L’eterno ritorno dell’origine: Aby Warburg e Mircea Eliade a confronto

Due protagonisti della cultura europea novecentesca

Un approccio di ricerca produttivo consiste nel mettere a confronto personalità e profili provenienti da ambiti culturali differenti, per evidenziarne elementi in comune e congruenze teorico-concettuali. Spesso infatti, a livello sincronico o diacronico, studiosi e pensatori presumibilmente impossibili da paragonare rivelano un sentire comune o una comune sensibilità, fino ad arrivare persino a condividere specifiche idee.

Aby Warburg e Mircea Eliade appartengono a due differenti generazioni: entrambi hanno vissuto una fase specifica della stagione più travagliata e drammatica della storia europea moderna, ma senza che le loro parabole esistenziali si siano mai incontrate. Quando Warburg muore, nel 1929, alla vigilia della catastrofe della Seconda guerra mondiale, Eliade ha 22 anni, ha già avviato la sua attività di romanziere e di studioso, e proprio in quegli anni, in coincidenza col viaggio di Warburg presso la comunità Hopi del Nuovo Messico, egli è in India per studiare l’induismo e il buddhismo. Tanto per Warburg quanto per Eliade non si trattò banalmente di un’attrazione per l’esotico, o di una fuga dall’Occidente inebriato dal proprio Illuminismo e capace proprio in quegli anni di fondare le condizioni della sciagura storica; d’altronde Eliade non ha mai rinnegato la sua vicinanza alle ideologie di estrema destra fin dalle sue esperienze italiane negli anni ’20, per non parlare poi della sua appartenenza alla Guardia di ferro rumena e delle sue riflessioni espressamente antisemite che non lasciano spazio ad ambiguità interpretative o ad attenuanti di qualche tipo. Per Eliade, la riappropriazione di un’autenticità etnica da opporre alla deriva interculturale e all’ibridazione moderniste (della quale la contaminazione bolscevica risultava essere uno dei pericoli più significativi) diventa una sorta di traduzione morale, ma soprattutto politica e ideologica, di quella passione per il paganesimo arcaico che aveva segnato l’esperienza warburghiana: in entrambi si tratta di risalire a ciò che è più originario del logocentrismo europeo, proprio nella fase specifica in cui l’Europa vive la sua più drammatica disfatta, e questa originarietà arcaica viene cercata paradossalmente anche lontano dai confini del vecchio continente, perché diventa evidente come le forze mitiche dell’origine non siano localizzabili storiograficamente né geograficamente. Da qui, se Warburg vive quest’attrazione per l’arcaicità pagana col piglio dello studioso completamente ed esclusivamente assorbito dal suo mestiere di storico dell’arte e della cultura, Eliade traduce il mito dell’origine in un’adesione ferma al culto della razza, mal coniugando in fondo il suo perverso progetto di una rivoluzione etnica e identitaria ispirata al recupero di un antico paganesimo col suo essere ispiratore e sostenitore intellettuale del progetto della restaurazione di una cristianità autoritaria e integralista, intesa come speranza reazionaria di resistere al definitivo declino dell’Occidente. Questi brevi cenni della biografia dei due pensatori, nonché del contesto storico solo in parte condiviso dai due, non sono semplici aneddoti ma offrono già più di un elemento di riflessione per comprendere il tipo di visione che Warburg ed Eliade avevano della storia e della cultura, nonché della loro origine.

Nei loro rispettivi settori di competenza, i due autori sono delle figure imprescindibili: la storia dell’arte del Novecento non potrebbe neppure venire compresa senza il contributo rivoluzionario dell’opera warburghiana, e senza la pachidermica produzione eliadiana la storia delle religioni dell’ultimo secolo ne risulterebbe profondamente mutilata. Questo perché, ed è questo un fattore decisivo che avvicina i due pensatori, la produzione di Warburg e quella di Eliade non sono immediatamente e completamente sussumibili sotto le diciture storia dell’arte e storia delle religioni: il loro approccio teorico ai due rispettivi ambiti di indagine implica un ampliamento ben più deciso in direzione di una storia della cultura in senso più ampio. Tanto le opere d’arte quanto gli elementi religiosi (riti, cerimonie, ma anche oggetti di culto ecc.) diventano l’accesso a un’analisi non autoreferenziale e perciò stesso non circoscritta rigorosamente alla storia dell’arte e a quella delle religioni; tali oggetti di analisi concedono agli studiosi l’opportunità di riflettere sulla cultura in ognuna delle sue sfaccettature, coinvolgendo in questo processo anche la meditazione filosofica e perciò il significato di concetti quali quelli di tempo, memoria, immagine ecc.

