano, è dato di «creare la verità»:
All’uomo è dato di creare la verità. […] Non esistono leggi al di sopra di lui. Egli è la misura di tutte le cose, ed è chiamato a legiferare come un monarca assoluto. (BG p. 223)
Vogliamo rilevare che il senso di quest’espressione («creare la verità») è da intendersi precisamente nel senso di un relativismo individuale (per lo meno di un relativismo individuale come lo intende Šestov). Nel primo studio consacrato a Husserl Memento mori, (si noti come già il titolo orienti nella prospettiva di una ricerca della verità a partire dalla meditatio mortis) scritto nel 1917, Šestov contesta al padre della fenomenologia precisamente il carattere totalitario della verità. Nelle prime pagine di questo studio troviamo due proposizioni, a nostro avviso, rilevanti in tal senso: «La verità suprema, autentica, sulla quale presto o tardi gli uomini si metteranno d’accordo, è che nel dominio metafisico non vi sono verità certe».31 Poche righe più avanti leggiamo: «La verità non solo esiste, ma vive, e non è mai uguale a se stessa, e non è neppure simile a se stessa» (ivi. p. 35).
Nell’aforisma 18 di BG, scritto pochi anni dopo, si chiarisce la relazione tra le due affermazioni. La verità, «che portano in sé gli dei immortali» non è «una», perché è «al di sopra delle leggi», cioè è al di sopra dell’unità sistematica e legalitaria del sapere. La «misura» della verità non è la legge, ma il tis ànthropos: è questo stesso tis ànthropos che, in sintonia col protagoreo homo mensura, (dove, l’homo non è la specie ma il singolo32) è partecipato il carattere della verità: la libertà, come volontà illimitata e pluralistica di vita. L’uomo può cercare e trovare la «propria verità», e quest’esigenza coincide con la «volontà di vita» come volontà di pluralità che è la «vera» essenza dell’essere. Già nel libro Apoteosi dello sradicamento (1905) questo tema è presente: «L’essere è incommensurabile col sapere», esso è «caos», cioè «volontà illimitata di vita… La «vita» stessa è dunque dis-ordine, anarchia, «miracolo continuo» .33 E in BG leggiamo:
L’idea di caos — Il caos non significa affatto una possibilità limitata di vita, ma precisamente una possibilità illimitata. C’è infinitamente arduo capire e accettare la libertà assoluta … il male non proviene dal caos ma dal cosmos». (BG pp. 283, 286)
In Potestas Clavium, commentando la filosofia di Schopenhauer, Šestov afferma che «la conoscenza razionale è il velo di Maya» che crea un mondo illusorio, mentre «l’essenza del mondo è la volontà».34 Questa non è la «volontà in generale, ma la volontà creatrice, vivificante […] che, al contrario di tutte le leggi eterne, è evasa dal seno del “generale”35 ». La «vera conoscenza» deve dunque ricercare, in seno a questa volontà, i «rizòmata pànton». In un lungo articolo dedicato a Plotino, contenuto in BG, Šestov, ripetendo questa prospettiva, conclude: «Laggiù persino la verità rifiuterà di costringere chiunque e accetterà gioiosamente la vicinanza di un’altra e opposta verità. » (BG p. 244). Quest’articolo è a nostro avviso importante per la peculiare interpretazione del pensiero plotiniano. Il ritorno all’Uno teorizzato da Plotino sarebbe infatti il momento della ricaduta nel sapere, quando il filosofo, per desiderio di insegnare la propria visione, affermerebbe il contrario di quanto ha sperimentato. Paradossalmente non si tratta, secondo Šestov, di tornare all’Uno ma di «allontanarsene il più possibile», perché proprio nel molteplice, che la ragione rifugge, si nasconde la verità. Nell’esperienza estatica, infatti, il filosofo s’innalza «al di sopra della ragione»; precisamente nella «fuga senza ritorno dalle evidenze della ragione» (BG p. 423) consiste invece, per Šestov, l’inizio del risveglio dall’«incubo della realtà visibile». (BG p. 439).
