Factum della ragione, factum della sensazione: il chiasma degli eterogenei nelle prime due Critiche

1. Un fatto-atto

Nella Critica della ragion pratica, il Factum della ragione si dice in molti modi: come coscienza della legge morale; come coscienza della libertà della volontà; come la legge morale stessa; come autonomia, ossia come il principio supremo della moralità; come determinazione inevitabile della volontà da parte della semplice rappresentazione della legge e, infine, come il caso attuale di un’azione che presuppone una causalità incondizionata. Lewis White Beck1 ha avuto il merito di enucleare questi sei significati a partire dalle diverse occorrenze del termine Factum presenti nel testo e, per la nostra analisi, giova riportarle tutte accompagnando, ciascuna, con un breve commento.

La prima occorrenza, sebbene non esplicita, del termine Factum è nella prefazione. Qui, dopo aver annunciato che lo scopo della seconda Critica è «mostrare che vi è una ragion pura pratica», Kant precisa che questa mostrazione avviene, per così dire, da sé: invero, se, come ragion pura, la ragione è effettivamente pratica, «essa dimostra la realtà sua e dei suoi concetti col fatto [durch die Tat] e, qualunque raziocinare contro la possibilità che ciò avvenga, è inutile».2 Per Kant la ragione dimostra la realtà sua e dei suoi concetti con un atto indiscutibile: un atto che, appunto, vale come un fatto. E “Tat”, per parte sua, vuol dire esattamente questo: “atto”, ma un atto il cui fatto segue necessariamente.

Il termine Factum è quindi l’indicatore di una actio e, al tempo stesso, di qualcosa di trovato, perché il latino “facere” da cui “Factum” deriva, significa “fare”, e il suo participio passato – “factum” – può riferirsi sia all’attività che al suo prodotto. Come alcuni studiosi hanno stabilito,3 infatti, alla fine del 1700 il tedesco “Faktum” poteva significare tanto “atto” che “fatto”, e Kant sembra consapevole di questa sfumatura dal momento che, nei suoi scritti, usa il termine in entrambi i sensi a seconda di ciò che, di volta in volta, vuole sottolineare. Tuttavia, solo nella Critica della ragion pratica l’implicazione dei due significati si salda in uno stesso significante e la loro reciproca determinazione funziona come la condizione della loro, altrettanto reciproca, rivelazione.4

Nel 1788, in breve, il carattere auto-giustificante del Factum permette l’autentificazione tanto della legge morale – il fatto di coscienza – quanto della libertà trascendentale – l’atto della ragione -, e vi riesce, com’è stato da più parti notato,5 in uno stesso ma misteriosissimo tempo. L’azione reciproca della ratio essendi e della ratio cognoscendi è un’azione simultanea tale per cui, all’einzige Factum, corrisponde istantaneamente l’einzige Begriff6, perché per Kant, in fin dei conti, non c’è prima la coscienza della legge morale e poi, in un secondo momento, la determinazione della volontà da parte della ragione: legge morale e libertà si danno insieme in un unico fatto e si svelano insieme in un unico concetto in quel miracolo dell’etica che è la «transustanziazione».7

2. Il factum del primato della ragion pratica

Il Factum della ragione, come Fichte ha intuito per primo, è la genesi, nella coscienza, di un fatto della coscienza, ossia l’atto della ragione (Tat) e, contemporaneamente, il prodotto di questa attività (Tatsache).8 Nella lettura che ne dà Fichte, cioè, i due sensi del genitivo “der” non si contrappongono perché il factum rationis è il factum fiens9 che tiene insieme l’attività del facere e il suo prodotto come factum. In quanto tale esso è, a un tempo, «a fact of reason» e «a fact for reason».10 Dunque «ein reines absolutes Faktum»:11 un puro fatto assoluto inspiegabile a partire da una premessa esteriore.

Per Kant, riassumendo, la ragione ha il suo fondamento in sé stessa: un fondamento che, precisamente nel fatto-atto con cui si auto-intuisce come esistente, dimostra di possedere. L’idea della legge di una causalità della volontà, nelle sue parole, ha «essa stessa causalità [die Idee des Gesetzes einer Causalität (des Willens) selbst Causalität hat]»,12 e questo vuol dire che «è il suo stesso fondamento di determinazione [ihr Bestimmungsgrund ist]»13 a prescindere dall’oggetto corrispondente. I principi di possibilità dell’esperienza morale – le leggi morali – sono infatti i principi di produttività dell’esperienza naturale – le azioni14 -, e ciò nella misura in cui, nell’uso pratico della ragion pura, non si tratta più di conoscere la costituzione degli oggetti offerti alla ragione da qualche altra fonte (i sensi), bensì di «una conoscenza che deve poter costituire il fondamento dell’esistenza [der Grund von der Existenz] degli oggetti, e grazie a cui la ragione, [in tanto] ha la capacità di essere causa, in un essere razionale»,15 in quanto ne «determina immediatamente [unmittelbar] il volere».16

Proprio una simile capacità, ma sarebbe meglio dire potenza, della ragione, costituisce d’altronde l’essenza del Primat der praktischen Vernunft. Nonostante, cioè, lo giudichi paradossale, Kant è nondimeno convinto che questo «accredito [Creditiv]17 della legge morale»18 tale per cui essa stessa si costituisce in principio di deduzione della libertà come di una causalità della ragion pura, valga di più di ogni giustificazione a priori. Esso è soddisfacente, spiega, anche per la ragion teoretica, la quale, pur non vedendola crescere sul suo territorio, è costretta nondimeno ad accogliere l’«offerta»19 fattale dalla ragion pratica: senza un preventivo accordo con la ragione speculativa, quest’ultima «procura realtà [Realität verschafft] a un oggetto sovrasensibile della categoria della causalità, ossia alla libertà (sia pure come concetto pratico e solo per l’uso pratico); e, con ciò, conferma mediante un fatto [durch ein Factum] una cosa che là poteva soltanto venir pensata».20

Come si vede, il termine “Factum” è qui impiegato per indicare ciò che distingue la ragion pratica dalla ragion speculativa: laddove quest’ultima si limita a pensare la libertà, la ragion pratica si spinge oltre e realizza questo pensiero grazie alla concretezza di un fatto. C’è un significato, che Kant qualifica come pratico, ricevuto dalla categoria di causalità incondizionata: un significato come «un’applicazione reale [wirkliche Anwendung] che si può indicare in concreto nelle intenzioni o nelle massime».21 Nel 1788, in altre parole, l’idea di una causa libera guadagna una consistenza ontologica22 perché la libertà, nella Critica della ragion pratica, è reale,23 quantunque poi la sua realtà non sia altro che la realtà oggettiva pratica del motivo determinante la volontà.

Che nel suo uso pratico, la ragione dia realtà a un oggetto sovrasensibile della relazione dinamica di causalità vuol dire, cioè, che fornisce un “oggetto” – la determinazione della volontà – al concetto, finora solo pensabile (sovrasensibile, non intuibile nell’esperienza), di “causa noumenon”, riempendo, in questo modo, il posto lasciato vuoto dalla ragion pura mediante la legge della causalità di un mondo intelligibile, ossia mediante la legge morale in quanto legge di «realizzazione del concetto di libertà».24 Kant la proclama ratio cognoscendi del noumeno e della possibilità di una natura sovrasensibile, perché la legge morale, spiega, è tutto ciò che dell’incondizionato possiamo conoscere.25 Ma in che senso? E che significa, nel 1788, “erkennen”?

3. Il factum della coscienza della legge morale

Nella Critica della Ragion pratica, la coscienza di sé e della propria esistenza in un ordine intelligibile non avviene in conformità a una particolare forma di introspezione interna,26 ma grazie alla specifica virtus dell’idea dinamica di causa, e il Factum der Vernunft è proprio l’applicazione di questa categoria, assunta nel suo senso non conoscitivo, al sovrasensibile. Tra l’una e l’altro, però, non vi è alcuna distanza temporale: la coscienza (Bewußtein) della legge morale è una singolare coscienza pratica inscindibile dal suo “oggetto” e la ragione, in tanto si accredita in questa strana coscienza attiva e non intuitiva, in quanto è pura pratica, vale a dire capace di determinare la volontà senza la mediazione delle inclinazioni sensibili.

È quando «è per sé sola pratica», infatti, che la ragion pura «dà (all’uomo) una legge universale che chiamiamo legge morale»,27 e questo fatto-atto, per Kant, è incontestabile («unleugbar»28): la legge morale è «il contenuto di un’evidenza originaria che si autoimpone»29 e la sua datità è «un fatto [ein Factum] assolutamente inspiegabile a partire da tutti i dati del mondo sensibile e dall’intero ambito dell’uso teoretico della nostra ragione».30 Esso «ci segnala un puro mondo intelligibile» e, anzi, «lo determina positivamente facendocene conoscere qualcosa: una legge».31

Per Kant la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico non può cominciare dalla libertà sia perché la libertà non è un dato immediato dell’esperienza, sia perché, del noumeno, presso l’ente finito, non vi è alcuna intuizione. La consapevolezza della realtà della libertà è possibile solo come mediata dalla consapevolezza immediata della legge morale32 e, perciò, se anche nel 1788, come nel 1785, si parte, in qualche modo, dalla libertà, è nella misura in cui, in realtà, si parte dalla relazione cui la causalità secondo libertà dà luogo. La legge morale, che Kant dice equivalere al concetto di causa, è questa relazione: l’espressione della libertà in atto che, in sé, resta inconoscibile.

Ecco perché, da un certo punto di vista, non è sbagliato riconoscere nel terzo, per lo meno in ordine di apparizione, significato di Factum quello più importante. Il Factum come coscienza della legge morale compendia in effetti sia il lato soggettivo che il lato oggettivo della ragione, la quale, per Kant, è, a un tempo, coscienza della legge e legge in una coscienza. Detto altrimenti, la legge morale è qualcosa di cui si ha coscienza e, simul, questa stessa coscienza, e ciò equivale a dire che essa non è un contenuto noematico indipendente o estraibile dall’atto-fatto di coscienza in cui si dà. In caso contrario, del resto, dovrebbe essere disponibile per la ragione teoretica e questo, per Kant, è escluso.

Il pensiero a priori di una possibile legislazione universale, «s’impone [piuttosto] come legge [als Gesetz], senza che si tragga nulla dall’esperienza»,33 ed è siffatta datità assoluta, inderivabile e incondizionata, a caratterizzare la coscienza della legge morale come un fatto. Invero, nel tedesco del XVIII secolo Tatsache indica un fatto attuale, che è certo immediatamente e che, soprattutto, viene prima di ogni speculazione. E tale è la coscienza della legge morale «come fatto della ragione pura [als in Factum der reinen Vernunft] di cui siamo coscienti [bewußt] a priori»,34 ossia come fatto «che è apoditticamente certo posto che, nell’esperienza, non si può indicare alcun esempio in cui quella legge sia seguita».35

4. Il factum della ragion pura pratica

Per Kant la coscienza della legge morale è un fatto della ragione nella misura in cui è impossibile desumerla da alcunché di precedente: «essa ci si impone di per sé stessa [sich für sich selbst uns aufdringt] come una proposizione sintetica a priori»,36 e la sua deduzione è impraticabile sebbene, di contro, l’esposizione del Factum risulti sufficiente. Indeducibile, infatti, la legge morale si mostra e questo, nel 1788, basta a garantire la sua realtà. L’indeducibilità è anzi il segno della certezza, pragmaticamente rilevante, con cui essa si afferma nella nostra coscienza: un segno che, quindi, non costituisce un problema.

