Com’è noto, il tema del suicidio ha segnato l’immaginario culturale da sempre, fin dall’antichità; la riflessione filosofica moderna — per non parlare della letteratura — in più occasioni ha affrontato il tema da prospettive differenti, da quella più propriamente sociologica di Durkheim, a quella più lirica di Cioran.
Nel Novecento, attorno al concetto di suicidio hanno orbitato le riflessioni di Jean-Paul Sartre, e soprattutto di Albert Camus, che al tema dedicò un intero volume dal titolo Il mito di Sisifo. È noto il rapporto difficoltoso e non sempre di simpatia tra i due autori, ricondotti forzatamente entrambi a una stessa «scuola» di pensiero che è l’esistenzialismo, al quale Camus ha sempre tentato di sottrarsi. Ancora più note sono le divergenze ideologiche e politiche, che segneranno il definitivo allontanamento tra i due. Approfondendo la posizione di entrambi sul suicidio, potremmo notare il terreno comune sul quale entrambi i pensatori operano, ma soprattutto le divergenze di ordine filosofico e concettuale.
1. Jean-Paul Sartre: l’assurdità della morte come negazione della libertà
Ne L’essere e il nulla Sartre identifica la specificità della coscienza umana con la libertà:
Per il solo fatto che ho coscienza dei motivi che sollecitano la mia azione, questi motivi sono già oggetti trascendenti per la mia coscienza, sono fuori: invano cercherei di agganciarmi ad essi: io sfuggo loro con la mia stessa esistenza. Sono condannato a vivere sempre al di là della mia essenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto: sono condannato a essere libero.1
L’uomo è condannato ad essere libero, in quanto il suo essere (il «per-sé») è ciò che da sempre lo distingue dalle cose (l’«in-sé»), è il suo essere perpetuamente altro da se stesso e dal mondo, forza di trascendenza e «nullità» che si oppone a ogni tentativo sociale di classificazione, ma che al contempo è a fondamento del sentimento dell’angoscia e della nausea. Proprio ne La nausea, Roquentin sperimenta questo sofferto stato d’animo quando si trova a contatto col silenzio del mondo, con la brutalità delle cose e della loro gratuità insensata, ai quali si contrappone l’indeterminatezza dell’eterna apertura di senso del sé in quanto soggetto:
L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. […] la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare… ecco la Nausea.2
Il cogito umano e la sua dimensione emotiva segnano una frattura, una ferita nei confronti della totalità degli enti che si offrono a lui; è la sua stessa esistenza a comportare una voragine nel mondo, uno slittamento di senso al quale esso tende asintoticamente senza raggiungere mai una piena soddisfazione. Il soddisfacimento comporterebbe l’annullamento della coscienza e della libertà, è l’uomo si annullerebbe in quanto tale divenendo esso stesso mera cosa tra le cose.
L’uomo, oltretutto, ha la propria condizione esistenziale nel suo essere con-altri: l’Altro segna l’orizzonte del proprio agire e del proprio pensare, perché attraverso lo sguardo altrui il mio «per-sé» viene decifrato e ridotto a «in-sé», ovvero piegato e costretto in una determinata visione o rappresentazione. A questa pratica di stabilizzazione del flusso dell’esistenza soggiace lo stesso individuo nei confronti di se stesso, nel momento in cui esso da significato al proprio passato, ad eventi trascorsi ai quali può tornare col giusto distacco offerto dalla temporalità: «È il futuro solo, infatti, che può ritornare sul repente puro per dargli la qualifica di inizio […] Così il repente della scelta appartiene già come struttura integrata alla nuova totalità in divenire.»3
Il proverbiale soggettivismo sartriano è comprovato dalla centralità ontologica che assume appunto il soggetto: la sua libertà è il quid originario dal quale si sviluppano le prospettive di senso volte a organizzare i fatti e le cose della realtà; nessun determinismo di ordine sociologico, tanto meno psicologico o scientifico, può instaurare un paradigma di causa-effetto nei confronti del suo comportamento e del suo agire. Non si tratta di sostenere un solipsismo stirneriano: l’attività progettuale del soggetto, ovvero la sua «scelta», è ciò per merito della quale il mondo come pluralità di significati o come eterno interrogativo sussiste e può continuare a sussistere. Tale scelta e progetto è possibile solo in una «situazione», definita dall’ambiente e dalla presenza di altri, ai quali la mia libertà è sempre necessitata a rapportarsi: «L’obiettivo di Sartre è il superamento di quell’interpretazione solipsistica del soggetto […] L’Io non è solo. […] Dentro di me […] trovo, invece, nel modo più “coinvolgente” possibile, l’Altro in sé e per sé in quanto inquietante non-me che mi limita e con cui devo fare i conti.»4