Parmenide Incatenato e BG si prestano certamente a un’interpretazione dualistica del rapporto morte-liberazione, nel senso che il regno della libertà sarebbe propriamente l’al di là. Nel complesso modo di scrivere di Šestov, in cui spesso molteplici piani metaforici sono compresenti, «morte» assume anche un significato mistico, così come «tenebra», «notte». Da questo punto di vista, «la rivelazione della morte» sarebbe propriamente il punto di rottura e di passaggio dalla realtà visibile della necessità a quella invisibile della libertà, e la sua prefigurazione. La morte stessa dunque apparirebbe come la vera liberazione, presentita-prevista dall’esperienza- limite della morte; e il risveglio definitivo dalla «realtà da incubo» sarebbe, in qualche modo, annunciato nel risveglio momentaneo che la rivelazione della morte comporta.
Negli scritti successivi (Nel toro di Falaride, Concupiscentia irresistibilis e Kierkegaard e la filosofia esistenziale) ci pare invece che la liberazione sia cercata e fatta valere in una prospettiva messianico-apocalittica, per cui “questo mondo” alla fine sarà riscattato attraverso una ripetizione, cioè una riconfigurazione del passato a misura della volontà (singolare!) umana. La peculiare interpretazione del tema dell’eterno ritorno di Nietzsche e la meditazione del tema della ripetizione di Kierkegaard, avranno il ruolo di indirizzare la risoluzione del problema del male in questa direzione.36 Tornando al tema iniziale di questo paragrafo, la «seconda visione», è a nostro avviso importante considerare le prime pagine di un saggio scritto nel 1921 dedicato a Dostoevskij, La lotta contro le evidenze, contenuto in BG. Nell’esergo di questo saggio è riportata una frase di Euripide (Frammento 639 N): «Chissà se forse vivere è morire e morire è vivere». Gli uomini «ordinari», che vivono nell’esperienza quotidiana organizzata dal sapere, sanno bene questa differenza, «chi è predestinato» invece, in momenti eccezionali, «sente» che la coscienza di questo discrimine vacilla e il piano della realtà si capovolge, questa vita apparendo come morte e viceversa. Si tratta del dono maledetto di una «seconda visione», che conduce colui al quale è rivolto, a vivere in un regime di contraddizioni insolubili tra la propria personale coscienza e quella della «omnitudine». A tale esperienza-limite è annessa una serie di correlati gnoseologici ed etici: «La seconda vista non insegna nulla» (BG p. 94), ma scuote solo a un risveglio personale, la cui testimonianza esterna è una continua inquietudine esistenziale. Ma quando avviene precisamente l’inizio di questa seconda visione? Šestov ricorre a un racconto, tratto «da un antico libro sapienziale». Schloézer pensa si tratti del libro di Ezechiele, ma Šestov non ci fornisce precisi riscontri bibliografici. Molto più probabilmente, come nota Massimo Giuliani, egli cita implicitamente il Talmud, precisamente il trattato Chagigà:
L’angelo della morte, che scende verso l’uomo per separarne l’anima dal corpo è tutto coperto d’occhi. E perché? A che fine l’angelo che tutto vede nel cielo e nulla ha da scrutare sulla terra, ha bisogno di tanti occhi? Ed eccomi a pensare che essi non siano per lui. Avviene che l’angelo della morte, nell’apparire all’uomo per portarsene via l’anima, si accorga di essere sopraggiunto troppo presto; che il termine dell’uomo, perché si distacchi dalla terra non è ancora scaduto. L’angelo sfiora la sua anima, non gli si mostra neppure; ma, prima di dipartirsene, gli lascia furtivamente altri due occhi degli innumerevoli di cui è coperto. E allora l’uomo comincia a vedere e vede egli stesso con gli occhi vecchi, cose del tutto nuove. E le vede nella loro novità, non già alla stregua degli uomini, ma come le possono vedere gli abitanti di “altri mondi”, sicché non gli appaiono più “necessarie”, ma “libere” […]. Ciò che scorgono i vecchi occhi naturali, gli “occhi di tutti”, contraddice pienamente la visione degli occhi lasciati dall’angelo. Ora, poiché tutti gli altri organi sensori e anche la ragione sono strettamente collegati con la nostra visione ordinaria e, del pari, a essa si ricollega l’“esperienza” dell’uomo, individuale e collettiva, le nuove visioni assumono un carattere apparentemente di anormalità, di gratuità insensata e immaginaria, e sembrano essere il prodotto di fantasmi o le allucinazioni di una mente in disordine. Ancora un passo e sarà la follia, non la follia ispirata, mistica, ma la pura e semplice follia da cella di manicomio. […] Allora inizia la lotta tra le due visioni — quella naturale e quella innaturale. (BG pp. 39-40)