Come realtà, malgrado l’esperienza non la confermi a posteriori né permetta di dedurla a priori, «la legge morale sussiste saldamente per sé stessa [für sich selbst]»37 perché, prima cognitione oltre la quale non si può risalire, das moralische Gesestz è un principio primitivo che si auto-valida e che, in luogo di essere dedotto, permette, piuttosto, la deduzione della libertà trascendentale di cui è il documento, la prova.38 Al posto di una deduzione del principio morale – scrive Kant –

Compare qualcosa di diverso e totalmente paradossale [Widersinnisches]: e cioè che, al contrario, tale principio serve di deduzione di una facoltà imperscrutabile che nessuna esperienza può mostrare e che tuttavia la ragione speculativa dovette quantomeno ammettere come possibile […]: e cioè la facoltà della libertà, di cui la legge morale, che non richiede essa stessa alcun fondamento di giustificazione, dimostra non solo la possibilità, ma la realtà [der Wirklichkeit] in esseri che riconoscono la legge morale come obbligatoria39

Kant è convinto che il solo fatto che esista una causalità incondizionata, ossia una determinazione della volontà da parte della semplice forma della legge, prova che esiste, parimenti, una ragione pura pratica. Eppure, nonostante ciò, la datità della legge morale non ha smesso di sollevare problemi. In che modo, infatti, la legge morale si dà empiricamente se essa rappresenta un principio necessario e a priori?40 E come pensare questo fatto della ragione che, pur non essendo un fatto empirico, nell’esperienza, pure, si dà? Secondo Kant, al fine di considerare senza equivoci la legge morale come data, occorre osservare che essa non si offre alla stregua di un fatto empirico ma come «l’unico fatto della ragion pura [das einzige Factum der reinen Vernunft]», la quale, per suo mezzo, «si annuncia originariamente legislatrice».41 La ragione pura, in definitiva, mostra che «può essere pratica, cioè determinare la volontà, indipendentemente da ogni stimolo empirico; e questo mediante un fatto [durch ein Factum] in cui, effettivamente, la pura ragione in noi si mostra pratica, e cioè l’autonomia nel principio della moralità, con cui la ragione determina la volontà all’azione»42

Quand’è inteso in questo modo, il fatto della ragione esprime la stessa realtà della ragione pura pratica, ossia l’inevitabilità della determinazione della volontà. Quest’ultima, per Kant, agisce realmente avendo come motivo determinante la legge morale e la coscienza di questa legge, in quanto coscienza della libertà, non è altro che la coscienza dell’atto con cui la ragione determina, inevitabilmente, il volere: «la realtà oggettiva di una volontà pura o, ciò che è lo stesso, di una ragion pura pratica, è data a priori nella legge morale, alla stregua di un fatto [gleichsam durch ein Factum]. Così – spiega Kant – si può chiamare una determinazione della volontà che è ineludibile [unvermeidlich], pur non riposando su principi empirici»43

5. Il factum della libertà

“Factum”, però, è anche un termine che rimanda alla cognizione comune, perché «che la pura ragione, senza mescolanza di alcun fondamento empirico di determinazione, sia per sé stessa anche pratica, questo – a parere di Kant – deve potersi mostrare a partire dal più comune uso pratico della ragione».44 Il principio morale, cioè, dev’esse tale «che ogni ragione umana naturale possa riconoscerlo, del tutto a priori, come legge suprema della sua volontà, indipendentemente da qualsiasi dato sensibile».45 Il che è quanto dire che esso «deve essere provato quasi come un fatto [gleichsam als ein Factum]»,46 dunque senza nessuna deduzione «speculativamente o empiricamente appoggiata»47 e nessun ricorso all’esperienza, la quale, in fondo, «non servirebbe a confermarla né a dimostrarla a posteriori».48

Nondimeno, laddove nell’81 la sintesi dell’eterogeneo operata dalle categorie dinamiche consentiva di pensare l’incondizionato senza cadere in contraddizione, nell’88 si tratta viceversa «di convertire questo potere in essere»,49 ossia di mostrare «in un caso reale, e quasi mediante un fatto [gleichsam durch ein Factum], che certe azioni presuppongono una tale causalità (intelligibile e sensibilmente incondizionata)».50 Nella Critica della ragion pratica, invero, Kant ribadisce più volte che la legge morale, in quanto causalità noumenica, deve produrre effetti nel mondo sensibile-fenomenico. Ma come pensare questi effetti se l’esperienza, specialmente quella sensibile, è estromessa a priori insieme a tutte le materie empiriche della facoltà di desiderare? Posto che, «in azioni date realmente nell’esperienza come accadimenti del mondo sensibile, non si può sperare di trovare questa connessione»51 tra noumeno e fenomeno, come è possibile, in altre parole, provare che la ragione è causa? E in quale senso è possibile dirla tale?

Nel campo dell’esperienza mediante idee – Kant non ha dubbi – la ragione è una «causa efficiente»52 che rende possibile, ponendola in essere, l’esperienza pratica.53 Ma questo “porre in essere”, nella seconda Critica, coincide con l’efficacia di una legge dinamica. Sintetizzando, nel 1788, l’idea di causa è causa, perché la ragion pura, nel suo uso pratico, si pensa causa – impiega il concetto razionale in senso non conoscitivo54 – ed è causa – determina la volontà: immediatamente. Questo significa, come mostra il Factum, che la ragion pura si autodetermina e può essere pratica, ossia condizionante la volontà a dispetto di ogni stimolo empirico. La pura ragione, come si è visto, si dimostra in noi pratica e, inoltre,

mostra che questo fatto [dieses Factum] è indissolubilmente connesso con la coscienza della libertà del volere, anzi, fa tutt’uno con essa; per cui la volontà di un essere razionale che, come appartenente al mondo sensibile, si trova necessariamente sottoposto alle leggi della causalità al pari delle altre cause efficienti, tuttavia, nel campo pratico, è cosciente, per altro verso, come essere in sé stesso, della propria esistenza determinabile in un ordine intelligibile delle cose; senza avere, per questo, una particolare intuizione di sé, bensì in conformità a certe leggi dinamiche in grado di determinare la sua causalità nel mondo sensibile. Che la libertà, se ci compete, ci trasporti [versetze] in un ordine intelligibile di cose, è stato più sopra dimostrato a sufficienza.55

6. La dynamis del factum

Nel brano sopra riportato, dopo aver ripreso i risultati della sezione precedente, primo fra tutti l’identità sintetica di legge e libertà, Kant non si limita, come si vede, ad anticipare quanto sosterrà alla fine della Dilucidazione, vale a dire che la legge morale (“il concetto razionale”) fa le veci dell’intuizione intellettuale56 trasportandoci – verbo sul quale occorrerebbe riflettere57 - in un ordine intelligibile di cose. Kant specifica, altresì, che è grazie al carattere dinamico della categoria di causa che acquisiamo coscienza della nostra duplice, ancorché unitaria, natura. E la categoria di causa, per Kant, in tanto è dinamica, in quanto, come sarà ribadito nelle ultimissime pagine della Dilucidazione, permette una sintesi dell’eterogeneo.

Tuttavia, nel 1788, il nesso dinamico in questione è quello tra la legge morale come condizione e la libertà come condizionato. E come funziona, nella Critica della ragion pratica, questo collegamento? Che rapporti intrattiene, cioè, con quel “trasportare” appena richiamato? Per rispondere a queste domande occorre tenere a mente che, in ambito pratico, la ragione produce la realtà delle proprie idee58 e, che lo faccia in “conformità a certe leggi dinamiche”, significa che vi riesce in conformità a un certo uso della categoria di causa. Ma cosa significa questo? E come pensare, con Kant, quella conformità e quest’uso?59 Anzitutto meditando sul fatto che, nel 1788, la legge morale prende il posto dell’intuizione intellettuale facendoci conoscere qualcosa dell’incondizionato.60 La “conoscenza” veicolata dal concetto razionale non è, infatti, una conoscenza qualsiasi ma una strana conoscenza non conoscitiva, perché la categoria di causa è una categoria particolare che Kant, nella seconda Critica, impiega in un modo altrettanto particolare: un modo non schematizzato.61

Il Factum, detto diversamente, è l’applicazione di un concetto dinamico, assunto nel suo senso non conoscitivo, al sovrasensibile.62 Ma allora come giustificare l’affermazione kantiana per cui, pur eccedendo il campo fenomenico, questa applicazione non offre comunque il minimo spunto alla ragione teoretica «per svagare nel trascendente»?63 Che rapporti vi sono, cioè, tra l’impiego non conoscitivo del concetto razionale di causa e l’uso pratico della ragion pura? E come mai Kant impiega così sovente il verbo “erkennen” a proposito della virtù della ratio cognoscendi malgrado poi ribadisca ripetutamente la differenza di registro e dominio tra le due ragioni? Qual è, in sostanza, la differenza tra un uso metafisico e un uso pratico se quest’ultimo finisce per coincidere con l’uso non conoscitivo di un concetto da cui risulta immediatamente una conoscenza, per di più del sovrasensibile? E in che modo, inoltre, si può distinguere tra un uso trascendentale dell’intelletto e un uso pratico della ragione se quest’ultimo è un uso tale per cui un concetto agisce come causa diretta di una modificazione della facoltà di desiderare, vale a dire determinando all’istante la volontà?64

7. Il carattere pragmatico della libertà

Indimostrato, il Factum funge da perno nella dimostrazione del primo principio della moralità. Eppure l’“estrazione” del noumeno – la libertà – dal fenomeno – la legge morale – in cui si risolve ha a tal punto dello stupefacente («Widersinnisches»65) che, anche per gli studiosi che giudicano la deduzione avvenuta e il Factum, nel suo complesso, vincente anziché fallito,66 alcuni punti del ragionamento kantiano restano oscuri. Invertendo le coordinate del ragionamento con cui, nella terza sezione della Fondazione della metafisica dei costumi, la legge morale veniva dedotta dalla realtà della libertà, nel 1788 Kant argomenta che è dalla realtà apoditticamente certa della legge morale67 che si può ricavare la realtà della libertà trascendentale. Ciò nondimeno, il fatto che la dimostrazione della realtà della libertà sia affidata alla comprensione delle condizioni di possibilità di una libera causalità fornite dalla libera causalità stessa, è ritenuto da molti un fatto circolare, vizioso: un fatto, quindi, non così diverso da quello, che pure non si chiama Factum, cui si riduce l’argomento introdotto nella terza parte della Grundlegung.68

Tuttavia, sebbene anche nella seconda Critica sia questione di un certo pensiero della libertà, pure questo pensiero non ha nulla a che vedere col «punto di vista»69 che l’essere razionale che si pensa libero deve assumere in accordo con quanto Kant stabilisce nella Fondazione. Nella seconda Critica, il pensiero di una causa libera coincide, bensì, con una conoscenza veicolata dall’impiego non schematizzato del concetto di causa. E, dunque, né con un’introspezione, né con un’intuizione, né con una percezione in senso stretto. Alla coscienza della legge morale, è vero, corrisponde immediatamente la determinazione del volere ma, tra quella coscienza e l’idea di libertà, agendo sotto la quale ci si scopre liberi «dal punto di vista pratico»,70 c’è una differenza: solo la prima è resa possibile da una legge dinamica, ossia dalla legge morale equiparata al concetto razionale di causa incondizionata e presentata come la ratio cognoscendi della libertà. Nel 1788, in altre parole, l’azione reciproca della ratio cognoscendi e della ratio essendi si struttura come una sintesi dell’eterogeneo permessa dall’idea non conoscitiva di causa: una sintesi speciale perché, ad essere sintetizzata, non è un’esistenza modale o iconica ma, verrebbe da dire, quell’esistenza radicalmente «non anticipabile»71 dalla percezione che, nel saggio precritico del ’63, Kant definisce «absolute Position».72

Ecco allora che, a fare la differenza tra i due argomenti, quello del 1785 e del 1788, non sarebbe soltanto l’inversione rivendicata da Kant stesso nella Prefazione e nella Dilucidazione della Critica della ragion pratica. Ciò che demarca il Factum dalla deduzione della libertà contenuta nella Fondazione è, soprattutto, il modo in cui il noumeno è presupposto dalla e dato nella coscienza. La viziosità della strategia idem per idem della Grundlegung, infatti, riposa sul fatto per cui, semplificando, la libertà all’inizio e alla fine del ragionamento è la medesima. Come se la sua deduzione non la alterasse, come se, a questa deduzione, anche lei non partecipasse, in qualche modo, attivamente. Detto in modo diverso, nella Fondazione Kant sembra riprendere la soluzione offerta da Platone al paradosso di Menone: possiamo conoscere, ora, la libertà-verità perché già da sempre la conosciamo e, già da sempre la conosciamo, perché già da sempre la siamo, vi apparteniamo. Contemporaneamente a monte e a valle della coscienza, la libertà sarebbe, cioè, contemporaneamente data e ritrovata, e data e ritrovata perché identica, mai mutata, posto che nessuna trasformazione, di fatto, può interessare la sua eterna essenza.73

Il Factum, al contrario, mostra che la libertà è prodotta dalla legge morale in una maniera tale per cui si deve dire che non le preesiste prima. Che non sia disponibile alla stregua di un dato immediato dell’intuizione introspettiva, per vero, vuol dire che non la si può recuperare alla coscienza nella forma di un noema e, altresì, che non la si può recuperare come tale perché, dopotutto, come tale non esiste. La libertà, nel 1788, non ha altra esistenza se non nella modificazione del volere in cui si risolve la coscienza della legge morale, ossia nell’esperienza di un comando, o vincolo, assoluto: la determinazione unilaterale della volontà da parte della pura forma della legge. Proprio questa determinazione, del resto, costituisce l’oggetto della categoria di causa impiegata non conoscitivamente: un oggetto, come si vede, particolare perché coincidente, appunto, con un atto: la determinazione o modificazione della volontà. Sicché, se la coscienza della legge morale è una coscienza sui generis non è tanto perché è un’intuizione intellettuale,74 quanto, piuttosto, perché è una singolare coscienza operativa: una coscienza pragmatica che produce effetti e che, in questi stessi effetti, trova tutta la sua realtà; tutto il suo, pratico, significato.75

8. L’esistenza, il rispetto

Per Kant il Factum della ragione esprime l’unità, reale, dell’intelletto puro con la facoltà del desiderare e, che sia reale, come si è visto, è provato dalla determinazione immediata della volontà da parte della legge morale.76 La realtà oggettiva della volontà pura, nel 1788, è data a priori nella legge mediante un fatto che esprime, in senso trascendentale, il concetto di causalità contenuto nel concetto di una volontà libera, vale a dire il concetto di una causa noumenon. Se infatti la causalità è la categoria con cui si pensa la volontà, ossia quella facoltà di rendere reali gli oggetti di cui la ragione contiene in sé il fondamento di determinazione,77 per pensare la volontà pura, occorre solo un concetto di causalità libera. Ed è questo, in estrema sintesi, il ragionamento di Kant.78

La coscienza della libertà è, quindi, la coscienza di qualcosa che ci è dato in modo assoluto sotto forma di legge e, di conseguenza, anche l’esperienza di una radicale passività. Invero, è solo nella costrizione provocata dall’assoluta posizione della legge morale che possiamo inferire, con una sorta di deduzione istantanea, la realtà della nostra libertà, sperimentando, al contempo, di essere noumenici.79 Il pensiero del noumeno, in fin dei conti, è un pensiero senza analogia ma con oggetto reso possibile dall’uso non conoscitivo della categoria di causalità, un uso che, per come è emerso sinora, è implicato nella stessa determinazione razionale della volontà: se la si pensa, dice Kant, la si pensa libera.80 Se la si pensa, è perché si è liberi.81 In altri termini, quando afferma che l’idea di causa ha essa stessa causalità, Kant sta elevando il concetto di causa a qualcosa di simile a una condizione di effettività:82 se si pensa il noumeno, sembra suggerire, vuol dire che lo si sta usando e, viceversa, se lo si può usare è perché il noumeno, cioè la libertà, esiste, è reale.

