La Lichtung e la serra. Il processo di ominazione e la nascita della civiltà nell’interpretazione di Peter Sloterdijk

1. Introduzione

In questo contributo intendiamo delineare alcuni tratti fisiognomici del Dasein heideggeriano in relazione all’interpretazione sloterdijkiana della nozione di Lichtung. Tenendo conto del fatto che – in forza del domandare ontologico heideggeriano – occorre eludere la formulazione di una teoria del tempo, la domanda che proporremo non riguarda né il ʿchiʾ né il ʿquandoʾ del Dasein, ma il ʿdoveʾ. La categoria centrale del percorso che seguiremo è dunque quella di spazio. A tal fine, Peter Sloterdijk è la guida ideale. La nozione di sfera rappresenta il modo in cui l’autore si è occupato di questa centrale categoria filosofica. Pur essendo sviluppata nella trilogia di opere che porta proprio il titolo di Sfere, il fondamento originario di questo concetto emerge in uno dei saggi contenuti in Nicht Gerettet (Non siamo ancora stati salvati). L’opera in questione è una raccolta di saggi dopo Heidegger, nel semplice senso che, come egli stesso afferma, si collocano temporalmente dopo il celebre filosofo tedesco e tengono conto dell’eredità del suo pensiero. Ma Sloterdijk non tarda a specificare la sua inappartenenza all’heideggerismo, di cui piuttosto rivela le criticità. Si tratta, secondo le sue stesse parole, di «pensare con Heidegger contro Heidegger».1 Come avremo occasione di vedere, gli autori che maggiormente lo accompagneranno in questo percorso sono Friedrich Nietzsche e Oswald Spengler.

2. La Lichtung, ovvero il «divenire uomo»

Nel saggio Domestikation des Seins – La domesticazione dell’Essere. Lo spiegarsi della “Lichtung” – Peter Sloterdijk sviluppa il suo concetto di domesticazione a partire dalla nozione heideggeriana di Lichtung. L’origine di questo termine – pur contenendo la parola Licht (luce) – proviene dal verbo Lichten, diradare. Questo dettaglio è utile a comprendere che la “luminosità” donata dalla Lichtung è la conseguenza di un’azione di diradamento.2 L’immagine che aiuta a comprendere il significato di questo concetto è il luogo della selva, dove la luce è nascosta dall’ambiente circostante. La Lichtung non consiste nella pura e semplice esistenza della luce al di là della fitta boscaglia, ma nell’atto di diradamento della selva al fine di ottenere una chiara visione delle cose. È dunque la realizzazione della radura il senso più profondo della Lichtung; il rischiaramento della luce, che permette la visione, ne è la conseguenza. Allora, ciò che implica principalmente questa fondamentale nozione heideggeriana non è un particolare processo intellettuale, ma un atto che si realizza a livello spaziale. Nel fare spazio alla visione – più che nella visione stessa – risiede la sua più intima essenza. Essa non è data, né esperibile, senza un atto decisivo. Essa è anzitutto un fare. Per ciò stesso, secondo la definizione spengleriana, è una tattica – ovvero, una tecnica.3 Tutto ciò, lo vedremo più avanti, ha a che fare con lo spazio del Dasein e con la rivoluzione heideggeriana dell’impianto metafisico.

Alla nozione di Lichtung Sloterdijk unisce il concetto di «antropotecnica», mutuato dalle tesi dell’antropologia storica, secondo cui la formazione della ʿspecie uomoʾ si configura come un prodotto o un risultato paranaturale. Con le parole dell’autore:

[…] “l’uomo” in quanto specie, e in quanto matrice degli individui possibili, è una grandezza che non può mai darsi nella semplice natura, e che si è potuta formare solo come effetto di ritorno di prototecniche spontanee, nelle “comunità abitative” con cose e animali, in processi di formazione lunghissimi, in cui ben presto si mostra una tendenza paranaturale.4

L’autore intende esplicitare la posizione estatica dell’uomo nel mondo come una condizione di natura «tecnogena».5 Se ne ricava la volontà di mettere in connessione il modo spengleriano di organizzare il rapporto fondamentale fra uomo e tecnica6 e i concetti heideggeriani di Lichtung, e-stasi ed essere-nel-mondo. Tale connessione articola a sua volta una comparazione con le moderne scienze della natura, anzitutto l’etologia e l’antropologia storica.7 Il proposito principale è quello di far dialogare Heidegger con quelle scienze antropologiche, paleontologiche e sociologiche che egli non teneva in considerazione.8 In tal senso, sostiene Sloterdijk, la Lichtung emerge in seno a due avvenimenti fondamentali: 1) Il divenire mondo del “pre-mondo” (l’ambiente-Umwelt); 2) Il divenire uomo dei “pre-ominidi”. Da qui si comprende che la nozione di Lichtung riguarda da un lato quel che Heidegger chiama «la meraviglia di tutte le meraviglie: lo scoprire che in generale l’ente è» – nella misura in cui «“è” significa essere aperto, in un modo assolutamente semplice, del tutto sorprendente ed esposto, per gli uomini che meditano sul fatto che sono “nel mondo” o presso l’“essere”9» – e dall’altro la questione scientifica dell’emersione della specie “uomo” a partire dalla peculiare trasformazione di un tipo di “essere vivente”. In questo senso l’autore intende andare oltre Heidegger.