La libertà assoluta, ovvero la libertà di Dio, è un concetto astratto se non una contraddizione in termini; l’ambizione dell’essere libero che pone la propria trascendenza nel mondo ambendo a una confluenza di «per — sé» ed «in-sé» è destinata allo scacco. Questo scacco esistenziale è l’assurdità, l’assurdo che irrompe nella vita sfaldando gli argini imposti dalle categorie razionali: «Una scelta simile, fatta senza punto d’appoggio, e che si detta a se-stessa i suoi motivi, può apparire assurda e lo è infatti. Perché la libertà è scelta del suo essere, ma non fondamento del suo essere.»5
Assurda è l’esistenza dell’uomo, in quanto il suo agire e il suo comportamento non sono mai riconducibili ad imposizioni esterne, a fattori calcolabili o a determinanti metafisiche quali il destino o la volontà divina. Con la morte di Dio, e il crollo delle verità assolute e dei principi universali, della filosofia della storia e dello spirito, l’unico ente dal quale ripartire per una riflessione filosofica savia e emancipata non può che essere l’individuo nella sua irriducibilità singolare. Sartre arriva a estremizzare i termini della sua fenomenologia esistenzialista, di decisa derivazione fichtiana: il soggetto pone se stesso in quanti ipseità, definisce le sue proprie categorie di valutazione, le sue leggi interne e il suo codice morale: « […] nulla mi viene che non sia scelto.»;6 tutto ciò avviene non certo nell’ambito della riflessività razionale, altrimenti resterebbero incomprensibili comportamenti quali il masochismo. Il soggetto pone i propri desideri in un cogito pre-riflessivo, o coscienza non-tetica: si tratta di una rivisitazione dell’inconscio freudiano (tanto che ne L’essere e il nulla Sartre parla di una «psicoanalisi esistenziale»), che però a differenza di questa fonda le sue radici sull’esperienza quotidiana del cogito, e soprattutto rifiuta formule e teorie che rivendicano una validità trans-individuale. In questa maniera — è qui l’esagerazione — Sartre arriva a sostenere che «si sceglie» di venire umiliati, come «si sceglie» di soffrire o di ammalarsi, «si sceglie» di continuare a fumare, ecc.
In questo sta l’assurdo sartriano: noi seguiamo la nostra volontà, che è irrazionale, incomprensibile a noi stessi, radicata nelle profondità della coscienza pre-riflessiva. Per questo, Sartre rifiuta la nietzschiana «volontà di potenza», intraprendendo una via ben meno trionfalistica. Insomma, l’unica forza da cui si sviluppano le dinamiche di senso e di interpretazione del mondo è l’individuo, scartando qualsiasi tentativo di offrire connotati antropologici in grado di definire l’idea e l’essenza della «natura umana».
Per Sartre, la morte rappresenta l’apice dell’assurdità, è l’evento assurdo per eccellenza, perché interrompe la produzione progettuale propria della coscienza umana. La morte è la fine di tutti i possibili, ed è uno scandalo per l’uomo: dinanzi alla indefinita quantità di possibilità che si offrono perpetuamente al soggetto, la morte si presenta come l’annullamento di ogni possibilità e di ogni progetto. È la fine della mia coscienza, la fine di tutto, attraverso cui il nostro io viene consegnato indiscriminatamente agli altri senza possibilità di replica, e senza poter nuovamente sfuggire alla cristallizzazione dell’identificazione. Diventiamo cose-in-sé, mera materia, perdendo la nostra libertà, ovvero il nostro poter-essere sempre altro da ciò che siamo. La nostra morte equivarrebbe al «trionfo degli altri»: la nostra radicale oggettivazione, l’esclusione della contingenza, il restare delimitati e circoscritti:
d’altra parte la morte, in quanto può rivelarmisi, non è solo l’annullamento sempre possibile dei miei possibili — annullamento al di fuori delle mie possibilità — non è solo il progetto che distrugge tutti i progetti e che si distrugge da sola, l’impossibile distruzione delle mie attese: è il trionfo del punto di vista d’altri sul punto di vista che io sono su me-stesso.7
Questa assurdità è ulteriormente incentivata col suicidio: ovviamente, Sartre non si relaziona al tema da una prospettiva di tipo moralistico, ma potremmo dire pragmatico e anche «logico». Data la natura temporale del «per-sé», non c’è azione umana che possa garantirsi un senso nel presente nel quale si svolge; il presente, l’istante, resta pura ed evanescente vuotezza. Quando il presente diventa passato, consegnandosi così alla possibilità di decifrazione, allora noi stessi siamo in grado di offrire dei significati sempre nuovi e diversi, in relazione sempre alle necessità maturate dalle nostre profondità pre-riflessive. Per questo, lo stesso evento accaduto nel passato ci compare, a seconda del nostro umore ad esempio, completamente differente, assumendo un significato spesso anche diametralmente opposto. Il presente perciò si consegna al futuro per garantirsi un senso; ma come possiamo dare senso a un gesto quale quello del suicidio che nega per definizione un futuro?
Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso perché i suoi problemi non ottengono alcuna soluzione e perché il significato stesso dei problemi resta indeterminato. Sarebbe inutile ricorrere al suicido per sfuggire a questa necessità. Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un significato che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto della mia vita, esso si priva di questo avvenire: così resta completamente indeterminato. Infatti, se scampo alla morte, oppure se il colpo «fallisce», no giudicherò forse più tardi il mio suicidio come un atto di vigliaccheria? L’avvenimento non potrà forse indicarmi che altre soluzioni sarebbero state possibili? Ma dal momento che queste soluzioni non possono essere che i miei progetti, non possono apparire che se vivo. Il suicidio è un’assurdità che fa sprofondare la mia vita nell’assurdo.8
Paradossalmente, in questo senso, il suicidio avrebbe un senso solo in quelle confessioni religiose che contemplano una vita oltre la morte. Nei monoteismi abramitici, le posizioni sono diverse: il gesto del kamikaze è vissuto con gioia da certo integralismo islamico, perché ci si proietta in un futuro che darà senso al gesto, ovvero il “paradiso eterno”. Affine è il comportamento del martire cristiano, mentre il cristiano suicida che sfida Dio col suo gesto verrà consegnato alle fiamme dell’inferno, dichiarandosi disposto a subirle (magari convincendosi che non possano essere peggiori della sciagure che sta vivendo sulla terra). Tutte queste, sono comunque proiezioni volte (attraverso la fede) a convincersi di un futuro che possa dare senso alla propria morte; lo stesso discorso, in fondo, potrebbe essere fatto a proposito del suicidio eroico o romantico: si tratta delle fede ontologica nei confronti del mondo, ovvero nella convinzione che esista un mondo oltre alla mia coscienza e vita, e che con la nostra scomparsa «si consegni qualcosa a qualcun altro». Seppur ben nascosta, anche questa idea (anche lì dove è assunta da eroi rivoluzionari) cela in sé una precisa convinzione religiosa in una vita oltre la vita: in un modo o nell’altro, si crede che si «potranno vedere», magari dall’alto, gli ulteriori sviluppi e conseguenze del proprio sacrificio.
2. Albert Camus: l’uomo assurdo e l’etica omerica
«Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.»9
Perché non suicidarsi? Il mito di Sisifo, l’opera più importante dello scrittore e filosofo Albert Camus, è un tentativo di rispondere a questa angosciante domanda. Ragionando in termini strettamente logici, il suicidio si presenterebbe come la soluzione più sensata, specie nelle condizioni di disagio e disperazione. Alla luce che ogni uomo sulla faccia della terra è cosciente di dover morire, e visto che tutto è destinato a disperdersi nella vanità, tanto vale uccidersi subito e svelare l’enigma. Ma come potremmo pensare in termini logici e sensati, noi che ci relazioniamo col mondo esterno per assurdo? Non c’è nulla di sensato, non tanto nel mondo in sé, quanto nel nostro rapporto con esso. Il nostro incontro col mondo è assurdo, perché sciolto da legami con verità assolute, in assenza di un ordine prestabilito, o di un destino segnato: «Alla radice dell’assurdo, perciò, la dismisura del desiderio dell’uomo, la pretesa che il mondo sia per l’uomo (a sua immagine e somiglianza!). La tentazione ricorrente: perché vivere se non sono Dio?»10
Contrariamente a Sartre, che vedeva nel suicidio la manifestazione più prepotente dell’assurdo, per Camus il suicidio fa uscire l’uomo dalle condizioni dell’assurdità, che ordinano suo malgrado il suo vivere nel mondo. Morire significa risolvere l’assurdità, per ottenere in cambio però la nullità e l’azzeramento di qualsiasi ulteriore possibilità esperenziale. L’assurdo nasce col nostro venire al mondo e viene eliminato, semplificato col nostro morire; si tratta di un rifiuto o fuga dalla vita e dalla rivolta. Camus tratta di un altro specifico tipo di suicidio, ulteriore tentativo di fuga, ovvero il «suicidio filosofico» caratteristico delle dottrine esistenzialistiche:
Mi prendo la libertà di chiamare qui suicidio filosofico l’atteggiamento esistenzialista. Ma ciò non implica un giudizio. È un modo comodo di indicare lo svolgimento attraverso cui un pensiero nega se stesso e tende a superarsi in ciò che costituisce la sua negazione. Per gli esistenzialisti, la negazione è il loro Dio. Esattamente, questo dio non si sostiene che in virtù della negazione della ragione umana. Ma, come i suicidi, gli dei cambiano con gli uomini. Vi sono molti modi di saltare, quando l’essenziale è saltare. Queste negazioni redentrici, queste contraddizioni finali, che negano l’ostacolo che non è stato ancora saltato, possono nascere (è il paradosso a cui mira questo ragionamento) tanto da una certa ispirazione religiosa quanto dall’ordine razionale. Esse pretendono sempre all’eterno. È a questo riguardo soltanto che esse compiono il salto.11
Condannarsi al suicidio filosofico e cosa ancora peggiore di uccidersi, perché significa abdicare il proprio pensiero e la propria individualità a una presunta verità universale; è il suicidio della critica, abbandono a un qualunque Dio o valore, permettendo che dogmi, tradizioni e superstizioni comandino la nostra vita. È il suicidio filosofico a provocare violenze, guerre e conflitti: chi si suicida filosoficamente non scenderà mai a patti con l’altra parte, non si lascerà mai convincere, vedendo nell’altro esclusivamente un rivale che deve necessariamente soccombere in quanto incarna il male senza possibilità di replica: «Un ragionamento non predisposto a conclusioni mistico-metafisiche suonerebbe invece: realtà e ragione ci appaiono vane, poiché vanamente ci attendiamo che soddisfino le nostre smisurate esigenze.»12
D’altronde nel testo, l’uomo «emancipato» capace di vivere la vita e in grado di farsi carico di tutte le prerogative che il viaggio della vita implica, è definito «uomo assurdo», di cui Sisifo offre una efficace versione e metafora. L’uomo assurdo, infatti, non ha l’ambizione di nientificare l’assurdità che lo lega al mondo: questo significherebbe, d’altronde, da un lato come abbiamo visto abbandonare il mondo, dall’altro sperare in un mutamento radicale, puntare alla realizzazione dell’utopia, investire il proprio agire per un futuro indeterminato, perciò suicidarsi filosoficamente: «Che cos’è, infatti, l’uomo assurdo? Colui che, senza negarlo, nulla fa per l’eterno.»13 L’oggetto polemico privilegiato da Camus in queste pagine, è proprio la speranza (che troverà, nelle argomentazioni più propriamente politiche, un corrispettivo nell’utopia rivoluzionaria): sperare significa sacrificare il presente per un futuro indeterminato, per sua natura incerto e sfuggevole. Sono le fedi religiose ad aver fatto sempre leva sulla escatologia, e non è un caso che tanto le religioni quanto le dottrine politiche fondamentaliste contemplano l’atto suicida in nome di un fine superiore: «L’uomo assurdo, invece, non procede a questo pareggiamento, ma riconosce la lotta; non disprezza in via assoluta la ragione, e ammette l’irrazionale. Abbraccia, così, con lo sguardo, tutti i dati dell’esperienza ed è poco disposto a saltare, prima di sapere. Sa solamente che, nella coscienza attenta, non vi è più posto per la speranza.»14 Chi si suicida per disperazione, cede alla stessa trappola, perché ovviamente adotta e si affida allo stesso concetto seppur dal suo lato negativo: «tale lotta suppone la totale assenza di speranza (che non ha nulla a che fare con la disperazione).»15
Colui che dispera, infatti, è colui che non ha più speranza e che vorrebbe averla. Ma perdere la speranza è per Camus un’ambizione, un traguardo per l’emancipazione dell’uomo saggio, ovvero dell’uomo assurdo. Significa infatti investire il proprio potenziale mentale, fisico ed emotivo sulle contingenze del presente, sugli attimi che si vivono di volta in volta; è infatti da tali contingenze che l’uomo può riuscire a strapparsi seppur fugaci momenti di felicità e godimento. In assenza di un sistema di valori imposto dall’esterno, ciò che conta per l’uomo è lo stare bene, in armonia, provare piacere, soddisfarsi. Camus promuove, all’interno delle sue pagine, un’etica di ordine omerico, per molti versi «pagana» e opposta a quella cristiano-cattolica. Abbandonato e rifiutato ogni metro di giudizio oggettivo, e non essendoci più una qualunque scala di valori alla quale riferirsi, non ha più importanza «quali» esperienze facciamo, ma «quante» ne facciamo. Da un’etica della qualità, si passa ad un’etica della quantità: «Venire al mondo equivale a far nascere un dover essere.»16 Dato che non possiamo definire un’esperienza migliore delle altre (ricadremmo in una classificazione di valore), l’importante è fare quante più esperienze possibili. Anche per questo morire, suicidarsi, è un errore imperdonabile.