Nel 1849 Dostoevskij fu accusato di cospirazione rivoluzionaria e condannato a morte. Condotto insieme ai suoi compagni — i membri del circolo Petraševskij -, sul luogo dell’esecuzione, venne graziato in extremis e condannato a quattro anni di lavori forzati in Siberia. La «visita dell’angelo» sarebbe avvenuta, per Dostoevskij, non quando ai piedi del patibolo gli fu letta la sentenza di morte, né quando poi, essendo questa trasformata in una lunga permanenza ai lavori forzati, egli dovette risiedere lungamente in una prigione fisica, bensì quando, ritornato alla sua esistenza «quotidiana», (confortata, tra l’altro, dalla predicazione ispirata dei valori umanitari e liberali della sua attività letteraria) egli si accorse all’improvviso che «il cielo e le mura della prigione, gli ideali e i ceppi, non si contraddicevano per nulla, ma s’identificavano». La testimonianza di quest’esperienza interiore sarebbe stata riportata, secondo Šestov, non nella Memoria di una casa di morti (scritta immediatamente dopo la sua prigionia) ma nei Ricordi del sottosuolo del 1862. Dostoevskij scoprì dunque il sottosuolo, (così come Platone, che lo aveva chiamato «caverna») in cui sono condannati a vivere tutti e che tutti considerano il solo mondo reale. L’ideale della realtà-sottosuolo è la legge, cioè il «due più due fa quattro». La seconda visione rinviene invece nel «due più due fa quattro» un principio di morte, perché essa testimonia che «la verità è al di là delle leggi»: attestazione spudorata poiché si fonda sull’ opposizione del proprio ‘io’ all’universo, opponendo lo scherno, la derisione e la beffa alle evidenze della ragione .37
Più che di dualismo ontologico potremmo parlare qui di dualismo prospettico: propriamente «la seconda visione» vede non già un altro mondo, ma questo in una prospettiva diversa. È una visione «che vede non ciò che è ma grazie alla quale ciò che si vede “per mia volontà” diventa ciò che è» (AG p. 267).
6. Lottare con Dio
Come abbiamo accennato, in Parmenide Incatenato (Prima parte di AG), la morte di Socrate è considerata l’evento in cui, per Platone, si concreta l’esperienza della morte di una persona amata. Il dolore da essa prodotto lacera il vissuto quotidiano e rende impossibile la continuazione pacifica dell’esistenza. Inizialmente non si cerca consolazione: si rifiuta il fatto avvenuto, si vuole che ciò che è stato non sia stato. Durante il lutto, il cuore pretende di rimodellare il passato secondo la propria «sciocca volontà» (è l’aggettivo usato dal protagonista dei dostoevskijani Ricordi del sottosuolo). La razionalizzazione (in senso psicologico) avviene sempre in un secondo tempo. Confrontata con la realtà esterna, la «propria volontà» pare irrevocabilmente sconfitta. Il caso del lutto trova parentela in altre esperienze analoghe di perdita (della patria, dei beni, del proprio status), ma anche dal dolore suscitato dalla vista dei propri simili sofferenti. È uno strappo da tutto ciò che riguarda la relazione tra il nostro «io» e quelli che lo stoicismo chiama «beni che non sono in nostro potere», gli oggetti del nostro amore concreto. Potrebbe a questo punto essere utile un confronto con quanto afferma Freud circa il lutto:
Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d’animo, la perdita d’interesse per il mondo esterno […] la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l’avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria. Comprendiamo facilmente che questa inibizione e limitazione dell’Io esprime una dedizione esclusiva al luto che non lascia spazio ad altri propositi ed interessi. […] In che cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l’esame di realtà ha dimostrato che l’oggetto amato non c’è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un’avversione ben comprensibile; si buon, infatti, osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica […]. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento della realtà e in una pertinace adesione all’oggetto consentita dall’instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento.38