D’altra parte, egli non intende incappare nell’errore comune a tutte le suddette scienze, compreso l’evoluzionismo,10 che presuppongono «“l’uomo” per poi ritrovarlo in qualche modo negli stadi preumani».11 Sloterdijk afferma che il concetto di uomo è intimamente legato alla sua storia e che il processo di ominazione riguardi il «dramma silenzioso del suo creare spazi».12 Non si tratta di intendere il prodotto-uomo in senso creazionistico. Il creazionismo, per l’autore, non spiega alcunché, in quanto spiega dall’alto. La questione della Lichtung riguarda invece il piano orizzontale dell’evento (Ereignis). L’uomo condivide con l’animale una simile origine biologica, ma, in quanto prodotto antropotecnico e paranaturale, s’innalza ad uno stato ontologico che lo rende più vicino agli dei che ai suoi simili. Rispetto all’animale, che vive nell’ambiente circostante (Umwelt), l’uomo diviene qualcosa di mostruoso (Ungeheuer), in quanto il suo apparire nella Lichtung consiste in una separazione dall’ambiente circostante, cioè nell’abitare un mondo. In tal senso, la Lichtung (che coincide col «divenire uomo»13) è un’e-stasi; lo è in quanto indica un’apertura dell’anello-gabbia dell’Umwelt, all’interno del quale non è possibile concepire alcuna creazione. La radura dell’ambiente coincide con la creazione e l’abitazione del mondo. Il venire al mondo, che indica l’uscita verso un Fuori di cui l’animale ha un’esperienza limitata o addirittura nulla, spiega, dal punto di vista dell’animale, la fisionomia umana come dio mostruoso.

L’operazione che era stata attribuita a un creatore e protettore divino, deve venir assunta ora da un meccanismo che de-animalizza l’animale e lo rende così mostruoso [ungeheuer] da trasformarlo in quell’esistente [Da-Seienden] che si trova nella Lichtung.14

La differenza fondamentale fra l’uomo e l’animale consiste dunque nel fatto che il secondo si rapporta alla vita, mentre il primo – nel suo venire al mondo – si inoltra nel problema della verità. In tal senso, Sloterdijk si mostra critico nei confronti di Heidegger e del suo presunto distacco dalla teologia e dalla metafisica tradizionale. Partendo da uno spunto nietzschiano,15 l’autore sostiene che il progetto heideggeriano si limita a sostituire la nozione di Dasein a quella di Dio – in quanto attorno a entrambi, nelle due prospettive, tutto diviene «mondo» – e quella di Aperto al concetto di infinito – in quanto l’apertura al mondo sostituirebbe l’Umwelt con un ambiente sconfinato, senza limiti. Lo smisurato, o mostruso, [Ungeheur] è ciò che caratterizza l’uomo; perciò, la Lichtung inaugura una «antropodicea antropo-mostruosa».16 La mostruosità, lo smisurato (nel doppio significato del termine Ungeheur), contrassegnano gli eventi che caratterizzano il XX secolo – dallo sgancio della bomba atomica nel 1945 alla clonazione della prima pecora nel 1997. Tutte le creazioni e distruzioni dell’uomo si producono nella Lichtung. Essa dispiega l’abisso senza fondo (Abgrund) del XX secolo.

Per circoscrivere la postazione di Sloterdijk occorre anzitutto svincolarsi da ogni risposta semplicistica circa il ʿchiʾ da cui proviene il prodotto uomo. Non è Dio, né l’uomo stesso la (non) risposta. La prima non fornisce alcuna spiegazione; la seconda presuppone l’oggetto della risposta nella domanda – e dunque è logicamente insensata. L’autore si rivolge piuttosto al pre-uomo. Si tratta di comprendere le origini pre-(i)storiche del passaggio «dall’ambiente all’estasi del mondo».17 Per far ciò bisogna distaccarsi da quelle interpretazioni che presentano Heidegger come il filosofo della temporalità. L’idea di Sloterdijk è che la categoria fondamentale dell’heideggerismo sia quella di spazio. D’altra parte, alcuni passaggi di Lettera sull’umanismo volgono verso questa prospettiva:

L’uomo è il pastore dell’essere […] L’essere è ciò che è più vicino. Eppure questa vicinanza resta per l’uomo ciò che è più lontano. […] il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste. […] Così, nella determinazione dell’umanità dell’uomo come e-sistenza, ciò che importa è allora che l’essenziale non sia l’uomo. Ma l’essere come dimensione dell’e-staticità dell’esistenza. La dimensione, tuttavia non è ciò che è noto come spazio. Piuttosto, tutto ciò che è spaziale […] dispiega la sua essenza in quella dimensionalità che è l’essere stesso.18