Tuttavia, l’esistenza e la realtà della libertà, nella seconda Critica, non paiono sovrapponibili a quelle definite in rapporto alla natura in generale e all’esperienza possibile nella prima. L’esistenza, cioè, non è quella modale formalizzata dal secondo postulato del pensiero empirico; e nemmeno, però, la realtà in questione è la realtà oggettiva coincidente con la mera Notwendigkeit. La ratio cognoscendi, in realtà, non è una ratio della conoscenza ma del pensiero83 (l’essere razionale non si intuisce come causa, ma si pensa tale),84 e la ratio essendi, per parte sua, non è una ratio dell’essenza, ma dell’esistenza: un’esistenza, difficilmente «determinabile in rapporto alle tesi epistemologiche del criticismo»85 perché dell’ordine, piuttosto, di una fatticità «provata in una quasi-percezione, nell’opacità di un sentimento».86 “Rispetto”, infatti, è il nome per quella modificazione che si produce nell’animo in concomitanza con l’azione della legge morale, ossia grazie all’efficacia della libertà. Kant, a ragione, ne fa il segno diretto della ragion pura pratica e, al tempo stesso, l’effetto, sensibile, della sua, noumenica, attività: non il movente della moralità, come precisa, ma «la moralità stessa».87

9. Un factum sentito

Per Kant la determinazione della volontà è accessibile nel rispetto, inteso come lo stato d’animo di una volontà determinata in un certo modo dall’attività della ragion pura pratica. Il rispetto, cioè, funziona come un terzo termine tra legge e libertà: un termine che, nel 1788, prova la loro reciproca implicazione. Che la libertà non possa essere oggetto di intuizione né empirica né intellettuale, in altre parole, vuol dire che ad essa possiamo accedere solo tramite il sentimento, ossia grazie a una sensibilità «capace di ricevere le cose non empiricamente».88 Il rispetto, infatti, è un sentimento positivo, non empirico e conosciuto a priori: dunque un paradossale sentimento insensibile. Ed è solo per questo che, d’altra parte, in quanto «forced fact» il Factum può dirsi, parimenti, un «felt fact»,89 sebbene poi il soggetto non vi sia solamente passivo e recettivo. Il miracolo dell’etica, invero, è tale per cui la legge morale, ossia il concetto razionale di causa, è contemporaneamente la “causa” della conoscenza della libertà e l’“effetto” di questa, mentre la libertà, per parte sua, è la “causa” dell’esistenza del concetto di causa incondizionata e, simul, l’“effetto” della conoscenza da questo permessa.

Detto altrimenti, che la causalità sia durch Freiheit significa che dalla libertà la causalità è, in qualche modo, prodotta; e, viceversa, che la libertà sia l’oggetto e/o il significato della categoria di causa, vuol dire che la sua esistenza gli è, in qualche altro modo, subordinata. Sicché, è molto difficile, per non dire impossibile, stabilire cosa venga prima tra la causa e l’effetto o, in che punto, l’attività si muta in passività. Ciò che si dà originariamente è il rispetto, ossia la determinazione della volontà da parte della legge e questa, riguardata, per così dire, intensivamente, pare risultare dall’azione del noumeno sul fenomeno, mentre, riguardata estensivamente, appare viceversa il prodotto dell’applicazione di una categoria fenomenica all’incondizionato: il prodotto di un’attività. Quasi come se in gioco vi fosse, sintetizzando, un solo atto o esercizio – la determinazione o modificazione della volontà – cui è nondimeno possibile guardare da due punti di vista: secondo il primo, la determinazione della volontà somiglia all’effetto di una strana ricezione intellettuale in cui il soggetto è, essenzialmente, passivo; in accordo al secondo, invece, essa si congiunge, nel senso che ne risulta, con un’attività del soggetto: l’uso non conoscitivo di un concetto. Nel primo caso, la legge morale è il prodotto, come fatto, del noumeno come actio; nel secondo, al contrario, è quest’ultimo ad essere trovato come quella res facti cui si alluderà nel § 91 della Critica del giudizio, grazie alla prima. Ma in che modo? Come, cioè, possiamo cogliere l’interazione reciproca, e virtuosa, delle due rationes?

In proposito, bisogna dire che gli avverbi “intensivamente” ed “estensivamente” non sono stati impiegati per caso: la circolarità di ratio essendi e ratio cognoscendi richiama infatti un’altra circolarità: quella ammessa da Kant, seppur non esattamente in questi termini, tra il nulla della sensazione e l’essere del suo grado, tra il molteplice delle impressioni sensibili e la loro riunione in una grandezza intensiva. In breve, com’egli stesso si esprime nelle pagine dedicate alle Anticipazioni della percezione, quella stessa che v’è tra negazione e realtà. Ciò può stupire, posto che il secondo principio dell’intelletto puro non è un principio pratico ma fisico: il principio che, in particolare, permette di distinguere la fisica dalla matematica. E tuttavia, anche quello della percezione da esso governato, è un “fenomeno” che, a nostro avviso, non a torto potrebbe esser chiamato Factum. Anche qui, in fondo, Kant illustra una sintesi sui generis e anche qui, una categoria – quella di “realtà” – è applicata a qualcosa di diverso da un’intuizione sensibile – il caos rapsodico dei Merkmale. Neppure il risultato, però, cambia: anche la sintesi da cui nasce il grado è una sintesi il cui prodotto fornisce una singolare conoscenza del non conoscibile – il reale della sensazione –, e anche qui, come nella sintesi dell’eterogeneo permessa dalla categoria di causa impiegata non conoscitivamente, questa conoscenza è singolare nella misura in cui non è mediata da schemi ed è resa possibile da un certo, preliminare, darsi del suo “oggetto” nel modo dell’affezione.

10. Noumeno e fenomeni

Delle cose in sé, si legge nella Grundlegung, sappiamo solo «als sie uns affizieren»,90 perché la loro conoscenza ci è preclusa. La ragione, infatti, «viene eccitata nel modo che di essa è proprio da oggetti […] che sono del tutto distinti dai fenomeni»,91 ed “eccitata”, qui, vuol dire affetta, colpita. Tuttavia, la natura dell’oggetto affettante è e resta un mistero all’interno dell’idealismo trascendentale. Vi sono luoghi, nella prima Critica, in cui Kant sostiene la tesi di un’affezione noumenica e altri in cui, ad essere detti “affettanti”, sono, invece, gli stessi fenomeni, cioè le rappresentazioni. Ecco perché, uno studioso come Vaihinger, ha potuto formulare, passi alla mano, l’ipotesi di una “doppia affezione” secondo la quale vi sarebbero due affezioni distinte ma concomitanti: una da parte dei noumeni, l’altra da parte dei fenomeni.92 Questa, a suo parere, è una contraddizione della Critica e, tra coloro che hanno tentato di risolverla rifiutando l’ipotesi di una doppel Affektion in ragione della sua incompatibilità con numerosi assunti del criticismo, vi sono, com’è facile intuire, sia studiosi che scommettono sul carattere esclusivamente empirico dell’affezione, sia studiosi che, viceversa, lo negano a vantaggio della realtà, e la necessità, della sola affezione trascendentale o noumenica.93

Questi ultimi, nello specifico, non hanno dubbi sul fatto che l’oggetto affettante non sia mai una rappresentazione perché di questa, semmai, esso è la causa, il fondamento. Perciò, malgrado i loro argomenti si differenzino in ragione dell’opzione per una relazione di tipo causa-effetto o fondamento-conseguenza tra noumeno e fenomeno (e ciò sia in riferimento alla prima che alla seconda Critica), le loro strategie convergono, nondimeno, su un punto – lo stesso, peraltro, difeso da Kant sin dai tempi della lettera a Herz: il secondo oggetto, l’oggetto fenomenico, non è l’oggetto che affetta la sensibilità perché della sensibilità, al contrario, si deve dire che essa è affetta e che non può, pena il cadere in un circolo vizioso, essere affetta dagli oggetti-effetti di questa stessa affezione. Chi ammette qualcosa come un’affezione noumenica, in altre parole, lo fa giurando fedeltà a ciò che Kant ribadisce dall’inizio alla fine della sua riflessione: i fenomeni non sono tutto quel che c’è, quantunque poi, di ciò che è «fuori di noi»94 – espressione che Kant stesso giudica ambigua –, non possiamo sapere se non che ci affetta, se non, cioè, che ci sollecita alla stregua di una X ignota ma attiva. Invero, malgrado nelle successive stesure della Deduzione trascendentale

pare che l’Oggetto in sé sia andato a poco a poco nello sfondo fino quasi a scomparire, ebbene questa scomparsa in realtà non è avvenuta affatto. Ché basta che dell’Oggetto rimanga anche il solo e unico compito di far sorgere la modificazione, o di far sorgere il molteplice sensibile; basta questo perché di lui, Oggetto trascendentale, sia sempre presente in pieno tutta quanta la sua funzione.95

In virtù del legame che li tiene insieme, tenendoli sempre anche distinti, il mondo fenomenico, per Kant, è vicinissimo al mondo noumenico: la realitas phaenomenon è «costantemente tenuta in sospensione, quasi fatta vibrare, dalla ininterrotta e continua presenza del mondo noumenico»,96 per modo che, qualora si guardi a questo mondo noumenico anche come al mondo, inattingibile, della qualità pura – ed è Kant stesso ad autorizzarci a farlo nella lettera a Herz – il mondo fenomenico verrà a trovarsi a oscillare «tra la nitidezza solo formale della quantità e, in virtù della presenza ineliminabile di qualcosa – la sensazione qualitativamente appresa ma irriducibile alla quantità – la non formale realtà con caratteristiche e proprietà che non rientrano […] nel dominio dell’intelletto matematizzante»97 perché, da questo, non sono anticipabili in alcuna percezione.

11. Il factum della percezione

Per Kant l’unica cosa che del reale, del reale della sensazione, è possibile anticipare, ossia conoscere a priori, è il grado. «In tutti i fenomeni, il reale, che è un oggetto della sensazione ha una quantità intensiva»98 e, come tale, dice Kant, è anticipabile dalla percezione.99 La percezione, anzi, è questa stessa anticipazione, anche se è di un’anticipazione in senso eccezionale100 che si tratta: ogni anticipazione, difatti, presuppone la sensazione, e il reale che le corrisponde,101 all’opera.