Già scorgendo quest’analisi freudiana notiamo che Šestov si rifiuta al lavoro del lutto. Egli sceglie un’altra strada, che farebbe diagnosticare senz’altro a Freud una psicosi allucinatoria di desiderio. Šestov, in sostanza, nega il principio di realtà ed enfatizza talmente la libido da instaurare, sulla base di essa, una lotta contro la realtà. Probabilmente, questo tipo di atteggiamento sarebbe tacciato di infantilismo, tipico di quei bambini che non si rassegnano alla limitazione posta dal divieto genitoriale e continuano a battere i piedi e far strepito nell’attesa che qualcuno li oda. È senz’altro disturbante, ma è quello che Šestov propone: di fronte al dolore occorre continuare a battere la testa, i piedi, e alla fine «Qualcuno» ci ascolterà. Più volte Šestov dice: occorre bussare laddove, secondo l’opinione comune, non c’è porta: alla fine dovrà aprire Qualcuno. Non a caso, Šestov cita il Vangelo (Mc 11, 24): «Tutto quello che domandate nella preghiera abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato» (AG p. 173). Portando la tensione all’estremo, attraverso l’esperienza della «seconda visione» ottenuta dalla rivelazione della morte, Šestov ritrova quindi il Dio-Padre biblico, l’ Onnipotente, rispetto al quale tutto è possibile, o, negativamente, per cui nulla è impossibile. Onnipotenza del pensiero, la chiamerebbe Freud, Šestov la chiama: «fede». Eccone la definizione: «La fede è una forza creatrice misteriosa, è un dono incomparabile, il più grande dei doni, è il “potere di comandare” originario cui l’uomo partecipa, quello per cui tutto si compie secondo il proprio desiderio» (AG, pp. 244-245). E per meglio avvalorare cosa intenda per fede cita ancora Matteo (Mt 17, 20): «Se aveste fede come un granellino di senapa, potrete dire a questa montagna: spostati da qui a la, ed essa si sposterebbe e niente vi sarà impossibile (kài oudèn adunàtesei umìn) » (AG p. 339).
Follia, pensiero desiderante, fede. Il giudizio è rimesso al lettore, ma per meglio aiutare il suo giudizio, citeremo ancora alcune notazioni, di modo che l’invito šestoviano possa essere almeno meditato.
Enfant terrible. Il sapere infantile sembra agli adulti imperfetto, magari un po’ comico, in ogni caso inutile. I bambini non hanno ancora avuto il tempo di adeguarsi all’ambiente. “giudicano” senza tener conto delle condizioni fisiche e sociali dell’esistenza. Quasi tutti i bambini sono in un certo senso “maleducati” […]. Una madre teme a ragione che lasciato a se stesso il bambino commetta qualche sciocchezza, dica quello che non deve dire, faccia quel che non conviene. Infatti, gli manca il “sapere” di cui dispongono gli adulti. I bambini debbono essere sorvegliati finche non abbiano imparato a limitarsi… (BG p. 243)
Ma se si pensa che con questo Šestov neghi interesse verso le sofferenze degli altri, oltre che verso le proprie, lo si è mal compreso. I bambini sono di solito molto attenti al dolore, pur non avendo avuto il tempo di essere “venuti a patti” con la limitazione della realtà, e con la responsabilità connessa verso questa limitazione. Gli adulti sanno che non si può tutto. Appunto, lo sanno. Come Giobbe sapeva che non per colpa sua gli erano piombate addosso le sue calamità, ma per una sfida lanciata dal Satana a Dio. «Vediamo se il tuo servo reggerà», sembra suggerire il Satana a Dio,39 E Dio accetta la sfida. Ora, l’interpretazione šestoviana della figura di Giobbe è coerente con quanto siamo venuti qui dicendo: il Giobbe šestoviano non si arrende mai. Non accetta i suoi falsi consolatori, venuti a portargli le teodicee che pressappoco l’umanità erudita ha sempre rinverdito lungo la storia del pensiero teologico e filosofico: male come castigo, male come riparazione, male come espiazione, male come privatio boni. Il Giobbe šestoviano non è un combattente sconfitto. O, se lo è lui, di certo non lo è il suo doppio spirituale Lev Isaacoviè.