«L’e-sistenza è l’abitare e-statico nelle vicinanze dell’essere […] abitare è la vicinanza all’essere».19 Il tema heideggeriano dell’abitazione dell’essere – metafora ancora una volta di origine nietzschiana –20 fornisce all’autore lo spunto per porre la domanda su «ciò che originariamente “spazializza” lo spazio».21 Il passaggio al sapiens, ovvero l’e-stasi del divenire uomo ed abitare il mondo in prossimità della casa dell’essere, dev’essere osservato in termini spaziali. In questo punto prende corpo la nozione di sfera. Essa è lo spazio del poter essere, in cui avviene la domesticazione ed in cui appare per la prima volta la Lichtung. In netto contrasto col darwinistico struggle for life, che si fonda sulla sopravvivenza dei più forti (o dei più adatti), la sfera si configura come una serra in cui gli animali possono sviluppare un potere plastico, sopravvivendo in «speciali condizioni climatiche che si sono autoprodotti».22 La sfera, in quanto serra che permette a certi animali di usufruire di una sorta di “lusso ambientale”, risponde spazialmente alla domanda sul passaggio spazio-temporale dall’ambiente al mondo. La sfera è la condizione di possibilità mediana di questo passaggio. «Lo sferico», precisa l’autore, «è il valore medio tra l’impermeabile chiusura dell’animale nell’anello dell’ambiente e la luminosa [Lichten] apocalissi dell’essere».23 Come vedremo, il termine medio di questo passaggio è la tecnica.

3. Gli stadi dell’ominazione

In termini onto-antropologici (tale appare il metodo di Sloterdijk, a cavallo fra le scienze etologiche e l’heideggerismo), l’autore anticipa il procedere del suo discorso:

Se vogliamo interpretare il divenire uomo e la Lichtung a partire dalla “casa”, allora deve esserci già presso i presapiens, che sono ancora prevalentemente degli animali, qualcosa di simile a una formazione interiore e a una costruzione delle abitazioni […]. Guardiamo dunque come si rappresentavano, quegli animali che un giorno compiranno il salto verso il divenire uomo, quella dimensione interna in cui questo salto accadde. Tentiamo di ricostruire come entrò in gioco l’effetto serra che rese possibile il fiorire dell’estasi umana.24

Il divenire uomo nella sfera-serra dell’animale avviene attraverso quattro meccanismi: Insulazione, Liberazione dai limiti corporei, Neotenia (o Pedomorfosi) e Trasposizione. La base scientifica della fase dell’Insulazione è lo studio di Hugh Miller;25 questi ha constatato l’esistenza di «esemplari che vivono preferenzialmente ai margini delle comunità», che, proprio in conseguenza della loro postazione, «producono […] l’effetto di una parete vivente, al cui lato interno si crea un vantaggio climatico per gli individui del gruppo che abitualmente soggiornano al centro».26 Questo fenomeno consentirebbe alle madri dei piccoli di usufruire di un ambiente privilegiato. L’allevamento della progenie avviene dunque in uno spazio “viziato” in cui i piccoli usufruiscono di peculiari condizioni di sicurezza rispetto alle altre comunità. Ciò permette di ricostruire un paradigma non adattivo alla base dell’evoluzione delle specie. Esso, tuttavia, rimane legato ancora al mondo-ambiente e può giustificare lo sviluppo di primati più “intelligenti”, ma non la nascita dell’homo technologicus.

A questo punto, l’autore interpella lo studio di Paul Alsberg27 sull’antropogenesi come liberazione dei limiti corporei. L’insulazione è pre-condizione “lussureggiante” che permette all’animale, che non si deve difendere come i suoi simili dalle insidie dell’ambiente, di sviluppare una curiosità nei confronti degli oggetti che lo circondano. Da qui nascerebbe il primo approccio all’oggetto-strumento. Esso rappresenta il primo passo per l’evasione dall’ambiente naturale «attraverso alcune azioni preumane: il superamento dei limiti corporei dipende da una specifica attivazione della mano».28 I presupposti di questo discorso sono riconducibili a Spengler:

Che cos’è l’uomo? In che modo è diventato uomo? La risposta suona: con la comparsa della mano […]. Essa distingue non solo il caldo e il freddo, il solido e il liquido, il duro e il molle, ma anche il peso, la forma e il luogo delle resistenze, insomma le cose nello spazio. […] All’occhio del predatore, che è il teorico dominatore del mondo, la mano dell’uomo si aggiunge in qualità di dominatrice pratica. Essa deve essere sorta all’improvviso, in confronto al ritmo delle correnti cosmiche, rapida come un lampo, come un terremoto, come tutto ciò che è decisivo nelle vicende del mondo, che fa epoca nel senso più elevato. Anche su questo punto dobbiamo sbarazzarci delle vedute del secolo scorso quali […] sono espresse nel concetto di «evoluzione».29