Vi sono quindi due sensi in cui, nella prima Critica, si dice anticipazione. Secondo il primo, più tradizionale, anticipazione è ogni conoscenza con la quale è possibile determinare a priori «ciò che appartiene alla conoscenza empirica»;102 in accordo con l’altro, invece, anticipazione è, per dir così, una pre-comprensione di ciò che fonda quella stessa conoscenza empirica: la materia della sensazione.103 Invero, i fenomeni oggetto della percezione – che Kant definisce «una coscienza empirica, una coscienza, cioè, in cui al tempo stesso si trova una sensazione»104 – non sono «intuizioni pure (semplicemente formali) come sono spazio e tempo (i quali non possono essere percepiti in sé stessi)».105 I fenomeni della percezione contengono, bensì, «anche le materie per un qualsiasi oggetto in generale (materie con cui viene rappresentato qualcosa di esistente nello spazio o nel tempo), e, cioè, contengono il reale della sensazione [das Reale der Empfindung]».106 Perciò, se l’anticipazione della percezione è un’anticipazione in senso eccezionale, è perché, da un lato, diversamente dalla quantità spazio-temporale dell’intuizione, la qualità espressa dalla sensazione (Kant fa l’esempio dei colori107) è meramente empirica, soggettiva, a posteriori,108 dunque non rappresentabile a priori,109 e perché, dall’altro, «senza materia non si può pensare niente in alcun luogo».110

Ciò che rende eccezionale l’anticipazione della percezione111è, in sintesi, il fatto che, per mezzo di essa, si deve poter cogliere a priori l’a-posteriori o, ciò che è lo stesso, anticipare, nel posto, il presupposto. Sicché, almeno in linea di principio, un’anticipazione del reale della sensazione sembra impossibile posto che l’elemento dei fenomeni che non è mai conosciuto a priori, «vale a dire la sensazione (in quanto materia della percezione) […], non può mai essere anticipato».112 Anticiparlo, in fondo, vorrebbe dire inventarlo e, per Kant, com’è noto, il reale non si inventa né si deduce con e dai concetti.113 Della percezione, pertanto, non vi può essere assiomatica com’è nel caso dell’intuizione. E tuttavia, Kant stesso riconosce che,

qualora supponessimo che in ogni sensazione si trovi qualcosa che si possa conoscere a priori, come sensazione in generale, esso meriterebbe il nome di anticipazione in un senso eminente, giacché anticipare l’esperienza proprio in ciò che riguarda la sua materia, la quale può essere attinta solo dall’esperienza stessa, sembra essere qualcosa di sorprendente. Eppure qui le cose stanno proprio così.114

Che le cose stiano proprio così vuol dire che c’è uno strano elemento a priori-aposteriori, posto-presupposto cui Kant, distinguendo tra il risultato attinto con l’applicazione del primo principio matematico ai fenomeni – gli Assiomi dell’intuizione – e quello attinto con l’applicazione del secondo – le Anticipazioni della percezione – dà il nome di “grandezza intensiva”. Il secondo principio, infatti, dimostra che v’è «una struttura formale per il contenuto sensitivo in quanto tale»115 perché «every possible object of experience will, as a matter of a priori and transcendental necessity, display some determinate “degree” […] of “continuous” or “intensive magnitude” […] of “reality” […]».116

12. Il fenomeno dell’inizio dei fenomeni

Il grado, per Kant, è una paradossale quantità della qualità,117 la prima quantificazione del caos delle impressioni sensibili necessaria affinché l’intelletto possa applicarvi sopra e dentro tutti i suoi concetti. E, benché sia davvero difficile stabilire un modello di cosalità adeguato a un rilievo originario che, in tanto costituisce il riguardo primitivo della realtà della Cosa, in quanto funziona come l’embrione della conoscenza trascendentale tout court, Kant guarda nondimeno al grado come a una rappresentazione della Cosa precedente la scansione analogico-estensiva delle facoltà. L’esigenza che lo anima nelle pagine delle Anticipazioni è, infatti, fissare in una dimensione propriamente sensitiva il fondamento dello stesso schematismo.118 E tuttavia, proprio per questo, un simile fondamento non potrà essere interamente riducibile alla conoscenza di cui è il principio. In altre parole, pur risultando dalla sintesi a priori della categoria di realtà con il materiale della sensazione, il grado sarà qualcosa di «più potente»119 rispetto a questa sintesi e alla conoscenza sintetica a priori in generale: qualcosa come la grandezza eines Grundes,120 il segno di realtà per la «base del rapporto in atto in ogni attività rappresentativa»121 (il fondamento è il «solo sentito»122).

Più in particolare, riguardato come quantitas virtutis e non come quantitas molis,123 il grado è la prova che le nostre rappresentazioni sono agganciate al mondo esterno,124 ossia a un elemento oggettivo al di là della sensazione che la determina modificando lo stato del soggetto senziente.125 Kant lo chiama, a seconda dei casi, “realtà” (Realität) o “reale” (Reale) e, malgrado nella prima Critica non si pronunci mai espressamente su cosa sia, il grado resta sempre, come misura primordiale dell’impatto della “materia” sui nostri sensi,126 il ponte tra l’esperienza esterna e interna: un modulatore di frequenze del “fuori” a vantaggio del “dentro”.127 Il grado, cioè, è una frontiera tra il meramente esistente, «des rein, des bloß Existirende»,128 e la sfera del possibile-conoscibile: qualcosa di simile al contrassegno della esistenza del primo al di là, ma dentro, la seconda.129

In verità, che i fenomeni non siano tutto quello che c’è vuol dire, anzitutto, che la loro realitas non è data ma costruita, e costruita con i materiali del non costruibile: la materia trascendentale in quanto condizione di possibilità di ogni costruzione.130 Il che è quanto dire che, così come vi sono due sensi in cui si dice “anticipazione”, vi sono altresì due sensi in cui si dice “realtà”: la realtà come semplice Realität131 o Sachheit132 e la realtà come objektive Realität o Notwendigkeit, realtà intensa e realtà estesa o oggettiva.133 Solo la prima, per Kant, è graduata e, nella misura in cui differisce sia dalla realtà pensata che dalla cosa in sé, è data come qualcosa che esiste in realtà. La realtà intensa, cioè, è esistenza: un’esistenza amodale,134 «aniconica»135 e indecidibile temporalmente in quanto precede l’esperienza «che deve determinare l’oggetto della percezione in riferimento al tempo attraverso la categoria».136

13. Il factum della sensazione

Il secondo principio dell’intelletto afferma che ogni sensazione e, dunque, «ogni realtà nel fenomeno ha un grado, cioè una quantità intensiva che sempre ulteriormente diminuita».137 Ed è per questo che, seguendo Kant, bisogna immaginare una serie continua di atti percettivi, ossia tante percezioni quante sono le sensazioni avvertite.138 Ognuna funziona come una strana sintesi «perpendicolare»139 in cui il concetto di realtà si applica al materiale impuro della sensazione e, quindi, a qualcosa di diverso dall’intuizione sensibile (la sensazione non è spazio-temporale) perché coincidente, piuttosto, con una scansione priva di decidibilità (i Merkmale non sono né ordinati né orientati). In questo proto-schematismo da cui nasce il grado, di conseguenza, il nesso viene a stabilirsi tra un elemento a priori e oggettivo e un altro a posteriori e soggettivo, di modo che, il grado-prodotto-della-sintesi, sarà inevitabilmente astratto rispetto al reale delle caotiche note di cui offre una misura: astratto e nondimeno reale, reale empiricamente. Secondo alcuni interpreti, anzi, il grado è l’unica cosa reale ed è la sintesi, cioè la percezione, ad averne uno. Non, allora, come è detto nella prima edizione della Critica, la sensazione e nemmeno, come è detto nella seconda, il reale: «il grado lo ha l’esistente in quanto è il reale sensibile»,140 ossia la realitas phaenomenon.

Eppure, concludere per questa ipotesi, ossia per il fatto che l’altro factum avvenga a livello della percezione, quando non addirittura per l’ipotesi che sia la percezione stessa, è, a nostro avviso, problematico. In effetti, come è possibile e, soprattutto, cosa significa applicare una categoria a un nesso slogato di impressioni sensibili? E come immaginare un successo di questa operazione, a dire la stessa produzione del grado, senza supporre parimenti un embrione di quantità anche nella cieca e irrappresentabile qualità sensibile, ossia nella pura intensità?141 Se, per dirlo diversamente, non si suppone una sorta di intrinseca tendenza a graduarsi finanche in quest’ultima e se, pur tuttavia, il grado deve riguardarla permettendone l’anticipazione in una percezione, come immaginare che ciò accada senza, al contempo, scommettere sull’esistenza di un tropismo dei Merkmale nei confronti della quantità che ne permette l’anticipazione? Forse che tra il grado e il reale della sensazione di cui è grado non v’è alcun rapporto? Forse, cioè, che il grado è una misura a tal punto astratta da non aver alcun legame con ciò di cui è misura? Ma non è, in fin dei conti, l’obiettivo di Kant sin dai tempi della lettera ad Herz trovare il razionale dell’accordo tra le rappresentazioni e gli oggetti da cui, pure, non sono affette? Non è, cioè, l’ossessione di Kant quella che lo porta a tornare e ritornare variamente sulla questione dell’accordo tra la natura e le domande che le rivolgiamo?

A nostro avviso, malgrado si sia generalmente persuasi del fatto che la sensazione abbia un grado solo astrattamente e per ragioni didascaliche,142 si deve ipotizzare, viceversa, che la natura della Empfindung sia tale per cui essa possiede già un accenno di forma e che, di conseguenza, la vera sintesi sui generis avvenga al livello della sensazione e non a quello della percezione. Kant, del resto, non pare suggerire l’imposizione di una forma alla materia – da intendersi, qui, come materia trascendentale e non come materia-forza percettiva – ma, al contrario, una solidarietà della seconda alla prima in base alla quale, forse, non è solo astrattamente che la sensazione ha un grado. Da un certo punto di vista, anzi, bisognerebbe spingersi oltre e dire che la sensazione non ha un grado ma è un grado, e ciò nella misura in cui, al “solo sentito” – l’insensibile in quanto tale di cui Kant fornisce gli esempi del freddo e dell’ombra – non abbiamo mai alcun accesso. La sensazione, infatti, è sempre già mediazione: sempre già sentire qualcosa anziché nulla perché c’è qualcosa e non nulla – questa è la tesi di Kant – quando c’è modificazione.

14. Sintesi inferior

Noi uomini, per Kant, siamo capaci di conoscere l’ente che non siamo anche se non lo abbiamo generato. Eppure, più che di conoscenza in senso stretto, cioè di anticipazione, bisogna dire che di quest’ente abbiamo, piuttosto, una sensazione. In quanto è “il solo sentito” e, quindi, qualcosa che può essere incontrato ma mai tematizzato come tale, il fondamento si dà infatti alla stregua di un colpo, e la sensazione come modificazione non è se non la registrazione di questo impatto. Essa, nello specifico, funziona come una cerniera grazie a cui qualcosa, l’Io, si genera a partire da qualcos’altro, il non-Io, ossia, usando un’altra immagine, come un regolatore del fuori a vantaggio del dentro. Presente sin dalla nostra nascita, in effetti, quel fuori non ha, però, nella nostra nascita la sua causa. Sicché, nell’interno della soggettività trascendentale esso esisterà, ma solo come l’esterno, e sarà incluso, ma solo come l’escluso.143

La sensazione come modificazione, per Kant, è ciò che organizza questo paradossale inserimento perché, pur essendo la percezione ad esser definita come una strana sintesi asintetica in cui la categoria di realtà è applicata, verrebbe da dire non conoscitivamente, al molteplice sparso e slogato dei contrassegni cosali – i Merkmale – questa sintesi, in verità, avviene a un livello preliminare o inferior per riprendere l’Haupt-Adjektiv di Baumgarten. In altre parole, malgrado in quelle pagine dell’Analitica trascendentale che, secondo alcuni, costituiscono la premessa dell’intera Critica della ragion pura, ossia la vera Estetica trascendentale, tutto avvenga come se la sintesi da cui sgorga il grado si stabilisse tra la percezione e la materia della sensazione, se si guarda più da vicino ci si avvede che le cose, di per sé già così complicate, posto che Kant non specifica come sia possibile, concretamente, applicare una categoria – quella di realtà – alle membra disiecta delle impressioni, ossia come, concretamente, si formi il grado – non stanno proprio così, anche se questo non significa, ipso facto, che siano più complesse.

Alla lente di ingrandimento, la sensazione come modificazione risulta infatti essere essa stessa spuria,144 bifronte; essa stessa sintesi:145 per un verso, quello propriamente sensitivo, la sensazione è affezione (sensazione senza coscienza); per l’altro, quello per cui l’oggetto sentito è il risultato dell’effettuazione della sensibilità a priori, la sensazione è già apprensione, già il lavoro combinato di intuizione, immaginazione e intelletto.146 Se da un lato, quindi, la sensazione garantisce la realtà dell’esperienza, vale a dire l’esistenza empirica (la sensazione esprime l’elemento materiale147 della percezione); dall’altro, questa stessa sensazione non è che modificazione della sensibilità, ossia modificazione di qualcosa che, per essenza, a priori dice Kant, è modificabile. Per vero, è “nella” sensibilità che accadono le sensazioni-modificazioni senza che questa, come struttura, venga modificata nella sua costituzione.148 L’affezione, in breve, non fa nascere la facoltà in cui “accade” perché quest’ultima, nella misura in cui è apriori, viene prima della singola affezione, la quale, agendo nella o sulla sensibilità già presente, causa le sensazioni-modificazioni cui la continuità della sensibilità, segno della sua precedenza, assicura una connessione.

E tuttavia, la speciale struttura della sensibilità è condizione solo necessaria dell’esperienza: «la semplice forma dell’intuizione sensibile […] non è ancora punto conoscenza: [essa] non fa che presentare il molteplice dell’intuizione a priori per una possibile conoscenza».149 Di modo che, pur non potendo mai venire in noi dai sensi, «l’unificazione di un molteplice in generale (necessaria per avere un oggetto) non può neppure essere contenuta nella pura forma (sia spaziale che temporale) dell’intuizione sensibile».150 In definitiva, anzi, persino alla pura e semplice modificazione, ossia al puro e semplice rapporto βγ, è necessaria la presenza di un elemento che non risulta dalla stessa sensibilità: un elemento che, sebbene stia nell’intimo della struttura o forma sensibile, ha la sua radice altrove e, di sé, permea tutta quanta la sensibilità.