Grande fu il popolo greco per Nietzsche17 perché, per arginare la consapevolezza delle atrocità della vita, dell’irrimediabilità della morte e della sofferenza irredimibile, fondò l’Olimpo, e con esso la religione, la scienza, l’arte, la bellezza, ovvero la dimensione apollinea che avrebbe dominato la cultura occidentale. Gli dei antropomorfi, condividendo le esperienze quotidiane degli uomini, riuscirono ad esempio a garantire un maggior livello di accettazione delle proprie sventure e disgrazie. Ma soprattutto, l’epica omerica sopraggiunse per «celare come un velo» il mondo dionisiaco, segnando il trionfo di Apollo su Dioniso (che sarebbe tornato a manifestarsi in maniera esemplare con la tragedia attica di Eschilo e Sofocle). L’universo narrativo dell’epica, per dirla con le parole del giovane Lukàcs, è caratterizzato dalla presenza costante degli dei, pronti ad intervenire per ordinare i fatti e gli eventi, per guidare l’eroe (Odisseo) verso il ritorno a casa (Itaca).
Essere e destino, avventura e successo, vita ed essenza, sono allora concetti identici. Ché la domanda, per dare risposta alla quale sorge l’Epos, suona: come può la vita divenire ricca d’essenza? E l’inimitabilità, l’irraggiungibilità di Omero — e a rigor di termini solo i suoi poemi sono davvero epici — consiste in ciò, che egli ha trovato la risposta prima che il cammino dello spirito nella storia rendesse esplicita la domanda. Chi lo voglia, è qui che può affrontare il segreto della grecità: la sua completezza, inconcepibile dal nostro punto di vista, la sua insuperabile stranierà rispetto a noi: il greco conosce soltanto risposte, nessuna domanda; soltanto soluzioni (ancorché enigmatiche), nessun enigma; soltanto forme, non caos.18
L’etica omerica può apparire oggi banale per la sua ovvietà, ma la sua incredibile efficacia consiste proprio nella sua perpetuata applicazione nel corso dei millenni dall’occidente: più si vive meglio è! L’importante è vivere più a lungo possibile, superare con l’aiuto degli dei ostacoli e peripezie per tornare al focolare domestico dove ci attendono gli amici, gli amori e i familiari. Solo garantendosi la sopravvivenza, possiamo poi investire le nostre energie al recupero del nostro stato di sovranità tornando tra le braccia della nostra Penelope (facendo così di Odisseo, secondo la celebre interpretazione di Theodor W. Adorno, il primo «borghese» ante-litteram).19 Questo modello narrativo, che d’altronde ha fondato un’idea etica che caratterizza anche la più banale esperienza quotidiana di ciascuno di noi ancora oggi, è divenuto l’archetipo della stragrande maggioranza della produzione letteraria; ora, per tornare al lessico lukàcsiano, dal momento che gli dei hanno abbandonato il mondo «lasciandolo alle sue crepe e ai suoi abissi», l’uomo ha tentato di sostituire Dio e ogni altro antico principio metafisico con nuovi valori.
Il problema per Camus è che, però, tale presunta sostituzione è sempre stato un atto di malafede, volto a scambiare dei principi assoluti e delle verità universali con delle altre, anche se fondate da buone intenzioni. Nella modernità, ci si è tornati a sacrificare per degli ideali, come si era fatto in nome della crisitianità per centinaia di anni (per questo il socialismo rivoluzionario per Camus non è affatto contrapposto al cristianesimo, ma ne è piuttosto una derivazione o l’altra faccia, e in questo segnando una forte affinità col pensiero di Nietzsche a tal proposito). Il punto, per Camus, è che anche i nuovi valori magari istituiti dalla volontà di potenza emancipata dalla fede religiosa, non possono venire imposti alla totalità degli uomini: all’uomo non resta, in realtà, che affidarsi alla pluralità e molteplicità delle esperienze possibili. Dal momento che non ha a sua disposizione un codice rigoroso al quale attenersi, in assenza di una classificazione di ciò che vale la pena fare, l’uomo assurdo di Camus torna «omerico» facendo della perpetua ricerca e sperimentazione il suo criterio di comportamento. L’uomo deve puntare a fare quante più esperienze possibili, e per fare questo deve ovviamente avere a cuore la sua vita, conditio sine qua non di qualsivoglia esperienza. Morire, e perciò stesso suicidarsi, significherebbe eliminare il ventaglio delle possibilità che, per nostra stessa esistenza, ci accompagnano nel corso della vita.