Spengler teorizza l’apparizione dell’uomo, in aperto contrasto con l’evoluzionismo, come un evento improvviso. Il carattere predatorio configura solamente il dominio teorico sul mondo; è l’apparizione della mano a permettere una dominazione pratica. In questo preciso attimo si inscrive la nascita dell’uomo. L’evento improvviso «che fa epoca» schiude il concetto filosofico di evento [Ereignis], del tutto opposto alla teoria processuale (o progressiva) dell’evoluzionismo. L’attivazione della mano è immediatamente legata all’uso dell’arma e, ancor più, alla sua fabbricazione:

Tutto sorge insieme e improvvisamente. […] Ma non soltanto la mano, l’andatura e l’atteggiamento dell’uomo debbono essere sorti contemporaneamente; anche […] la mano e lo strumento. La mano disarmata per sé sola non ha valore. Essa esige l’arma, per diventare a sua volta un’arma. Come lo strumento si è foggiato sulla forma della mano, così, viceversa, la mano si è foggiata sulla forma dello strumento. È assurdo voler separare queste cose nel tempo.30

Non c’è dunque un vero e proprio processo del divenire uomo. C’è un lampo tecnico che schiude la figura umana. Ciò che fa dell’apparizione della mano il tratto caratteristico della nascita dell’uomo è la sua inseparabilità dallo strumento che verrà impugnato:

Nessun altro animale da preda sceglie l’arma. L’uomo non solo la sceglie, ma la fabbrica […]. Con ciò conquista una terribile superiorità nella lotta contro i suoi simili, contro gli altri animali, contro l’intera natura. È questa la liberazione della costrizione della specie, fatto unico nella storia dell’intera vita sul pianeta. Con ciò è sorto l’uomo. Ha reso la sua vita indipendente, al massimo livello, dai condizionamenti del corpo.31

L’uomo rispetto agli animali si libera dunque dalle costrizioni della specie e dai condizionamenti del corpo perché possiede la mano, che è la condizione necessaria affinché egli possa sviluppare un rapporto simbiotico con un’arma. Questo rapporto è all’origine della tecnica: ovvero dell’uso e, ancor più, della fabbricazione dello strumento. Quel che Heidegger definisce Lichtung, in Spengler è l’insorgenza sincronica della mano e dello strumento – cioè dell’uomo e della tecnica. In Genealogia della morale, Nietzsche critica apertamente la teoria dell’«adattamento» sostenendo che essa sia un’«attività di second’ordine», anzi: «una semplice reattività». Se si pone in primo piano l’«adattamento», prosegue l’autore,

viene disconosciuta […] l’essenza della vita, la sua volontà di potenza; ci si lascia sfuggire la priorità di principio che hanno le forze spontanee, aggressive, sormontanti, capaci di nuove interpretazioni, di nuove direzioni e plasmazioni, alla cui efficacia l’«adattamento» viene solo dietro; si nega così nell’organismo il ruolo egemonico esercitato dai più alti detentori delle sue funzioni, nei quali la volontà vitale si manifesta in guisa attiva e informante.32

L’organo e la sua funzione sono legati solamente da un artificioso preconcetto logico; la sola forza che, sormontando ogni teoria biologica e fisiologica, stabilisce la funzione che l’organo andrà a costituire è la volontà di potenza.33 Non il caso, dunque, risiede alla base dell’attivazione della mano e della nascita dell’uomo, della Lichtung heideggeriana e della liberazione della costrizione della specie di Spengler: è la volontà di potenza all’origine del divenire uomo e dell’evento. Su queste basi, Sloterdijk sostiene che tramite una pietra – o più genericamente, attraverso il mezzo duro – il preominide sviluppa una reazione positiva alle insidie dell’ambiente, distaccandosi dunque dalla corrispettiva reazione negativa della fuga.34 Da questo momento egli sviluppa un potere, una scelta fra due opzioni possibili. Colpire e tagliare delineano uno spazio rispetto ai contatti corporei con l’ambiente circostante, ponendo un medium prototecnico fra l’animale e la natura. Ma è attraverso il lancio che il preominide supera lo spazio più prossimo e crea nuovi spazi – ampliando così il suo «mondo»:

[…] i confini dei miei lanci sono i confini del mio mondo. Lo sguardo che segue il lancio di una pietra è la prima forma di teoria. […] Se l’uomo è l’animale che ha un progetto, è tale perché, attraverso una competenza presto acquisita e ancorata all’organismo, ha in sé la disposizione ad anticipare i risultati dei lanci.35

Il progetto è l’anticipazione delle possibilità del lancio – ovvero di un nascosto che si manifesta. Ci troviamo di fronte alla prima formazione di una teoria.36 Essa nascerebbe insomma dall’osservazione del lancio di una pietra e dalla formulazione preventiva delle ipotesi sul risultato che si potrebbe ottenere. Sloterdijk radicalizza questo concetto sostenendo che l’utilizzo del mezzo duro e la tecnica del lancio costituirebbero la formazione di un pre-linguaggio:

Il fare centro è la forma primitiva della frase. Il lancio riuscito è la prima sintesi di soggetto (pietra), copula (azione) e oggetto (animale o nemico). Il taglio penetrante prefigura il giudizio analitico. Le frasi sono mimesi del lancio, del colpo, e del taglio, nello spazio dei segni: le affermazioni sono la trasposizione dei successi nel lancio, nel colpo e nel taglio, mentre le negazioni vengono generate dall’osservazione dei lanci che mancano il bersaglio, dei colpi mal riusciti e dei tagli falliti.37

Ne viene che la sede primigenia della casa dell’essere non è il linguaggio, come afferma Heidegger, bensì il pre-linguaggio del tagliare e lanciare e, ancor più, la sua successiva formalizzazione tecnica.38 È dunque dalla distanza creata con l’ambiente che viene premiata una specie piuttosto che un’altra, e non il suo contrario. Con ciò il paradigma darwiniano è destituito di fondamento.

Per comprendere la fase successiva dell’evoluzione, l’autore si rivolge al paleoantropologo Louis Bolk ed al suo teorema della fetalizzazione.39 Esso si basa su due processi indissolubilmente legati: la cerebralizzazione e la prematurazione. Questi conducono ad una «rivoluzione temporale che oscilla tra una rischiosa anticipazione del momento della nascita e un rinvio molto lungo del divenire adulto […]40». La causa di questo processo sarebbe da ascrivere alla smisurata crescita del cranio, dovuta al contesto lussureggiante della serra. Questo sviluppo cerebrale lussureggiante si accompagna al potenziamento dell’infantilità. L’ominazione è un lussureggiare in quanto la selezione è, sotto questa luce, ascritta ai fenomeni dell’effetto serra e dell’insulazione. Al tempo stesso, essendosi sviluppato in un lusso prototecnico avulso dall’ambiente, l’uomo rimane in uno stato fisico larvale. La serra è una sorta di «parco autogeno»; gli uomini sono perciò degli esseri viventi che, prima ancora di venire al mondo, vengono alla serra – una serra che «per loro significa il mondo».41

Sulla base di questi presupposti, Sloterdijk interpreta in modo peculiare il concetto di Cura (Sorge) heideggeriano: esso è da intendersi come una costante stabilizzazione della condizione viziata dell’uomo, senza la quale egli non avrebbe alcuna chance di sopravvivenza. «Il viziare obbliga ad avere cura e l’aver cura stabilizza la condizione viziata. Ciò che Heidegger chiama “la cura” è l’autoassicurazione di questa condizione viziata».42 Da queste considerazioni di carattere spaziale, deriva una diversa percezione del tempo. Nella Cura si esprime anche il senso del tempo di questi mammiferi, che devono «divenire animali-da-cura [Sorge-Tiere] […] che si riorganizzano per il giorno successivo e per quello che viene dopo, poiché già ora vivono più nel passato e nel futuro che nel presente continuo dell’animale».43 L’uomo lussureggia ontologicamente e fisiologicamente in quanto vive nelle serre; e «un giorno queste serre […] si chiameranno civiltà [Kulturen]44». Se volessimo applicare ancora una volta il lessico spengleriano, l’operazione di Sloterdijk si rivela come un’interpretazione heideggeriana di Spengler e spengleriana di Heidegger. Il concetto di Cura, che determina la connotazione spazio-temporale dell’essere uomo nella Lichtung, consisterebbe in un perpetuo ripristino della condizione viziata nelle serre e nelle civiltà [Kulturen], che costituiscono le due forme espressive (l’una primitiva, l’altra evoluta) della pre-formazione originaria (ovvero, dell’anima primordiale del pre-uomo) della casa-abitazione.

La Lichtung è dunque interpretata da Sloterdijk come qualcosa di pre-formato nell’uomo – essa sarebbe l’e-stasi inscritta nel cervello dell’essere vivente divenuto umano. Nella sua pre-formazione fisiologica, c’è dunque la condizione di possibilità di dispiegare il suo essere-nel-mondo. Ne deriva che il linguaggio è soltanto la «seconda casa dell’essere», che consegue al gesto tecnico esercitato attraverso il mezzo duro, che a sua volta è possibile soltanto concependo l’idea di una serra o parco autogeno. Sulla base di questa si deduce che la sfera è la prima casa dell’essere.45 È nella domesticazione, il lussureggiante abitare nelle serre, che si inscrive la Lichtung o il processo di divenire-uomo. Tale prerogativa appare fondamentale in quanto non sarà mai abbandonata; anzi, caratterizzerà tutta la storia umana. La realizzazione di un’abitazione lussureggiante in qualsiasi luogo e circostanza – l’essere fuori e presso di sé, espressioni con cui si esprimono i due concetti concomitanti di estasi ed abitare, in quanto il presupposto dell’abitare è al tempo stesso la creazione di un mondo tramite un medium tecnico ed una necessaria fuoriuscita dall’ambiente – destituisce di fondamento le teorie territoriali ed il concetto stesso di nomos della terra, giudicato impietosamente da Sloterdijk come puro delirio.46 Un tratto peculiare della serra (la pre-civiltà costituita dai pre-ominidi), che l’autore sostiene en passant e che tuttavia sarà centrale per comprendere la «spazialità del Dasein», è il suo necessario carattere «offensivo».47 Il concetto di Cura sarebbe dunque legato a doppio filo ad un atteggiamento ostile rispetto all’esterno.