15. Estetica trascendentale

La sensazione, quindi, per un verso, si lega alla percezione e, così, anche alla triplice sintesi operata dall’intuizione, dall’immaginazione e dal concetto di cui costituisce l’avvio, ma, per l’altro, resta presa, per così dire, nelle maglie dell’affezione, che non sono, si badi, le maglie del dato ma quelle della «legge di produzione del dato».151 Se infatti la sensibilità è, in generale, «la capacità di ricevere rappresentazioni per il modo in cui siamo modificati dagli oggetti»152 e se la sensazione è, sempre in generale, «l’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa in quanto ne siamo affetti»,153 l’affezione è la condizione stessa per cui l’oggetto – il quid esterno o extrasensibile – può essere sentito come dato, vale a dire come ciò che fa effetto sulla facoltà rappresentativa.[^154] La sensazione rileva l’effetto di un “oggetto” (il grado è la magnitudo di «un certo influsso sui sensi»154), ma che l’oggetto abbia effetto (ci sia dato) – «almeno per noi uomini»155 dice Kant – è possibile solo per il fatto che «l’oggetto produce in qualche modo un’affezione (affiziere) nell’animo».156

Per Kant, riassumendo, l’insorgere della sensibilità non è sensibile: la sensazione è effetto della costituzione a priori della sensibilità quanto alla sua forma (il grado), ma non quanto al suo insorgere, vale a dire quanto al suo “contenuto”. Quest’ultimo dipende dall’intensità dello choc con cui il fuori (das Ausserste)157 ci affetta158 perché l’oggetto fenomenico insorge nella sensibilità come conseguenza dell’affezione del primo oggetto (l’oggetto trascendentale),159 e l’essenza della modificazione, sia detto per inciso, sta tutta in questo “passaggio” dal primo al secondo oggetto, dall’oggetto in sé all’oggetto per noi. Sicché, se la teoria kantiana della sensazione è particolarmente interessante è perché, da un lato, come osserva Scaravelli, si inscrive a pieno titolo nella tradizione160 facendo del reale della sensazione una rappresentazione meramente soggettiva per cui, soltanto, si acquista la coscienza che il soggetto è modificato, e perché, dall’altro, da questa stessa tradizione si discosta introducendo – ed è il cuore della rivoluzione copernicana – la distinzione tra forma e contenuto della sensibilità, ossia riconoscendo che anche i sensi – le intuizioni pure – pensano.161

Ciò nonostante, l’analisi delle Anticipazioni della percezione conduce per lo meno a supporre che vi sia un altro significato in cui i sensi pensano: un significato anteriore che, in tanto fa luce sul fatto che i veri “occhiali” con cui guardiamo la realtà non sono lo spazio e il tempo,162 ma i gradi, i gradi del reale-Sachheit, in quanto rivela che è la sensazione il trascendentale in un senso radicale e autonomo. La natura apriorica della sensazione impone infatti di misurarsi con qualcosa che precede il dato intuitivo della sensibilità: qualcosa come un riguardo preliminare della rappresentazione in cui si esprime un semplice “essere rimessi a” che non ha i caratteri del “riferirsi a” e che è proprio del solo sentire.163 In sostanza, cioè, così come si deve riconoscere che unicamente l’intuizione traduce in termini di datità quello che, pur essendo solo uno «choc»,164 rappresenta nondimeno ciò attraverso cui la datità può essere data, bisogna parimenti ammettere che solo il contenuto della sensazione è capace di risvegliare l’attenzione e sollecitarla in senso stretto.

Più in particolare, per Kant la modificazione sensitiva delimita una struttura che si potrebbe definire del «risveglio trascendentale dell’attenzione»,165 ovvero tale per cui «qualcosa sollecita e non accade, invece, che nulla solleciti».166 C’è, in altre parole, rappresentazione sensibile solo laddove qualcosa, anzitutto, si dà, e ciò sebbene lo stesso ambito della sensazione non sia significato dalla determinazione dell’esser dato. Nella misura in cui è preliminare o apriorica, la sensazione è, piuttosto, il fondamento di questa determinazione e perciò, ci pare abbia ragione Cohen quando parla, in proposito, di un «necessario trapassare dell’intuizione verso una purezza della sensazione [Reinheit der Empfindung]».167 In quanto riferimento o donazione immediata dell’oggetto, l’intuizione comincia il suo lavoro solo in seguito ad un’affezione, perché la recettività del soggetto, precisa Kant aprendo l’Estetica, «precede necessariamente tutte le intuizioni degli oggetti».168

16. Generatio aequivoca trascendentalis

In luogo di un risultato attinto con l’applicazione della categoria di realtà al materiale della sensazione, si deve allora riconoscere che il grado è, bensì, un prodotto dell’attività di quest’ultima: un prodotto come un fatto: il fatto (Tatsache) di un’attività (Tat). La sensazione, invero, è «un totum […] un atto di sintesi, il lato attivo della sensibilità cui Kant, secondo Luporini, non ha mai prestato molta attenzione».169 Essa media tra l’ordinalità dell’intenso insensibile e la cardinalità dell’esteso schematizzato, ma questa mediazione, avvenendo senza supplemento di schemi, è immediata: l’essere del sensibile e il sensibile si scambiano di posto passando per la soglia impercettibile di una x che Kant, dal saggio precritico sulle quantità negative sino all’Opus postumum pensa come un «punctum flexus contrarii».170 Tale è il grado riguardato come Zwischenempfindung anziché come Zeiteintheilung:171 un “punto” atopico ed extratemporale di indifferenza che permette il transito dall’intensità all’esteso e il rimando di questo a quella.172 In una parola: l’estensione dell’intenso e l’allusione, costitutiva dell’esteso, all’intensità.

Il passaggio dall’affectio alla perceptio o, ciò che è lo stesso, dall’occasio al conceptum è infatti un movimento automatico grazie a cui l’intenso – l’aisthētéon fuori dal tempo e dallo spazio – si estende implicandosi nell’esteso. E il grado, per parte sua, è ciò che media, come un angolo, tra la noumenicità dell’affectum e la fenomenalità, dispiegata, del perceptum. «Sensatio – dice Kant - est realitas phaenomenon»,173 ma realitas phaenomenon est gradus.174 La sensazione-modificazione, quindi, non ha un grado ma è un grado, e ha un grado in quanto è un rapporto tra due condizioni «contigue e diverse»:175 contigue perché la modificazione «è sempre la differenza tra un β e il qualsiasi γ che gli è vicino»,176 ossia la registrazione di un dislivello; diverse perché, altrimenti, non ci sarebbe modificazione. Così intesa, ossia come autentico differenziale, la sensazione agisce come l’innesco non fenomenico del fenomeno: «ciò per cui il dato è dato».177 Kant la presenta talvolta come un’incipiente coscienza dei Merkmale, talaltra come una aurorale forma della materia. Ma, in ogni caso, resta che essa funziona, sempre, come il contrassegno della solidarietà di entrambe con la demiurgia obiettivante dell’intelletto, ossia come il marchio, insaputo, della loro affinità.

Nella Critica della ragion pura, in definitiva, la conoscenza si costituisce in occasione di una sollecitazione del fuori-reale: qualcosa, dopotutto, nasce dal nulla178 per la tendenza intrinseca a un nulla che non è assoluto ad essere ma, di contro, questa esplosione, al massimo della sua distensione – che è, altresì, un massimo di rappresentazione – può, per così dire, implodere e ricadere su sé stessa trascinata da quel Fremde che l’ha generata179 e che sempre continua a pulsare al suo interno come un corpo estraneo. Detto diversamente, posto che l’intensità, per come è costituita, è strutturalmente anche la riduzione di sé ad altro – la soggettività trascendentale conoscitiva –, pure quest’altro a cui ammicca e lascia spazio contraendosi, e il cui compito è quello di anticiparla trasformando la sua solicitatio in fatto,180 non può fondarsi da sé. C’è, piuttosto, «un’unità del porre»181 o una «speculare generatio aequivoca trascendentalis»182 tale per cui, a conti fatti, è solo in concomitanza di uno choc empirico o sensazione che l’actus determinandi «entra in esercizio»183 e, viceversa, non c’è choc, o colpo, se non in relazione a un soggetto pronto a riceverlo, benché non sensibilmente.

17. Il factum del chiasma

Ciò che l’analisi trascendentale della sensazione rivela è che, da un lato, quella della soggettività pura è una trasparenza incastonata nel metallo opaco della Empfindung e che, dall’altro, una simile opacità, per strano che possa apparire, è già trasparenza, già riflessione.184 La sensazione, in fondo, «cresce in sé stessa divenendo altra»,185 ma questo divenire non è mai compiuto una volta per tutte. Prima di ogni altra cosa, le Anticipazioni della percezione sono infatti il terreno propizio a illustrare, come accennato, l’opposizione relativa tra la categoria di realtà186 e quella di negazione:187 un’opposizione tale per cui anestesia e attenzione, inevidenza e percezione non si oppongono come A e non A ma come due forze eguali e contrarie separate solo da un segno.188 «Ciò che nella intuizione empirica corrisponde alla sensazione – spiega Kant enunciando «the forgotten principle»189 – è la realtà (realitas phaenomenon); ciò che corrisponde alla sua mancanza è negazione = 0».190 Ma tra la prima e la seconda, «sussiste una catena continua, fatta di molte, possibili sensazioni intermedie, e la differenza che intercorre tra ciascuna di queste ultime, è minore di quella che intercorre tra la sensazione data e lo zero, ossia la negazione totale».191

Per Kant, la singola condizione isolata non c’è: «ciò che comincia ad esserci è sempre modificazione» e, perciò, non si dà mai l’una volta per tutte, mai una sensazione che funzioni come «l’inizio assoluto della serie».192 Questo, però, non vuol dire che la sensazione non sia prima: essa è prima, si potrebbe dire, ma senza priorità. Simile a un cominciamento primo193 che è tale, cioè primo, ma solo secondo la causa, la sensazione è, in effetti, non tempo in una duplice accezione: il suo contenuto formale è costituito dal molteplice caotico dei Merkmale tenuti insieme dal dinamismo della modificazione che non è lo stesso dell’apprensione, e la forma del riferimento che le è propria non designa un’auto-affezione del soggetto trascendentale, ma un’affezione da parte della realtà, ossia un’etero-affezione coincidente con l’andare a zero della rappresentazione. La sensazione, in sostanza, è un assedio da parte del noumeno, ossia da parte di quella realtà intensa che è l’esistenza, l’esistenza come absolute Position. Sicché, anche nei riguardi del factum della sensazione, ciò che si deve dire è che la ratio essendi e la ratio cognoscendi non le preesistono. La negazione e la realtà, ossia la materia e la forma della sensazione, non vengono prima di quest’ultima perché ciò che si dà in modo originario e inanticipabile è la modificazione dello stato del soggetto, allo stesso modo in cui, in ambito pratico, ciò che si dà in modo originario e indeducibile è la determinazione della sua volontà.

Detto altrimenti, ciò che è prior senza essere primum è l’evento di una sensazione-sentimento rispetto al quale gli eterogenei, nella forma di due differenti rationes, si può dire soltanto che saranno stati. Quello che li precede in senso trascendentale e che è sempre attualmente presente è, infatti, solo l’evento del loro nesso: un nesso che è davvero tra eterogenei perché è davvero dell’ordine di una radice comune. Non già, tuttavia, tra i due tronchi della conoscenza, ma tra il tronco della conoscenza e il tronco del suo altro; non, quindi, tra sensibilità e intelletto, ma tra il tronco della sensibilità intellettiva e quello del suo altro.194 Invero, che in entrambi i facta ne vada, in un certo qual senso, di una transustanziazione vuol dire che in entrambi i facta ne va, in un certo qual senso, di una forma che agisce come una materia e di una materia che patisce, nel senso di partorisce, la sua forma, ossia di un intelletto che sente ma solo perché i sensi, quei sensi né spaziali né temporali che sono le sensazioni, a loro volta, pensano. In altre parole, se la materia trascendentale, quella materia noumenica e attiva che, per certi versi, è l’autentica stoffa della libertà,195 non si concretizzasse, da sé, nella forma di un grado o di una legge, quest’ultima, a sua volta, non potrebbe, in quanto grado o legge, né produrla né determinarla. E, viceversa, se il grado o legge non tentasse, malgrado tutto, di anticiparla o dedurla in una forma, la realitas noumenon non si manifesterebbe, «tra gli scibilia»,196 come «una cosa di fatto».197

18. Essere spirituale senziente

Quello descritto dal Factum, allora, è un doppio movimento unico e non una duplicità di sostanze perché, in fin dei conti, è la stessa sensazione quella colta sul punto di fuoriuscire dalla materia che eternamente la contiene e quella fuoriuscita, alterata in un grado in un istante dato nel tempo. Ed è la stessa determinazione della volontà quella colta sul punto di sgorgare dalla libertà che eternamente la rende possibile e quella sgorgata, mutata in una legge nello stesso, dato, istante del tempo. Come se, in questo reciproco abbozzarsi, le due rationes si spiassero vicendevolmente fino a cogliere il momento in cui l’una sarà atta a ricevere l’altra: il perceptum l’affectum, il fenomeno il noumeno.