Warburg ed Eliade, però, non sono filosofi nel senso stretto del termine: nessuno dei due ha infatti elaborato e lasciato alla posterità dei trattati rigorosamente teoretici dove poter evincere una loro precisa posizione filosofica, una qualche dimostrazione speculativa, una loro tesi enunciata esaustivamente in forma saggistica. Per questo, oltre i paletti fissati tradizionalmente dalle loro discipline, Warburg scrive di arte, specialmente italiana, ed Eliade si occupa di culture tribali e di riti religiosi; eppure, dai loro testi è possibile e per certi versi necessario (ed è stato fatto nel corso degli ultimi decenni) stillarne una teoria. Warburg non ha mai scritto saggi filosofici in senso stretto; qualche elemento teorico più esplicito possiamo trovarlo nell’introduzione a Mnemosyne, ma si tratta di ben poco materiale. D’altronde, la sua grandiosa produzione saggistica si affida a una teoria dell’immagine che ha fatto scuola nel corso del tempo, e che nella nostra contemporaneità continua a ispirare soprattutto i filosofi; nei suoi scritti dedicati al Rinascimento quattrocentesco italiano, Warburg entra subito in medias res e applica una certa concezione di immagine, di tempo, di memoria, che l’interprete e il filosofo devono essere in grado di ricostruire per farne tesoro. Se si cercasse tra le pagine di Warburg una definizione di immagine, o un’idea del rapporto che si stabilisce tra memoria e immagine, o tra passato e presente, si finirebbe fuori strada: il complicatissimo esercizio filosofico da compiere è invece quello di risalire alla teoria a partire dagli ambiti in cui essa è stata applicata, ovvero l’arte del Masaccio, gli affreschi di Palazzo Schifanoja e via dicendo.

Simile è il discorso che può essere fatto a proposito di Eliade. Il suo contributo in merito di religioni orientali e dei culti nelle società indigene non ha eguali nella cultura moderna, soprattutto su un piano quantitativo, e anche Eliade direziona la sua ricerca e il suo studio etnoantropologico seguendo delle direttive teoriche suggestive e profondamente originali rispetto alla tradizione della sua disciplina. Anche se in modo non paragonabile a Warburg, neanche per Eliade è possibile parlare di un corpus di opere teorico-filosofiche in grado di esaurire e chiarire completamente al lettore quale sia l’eventuale filosofia della religione o l’antropologia culturale che sostiene tutta la sua ricerca; certo in misura diversa che in Warburg, perché in Eliade la dimensione filosofico-concettuale è più presente e più esplicitata. Warburg è stato ed è soprattutto fonte di ispirazione per la riflessione filosofica contemporanea, Eliade sicuramente lo è meno quando in realtà in confronto a Warburg le pagine esplicative dedicate alla teoria e alla filosofia delle ierofanie e degli archetipi sono ben più numerose. Probabilmente, la mancanza di esplicazione teoretica da parte di Warburg ha contribuito al suo successo come fonte di ispirazione per il pensiero filosofico, facendo sorgere interpretazioni spesso contrastanti tra loro e lanciando molteplici scuole di pensiero, tutte che dichiarano di rifarsi a Warburg (da quelle di prospettiva iconologica, a quelle estetico-teoretiche e metafisiche, per arrivare persino a quelle di ispirazione neurologica e scientifica).