Quel che ora occorre evidenziare è il concetto di habitus ed il suo legame etimologico con il senso dell’abitare. In esso risiede il senso reale della trasposizione, il cui medium centrale è il linguaggio, ovvero la seconda casa dell’essere. Leggiamo:

Non è un caso se le lingue romanze, come quelle germaniche, hanno derivato i loro concetti di abitudine o habitus, dal soggiornare in uno spazio primario, e cioè dall’abitare: per essere l’abituarsi al nuovo è una trasposizione di abitudini. […] Quando Heidegger chiamò il linguaggio “la casa dell’essere”, stava preparando una meditazione sul linguaggio come organon generale della trasposizione.48

Il ruolo del linguaggio schiude ora uno sviluppo ulteriore. La trasposizione e la stabilizzazione consistono in una riproposizione delle condizioni viziate dell’uomo, che come abbiamo visto risiedono nella fase che precede l’e-stasi del mondo – ovvero, nella fase di iper-insulazione che genera i fenomeni che abbiamo osservato. Il tratto fondamentale del linguaggio, che caratterizza profondamente la situazione umana, nonché la nascita e lo sviluppo delle civiltà, è quello della trasformazione dell’ek-stasi in una en-stasi; ovvero, in una nuova chiusura – stavolta artificiale, antinaturale e nuovamente viziata – della condizione spaziale dell’uomo.

Il linguaggio […] “avvicina” l’estraneo e lo spaesante includendoli in una sfera abitabile […]. Questa sfera rende vivibile per l’uomo l’essere fuori nel mondo aperto, traducendo l’ek-stasi in una en-stasi. La “tendenza alla vicinanza” si impone nel discorso umano sin dalla prima parola; il linguaggio è già sempre la poesia della vicinanza.49

Qui Sloterdijk costruisce un simbolico ponte con un altro saggio della sua raccolta: Il Dasein ha una tendenza essenziale alla vicinanza. Note in margine alla dottrina heideggeriana del luogo esistenziale. Proprio trattando del ruolo del linguaggio, l’autore rivela implicitamente il senso più importante e fecondo del concetto di Dasein nell’epoca del nazionalsocialismo:

Il suo compito essenziale consiste, come ha notato Heidegger, nel rendere abitabile l’ente nella sua totalità, o forse, dovremmo dire, consisteva in questo, poiché certo non si può misconoscere che in un mondo tecnico dove sono entrate in azione altre tecniche di avvicinamento, il linguaggio è sempre più esageratamente gravato da questo compito […].50

L’accenno alle nuove tecniche (o tattiche) di avvicinamento, nell’epoca dello sviluppo tecnologico, suonano inquietanti alla luce di ciò che Heidegger afferma riguardo la spazialità del Dasein. Mai quanto ora si comprende il motivo per cui Sloterdijk sostiene che la cifra della filosofia contemporanea è una meditazione sul mostruoso.

4. La «spazialità» del Dasein

In Essere e tempo, Heidegger afferma la stretta corrispondenza fra la spazialità dell’Esserci e la tecnica nei termini che seguono:

L’indagine intorno alla spazialità [Raümlichkeit] dell’Esserci e alla determinazione spaziale del mondo prende avvio dall’analisi dell’utilizzabile intramondano che è nello spazio [Raum].51

Le nozioni di «spazio» [Raum] e «spazialità» [Raümlichkeit] sono dunque essenzialmente differenti. La prima indica un tipo di spazio già dato nella misura in cui in esso vi abitano gli enti intramondani (ovvero, dal punto di vista dell’Esserci, gli utilizzabili); il secondo è il modo di essere-nel-mondo esclusivo dell’Esserci. Tralasceremo le parti del testo in cui l’autore si occupa dello spazio degli enti intramondani. I due elementi caratteristici della spazialità dell’Esserci sono invece il dis-allontanamento [Ent-Fernung] e l’orientamento direttivo [Ausrichtung]. Il tratto fondamentale del dis-allontanamento, contrariamente ad una concezione astratta o aprioriristica dello spazio, è il suo carattere «attivo e transitivo».52 Questo indica innanzitutto che non si tratta di un concetto statico e dato e, in secondo luogo, che presuppone un oggetto su cui agisce. La spazialità è dunque conseguenza di un’azione (esattamente come la luce della Lichtung è una conseguenza della radura). L’azione dell’Ent-Fernung risponde ad un ʿchiʾ o un ʿcosaʾ. Ma l’oggetto in questione si può dedurre dalla descrizione heideggeriana del ʿcomeʾ:

Il dis-allontanare [Ent-Fernen] […] è un avvicinamento guidato dalla visione ambientale preveggente, un portare nella vicinanza, quale si ha nelle forme del procurarsi, dell’approntare, dell’avere a portata di mano.53

Con l’ultima espressione in particolare – «avere a portata di mano» – Heidegger rivela la natura tecnica del carattere dis-allontanante del Dasein. Quest’ultimo, in altre parole, agisce in modo attivo e transitivo, con la propria «mano», utilizzando l’ente intramondano che occupa uno spazio come semplice-presenza. Semplificando ulteriormente: l’ente intramondano assume il ruolo di strumento in relazione al fare spazio dis-allontanante del Dasein. Se a ciò si unisce il fatto che «Il Dasein ha una tendenza essenziale alla vicinanza» e che tale vicinanza è realizzata attraverso il processo di dis-allontanamento appena osservato, ne viene che l’Esserci, dacché appare, è essenzialmente e tendenzialmente proiettato alla realizzazione di una vicinanza rispetto a ciò che gli è prossimo utilizzandolo come strumento nel processo di fare-spazio. Tutto ciò è strettamente legato alla questione della tecnica e allo spiegarsi della Lichtung nel processo di ominazione, nonché all’indicazione di Sloterdijk sul carattere offensivo della Cura, quale trasposizione necessaria della condizione viziata nella serra. In tal senso, le parole di Heidegger condensano quanto detto:

Certo, diciamo che anche l’Esserci occupa sempre un posto. Ma questo “occupare” è fondamentalmente diverso dall’essere utilizzabile in un posto all’interno di una prossimità. L’occupare un posto da parte dell’Esserci dev’essere inteso come disallontanamento dell’utilizzabile ambientale in una prossimità prescoperta dalla visione ambientale preveggente.54

La visione ambientale preveggente è la scoperta preventiva della prossimità in funzione dell’utilizzo dis-allontanante di ciò che occupa uno spazio come semplice-presenza. Su tali basi, si comprende il secondo carattere della spazialità dell’Esserci – l’orientamento direttivo. L’Esserci, in quanto è questo tipo di ente (mostruoso, in relazione agli enti della semplice-presenza) che tende ad una vicinanza dis-allontanante di ciò che è alla mano, ha in sé un orientamento direttivo guidato dalla visione ambientale preveggente.

La realizzazione della radura ed il fare spazio sono le conseguenze naturali: essi costituiscono l’atto di espansione (fare-spazio) ed inglobamento (disallontanamento) preventivato da una tattica (orientamento direttivo), a sua volta progettata in funzione di un’osservazione preliminare (visione ambientale preveggente). Se volessimo tentare di tradurre in termini fattuali le affermazioni di Heidegger sulla spazialità dell’esserci, risulta utile riprendere il linguaggio spengleriano. Nell’ottica di Spengler solo le grandi civiltà costituiscono la storia, mentre le civiltà minori non hanno alcun ruolo. Heidegger, accogliendo la dialettica platonico-nietzschiana dell’utilizzabilità degli uomini comuni in rapporto al genio, riabilita il ruolo delle civiltà minori in quanto divengono gli enti alla mano attraverso cui il Dasein costruisce la storia. In questo senso, le civiltà minori sarebbero lo strumento attraverso cui le civiltà superiori costruiscono la storia. Se Heidegger volesse interpretare il nazionalsocialismo come l’apparizione del Dasein del XX secolo, allora la Polonia può essere identificata come il primo ente intramondano utilizzabile.


  1. P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, in Id., Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger [2001], Bompiani, Milano 2004, p. 122. Ed. originale Domestikation des Seins. Die Verdeutlichung der Lichtung. In Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, Suhrkamp 2001, p. 154. ↩︎

  2. In tal senso, risulta inappropriata la resa in italiano di Pietro Chiodi come illuminazione. Cfr. le precisazioni di Franco Volpi sul termine Lichtung nel Glossario in M. Heidegger, Essere e tempo [1927], a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2001, p. 600. ↩︎

  3. O. Spengler, L’uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine [1931], a cura di E. Mattiato, Piano B, Prato 2008, pp. 36-37. ↩︎

  4. P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., p. 121. ↩︎

  5. Ivi, p. 122. ↩︎

  6. Spengler, L’uomo e la tecnica, cit., scil↩︎

  7. Per fare due esempi cui l’autore si riferisce costantemente: UEXKÜLL, Ambiente e comportamento [1934], tr. it. di P. Manfredi, il Saggiatore, Milano, 1967; D. CLAESSENS, Das Konkrete und das Abstrakte. Soziologische Skizze zur Anthropologie, Surhrkamp, Francoforte, 1980. ↩︎