Tale è il momento, sommamente propizio, in cui accade la modificazione: quell’Urfaktum che, nella Critica della ragion pura, offre il miglior argomento per confutare l’idealismo di Berkeley mentre, nella Critica della ragion pratica, suggella il primato di quest’ultima sulla prima. Eppure, se la ragione è una e la libertà ci fornisce la «chiave di volta» proprio di siffatta unità,198 siamo sicuri che, una volta che si ammette, accanto al Factum der Vernunft un Factum der Empfindung, questo primato abbia ancora il senso di una vittoria di una parte della ragione sull’altra? Siamo sicuri, cioè, che solo l’uomo etico, e non anche quello dianoetico, deve somigliare a un angelo per essere tale? Non è forse l’uomo, per Kant, un essere spirituale senziente sia quando conosce che quando agisce e anzi, verrebbe da dire, proprio perché è capace di entrambe le cose? E non è questa duplice ma unitaria natura che, per Kant, si dà come un Factum che è apoditticamente certo e di cui, nell’esperienza, si può trovare un esempio nella forma di un sentimento o sensazione fondamentale?

Il medio, infatti, non è il giudizio perché i mediati, i mediati immediatamente, non sono l’intelletto e la ragione. Il medio è l’affetto: né un empfinden senza fühlen – la sensibilità intuitiva della prima Critica – né un fühlen senza empfinden199 – il sentimento giudicante della terza –, ma quel piacere-dispiacere che, prodigiosamente, si individua nell’impressione, «in qualche modo oggettivandosi o transoggettivandosi nella determinata sensazione della cosa affettante».200 Rosmini ne fece il costitutivo del soggetto nella sua realtà la quale, perciò, è la forma singolare dell’essere laddove l’idealità ne è la forma universale, il cielo stellato. Due cose, in effetti, «riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti»:201 il graduarsi del reale attorno a noi e il rispetto per la sua realtà dentro di noi.202 Ma nessuna delle due, ci avverte Kant, si trova «fuori della portata della nostra vista, avvolta in oscurità, e nel trascendente»: entrambe, bensì, le «vediamo davanti a noi e le connettiamo immediatamente con la coscienza della nostra esistenza»203 nell’immanenza assoluta di una synaisthēsis inequivocabilmente sublime.

Abstract

Cosa Kant abbia visto chiamando “Factum der Vernunft” quella moltitudine di fenomeni individuata abilmente da Lewis White Beck è, ancora oggi, incerto. E, d’altra parte, lo stesso Beck giudicava impossibile comprimerne la varietà semantica in un’unica interpretazione stante il fatto che, per di più, in alcuni suoi scritti Kant impiega il sostantivo “Factum” in riferimento ad altro ancora. Ma allora, si può escludere l’esistenza di altri facta e, più in particolare, di un Factum della sensazione? È possibile, cioè, parlare di un Factum der Empfindung analogo a quello, introdotto da Kant nella seconda Critica, come Factum der Vernunft? Scopo di questo articolo è dimostrare che il Factum della ragione non è l’unico Factum ammesso dal criticismo. Nelle pagine dell’Analitica trascendentale dedicate all’esposizione delle Anticipazioni della percezione, Kant illustra una sintesi sui generis non così diversa da quella ammessa nel 1788: una sintesi asintetica la cui condizione di possibilità è un certo, preliminare, darsi del suo “oggetto” nel modo dell’affezione.

Bibliografia delle opere di Kant

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I frammenti del lascito – Reflexionen auf dem Nachlaß 1753-1803 – sono stati tradotti dall’autore e indicati, in nota, con la sigla Ak., seguita dall’indicazione del volume e della pagina in numeri arabi separate dai due punti.

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  1. Per l’individuazione e il commento ai 6 significati cfr. Beck 1960, pp. 166 e ss.; Id. 1965, pp. 208 e ss. ↩︎

  2. KpV, A3. ↩︎

  3. Kleingeld 2010, pp. 62-65. ↩︎

  4. La fatticità della legge morale si trasmette quasi per osmosi (Carnois 1973, p. 106) alla libertà – è la “Reciprocity Thesis” di Allison (Allison 1986, pp. 393-425; Id. 1990, pp. 201-213), e la deduzione di quest’ultima funziona come deduzione anche dell’altra – è la “Disclosure Thesis” di Ware (Ware 2014, p. 15). ↩︎

  5. Sull’atemporalità del nesso legge morale-libertà cfr. Kryluc 2017, pp. 710-712 e Wolff 2009, p. 235. ↩︎

  6. Sul punto cfr. Carnois 1973, pp. 103 e ss. ↩︎

  7. Zupančič 2012, p. 45. Mathieu parla, invece, di «rapporto sinallagmatico tra forma e contenuto» (Mathieu 2014, p. 15). ↩︎

  8. Per Wolff l’unità dei due sensi del genitivo è il segno dell’unità tra la determinazione immediata della volontà e il suo effetto (Wolff 2009, p. 534 e ss.). E Macedo Rodríguez insiste sull’analiticità che lega l’attività al suo prodotto, spiegando il carattere auto-costitutivo del Faktum in termini di performatività (Macedo Rodríguez 2018, pp. 58 e ss.). ↩︎

  9. Fichte 1984, p. 87 e ss. ↩︎

  10. Beck 1965, p. 210 e ss. Per un commento al punto cfr. Allison, 1990, pp. 232 e ss. ↩︎

  11. Fichte 2000, p. 373. ↩︎

  12. Ibidem. ↩︎

  13. Ibidem↩︎

  14. La ragion pura, nel suo uso pratico, dimostra di avere una sua causalità nel produrre azioni libere. I suoi principi fondano la possibilità dell’esperienza nel senso che fondano la possibilità di oggetti pratico-morali. Gli atti morali sono questi “oggetti”: essi devono poter accadere (KrV, B835) perché la ragione lo comanda. ↩︎

  15. KpV, A81, corsivi nostri. ↩︎

  16. Ibidem↩︎

  17. Sul valore di accredito della legge morale cfr. Timmermann 2008. ↩︎

  18. KpV, A83. ↩︎

  19. Ivi, A 218. Un’offerta «non cresciuta sul suo terreno ma sufficientemente accreditata» (ibidem). ↩︎

  20. Ivi, A 9. ↩︎

  21. KpV, A98-99. ↩︎

  22. Henrich parla di «conseguenze ontologiche» dell’intuizione morale (Henrich 1994, p. 83, trad. nostra) e Gonnelli di «ontologizzazione della libertà» (Gonnelli 1991, p. 60). {#henrich-parla-di-conseguenze-ontologiche-dellintuizione-morale-henrich-1994-p.-83-trad.-nostra-e-gonnelli-di-ontologizzazione-della-libertà-gonnelli-1991-p.-60.} ↩︎

  23. «Pensare una “ragione pratica” significa, di per sé, superare, sotto qualche forma, la differenza assoluta tra la realtà e la possibilità della ragione» (Gonnelli 1991, p. 61). ↩︎

  24. KpV, A168. ↩︎

  25. KpV, A53, A74 e A189. ↩︎

  26. Alla conoscenza di un Sein oggetto della terza sezione della Grundlegung – la realtà noumenica – la seconda Critica sostituisce la conoscenza di un Sollen – la legge morale. I paralogismi e la deduzione trascendentale oggetto della seconda edizione della prima Critica hanno infatti decretato l’inconsistenza e la fallacia di qualsivoglia accesso introspettivo alla libertà dell’Io, privando così la deduzione contenuta nella terza sezione della Fondazione del suo punto d’appoggio. ↩︎

  27. KpV, A56. ↩︎

  28. Ibidem↩︎

  29. Düsing 1993, p. 41. ↩︎

  30. KpV, A74. ↩︎

  31. Ibidem↩︎

  32. Sul punto cfr. Schönecker 2013a, p. 25 e Appelbaum 1987, p. 17. In un frammento del lascito databile 1778-79 – Refl. 5436 – è Kant stesso a specificare che «la libertà è la facoltà di essere determinati solo dalla legge, e non mediatamente, ma immediatamente» (Ak. XVIII: 181, trad. nostra). ↩︎

  33. KpV, A56. ↩︎

  34. Ivi, A55. ↩︎

  35. Ivi, A81. Per Kryluc la legge morale è oggettiva e autocreantesi (M. Kryluc 2017, p. 725) ↩︎

  36. KpV, A56. «Si esta ley moral y su conciencia no pueden ser producto de una intuición sensible ni de una pura, entonces debemos aceptar que se trata del resultado de una actividad autoconstitutiva» (Macedo Rodríguez 2018, p. 60). ↩︎

  37. KpV, A82. ↩︎

  38. Ibidem. Contrari a definirla “prova” sono Luków 1993, p. 213; Wolff 2009, pp. 514 e ss. e O’ Oneill 2009, pp. 88-89. ↩︎

  39. KpV, A82. ↩︎

  40. Per Henrich questa resta una contraddizione (Henrich 1994, p. 69). Secondo Ross, in modo analogo, comprendere la forza della legge morale è un problema insolubile entro il quadro kantiano (Ross 2009, pp. 27 e ss.). ↩︎

  41. KpV, A56. ↩︎

  42. Ivi, A72. ↩︎

  43. Ivi, A96. ↩︎

  44. Ivi, A163. ↩︎

  45. Ibidem↩︎

  46. Ibidem↩︎

  47. Ivi, A81. ↩︎

  48. Ivi, A82. ↩︎

  49. Ivi, A187. ↩︎

  50. Ibidem↩︎

  51. Ivi, A 188. La causalità mediante libertà va cercata sempre al di fuori del mondo sensibile, nel mondo intelligibile. ↩︎

  52. Ivi, A 318. ↩︎

  53. Nel suo uso pratico la ragion pura ha a che fare con i fondamenti di determinazione della volontà. ↩︎

  54. Gonnelli 1999, p. 89. L’uso non conoscitivo riguarda il motivo determinante della volontà, ovvero il modo in cui la ragion pura pensa sé stessa, dal punto di vista pratico, come causa. ↩︎

  55. KpV, A72, corsivi nostri. ↩︎

  56. La stessa cosa è detta in KpV, A178. ↩︎

  57. Sull’uso “trasportato” delle leggi dell’intelletto e su un possibile senso di “trasportare” cfr. Gonnelli 1991, pp. 65 e ss. Significativamente, il verbo “versetzen” era già stato impiegato nella terza sezione della Grundlegung (GMS, B110). ↩︎

  58. Ciò è detto variamente in KrV, BX; A318; B385; B430-432; in KpV, A242-246 e nelle note n. 2796, databile tra il 1769 e il 1776 (Ak. XVI: 517) e n. 2797, probabilmente precedente il 1780. ↩︎

  59. Sul fatto che l’uso pratico della ragione sia diverso Kant si sofferma in KpV, A8, A11, A94-95. ↩︎

  60. KpV, A74-75 e A178. ↩︎

  61. Nel suo saggio, Piché riconosce il carattere speciale della categoria dinamica di causa (Piché 2004, p. 277 e p. 286). ↩︎

  62. La conoscenza della legge morale è un unicum: «il solo caso di conoscenza d’alcunché di sovrasensibile nell’universo kantiano» (Landucci 1994, p. 21). Sul carattere speciale della sittliche Einsicht cfr. anche Henrich 1994, p. 69. ↩︎

  63. KpV, A100. ↩︎

  64. Che nel Faktum della ragione ne vada di un uso trascendentale dell’intelletto è quanto ho argomentato in Campo 2020b. ↩︎

  65. KpV, A 82. ↩︎

  66. Tra coloro che, con diverse sfumature, giudicano il Faktum un argomento fallito vi sono, oltre ad Henrich, Rawls 2000, Allison 1990, Luków 1983, Guyer 2007, Wood 2008, Ross (2009), Timmermann (2010) e Schönecker (2013a/b). Sul fallimento della deduzione della libertà dalla legge morale cfr., Mohr 1988, pp. 295 e ss. Tra coloro che, invece, ritengono l’introduzione del Faktum un successo vi sono, sempre con diverse sfumature, Willascheck (1991; 1992), Franks (2005), Sussman (2008), Carvalho Chagas (2008), Wolff (2009), Kleingeld, (2010), Gates (2010), O’Neill (2011), Grenberg (2015), Zapero (2016), Britton (2016), Ware (2017), Kryluc (2017), Puls (2018), Macedo Rodríguez, (2018). ↩︎

  67. Per Wolff è apodittica come un postulato geometrico (Wolff 2009, p. 549). ↩︎

  68. Sulla circolarità viziosa della terza sezione della Grundlegung hanno insistito quasi tutti i più illustri commentatori: da Beck a Allison, da Ameriks a Landucci, da Wood a Guyer solo per fare alcuni nomi. Di quest’ultimo, in particolare, si vedano: Guyer 2000, pp. 207-232 e Guyer 2009, pp. 176-202. Di Ameriks, invece, cfr. Ameriks 1978, pp. 273-287. Sullo stesso argomento cfr. ancora Ludwig 2008, pp. 431-463. Landucci, ad es., parla in maniera decisa di “fallimento” del tentativo della Fondazione di provare la libertà (Landucci 1994, pp. 69-106). Per un’esegesi della terza sezione della Fondazione e delle sue difficoltà cfr. Allison 2000, pp. 314-324. Sulle problematicità dell’argomentazione della Grundlegung, cfr. Ameriks 2001, pp. 24-54. Ilting, invece, accusa il Kant della Fondazione di «fallacia naturalistica» (Ilting 1972, pp. 113-130; ma anche Landucci 1994, p. 93). A questa tesi si oppone Düsing (Düsing 1993, pp. 44-46). ↩︎