Da una determinata fase della sua carriera, Warburg inizia a restare insoddisfatto della scrittura saggistica e avvia il suo progetto, mai portato a termine, di un Atlante delle immagini (Bilderatlas) dove si affida completamente alla visione attraverso l’istallazione di una serie di immagini, «una storia della memoria che ha trovato proprio nell’immagine, piuttosto che nella parola, il proprio mezzo rappresentativo, con il conseguente superamento della dimensione puramente narrativa del discorso storico»1. La riscoperta delle origini patiche del logos, e perciò il recupero del paganesimo come ambito prelinguistico, determina persino le sue modalità di ricerca e la sua attività; l’antilluminismo elidiano invece non comporta mai l’abbandono della scrittura e nemmeno quello della teorizzazione intellettuale, e in fondo il suo piglio reazionario a sostegno della cristianità europea come valore di riferimento da tutelare riflette in qualche misura la sua fiducia, mai scalfita, nei confronti del logos e della parola, seppure le sue indagini intendessero approfondire e scoprire le forze trascendenti e spirituali in grado di determinare il corso della storia, e che sono all’origine tanto del tempo quanto dell’intelletto e delle civiltà umane. Per entrambi studiare e scrivere della cultura orientale e delle comunità indigene sono atti interpretabili non solo come tentativi di fuga dal razionalismo europeo, ma al contempo anche sforzo di sussunzione dell’alterità sotto il logocentrismo della tradizione intellettuale del vecchio continente.

Mito, eterno ritorno e inesauribilità dell’immagine

Come sappiamo, data la sua oscura decifrabilità, la dottrina di Friedrich Nietzsche dell’eterno ritorno si è prestata a una moltitudine di differenti chiavi di lettura; soprattutto, la tradizione critica dell’ultimo secolo, fino ai tempi nostri, ha posizionato coloro che hanno visto nell’eterno ritorno nietzscheano un concetto regressivo che condanna l’uomo alla reiterazione dell’identico (e a questa visione appartiene l’idea di eterno ritorno come ritorno dello stesso), contrapponendoli invece a coloro che hanno intuito la matrice progressista dell’eterno ritorno di Nietzsche, comprendendolo nei termini di eterno ritorno del simile e perciò non già del dato quanto delle possibilità. A questa seconda linea, oltretutto sostenuta in diverse occasioni dallo stesso Nietzsche, va ricondotta anche un’idea di mito ben più positiva e lusinghiera rispetto a quella che, per esempio, caratterizzerà il pensiero di Walter Benjamin e di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer. Si tratta dell’eterno ritorno del mito che, nel perpetuo riproporsi attraverso simboli e immagini, o gestualità rituali, si rinnova continuamente fondando la sua stessa storicità interna; è una ripetizione che è da subito anche differenza, e con ciò anche accrescimento di potenza e acquisizione di sempre nuovi significati. A questa seconda linea appartengono numerose tradizioni novecentesche, e sicuramente ad esse sono riconducibili anche i due autori da noi presi qui in esame. Per Eliade l’uomo mitico è l’unico vero uomo libero: piuttosto che reiterare all’infinito l’identità mitica del trascendente, il sacro in Eliade libera l’uomo dalla storia proiettandolo nel tempo autentico e assoluto della verità, e garantendo con ciò la dimensione della creatività, visto che attraverso il sacro l’uomo storicamente condizionato viene proiettato in un mondo più ricco rispetto a quello del determinato contesto nel quale è gettato:

[…] per l’uomo tradizionale l’uomo moderno non presenta il tipo né di un essere libero né di un creatore di storia. Al contrario, l’uomo delle civiltà arcaiche può essere fiero del suo modo di esistenza, che gli permette di essere libero e di creare. Egli è libero di non essere più quello che è stato, libero di annullare la sua propria "storia" con l’abolizione periodica del tempo e la rigenerazione collettiva.2

In Warburg come in Eliade l’eterno ritorno delle forze mitiche segna lo spazio dove si svolge la storia e dove si sviluppano le culture umane, questo perché a fondamento della linearità storiografica e del progresso culturale, che rispondono a concezioni vettoriali del tempo scandito dalla successione di passato, presente e futuro, si pone una visione anacronica del tempo, dove le dimensioni temporali si confondono incessantemente e dove il passato si libera dal paradigma di causa-effetto rispetto al presente. Questa temporalità anacronica per Warburg è interna all’immagine artistica, stratificata di contenuti storici e sedimenti culturali che pretendono di venire interpretati e che fanno tutt’uno rispetto al presente dell’immagine. La visione elidiana di temporalità circolare si esprime nel pensatore rumeno a proposito del rito: «Con il paradosso del rito, ogni spazio consacrato coincide con il centro del mondo, proprio come il tempo di un qualsiasi rituale coincide con il tempo mitico dell’"inizio"3»; «Tutto ricomincia dal suo inizio in ogni istante; il passato non è che la prefigurazione del futuro e nessun avvenimento è irreversibile e nessuna trasformazione è definitiva»4.