Nel bellissimo saggio La notte di Gethsemani, contenuto in BG, Šestov accosta la posizione di Gesù in agonia nell’orto a quella di Giobbe. Gesù, lasciato solo dai suoi discepoli, li invita a non dormire. E Pascal commenta: «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: per tutto questo tempo non bisogna dormire40». Analogamente, commentando i lamenti di Giobbe («pesate i miei spasmi e sul piatto mettete la mia cancrena peseranno più che le sabbie di tutti i mari, perciò barcollano le mie parole41») , Šestov risponde:
Dio stesso ha aggiunto le proprie sofferenze alle sofferenze di Giobbe e, alla fine del mondo, il peso del dolore divino vincerà quello della sabbia del mare. Nel frattempo — ed è qui l’essenziale della filosofia di Pascal, così diversa da ciò che viene designato di solito con questo nome — in questo mondo stregato non cerchiamo né certezza né stabilità. Non dobbiamo essere tranquilli, non dobbiamo dormire (BG p. 388, corsivo nostro).
Forse in questo invito a non dormire, a vegliare e pregare, più che nell’enfasi bellicosa di una lotta senza quartiere contro la tirannia della ragione, c’è il segreto dell’impresa šestoviana, che può essere urlo e strepito, ma fu, per chi lo conobbe, soprattutto preghiera silenziosa e testarda al Dio onnipotente per il Tiqqùn Olàm, la riparazione del mondo. Un Giobbe che non si accontenta di riavere altri figli, ma vuole esattamente i suoi. Veramente vittorioso, dunque, senza la “ripetizione” sublime in un altro mondo, né in questo mondo ma con altri figli. Risveglio del desiderio metafisico di riparazione del mondo, l’invito presente in tutta l’opera di Šestov è quello a ritornare a fidarsi di Dio, a sradicarsi dalla ragione per incamminarsi nel deserto, affinché nell’alleanza con il Padre il mondo sia portato a riparazione. Questa lotta ha la violenza della profezia, ma anche la tenerezza della preghiera en gémissant da dentro l’abisso del male rivolta a Chi vuole e può venire in aiuto: «Dal profondo a te grido, o Signore. Signore ascolta la mia voce, siano i tuoi orecchi attenti alle voci della mia preghiera» (Sal 130, 1-2, citato in AG p. 143). Una preghiera con tutte le forze di cui un uomo sia capace, ma anche una scommessa. Šestov scommette su Dio ben più di quanto non debba fare il libertino di Pascal. Scommette sull’alleanza con Dio, che non può volere il male. E dunque la sua preghiera-scommessa diventa lotta insieme a Dio contro il male.