  69. GMS, B119. ↩︎

  70. GMS, B101. ↩︎

  71. Piché 2004, p. 286 ↩︎

  72. BWG, p. 114. ↩︎

  73. Nell’antichità in generale e, nella filosofia platonica in particolare, l’eternità è sinonimo di immutabilità e inalterabilità. ↩︎

  74. Questa è precisamente la tesi di Landucci, (Landucci 1994, p. 29): il fatto della ragione consiste in un’idea che non può essere conosciuta se non con l’intuizione proibita (ivi, p. 33). ↩︎

  75. Quella sposata da Kant, in altre parole, sarebbe una teoria pragmatista del significato ante litteram, perché affermare che il concetto di causalità empiricamente incondizionata riceve un significato pratico nella determinazione della volontà del soggetto, vuol dire che il significato coincide con un atto o abito in cui si incarna. ↩︎

  76. Questo è tutto ciò che, nel 1788, bisogna provare e, se gli esempi-esperimenti della falsa testimonianza e dell’uomo costretto a scegliere tra il piacere e la morte servono lo scopo, è perché mostrano la determinazione immediata della volontà da parte della legge morale. Al secondo dei due è dedicata, quasi interamente, la monografia di Grenberg. ↩︎

  77. KpV, A57; A160. ↩︎

  78. KpV, A96-97. Per un riassunto efficace di questo ragionamento cfr. Gonnelli 1999, pp. 88-94 e pp. 100-105. ↩︎

  79. KpV, A73-74; A175; A177. ↩︎

  80. «Nel sich selbst als praktisch zu denken è impossibile vedere il movimento della “postulazione” […] Per la stessa costituzione di questa cosa di fatto, la semplice autoriflessione della ragione implica la sua realtà» (Gonnelli 1991, p. 61). ↩︎

  81. «It’s in virtue of our freedom that we cognize our freedom» (Kain 2010, p. 12). ↩︎

  82. Secondo Carabellese (Carabellese 1969, pp. 346-348) e Scaravelli che lo commenta (Scaravelli 1967, p. 144), quando, nel §53 dei Prolegomeni, afferma che l’omogeneità, nel caso delle idee dinamiche, «non è necessaria» (Proleg., p. 148), Kant starebbe rompendo con la causa-categoria e compiendo una rivoluzione. Quella del Faktum, infatti, «is a new relation which requires a revisionary view of causality» (Appelbaum 1987, p. 25). ↩︎

  83. E il pensare, come si sa, eccede per sua natura il conoscere. ↩︎

  84. Gonnelli 1999, p. 94. ↩︎

  85. De Vleeschauwer, 1934-37, p. 590, trad. nostra ↩︎

  86. Rogozinski 1996, pp. 84-85, trad. nostra. ↩︎

  87. KpV, A134. Secondo Henrich il rispetto e la legge morale sono i due concetti fondamentali dell’etica kantiana (Henrich 1994, p. 85). Di parere analogo è Loparić (Loparić 2001, p. 68). Sul legame tra autoevidenza della legge morale e sentimento del rispetto insistono, nei lavori citati, sia Henrich che Willaschek che Schönecker nei lavori citati. Sui rapporti tra immediatezza della coscienza della legge morale e rispetto cfr. Puls 2018, il quale, peraltro, sostiene che il rispetto abbia, nella Grundlegung e nella seconda Critica, lo stesso ruolo (ivi, p. 181). Di un parere simile è Gonnelli: in entrambe è infatti l’esperienza di un’auto-coercizione a provare la realtà della libertà (cfr. Gonnelli 1991, pp. 61-62). ↩︎

  88. Grenberg 2013, p. 143. ↩︎

  89. Ibidem↩︎

  90. GMS, BA 105. ↩︎

  91. Prol. § 36, p. 115, corsivi nostri. ↩︎

  92. Della complicata, e ancora irrisolta, questione della doppia affezione sollevata da Vaihinger nel suo celeberrimo Kommentar non possiamo occuparci in questa sede. Per una breve panoramica sul problema rimandiamo a Vasconi 1988. ↩︎

  93. Per una ricognizione del dibattito cfr. anche Stang 2015.Tra i primi, cfr. ad es. Hall 2010; tra i secondi Westphal 1997. ↩︎

  94. KrV, A372-373. Secondo Carabellese, il fuori di Kant non è un vero esterno (Carabellese 1960, pp. 425 e ss.). Buchdal commenta i due sensi, fenomenico e noumenico, di “fuori” Buchdal 1989, pp. 221 e ss. ↩︎

  95. Scaravelli 1967, p. 151. ↩︎

  96. Ibidem↩︎

  97. Ivi, p. 154. ↩︎

  98. KrV, B207, ma anche B217-218 e Proleg. § 26, p. 104. Anche Hume ammette la possibilità di anticipare il grado in Hume 1978, p. 23. ↩︎

  99. Se così non fosse, Kant non esporrebbe il “principio del grado” nell’Analitica (L. Scaravelli 1967, p. 89, n. 33). ↩︎

  100. KrV, B209. “Eccezionale”, però, si trova in I. Kant, Critica della ragion pura, trad. G. Gentile, G. Lombardo Radice, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 153. Nel passo in questione, Kant dice che si tratta di un’anticipazione in senso eminente [im ausnehmenden Verstande], perché anticipare l’esperienza in ciò che riguarda la sua materia, è qualcosa di sorprendente [befremdlich] (KrV, B209). Più che di un’anticipazione, si tratta «di un’eccezione all’anticipazione» (T. Tuppini 2005, p. 216; ma anche C. Luporini 1967, p. 203). La stranezza è riaffermata in OP, p. 232. ↩︎

  101. Nella prima edizione della Critica, invece, Kant aveva formulato in questo modo il principio: «in tutti i fenomeni la sensazione, e il reale che vi corrisponde nell’oggetto (realitas phenomenon), ha una quantità intensiva, cioè un grado» (KrV, A166). A sostegno della validità della prima formulazione si è schierato, fra gli altri, Guyer (Guyer 1987, p. 199) Sull’opportunità, invece, delle variazioni introdotte nella nuova edizione hanno insistito sia Cohen (Cohen 1978, p. 80), che Heidegger (Heidegger 1989, p. 221). Secondo Giovanelli, la riformulazione è atta a scongiurare «ogni eventualità di comprendere il principio come una descrizione psicologica del comportamento delle sensazioni» (Giovanelli 2011, p. 17, trad. nostra). Eppure, in altri luoghi della prima Critica (KrV, A235; B152-153), Kant torna a oscillare sul punto. Sicché, «a suon di citazioni non si risolve l’argomento» (Scaravelli 1967, p. 170). ↩︎

  102. KrV, B208. Anticipare, in questo senso, significa anticipare i fenomeni, ossia determinare a priori ciò che è dato spazio-temporalmente (KrV, BXVII; A217-B264; A246-B303). Senza questa anticipazione non vi sarebbe trascendentalità dell’esperienza. ↩︎

  103. Qui Kant allude alla materia-forza oggetto della percezione, ossia all’integrazione del portato intensivo della Empfindung nelle strutture della objektive Vorstellung. Invero, è solo dopo la trasformazione della materia trascendentale in materia-forza, che si può parlare di un oggetto che affetta i nostri sensi e della concomitante sensazione di un oggetto: «una volta data la sensazione […] per mezzo della molteplicità di essa si possono inventare, nell’immaginazione, parecchi oggetti» (KrV, A374, corsivi nostri). Così intesa, la materia percettiva è un «Mittelbegriff» (Lachièz-Rey 1950, p. 460). ↩︎

  104. KrV, B207. ↩︎

  105. Ibidem. Insensibili, spazio e tempo lo sono in quanto «non hanno alcun grado» (Refl. 3557, Ak. 17:54, trad. nostra). ↩︎

  106. KrV, B207. ↩︎

  107. KrV, A28. ↩︎

  108. Dunque anche discontinua, posto che ciò che è a priori – la forma – per Kant è continuo (Scaravelli 1967, p. 55). ↩︎

  109. Sul punto cfr. Refl. 5875, Ak. 18:374. ↩︎

  110. KrV, A232. ↩︎

  111. L’eccezionalità di siffatta anticipazione è riaffermata in KrV, B217. ↩︎

  112. KrV, B209. Così intesa, è evidente che la sensazione ha una funzione trascendentale e che, pertanto, non può essere integralmente anticipata dalla stessa conoscenza che fonda. Secondo alcuni, questa trascendentalità della sensazione e del reale che ad essa corrisponde, è «la trascendentalità stessa dell’empirico» (Tuppini 2005, pp.12-13; pp.169-175): una trascendentalità «radicale e autonoma» (Henry 1990, p. 26, trad. nostra). ↩︎

  113. KrV, A227-B 280; A234-235; A720-B748. Sul punto cfr. anche Scaravelli 1967, p. 172. ↩︎

  114. KrV, A167-B209. ↩︎

  115. Maier 1930, p. 64, trad. nostra. ↩︎

  116. T. Jankowiak, op. cit., p. 387. ↩︎

  117. «Quantitas qualitatis est gradus» (Proleg. § 26, p. 104, n.1). Kant qui e in KrV, B414 si riferisce alla dottrina dell’intensio e remissio formarum di Baumgarten. Cfr. Baumgarten 1757, §247. Sul punto: cfr. Moretto 1999, p. 259. Per Kant «la grandezza intensiva, l’intensio, non è altro che la quantitas di una qualitas» (Heidegger 1989, p. 229): «una qualità qualunque» (Maier 1930, p. 63, trad. nostra), il semplice «Merkmal» (Tuppini 2005, p. 114), vale a dire il rilievo o contrassegno della cosa in quanto tale cui si oppone il monogramma produttivo dell’immaginazione. Per Kant, infatti, i Merkmale sono delle «rappresentazioni parziali» (Logik, p. 60, trad. nostra) di cui ci si serve per «differenziare» (KrV, A728-B756) e la sensazione come modificazione non è altro che il risveglio dell’attenzione: un passaggio dall’anestesia della disattenzione all’attenzione per forza di modificazione. ↩︎

  118. Sulla infra- o iper- schematicità del grado cfr. L. Scaravelli 1967, pp. 17-18. ↩︎

  119. Chiereghin 2000, p. 102. ↩︎

  120. PM, p. 53; Proleg. § 26, p. 104; Refl. 4411, Ak. 17:536. Per Kant la capacità che un fondamento o causa ha di produrre effetti si misura intensivamente (Refl. 4183, Ak. 17:448). E la sensazione non è altro che la manifestazione, meramente soggettiva, di questa capacità (Refl. 5853, Ak. 18:36). Sul punto cfr. Ables 2017, pp. 364-365. ↩︎

  121. Chiereghin 2000, p. 102. ↩︎

  122. Ibidem. Ciò che può essere solo incontrato (Refl. 5704, Ak. 18:331). Ma anche Deleuze 1997, p. 298. Qui, “realtà”, significa «ciò che può essere sentito [Empfindbare]» (Refl. 1250, Ak. 28:1250, trad. nostra; ma anche Refl. 6324, Ak. 18:648). Sul punto cfr. Arnoldt 1906-11, p. 80. ↩︎

  123. La grandezza intensiva di un corpo esprime la quantitas virtutis: non la somma del fenomeno, ma il grado di efficacia↩︎

  124. Quantunque Kant oscilli ripetutamente sullo statuto da attribuirgli: è il mondo dello spazio o del corpo? È empirico o noumenico? Secondo Carabellese l’unico realismo di Kant è quello della cosa in sé (Carabellese 1960, p. 428). ↩︎

  125. «La parte soggettiva della percezione è la sensazione, mentre la parte oggettiva, ossia il concetto del sentito [der Begriff des Empfundenen] è realtà [Realität]» (Refl. 6333, AA18:654, trad. nostra). ↩︎

  126. Kant non è chiaro quando si tratta di identificare la causa o fondamento delle sensazioni. Talvolta, la associa alla forza (ad es. Refl. 40, Ak.14:119; sulla relazione tra forza e sensazione in Kant cfr. Falkenstein 1995); talaltra al movimento (ad es. in MAN, 476, p. 119). Per l’individuazione e l’analisi di questi luoghi cfr. Giovanelli 2011, cap. 1, § 10. ↩︎

  127. In quanto modificazione, la sensazione è modulazione, rapporto differenziante. ↩︎

  128. Schelling 1997, p. 265. ↩︎

  129. «Il reale è ciò con cui è dato qualche cosa di esistente» (KdU, § VII, p. 30). ↩︎

  130. (Refl. 3940, Ak.17:356). Sul punto cfr. anche KrV, B117; B135; B144-145; B188-189. In altri termini, strutturata intensivamente, la sensazione conferisce effettività a un prodotto rappresentativo puro. ↩︎