Se prendiamo rapidamente in considerazione l’interpretazione che Gilles Deleuze offre dell’eterno ritorno, dove è la «differenza» a venire concepita nel suo statuto ontologico originario, indipendente da qualsiasi tentativo di rappresentazione e subordinazione alla «somiglianza» e all’«identità», potremmo sostenere che in effetti non c’è ripetizione senza differenza, e non può esplicitarsi differenza senza ripetizione.5 Questa visione deleuziana sembrerebbe quanto mai condivisa da Eliade, e a tal proposito sembra senza dubbio un elemento interessante il fatto che il saggio pubblicato col titolo italiano Il mito dell’eterno ritorno abbia omesso il sottotitolo assai indicativo dell’edizione originale francese che recitava Archétipes et répétition; sostiene lo storico rumeno:

[…] ogni sacrifico ripete il sacrifico iniziale e coincide con esso. Tutti i sacrifici sono compiuti nel medesimo istante mitico dell’Inizio: per mezzo del paradosso del rito il tempo profano e la durata sono sospesi. Ed è così anche per tutte le ripetizioni, cioè per tutte le imitazioni degli archetipi: attraverso questa imitazione l’uomo è proiettato nell’epoca mitica in cui gli archetipi sono stati rivelati per la prima volta.6

Dal canto suo, quando Warburg utilizza il concetto di Nachleben, ovvero «sopravvivenza», fa riferimento al ritorno imprevedibile e incontrollabile di forme, immagini, figure, elementi appartenuti ad altre epoche creduti definitivamente estinti e che irrompono nel presente facendo saltare il modello classico della temporalità lineare; non a caso Warburg parla anche di engrammi, forze «fantasmatiche» le definisce Georges Didi-Huberman,7 dinamiche spirituali che dimorano nel sottosuolo dell’inconscio culturale collettivo e che consentono il ripetersi costante dell’antico all’interno dei vari orizzonti culturali, a partire dal ritorno del paganesimo nel Rinascimento fino ad arrivare in epoca moderna. Proprio dinanzi all’interrogativo di che cosa sia questo antico presente può definirsi la distinzione chiara tra archetipismo junghiano e la teoria warburghiana; caratteristica della ricerca di Warburg, in particolar modo della sua teoria dell’immagine che ha trovato una concretizzazione nel progetto dell’Atlante di immagini, è la mancanza di una linearità consequenziale in grado di giustificare o spiegare il presente risalendo a ritroso per le varie riemersioni dell’antico fino a raggiungere, appunto, l’archè ultimo e quella che si dovrebbe ritenere essere l’autentica origine. La temporalità anacronica di Warburg esclude la possibilità di parlare di antico in termini cronologici; non si tratta, perciò, solo di elencare e descrivere il modo in cui alcune immagini dell’antichità pagana si siano ripetute e si ripetano nel corso della storia, ricostruendone il percorso; l’antico presente di Warburg, che come l’«immagine dialettica» di Benjamin è una condensazione di temporalità dove convergono presente e passato, consiste in qualcosa di indefinibile, qualcosa di più antico dell’antichità stessa. La storia sedimentata nell’immagine, ovvero la sua temporalità interna, quella memoria prodotta dalla stessa immagine, concede a quest’ultima di non esaurirsi mai in alcuna traduzione concettuale o interpretazione esaustiva. Tale vita interna delle immagini e il loro movimento inesauribile sono elementi condivisi dallo stesso Eliade:

Sul piano filosofico questi problemi dell’ "origine" e della "vera traduzione" delle Immagini sono privi di oggetto. […] le Immagini sono per loro stessa struttura polivalenti. Se lo Spirito utilizza le Immagini per cogliere la realtà ultima delle cose è proprio perché questa realtà si manifesta in modo contraddittorio ed è quindi impossibile esprimerla tramite concetti. […] È quindi vera l’Immagine in quanto tale, in quanto fascio di significati, mentre non lo è uno solo dei suoi significati oppure uno solo dei suoi numerosi piani di riferimento. Tradurre un’Immagine in una terminologia concreta, riducendola ad uno soltanto dei suoi piani di riferimento, è peggio che mutilarla, significa annientarla, annullarla in quanto strumento di conoscenza.8

La concezione teorica alla base dell’idea che Warburg ed Eliade hanno dell’immagine si sottrae allo schema temporale classico passato/presente/futuro: non si tratta mai solo di un presente che ripete un passato facendosene meramente copia, ma presente e passato si confondono in uno schema temporale che sovverte la cronologia classica ponendosi sotto i termini, appunto, dell’eterno ritorno.