Lottare con Dio, scandaloso equivoco metafisico. Come dobbiamo comprendere questo “con”? Si può lottare con la malattia, nel senso che si lotta contro la malattia. Si lotta con il medico contro la malattia, nel senso che si lotta insieme con il medico. E appunto questo vuol dire «lottare con»: insieme a Dio lottare contro il dio della filosofia, il che vuol dire: insieme a Dio, dalla parte di Dio e in alleanza con Lui, occorre distruggere l’idolo che costruisce la realtà e che pretende il posto di Dio. Contro il dio della filosofia, insieme al Dio della fede: «Una lotta grande ed estrema attende le anime», diceva Plotino42 ed è una lotta che non ha fine, finche durerà questo tempo, suggerisce Šestov. Forse è qui la più profonda cifra di quello che Fondane chiamò: il giudaismo perduto di Šestov. Massimo Giuliani suggerisce l’ipotesi che Šestov riprenda la tradizione cabalistica della devequt (unio mystica) con la verità nascosta l’ideale, che vivrebbe di una costante lotta contro idolatria, lotta anti-nomica in quanto anti-idolatrica.43 La frase con cui Šestov conclude l’aforisma LIV della quarta parte di AG, recita: «La verità è ciò che passa davanti alla storia e che la storia non nota» (AG. p. 1197). Affermazione che sembra una ripresa letterale di un noto adagio chassidico riportato da Martin Buber:
Il Baalshemtov diceva: «Che significa il detto: “La verità si fa strada in tutto il mondo?” Significa che essa viene scacciata di luogo in luogo e deve continuare a vagare per il mondo.»44
Tale carattere dell’ebraismo šestoviano veniva ben riconosciuto dal giovane Levinas, che recensendo l’opera Kierkegaard et la philosophie Existentielle, uscita a Parigi nel 1936, scriveva:
Coloro che vogliono ripensare e rivivere il loro giudaismo in quanto religione, e che non possono accontentarsi di ricerche filosofiche sul passato d’Israele, e che sono stanchi delle sterili estasi davanti alla bellezza del Decalogo e alla morale dei Profeti […] devono leggere Lev Šestov, […] un filosofo della religione che rimette in valore i problemi della salvezza, cioè il messaggio stesso del giudaismo. E ciò in una maniera più radicale che mai, perché la filosofia esistenziale — Šestov lo mostra ammirevolmente — fa esplodere la sintesi dello spirito greco e dello spirito giudeocristiano che il Medioevo credeva di aver compiuto.45
Del resto, in tutto il capolavoro di Šestov, Atene e Gerusalemme, non fa che udirsi amplificato il grido del Salmista: «Che mi si paralizzi la destra e la lingua mi si attacchi al palato se io ti dimentico, Gerusalemme! » (Sal 137/136 5-6; citato in AG p. 195). La lotta contro la ragione di Šestov non è quindi che l’altra faccia della Teshuvà (conversione-ritorno) non all’uno totalitario e neutro del sapere, ma al Dio biblico, il veramente Abbà.
Per comodità, citeremo entro parentesi tonde i riferimenti alle due maggiori opere šestoviane, seguiti dal numero di pagina, così abbreviate: AG = Atene e Gerusalemme. Saggio di filosofia religiosa, a cura di A. Paris, Bompiani, Milano 2005; BG = La Bilancia di Giobbe, tr. it. di A. Pescetto, Adelphi, Milano 1991. Gli altri riferimenti alle opere di Šestov saranno per lo più citati in nota a piè di pagina.
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A. Camus, Il Mito di Sisifo, Bompiani, Milano 1994, p. 26. ↩︎
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G.W. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Roma-Bari, 1989, p.19. ↩︎
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A. Camus, Il mito di Sisifo, cit. p.7. ↩︎
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Citato da Šestov in Sulla Bilancia di Giobbe, tr. it. di A. Pescetto, Adelphi, Milano 1991, BG p.482. ↩︎
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«…Circa le cose della fortuna, o che non sono in nostro potere … aspettare e sopportare l’uno e l’altro volto della fortuna, giacché tutto segue dall’eterno decreto di Dio con la medesima necessità con cui dall’essenza del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti », B. Spinoza, Etica, Parte II, Prop. XLIX, Scolio (Tr. it., G. Durante, Bompiani, Milano 2007, p. 231). ↩︎
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E. Wiesel- J. Eisenberg, Giobbe o Dio nella tempesta, SEI, Torino1989, p. 297. ↩︎
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E. Wiesel, L’ebreo errante, Giuntina, Firenze, 1998, p. 104. ↩︎
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Cfr. B. Fondane, “Chestov à la recherche du judaïsme perdu”, in «La revue juive de Genève», Avril 1936, pp. 326-8. ↩︎
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N. Baranoff- Chestov, Vie de Léon Chestov, 2 voll., La difference, Paris, 1991-1993. Da quest’opera traiamo questi spunti biografici. ↩︎
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Baranoff- Chestov, cit., I, p. 45. ↩︎