3. Corporeità e principio di autoconservazione in Camus e Adorno
L’esperienza individuale tipica alla quale Camus fa riferimento è il godimento derivante da una sensazione corporea; è il piacere immediato del nostro corpo, che arriva sempre prima del nostro pensiero e raziocinio. In questo senso, diviene esemplare ne Lo straniero il passo che racconta del bagno in mare fatto da Meursault. Si tratta di uno dei rarissimi casi all’interno del romanzo nel quale il protagonista riesce a godere del proprio presente, a provare piacere, a riattribuire senso alla propria esistenza.
ero intento a sentire che mi faceva bene il sole. La sabbia cominciava a scottare sotto i piedi. Ho represso ancora il desiderio che avevo dell’acqua, ma poi ho finito per dire a Masson: «Ci si butta?» Mi sono tuffato; lui è entrato nell’acqua a poco a poco e si è messo a nuotare quando non ha toccato più. Nuotava piuttosto male e così l’ho lasciato per raggiungere Maria. L’acqua era fredda e mi dava piacere nuotare. Con Maria ci siamo allontanati e ci sentivamo d’accordo nei nostri gesti e nel nostro piacere.20
L’immersione nella freschezza dell’acqua marina coincide col ritorno nel ventre materno; si tratta di un luogo realmente proprio, nel quale potersi disperdere e fare tutt’uno. Il mare, in questo caso il Mediterraneo con tutto l’immaginario interculturale che esso implica, è junghianamente luogo archetipico per eccellenza: «C’è un’immagine di cielo stellato e delle notti algerine nella mente e nel cuore di Camus e forse è in questa visione l’identità dell’uomo mediterraneo. Sia esso musulmano, cristiano o altro, chi ha visto la luce in queste “sponde sacre (…) da cui vergine Venere nacque” (Foscolo) in qualsiasi altro posto andrà sarà privato della sua anima.»21
Qui emerge evidentemente un elemento fondamentale per comprendere l’intero impianto concettuale della teoria di Camus; infatti, se ci limitassimo a quanto detto fino a questo momento, non saremmo riusciti ancora ad offrire una risposta esauriente alla domanda con la quale inizia Il mito di Sisifo: perché non suicidarsi?
La fiducia e l’attenzione di Camus per caratterizzazioni antropologiche connaturate all’uomo allontanano il suo pensiero da quello di Sartre, che rifiutava qualsiasi possibilità di «natura umana» o «idea di uomo»; dal canto suo, Camus, per la sua tesi, investe tutto sull’ambito pre-riflessivo, che contrariamente al cogito sartriano è però la corporeità, la fisicità che agisce per reazioni spesso meccaniche, che non dipendono dalla nostra volontà. Così come per la sensazione piacevole dell’epidermide a contatto con l’acqua in un giorno di calore insopportabile, pura e fenomenologicamente indiscutibile immediatezza irriflessa, così Camus rintraccia nell’uomo sui generis — al di qua di ogni individuazione particolare — una «voglia di vivere», un voler sopravvivere molto prossimo alla dimensione biologica. L’uomo infatti, come abbiamo visto, solo in preda alla disperazione può decidersi per un gesto malsano e senza rimedio quale quello del suicidio; per colpa della speranza, perciò, l’uomo si trova a fronteggiare il suo istinto di autoconservazione, che si oppone alla decisione presa. Non a caso la maggior parte dei suicidi si svolgono o in stato catatonico, o soprattutto come gesto di estrema e dibattuta sofferenza. Siamo noi a metterci contro noi stessi, al nostro Io profondo, che fisicamente, biologicamente insiste a voler sopravvivere.