  131. Kant usa spesso come sinonimi “Realität”, “Sachheit” e “Dingheit” perché ciascuno traduce il latino “realitas” (la “quidditas” della Scolastica), derivato di “res” e tradotto in tedesco con “Sache” o “Ding”. Essere reali, in questo primo senso di realtà, significa essere qualcosa (Refl. 4685, AA17:674). La realitas di una cosa, cioè, coincide con la sua determinazione quidditativa. Sul punto cfr. Cohen 1918, p. 556; Heidegger 1989, p. 226; Philonenko 1969, p. 201; Vernaux 1967, p. 95. Così inteso, il termine “realtà” risponde alla questione “che cosa è una certa cosa?”. Kant ne mutua l’accezione dal dibattito filosofico del suo tempo, in particolare dalle metafisiche di Leibniz, Wolff e Baumgarten. ↩︎

  132. Tuttavia, nelle Anticipazioni, il significato del termine “Realität” non è riducibile alla sola dimensione concettuale-qualitativa. Qui, infatti, la Realität risponde alla domanda «quanto grande» (Kaulbach 1964, pp. 201-11 e Honnefelder 1990, p. 458). Realtà, dice Kant, è «ciò che corrisponde a una sensazione in generale, e dunque è ciò il cui concetto indica [anzeigt] in sé stesso un essere» (KrV, A143-B182). «Solo tramite essa […] gli oggetti sono qualcosa [Dinge]» (KrV, A 574-B602). Più che coincidere con una determinazione quidditativo-oggettiva, nelle Anticipazioni Realität è l’indice di un nesso tra Sachheit e Dingheit dell’oggetto tale per cui la prima produce la seconda e gli oggetti sono etwas prima di essere Gegenstände. In altre parole, gli oggetti non sono qualcosa, né hanno una consistenza reale-affettiva, in virtù degli schemi: questi ultimi garantiscono l’oggettualità dell’oggetto, non la sua cosalità. Sulle diverse sfumature di “realtà” cfr. Holzhey 1984. Sulle difficoltà connesse alla distinzione tra Realität e Wirklichkeit, e una panoramica sul cosiddetto “reality problem” cfr. W. Schwarz 1987, pp. 343-46. ↩︎

  133. La realtà oggettiva è la nozione modale che delimita la completezza dell’apparato fungente della rappresentazione. Essa coincide con l’attribuzione di un significato intuitivo a una determinazione concettuale, ossia con la stessa possibilità dell’oggetto e, come realtà esteso-analogica, risulta dalla concrezione di parti temporali distinte e analizzabili. ↩︎

  134. Tuppini 2005, p. 158. O «sovramodale» (ivi, p. 152). «L’esistenza, qui, non è ancora una categoria» (KrV, B423). A questa esistenza, si contrappone l’esistenza che delimita il carattere modale dell’intentum della percezione. ↩︎

  135. Tuppini 2005, p. 163. ↩︎

  136. KrV, B423. ↩︎

  137. Ibidem↩︎

  138. Salvucci parla di «mens momentanea» (Salvucci 1963, p.184). ↩︎

  139. Scaravelli 1980, p. 58. ↩︎

  140. Scaravelli 1967, p. 173. ↩︎

  141. «La qualitative Vielheit der Merkmale» (KrV, B114). ↩︎

  142. È la tesi sostenuta, ad esempio, in Scaravelli 1967. ↩︎

  143. «Il fuori e un dentro della coscienza» (Carabellese 1960, p. 280). ↩︎

  144. In realtà Scaravelli attribuisce questo statuto spurio all’apprensione più che alla sensazione (Scaravelli 1967, pp. 158 e ss.). L’apprensione, cioè, è contemporaneamente affezione - apprensione per sensazione - e sensibilità - sintesi dell’apprensione: nient’altro, quindi, che «la proprietà di essere affetti in persona» (ivi, p. 161). Tuttavia, a questa conclusione si perviene solo in ragione della sovrapposizione tra statuto apriorico e aposteriorico, oggettivo e soggettivo, del sentire nel testo kantiano. In realtà, più che coincidere con la sensazione (la cui sintesi avviene in un istante e non per sintesi successive di sensazioni – KrV, B210), l’apprensione è, bensì, la sintesi conoscitiva il cui compito è precisamente «il toglimento di questa acefala condizione di dispersione del tutto in cui gli elementi della sensazione liberamente fluttuano» (Tuppini 2005, p. 55). Invero, fino a quando la sensazione, «in quanto contenuta nell’istante» (KrV, A99, p. 1207), si presenta ancora come «unita assoluta» (ibidem), la sintesi dell’apprensione non è cominciata. Sul punto cfr. Cohen 1918, p. 338; Lachièz-Rey 1950, p. 272; De Vleeschauwer 1934-37, p. 236. Ma anche: KrV, A120 e B150-152. ↩︎

  145. Le due funzioni sono talmente connesse tra loro da sembrare un unico elemento, ma è opportuno distinguerle (Cfr. Scaravelli 1967, p. 42; 74): la sensibilità, infatti, è la proprietà di essere affetti, mentre la sensazione-modificazione è il modo con cui la sensibilità risponde all’affezione. ↩︎

  146. C’e un aspetto empirico-materiale della sensazione che è oggettivabile e uno materiale-trascendentale che è soggettivizzabile e, malgrado Kant non faccia sempre valere questa distinzione, le sue oscillazioni sono, nondimeno, il luogo cui «si dovrebbe guardare per comprendere il secondo principio» (Giovanelli 2011, p. 7, trad. nostra). ↩︎

  147. KdU, § VII p. 30. ↩︎

  148. La sensibilità, per Kant, non è una facoltà che si trasforma in qualche altra facoltà (per es. nell’intelletto) ed è per questo che è detta precedere logicamente tutte le effettive modificazioni in quanto loro condizione a priori di possibilità ↩︎

  149. KrV, B111. ↩︎

  150. KrV, B107. ↩︎

  151. Gueroult 1929, p. 60. L’essere del sensibile non è il sensibile ma «il limite proprio della sensibilità dal punto di vista di un esercizio trascendente» (Deleuze 1997, p. 306). Invero, «ciò che sembra annunciarsi attraverso la sensazione è l’essere nel senso della effettività, la posizione dell’esistenza» (Benoist 2006, p. 233). ↩︎

  152. KrV, A19-B33. ↩︎

  153. KrV, A20-B34. «Sensazione (sensatio) è l’affezione dei sensi» (Holzhey 1970, p. 167, trad. nostra). Sul punto cfr. Benoist 2006, p. 267 ↩︎

  154. KrV, B208. ↩︎

  155. KrV, A19-B33. ↩︎

  156. Ibidem. «L’effetto di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi veniamo affetti da quest’oggetto stesso, è la sensazione» KrV, A20-B34. Non solo, quindi, l’oggetto e dato, ma «esso non può essere dato che come effetto di un’affezione» (Chenet 1994, p. 44, trad. nostra). Sicché, v’e una profonda differenza tra il regime della Affektion-Empfindung e quello della Anschaung. ↩︎

  157. KdU, § 27, p. 110. ↩︎

  158. Sul punto cfr. Marion 2001, pp. 170-171. ↩︎

  159. Il secondo principio spinge la facoltà conoscitiva sino ai suoi limiti perché esige che si attribuisca a ciò che è a posteriori par excellence (le sensazioni) e al suo corollario oggettivo (ciò che le causa) qualcosa di apriori, legittimando, secondo alcuni, l’ipotesi di un’affezione diretta del noumeno (Hogan 2009, pp. 502 e ss.) o, come dice Scaravelli, di un’ «affezione trascendentale» (Scaravelli 1967, p. 151). Del resto, se l’affezione non è strutturata intenzionalmente o conoscitivamente, parlare di affezione da parte di un oggetto dato è una contraddizione in termini: l’oggetto dato, o fenomenico, è il risultato dell’affezione non già da parte dell’oggetto ma della realtà (Tuppini 2005, p. 30). ↩︎

  160. Scaravelli 1967, pp. 42-43. ↩︎

  161. Proleg. p. 191, n.1. ↩︎

  162. KrV, B44; B121; B125. ↩︎

  163. Solo una relazione tra il soggetto e le sue Empfindungen può prescindere dal tratto del “sich-beziehen” che è presente in tutti i modi della rappresentazione oggettiva (intuizione, intelletto, immaginazione). Sul punto cfr. Prauss, 1971, p. 30 ↩︎

  164. Basch 1904, p. 433. ↩︎

  165. Tuppini 2005, p. 45. ↩︎

  166. Ibidem↩︎

  167. Cohen 1883, p. 109, trad. nostra. ↩︎

  168. KrV, A26-B42. ↩︎

  169. Luporini 1967, p. 206. ↩︎

  170. OP, p. 221. ↩︎

  171. Il grado è una Zwischenempfindung tra la realtà e il nulla: per un verso e gradiente per l’altro e grandezza-numero, Zeiteintheilung. Per un’analisi del grado in questi termini rimando a Campo 2020a e Tuppini 2005, pp. 225 e ss. ↩︎

  172. Deleuze 1997, p. 295. ↩︎

  173. KrV, B186 ↩︎

  174. «Ci sono gradi di realtà non di esistenza» (Schwarz 1987, p. 345). ↩︎

  175. Scaravelli 1967, pp. 44-45. Sullo statuto relazionale della sensazione cfr. ivi, pp. 45-49. ↩︎

  176. Ibidem↩︎

  177. Lachièze-Rey 1950, p. 29. La sensazione è la «fonte della sua realtà» (Luporini 1967, p. 205), l’ «origine del sensibile» (Philonenko 1969, pp. 196-197). ↩︎

  178. «Ogni sensazione sorge dal non essere perché è modificazione» (Refl. 5585, Ak. 18:241, trad. nostra). Il nulla, in Kant, interviene nella costituzione della forma sensitiva della realtà, ovvero come principio della produzione del reale in quanto graduato, intorno ali anni 1788-1789. Cfr. in proposito le Refl. 4411 e 5610, rispettivamente in Ak. 17:536 e 18:251. ↩︎

  179. «È solo nel punto di vista dell’estraneo [in dem Standpunkte eines Fremdes]» (KrV, A364), nel luogo senza spazio-tempo della sensazione che noi facciamo esperienza della rappresentazione Io. ↩︎

  180. La percezione è lo stornamento del reale della sensazione: «percepire significa interpretare la propria modificazione sensibile» (cfr. Sacchi 1995, p. 106). «Erdeuten» scrive anche Prauss in Prauss 1974, p. 63. ↩︎

  181. Lettera di Tieftrunk a Kant del 5 novembre 1797, in Ak. 12:213. ↩︎

  182. Tuppini 2005, p. 246. ↩︎

  183. Lachièze-Rey 1950, p. 29, trad. nostra. ↩︎

  184. L’oggettività estesa, colta nel suo inizio, non si distingue dalla realtà intensa in istato di riferimento al soggetto. ↩︎

  185. Fasolo 2005, p. 114. ↩︎

  186. Qui “Realität” indica la determinazione qualitativa che rende un oggetto, anche se solo possibile, quello che è, ossia ciò che lo rende «aliqvid sive obiectum qvalificatum» (Refl. 6338a, Ak. 18:663), di contro a ciò che, invece, è identico al niente essendo privo di determinazioni. Detto altrimenti, qui realtà=qualità (Delekat 1963, p. 125). E tuttavia, in quanto rilievo d’essere non ancora specificato, la qualità è rimessa alla sensazione che manifesta la cosa come solicitatio prima di ogni sua riduzione a Gegenständlichkeit. La qualità di una cosa come cosa, cioè, non si riduce alla sua struttura formale pura (Refl. 6317, Ak. 18:629): essa è «la realtà e ad essa corrisponde la sensazione» (Refl. 6338, Ak. 18:662, trad. nostra). ↩︎

  187. Kant non oppone realtà e apparenza (illusione), ma realtà e negazione (assenza di determinazione). ↩︎

  188. Sul nesso tra le Anticipazioni e VBGW cfr. Guyer 1987, p. 199; Giovanelli 2011, p. 41. ↩︎

  189. Uehling 1981, pp. 376-383. ↩︎

  190. KrV, A168-B210. ↩︎

  191. Ibidem↩︎

  192. Scaravelli 1967, pp. 48-49. ↩︎

  193. Come quello postulato per risolvere il terzo conflitto della ragione. ↩︎

  194. Che l’insorgenza della sensibilità non sia sensibile, in fondo, vuol dire che se tutta la sensibilità è recettività – “proprietà di essere affetti” – non tutta la recettività – “proprietà di essere affetti” – è sensibilità. C’è un altro modo di ricevere: un modo che onora assai di più la recettività di quanto non faccia la sensibilità intuitiva. ↩︎

  195. Sul punto cfr. Tuppini 2005, pp. 208-212 e Leoni 2003. ↩︎

  196. KDU, § 91, p. 352. ↩︎

  197. KDU, § 91, p. 351. ↩︎

  198. KpV, A4. ↩︎

  199. Secondo Carabellese Kant ha scisso il sentire in empfinden (prima Critica) e fühlen (terza Critica). Cfr. Carabellese 1960, pp. 561-562. ↩︎

  200. Ivi, p. 562. ↩︎

  201. KpV, A289. ↩︎

  202. In fondo, che il reale abbia un grado è, per Kant, il factum della sensazione. ↩︎

  203. KpV, A289. ↩︎