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L’idèe de Bien chez Tolstoj et Nietzsche.Philosophie et prèdication, tr.fr. T. Rageot-Chestov e G. Bataille, Vrin, Paris 1949, p. 254 ↩︎
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N. Baranoff-Chestov, cit., I, p. 130. ↩︎
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N. Baranoff-Šestov, cit., I, p. 148. ↩︎
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L’opera si compone di quattro parti più la prefazione, di cui per comodità nella successiva esposizione, diamo il dettaglio, seguendo l’ordine di effettiva redazione: Prefazione. Sapienza e rivelazione (1937); 1) Parmenide incatenato. Le fonti delle verità metafisiche (1930); 2) Nel Toro di Falaride. Il sapere e la libertà (1932); 3) La filosofia medievale. Concupiscentia irresistibilis (1935); 4) La seconda dimensione del pensiero. Lotta e speculazione (1923-1929). ↩︎
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Tr.it., L. Šestov, «Alla memoria di un grande filosofo: E. Husserl», in Contra Husserl.Tre saggi filosofici, a. c. di F. Déchet, Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 141-171. ↩︎
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Ivi, pp.141-142. ↩︎
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Ivi, p. 143, 144. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 145. ↩︎
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Ivi p. 147. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Lettera del 29 settembre del 1932, trad. di C. Milani, cfr. «Humanitas» 64/3 (2009), 521-545. ↩︎
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La Città di Dio, Città nuova, Roma 2006, p. 593. ↩︎
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Ivi, p. 592. ↩︎
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Cfr. «Humanitas» 64/3 (2009) 509-520. ↩︎
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E. Levinas, La traccia dell’altro (1963), in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina, Milano 1998 pp. 217, 218. ↩︎
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«La filosofia e l’idea di infinito», in E. Levinas, Scoprendo l’esistenza.., cit., p. 195. ↩︎
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«La libertà heideggeriana è obbediente, ma l’obbedienza le permette di sorgere senza mettere in questione, senza rilevare la sua ingiustizia» (E. Levinas, Scoprendo l’esistenza…, cit. p. 194.) ↩︎
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«E’ da qui che bisogna partire.», BG p. 304. ↩︎
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Cfr. Potestas Clavium [1919], trad. franc: Le Pouvoir des clefs, a. c. di B. de Schloézer, (Schiffrin, Paris 1928), Flammarion, Paris 1967, p. 172. ↩︎
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Cfr. L. Šestov, Contra Husserl. Tre saggi filosofici, a. c. di F. Déchet, Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 34. ↩︎
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BG p. 221 ↩︎
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Cfr. L. Šestov, L’Apothéose du Déracinement, in La Philosophie de la tragédie. Dostoevskij et Nietzsche e Sur les Confins de la vie. L’Apoteose du Dèracinement, tr. fr. B. De Schloézer, Unico volume, Flammarion Paris 1966, p. 299. ↩︎
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L. Šestov, L’Apothéose du Déracinement, cit. p. 241, corsivo nostro. ↩︎
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Ivi p. 244. E ancora: «Il generale, l’immutabile sono per essenza il non essere (Ivi p. 255)». ↩︎
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Ci sia permesso rinviare, per tutta questa problematica, alla nostra «Introduzione» in Atene e Gerusalemme, cit., pp. 79-83. ↩︎
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Cfr. BG p. 66. ↩︎
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S. Freud, Lutto e Melanconia (1915) in La teoria psicanalitica, a c. di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 191-2. ↩︎
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Cfr. J.Eisenberg-E.Wiesel, Giobbe o Dio nella tempesta, cit. pp. 36-37. ↩︎
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B. Pascal, Pensieri, tr. it. di P. Serini, Einaudi, Torino, fr. 806, p. 352 (ed. Brunschvicg, fr. 553). ↩︎
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Gb 6, 2-3, (trad. G. Ceronetti). ↩︎
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Plotino, Enneadi, I, 6, 7 ↩︎
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Cfr «Humanitas» 64/3 (2009), pp. 509-520. ↩︎
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M. Buber, I racconti dei Hassidim, Guanda, Parma, 1992, p. 70. ↩︎
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Revue des Études juives, julliet-dècembre 1937, p.141, cit. in M.-A. Lescourrett, Emmanuel Levinas, Flammarion, Paris 1994, p. 180. ↩︎