Di fronte a queste contraddizioni e a questa oscurità bisogna dunque credere che non esista alcun rapporto fra l’opinione che si può avere sulla vita e il gesto che si compie per abbandonarla? Non esageriamo nulla in tal senso. Nell’attaccamento di un uomo alla vita, vi è qualche cosa di più forte che tutte le miserie del mondo. Il giudizio del corpo vale quanto quello dello spirito, e il corpo indietreggia davanti all’annientamento. Noi prendiamo l’abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare. Nella corsa che ci precipita ogni giorno un po’più verso la morte, il corpo conserva questo irreparabile vantaggio. Infine, l’essenziale di questa contraddizione risiede in ciò che chiamerò elisione, in quanto è al tempo stesso più e meno del divertimento in senso pascaliano. Eludere, ecco il giuoco costante. L’elisione tipo, l’elisione mortale […] è la speranza, speranza di un’altra vita che bisogna “meritare”, o inganno di coloro che vivono non per la vita in se stessa, ma per qualche grande idea che la supera, la sublima, le dà un senso e la tradisce.22
L’uomo vuole vivere, e in talune circostanze è come se obliasse o cessasse questa volontà insopprimibile precedente alla coscienza; questo elemento di antropologismo naturale avrebbe fatto inorridire Adorno, che invece, assieme a Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo, inveisce contro il principio di autoconservazione ridotto a mero retaggio della logica capitalistico-borghese. Quello dell’autoconservazione diviene uno dei tanti miti della modernità, fondati dalla ragione strumentale illuministica; che coinvolge le menti attraverso la convinzione imposta che il fine ultimo e trascendentale della vita privata di ciascuno sia quello di prolungare la propria esistenza indefinitivamente; attraverso di esso il sistema vigente è riuscito a promuovere ed a attuare l’autoconservazione del dominio imposto al tutto. Attraverso lo strumento del mito dell’autoconservazione, il sistema è riuscito ad imporre l’amministrazione del lavoro, che a sua volta è funzionale alla reiterazione delle condizioni di sfruttamento: « […] quanto più il processo dell’autoconservazione si realizza tramite la divisione borghese del lavoro, e tanto più esso esige l’autoalienazione degli individui, che devono modellarsi, anima e corpo, secondo le esigenze dell’apparato tecnico.»23
Non è un caso che, proprio a questo proposito, Adorno faccia riferimento al mito di Odisseo: nel canto delle Sirene, Odisseo infatti riesce a fronteggiare il rischio di perdersi nella tentazione affermando la propria rigida identità borghese, sottraendosi alla prassi (facendosi legare per non finire vittima del desiderio e delle forze arcaiche) e privandosi della possibilità di offrirsi agli istinti naturali e primordiali; emerge l’elemento praticamente antitetico alla posizione camusiana, per cui l’uomo assurdo per eccellenza sembrerebbe essere Odisseo stesso, forte dell’etica omerica che, in quanto deciso a vivere quanto più a lungo possibile, resta nella condizione di ampliare indefinitivamente la rosa delle proprie esperienze.
Se per Adorno e Horkheimer, l’autoconservazione omerica consiste nel mito borghese della sottrazione dell’uomo dagli istinti naturali, per Camus Odisseo rappresenta colui che più di altri ascolta le profondità del proprio Io istintuale e profondo, perché fa della volontà di sopravvivere il criterio d’azione e di comportamento. Questa volontà è vista dagli autori francofortesi come demoniaca manifestazione della coscienza borghese, asservita alle regole del mercato e della vita amministrata. Ovviamente, la distanza tra le due prospettive di pensiero è totale: all’attenzione che Camus riversa all’individuo e al soggetto singolo, si sostituisce una pressoché radicale convinzione della centralità e predominanza della società sull’uomo, della totalità dell’esistente sulla coscienza. Per Adorno, non v’è nulla che non sia mediato dalla storia e dalla società, a partire dallo stesso ambito fisiologico-percettivo, che in un modo o nell’altro riflette sempre la logica del dominio (perché la maggior parte della massa prova piacere dinanzi ai prodotti dell’industria culturale?). Per Camus, invece, il sentire del corpo resta in un ambito di estraneità dal mondo, e concede al soggetto di ergersi contro l’assurdità della vita, rivoltandosi ad essa e al contempo, paradossalmente, riconoscendone l’imprescindibilità.
4. Conclusioni: il Sisifo felice
Per Camus, perciò, il suicidio è inumano, perché l’uomo è volontà di sopravvivenza; non è un caso che, nel corso dello sviluppo della sua speculazione, Camus sostituirà all’autoconservazione il sentimento dell’empatia e della pietà, allargando il discorso in un ambito propriamente politico. La pietà, ne L’uomo in rivolta, anch’esso sentimento involontario che ci caratterizza in quanto uomini, è garanzia di condivisione, coesione e socialità; ne La peste, Camus mette in opera questa posizione politica fondata sulla fiducia rousseiana nei confronti dell’intersoggettività. L’unità del gruppo sfida l’assurdo, non in nome di una futura redenzione o di un qualche «sol dell’avvenire», ma per resistere concretamente ai problemi contingenti del presente, nel caso del romanzo l’avvento di una terribile epidemia e lo stato di quarantena.