  8. Anche in questo intento si rivela la vicinanza dell’autore a Spengler, che, dopo il Tramonto dell’Occidente ed il dialogo con Frobenius – il quale lo ha ammonito per aver escluso dalla sua opera le civiltà primitive – ha iniziato a rivedere la sua teoria delle civiltà alla luce della letteratura scientifica dei suoi anni. Per un approfondimento dei rapporti che Spengler intrattenne con Frobenius e la scienza del suo tempo, vedi l’introduzione di F. Causarano in Spengler, Urfragen. Essere umano e destino [1925-1926], tr. it. di F. Causarano, Longanesi, Milano 1971, pp. 21-30. ↩︎

  9. Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 122. ↩︎

  10. Ivi, p. 124. ↩︎

  11. Ivi, p. 123. ↩︎

  12. Ivi, p. 125. ↩︎

  13. Ivi, p. 126: «[…] Lichtung e divenire uomo sarebbero due espressioni per dire la stessa cosa». ↩︎

  14. Ivi, p. 127. ↩︎

  15. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male [1886], tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 2008, p. 79, n. 150: «Intorno all’eroe tutto diventa tragedia, intorno al semidio tutto diventa dramma satiresco; e intorno a Dio tutto diventa – che cosa? “mondo”, forse?». ↩︎

  16. Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 130. ↩︎

  17. Ivi, p. 134. ↩︎

  18. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 284, 287, 295. ↩︎

  19. Sloterdijk, Domesticazione, p. 135. ↩︎

  20. Cfr. Ivi, cit., p. 335, nota 25. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra [1891], a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano 2010, pp. 255-256: «eternamente l’essere si costruisce la medesima abitazione». ↩︎

  21. Ivi, p. 135. ↩︎

  22. Ivi, p. 137. ↩︎

  23. Ibidem↩︎

  24. Ivi, p. 139. Sembra tuttavia che Sloterdijk incappi nello stesso errore che addita all’evoluzionismo. Se quest’ultimo, infatti, presuppone l’uomo per poi ritrovarselo a fine percorso, l’autore presuppone la nozione di abitazione come concetto-guida del suo percorso. Con ciò si ritorcerebbero contro di lui le critiche cui ha sottoposto le scienze paleontologiche ed etologiche. ↩︎

  25. Progress and Decline. The group in Evolution, Pergamons Press, Oxford 1964. ↩︎

  26. Sloterdijk, Domesticazione, cit., pp. 139-140. ↩︎

  27. Der Ausbruch aus dem Gefängnis. Zu den Entsehungsbedingungen des Menschen, Focus, Gießen 1975. ↩︎

  28. Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 142. ↩︎

  29. Spengler, L’uomo e la tecnica, cit., pp. 54-55. ↩︎

  30. Ivi, p. 56. ↩︎

  31. Ivi, p. 57. ↩︎

  32. F. Nietzsche, Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1984, p. 68. ↩︎

  33. Ivi, pp. 66-67. ↩︎

  34. Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 143: «Mentre la fuga è l’evitamento negativo dei contatti corporei indesiderati, la tecnica della pietra produce un evitamento positivo, che si trasforma in un potere». ↩︎

  35. Ibidem↩︎

  36. Peraltro, l’origine greca del termine (θεωρειν – ʿguardareʾ, ʿosservareʾ) avvalora quest’idea. ↩︎

  37. Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 145. Corsiviamo il termine trasposizione perché corrisponde all’ultima fase del processo di ominazione di cui ci occuperemo nelle pagine successive. ↩︎

  38. Ivi, p. 149. ↩︎

  39. L. Bolk, Das Problem der Menschwerdung, Gustav Fischer, Freiburg-Jena 1926. ↩︎

  40. Sloterdijk, Domesticazione, cit., p. 150. ↩︎

  41. Ibidem↩︎

  42. Ivi, p. 152. ↩︎

  43. Ivi, pp. 152-153. ↩︎

  44. Ivi, p. 153. Trad. leggermente modificata da Nicht Gerettet, cit., p. 193. Riteniamo infatti che qui Sloterdijk con Kulturen si riferisca alle civiltà, in quanto trasposizioni evolute delle serre (cfr. Ivi, pp. 163-165), piuttosto che alle culture↩︎

  45. Ivi, p. 155. ↩︎

  46. Ivi, p. 157. ↩︎

  47. Ivi, p. 153: «L’uomo lussureggia […] fisiologicamente perché vive in una serra che deve essere stabilizzata in modo offensivo […]». ↩︎

  48. Ivi, pp. 164-165. ↩︎

  49. Ibidem↩︎

  50. Ibidem. Corsivo nostro. ↩︎

  51. Heidegger, Essere e tempo, cit. p. 129. ↩︎

  52. Ivi, p. 133. ↩︎

  53. Ibidem. Corsivo nostro. ↩︎

  54. Ivi, p. 136. ↩︎