Inconciliabilità tra ierofanie e scienza senza nome

Se l’antico non è collocabile cronologicamente e storicamente, in quanto campo di energie spirituali (engrammi) che fremono sotto le determinate costruzioni culturali, allora appare chiara la distinzione con l’idea elidiana di «ontologia arcaica», che si affida al risalimento dei riti primitivi sacri come potenze originarie dello spirito umano. Se nella visione di Warburg dell’eterno ritorno a tornare eternamente sono le possibilità, ovvero ciò che nel perpetuo ritornare differisce sempre, la concezione di Eliade dell’eterno ritorno stabilisce la prevalenza del fatto determinato (il rito originario, il sacro) rispetto alle varianti, che comunque anche per lo studioso rumeno restano essenziali per lo sviluppo della cultura, seppur generino anche il distanziamento rispetto all’autenticità arcaica dell’essenza religiosa. Per Eliade si tratterebbe perciò di comprendere dell’immagine o dell’oggetto la sua natura sacra, e in questa maniera farne una ierofania, che per Eliade è ciò che garantisce essenza alle cose, ovvero ciò che colma e attribuisce il carattere dell’essere a un oggetto qualsiasi, proiettandolo in una dimensione trascendente e strappandolo alla storia; tale ierofania, per molti aspetti vicina all’epoché fenomenologica, si contrappone all’immagine dialettica benjaminiana, nonché d’altronde all’antico presente di Warburg.

L’irrompere dell’antico trova nelle modalità sensibili attraverso le quali si esprime, in particolare le immagini, solo un mezzo per far affiorare una dimensione di irrappresentabilità che nel suo mostrarsi al contempo si sottrae a qualsiasi messa in figura definitiva. La spirale che caratterizza la «scienza senza nome»9 warburghiana orbita attorno a un fuoco; questo fuoco nella teoria junghiana viene rintracciato nella psiche, privata e collettiva, come l’immagine archetipica della quale le varie immagini che ad essa si relazionano sarebbero imitazioni o traduzioni definite dai contesti socio-culturali. Questa interpretazione rintraccerebbe perciò nella psiche e nell’inconscio ciò che effettivamente è più antico dell’antichità stessa, ovvero ciò che anticipa persino il nostro stesso pensiero direzionandolo, e che determina perciò la stessa cultura e la stessa produzione di immagini. Questa prospettiva potrebbe adeguarsi alla storia delle religioni di Eliade, per il quale sono le forze del sacro a rappresentare l’unico ambito trascendente e assoluto in grado di opporsi alla contingenza della storia. Eliade traduce l’archetipo junghiano in una sorta di visione metafisica e irrazionalistica del sacro: la ierofania è l’accesso all’eternità, ovvero la possibilità di attingere all’assoluto. In Warburg l’assoluto si è frammentato e si è disseminato nella molteplicità («Dio è nei particolari» sostiene lo storico tedesco) e si è completamente abbandonata ogni pretesa di basarsi su idee assolute; se Eliade rinuncia a una teoria delle invarianti attribuendo un ruolo essenziale alla temporalità e alla variazione, è pur vero però che la sua fiducia e la sua ambizione rivolte all’eterno tradiscono una teoria non riconducibile alla filosofia nietzscheana e alla riflessione warburghiana. Per Eliade infatti la verità è l’eterno, non già la temporalità e la contingenza, per questo per tutta la sua vita e la sua opera il suo obiettivo ossessivo è stato quello di ricercare l’assoluto: «Si è divorati dal Tempo, non perché si vive nel Tempo, ma perché si crede nella realtà del Tempo e, di conseguenza, si dimentica o si disprezza l’Eternità»10. Sostiene Crescenzo Fiore:

Un passato ricolmo di archetipi, vale a dire di modelli primi, forme formanti che, nella loro imperturbabile quiete, sono garanzia di eternità. Da un tale serbatoio bisogna attingere a piene mani, o anche solo forzare di conformarcisi. Ma perché le forme siano eterne, incorruttibili, esse non possono dimorare nei cieli che "ruotano sotto le stelle", esse devono abitare un luogo altro, diverso qualitativamente da questo mondo, separate, e in tal modo preservate, dal tempo presente verace e corruttore.11

Eliade si è prodigato al fine di comprendere il rito come fonte di origine della storia, l’eternità ovvero il tempo anacronico come condizione di possibilità del susseguirsi degli eventi che caratterizzano la civiltà umana. A tale proposito tra i critici e gli interpreti di Eliade il dibattito è piuttosto vivo da decenni: l’attaccamento e il pieno sostegno di Eliade alla teoria junghiana degli archetipi sembra orientare il pensatore verso una teoria delle invarianti, che porrebbe in contrapposizione e senza possibilità di continuità tempo mitico (ovvero il tempo sacro e autentico) e tempo storico.

Questa in sostanza è la critica che Luigi Alfieri muove nei confronti della filosofia della storia elidiana, per Alfieri infatti Eliade è il massimo rappresentante della corrente irrazionalistica degli studi religiosi, ripiegata sul discredito della storia per sostenere una superiorità spirituale della spontaneità primitiva nei confronti del logocentrismo europeo moderno. Alfieri però mette in luce come la convinzione del pensatore rumeno, ovvero che la cultura primitiva fosse completamente affidata agli archetipi ancestrali, nonché la comunanza di questa dimensione col pensiero platonico (ritenuto ancora pre-categoriale e profondamente mitico), rappresenti un errore da parte sua perché «non il pensiero primitivo, ma la teoria archetipica di Eliade mostra una struttura chiaramente platonica»12. Questo evidentemente perché gli archetipi, contrariamente al Nachleben warburghiano, rimandano all’idea platonica come fondamento metafisico del divenire e del tempo storico. Per Alfieri, dal momento che la storia si identifica con l’autocoscienza razionale, il mito stesso non potrà non essere già da sempre ragione, e l’interprete si spinge persino più in là evidenziando che in fondo non è tanto il mito a originare la storia ma il contrario, essendo esso sempre storicamente e socialmente determinato (e in questo colpendo al cuore il centro nevralgico della teoria di Eliade). In fondo, si tratta di sostenere la reciprocità delle due categorie in questione: «Mito e storia non si escludono a vicenda, ma coesistono indissolubilmente come elementi necessari di una stessa realtà, che è, senza bisogno di artificiose distinzioni tra stadi diversi di civiltà, la realtà della condizione umana»13.

Rivolgendo però la dovuta attenzione a una serie di altri testi critici, emerge come la filosofia della storia di Eliade sia ben più complessa dell’ingenuità registrata da Alfieri, e questo rimetterebbe in stretta vicinanza Eliade e Warburg. Infatti, la tesi sostenuta da Alfieri nella citazione sopra citata sembra essere propria della ricerca di Eliade, che conosceva benissimo la dialettica inestricabile di ethos e pathos, di Apollo e Dioniso per tornare alla terminologia nietzscheana: la fondazione di un cosmo implica sempre il tentativo di domare la natura, intesa in Eliade come caos primigenio, in quanto la struttura simbolica si pone come volontà di organizzazione razionale e il rito stesso nasce da questa esigenza.

Douglas Allen mette in luce la profonda avversione di Eliade nei confronti delle tendenze riduzionistiche che hanno caratterizzato il Novecento anche nell’ambito della scienza delle religioni. Nelle parole dello studioso americano si evince tutta la complessità del profilo intellettuale e della teoria di Eliade, complessità che conferma l’impossibilità di risolvere in maniera disinvolta i problemi che caratterizzano il rapporto, fin dagli albori della civiltà, tra ragione e fede, tra scienza e mito. Infatti da un lato, come annunciato, Eliade rivendica un’autonomia della sua disciplina, e rigetta ogni tentativo di consegnare la religione alla psicologia o alla sociologia, ma questa intenzione ha come presupposto teorico una convinzione fin troppo totalizzante e assolutistica, relativa al fatto che per Eliade il sacro è a fondamento di qualsiasi fenomeno ed evento umani, essendo la chiave di interpretazione di tutto. Eliade perciò, sottolinea Allen, critica ogni riduzione a un principio unilaterale, e seppur innalzi il sacro al di sopra di ogni altra categoria e dimensione spirituale e culturale è lui stesso nei suoi scritti a sostenere l’impossibilità che si possa parlare di «fenomeni religiosi puri». Ogni fenomeno, per quanto intriso di sacralità, ci arriva già contaminato culturalmente, e perciò è sempre necessario passare attraverso altre discipline ausiliari e funzionali allo studio del sacro e della religione:

We cannot demonstrate that essential mythic structures are created by certain societies or at certain historical moments. We can only establish that particular historical conditions provide the opportunity for the manifestation or predominance of a specific nontemporal, nonhistorical, mythic structure. History does not basically modify the structure of an essential, exemplary, mythic symbolism. History does add new meanings. New valorizations are occasionned by particular historical situations. But the new valorizations are conditioned by the essential transhistorical structure of the symbolism expressed through myths.14

Da questa citazione è chiara la fiducia che Eliade ripone nei confronti dell’assoluto: la storia si ridurrebbe alla pratica di aggiunta di nuovi significati, ma l’essenza autentica può essere colta risalendo al sacro e all’ontologia arcaica. Per questo egli parla di

abolizione del tempo per mezzo dell’imitazione degli archetipi […] un oggetto o un atto diventa reale soltanto nella misura in cui imita o ripete un archetipo. Così, la realtà si acquista esclusivamente in virtù di ripetizione o di partecipazione; tutto quello che non ha un modello esemplare è "privo di senso", cioè manca di realtà.15

Il concetto di imitazione implica la fiducia indefessa nei confronti di un modello originario astratto, visione che come abbiamo visto non appartiene alla teoria di Warburg. Per lo storico tedesco infatti il fuoco attorno al quale gravitano le varie immagini non è archè o idea, ma si tratta di «un’autentica voragine del senso»16, come la definisce Gianni Carchia, perché non v’è origine né centro bensì uno «spazio vuoto»; in quel fuoco «vuoto» troviamo l’assenza di origine, di assoluto e di modello originario.

Questa serie di spunti e suggestioni possono risultare un utile avvio per ulteriori approfondimenti che il confronto tra i due autori meriterebbe; fin da qui è però evidente come la fiducia elidiana per l’Assoluto e l’Eterno costringa a ribadire la distanza teorica che lo storico delle religioni mantiene nei confronti di Warburg.


  1. G. Di Giacomo, Memoria e testimonianza tra estetica ed etica, in Volti della memoria, a cura di G. Di Giacomo, Milano, Mimesis, 2012, p. 445. ↩︎

  2. M. Eliade, Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et répétition, 1949, trad. it. Il mito dell’eterno ritorno, Roma, Borla, 2010, p. 152. ↩︎

  3. Ibidem, p. 29. ↩︎

  4. Ibidem, p. 91. ↩︎

  5. A tal proposito, cfr. E. Tavani, Profilo di un Atlante: il cerchio e l’ellissi, in C. Cieri Via, P. Montani (a cura di), Lo sguardo di Giano, a cura di C. Cieri Via e P. Montani, Torino, Aragno, 2004, pp. 147-200. ↩︎

  6. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 43. ↩︎

  7. Cfr. G. Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, 2002, trad. it. L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Torino, Bollari Boringhieri, 2006. ↩︎

  8. M. Eliade, Images et symboles. Essai sur le symbolisme magico-religieux, 1952, trad. it. Immagini e simboli, Milano, Jaca Book, 2007, pp. 18-19. ↩︎

  9. G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, in «Aut Aut», 199-200, 1984, p. 62. ↩︎

  10. M. Eliade, Immagini e simboli, cit., p. 84. ↩︎

  11. C. Fiore, Storia sacra e storia profana in Mircea Eliade, Roma, Bulzoni, 1986, p. 26. ↩︎

  12. L. Alfieri, Storia e mito. Una critica a Eliade, Pisa, ETS, 1978, p. 29. ↩︎

  13. Ibidem, p. 45. ↩︎

  14. D. Allen, Myth and Religion in Mircea Eliade, New York & London, Garland Publishing, 1998, p. 247. ↩︎

  15. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 42. ↩︎

  16. G. Carchia, Aby Warburg: simbolo e tragedia, in «Aut Aut», 199-200, 1984, p. 101. ↩︎