Si evidenzia una profonda dialettica della natura: infatti, da un lato La peste è coerente con il Leopardi de La ginestra, il quale auspicava un’unione tra gli uomini (come finale barlume di positività) per opporsi alle angherie della natura matrigna e violenta. All’opposizione leopardiana uomo/natura, la prospettiva di Camus è ben più complessa: il virus della peste è sì malattia, e perciò natura, ma l’unica possibilità dell’uomo di opporsi ad essa è garantita a sua volta dalla natura stessa, attraverso l’empatia che caratterizza ciascuno di noi fin dalla nascita.
Alla voglia di vivere dell’uomo assurdo, appartiene il disinteresse per l’avvenire, a favore di un’attività rivolta esclusivamente all’immediato. Ne Il mito di Sisifo, la figura che si oppone a quella del suicida, è quella del “condannato a morte”, che contrappone alla speranza la rivolta:
Tale rivolta non è aspirazione, poiché è senza speranza; è la certezza di un destino schiacciante, meno la rassegnazione che dovrebbe accompagnarla. È qui che si vede fino a qual punto l’esperienza assurda si scosti dal suicidio. Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto, poiché esso non rappresenta il logico sbocco di questa, ma è, anzi, esattamente il suo contrario, a causa del consenso che presuppone. Il suicidio, come il salto, è l’accettazione del proprio limite. Tutto è consumato; l’uomo ritorna nell’ambito della sua storia essenziale. Il suo avvenire, il solo e terribile avvenire, egli lo discerne e vi si precipita. A suo modo, il suicidio risolve l’assurdo, perché lo trascina nella stessa morte. Ma io so che per mantenersi, l’assurdo non può risolversi. Esso sfugge al suicidio nella misura in cui è al tempo stesso coscienza e rifiuto della morte; è, alla più alta cima dell’estremo pensiero del condannato a morte […] Il contrario del suicida, è appunto, il condannato a morte.24
Dobbiamo tutti comportarci come dei prossimi «condannati a morte», perché, d’altronde, che cos’è che siamo, se non condannati a morire? Facendosi Sisifo, l’uomo assurdo non deve sperare nulla (cosa può sperare Sisifo nella sua situazione?), non deve compiangere la propria sorte, ma deve affrontare il proprio destino, essere più forte di esso; Sisifo deve essere più forte degli dei che l’hanno condannato. «In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima […] è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno.»;25 Sisifo deve diventare Dio di se stesso, deve appropriarsi della sua vita, senza ambire al miglioramento, senza sperare, senza illudersi. Deve appropriarsi pienamente di quel destino infame, della montagna e del macigno, di ogni goccia del suo sudore e di ogni passo che compie. Deve vivere, lottando. Così Camus conclude la sua opera:
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile […] Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.26
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J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, p.495. ↩︎
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J.-P. Sartre, La nausea, Einaudi, Torino 1990, p.177. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 524. ↩︎
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S. Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 58. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 537. ↩︎
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Ivi., p. 556. ↩︎
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Ivi., p. 601. ↩︎
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Ivi., p. 600. ↩︎
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A. Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2000, p. 7. ↩︎
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P. F. D’Arcais, Albert Camus filosofo del futuro, Codice, Torino 2010, p. 7. ↩︎
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A. Camus, Il mito di Sisifo, op. cit., p. 40. ↩︎
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P. F. D’Arcais, Albert Camus filosofo del futuro, op. cit., p. 13. ↩︎
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A. Camus, Il mito di Sisifo, op. cit., p. 63. ↩︎
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Ivi., p. 36. ↩︎
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Ivi., p. 31. ↩︎
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P. F. D’Arcais, Albert Camus filosofo del futuro, op. cit., p. 14. ↩︎
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Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2002. ↩︎
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G. Lukàcs, Teoria del romanzo, Sugar, Cremona 1962, p. 57. ↩︎
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M. Horkheimer & Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997. ↩︎
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A. Camus, Lo straniero, Bompiani, Milano 2001, p. 65. ↩︎
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G. Campione, Lo straniero di Camus e l’altrove Mediterraneo, in Il messaggio dell’imperatore. Simboli politica e segreto (a cura di M. F. Schepis), Giappichelli, Torino 2006, p. 99. ↩︎
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A. Camus, Il mito di Sisifo, op. cit., p. 11. ↩︎
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M. Horkheimer & Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, op. cit., p. 37. ↩︎
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A. Camus, Il mito di Sisifo, op. cit., p. 51. ↩︎
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Ivi., p. 119. ↩︎
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Ivi., p. 121. ↩︎