Paola Ricci Sindoni (curatrice), La sentinella di Seir. Intellettuali nel Novecento, Studium, Roma 2004.
Nel volume curato da Paola Ricci Sindoni l’appello della sentinella non può essere eluso: «Da Seir mi si domanda: A che punto è la notte?». La curatrice infatti interroga se stessa e altre undici donne, la cui voce — tanto dalle aule universitarie quanto dal chiostro del Carmelo — giunge come l’eco di quella risposta che ancora a Seir è pronunciata: «viene il mattino e quindi viene la notte; se volete domandare, domandate tornate un’altra volta». Appello incessante, teoreticamente inesauribile, sul quale poggia la riflessione intorno alla figura e al ruolo degli «intellettuali nel Novecento». Buber, Wiesel, Wittgenstein, Gramsci, Quinzio, Arendt, Stein, Heller, Hersch, Weil e Zambrano, insieme incarnano la cifra di questo messaggio che arriva con toni tutt’altro che consolatori; tuttavia, non è neppure segnato dal tragico spaesamento nell’oscurità della notte. L’impegno di quegli uomini e quelle donne sembra non sottrarsi all’inquietudine vigile, come sentinella nell’attesa del giorno, di dover distinguere nel buio, i rumori e le ombre che lo popolano senza tuttavia riempirlo.
E laddove per molti di loro questo impegno ha significato anche sopravvivenza, lungo l’attraversamento della notte, o a motivo del loro sangue ebraico o a motivo della loro scomoda femminilità o del loro scomodo pensiero, il loro messaggio non si esaurisce né si confonde col messaggero; anzi la loro stessa vita resta appello critico a non tradire l’attesa di una risposta, che seppure tarda avverrà; e in ultima istanza invoglia a ritenere che di speranza bisogna farsi messaggio, proprio a partire dall’interrogazione incessante di quel mysterium iniquitatis che per molti oggi è solo fonte di annichilita balbuzie intellettuale, mentre per loro è urlo di vittoria sulla morte.
Parafrasando il verso giovanneo 4, 22 in cui Gesù dice alla donna: «dagli ebrei la salvezza», viene fatto di sottolineare, soprattutto a beneficio di coloro che non riescono a scorgere l’accezione neotestamentaria del volume, che il carico di speranza e di duro lavoro che il messaggio implica, giunge anche qui, come a Samaria, dall’universo letto al femminile. Non femminista, dunque nuovo. Potrebbe servire anche ricordare come Wittgenstein, nel consigliare ai suoi amici la lettura di Sesso e carattere di Wieninger, coacervo di tesi misogine e riflessioni a rischio di antisemitismo, avvertisse di anteporre il segno meno davanti all’opera per comprenderne la genialità. Nel volume di Paola Ricci invece, senza far ricorso ai segni grafici della logica o della matematica, siamo di fronte ad un esercizio di pensiero in cui le dodici autrici propongono una riflessione — in molti casi riuscita — che tocca i nervi più scoperti della nostra storia, e sottopongono al filo del bisturi l’incancrenita figura dell’intellettuale e del suo ruolo oggi, per estirpare le metastasi di un pensiero o un modo d’agire reso pericoloso dai suoi stessi censori. Sedicenti intellettuali a cui siamo ormai assuefatti, troppo impegnati nell’immagine di sé o in quella di cui sono i chiosatori; convinti ma non convincenti, di un ruolo oracolare che non gli appartiene, spesso tristemente esercitato dalle cattedre universitarie a danno e pericolo delle giovani menti che li stanno a sentire; capaci solo di reinventarsi, alias riciclarsi, oppure incipriarsi con makeup mediatici pur di riuscire ad arrivare alla gente attraverso l’unico mezzo che ha ancora bisogno di loro; ma solo per fare audience: la tivù o gli scanni della politica.
A questi e al loro modo di sopravvivere si oppone il paradigma di chi, come Michea contro i falsi profeti, non teme di incassare pubblicamente lo schiaffo dei suoi contemporanei, spesso anche del suo prossimo, pur di non cedere all’attesa della sorveglianza per essere pronto, quando necessario, a lanciare o l’allarme della notte o l’annuncio dell’alba.
Dalle posizioni di avamposto delle «sentinelle di Seir» quindi l’impegno: al dialogo che prepara il riscatto dei tempi; alla «messa in opera di contromisure etiche […] volte ad impostare differenti comportamenti»; al sentire profondo di domande che sappiano ricreare «il nesso tra le proprie aspirazioni morali e l’amore per il mondo» (p. 17). In questo pensiero di genere c’è il vissuto maschile e femminile di persone che hanno attraversato con noi le tragedie della storia europea incarnandone le sofferenze, i conflitti e le devastazioni; proponendone il senso, l’argine e lo straripamento; sullo sfondo, innanzitutto, della Shoà consumata nei campi di concentramento nazista, emblema di un Caino che ci rifiutiamo ancora di interrogare; ma anche quella consumata nei pogrom, nei gulag, negli esili delle dittature comuniste e fasciste; fornendo con il loro esempio anche la cifra del «faticoso passaggio dalla dimensione pastorale dell’intellettuale moderno a quella interpretativa del pensatore critico in piena postmodernità» (p. 16).
Ci pensa la curatrice a dissipare ogni dubbio sull’identità di genere di una riflessione tutta al femminile. Paola Ricci Sindoni infatti sottolinea con chiarezza, nella sua introduzione, che l’intento è quello di guardare oltre le eccessive attenzioni che il femminismo ha riservato alla differenza, che hanno creato più separazione che distinzione; per «decodificare gli impianti teorici ancora marcati al maschile», e rileggere «il maschile e il femminile con gli occhi disincantati e realistici di chi cerca di proporre ponti di comunicazione reciproca piuttosto che muri invalicabili». Come la sentinella in Seir, gli uomini e le donne di questo volume poi, non temono la differenza del mattino e della notte, e soggiornano nella domanda, «forse segnata dal conflitto, ma intessuta anche di intrecci e di somiglianze» (p. 18).
Non ci vengono proposti in miscellanea nuovi teoremi o nuove dottrine di cui imbibire gli epigoni dell’intellettualismo etico; al contrario ci vengono proposte figure esemplari, eticamente concrete, la cui carica di messaggio è possibile leggere attraverso i paradigmi del loro essere testimoni della storia; del loro impegno alla memoria come riserva di senso da vivere piuttosto che da commemorare; del loro atteggiamento di pensiero e vita che spesso essi stessi definiscono atipico. Così ci appare Agnes Heller nelle pagine a lei dedicate (G. Costanzo, pp. 33/59). Figura di donna energica, schietta, tagliente e lucida; carica di una creatività degna di chi sa leggere nella storia sia con gli occhi del demolitore che con il piglio del costruttore. Una donna che attraversa il nostro secolo con la coscienza della testimone e che fa di questa testimonianza la ragione etica del pensiero dopo Auschwitz. Perché dopo Auschwitz per la Heller la storia non viaggia più sul treno delle grandi narrazioni che hanno costruito surrettiziamente l’identità europea, ma su quello in cui hanno viaggiato i deportati, ché di quella identità hanno rivelato l’inconsistenza. Allora la storia va ricordata, testimoniata, «reinterpretata e rivissuta soprattutto da chi l’ha condivisa». Perché la storia non diventi silenzio è necessario che i silenzi di Auschwitz vengano indagati, esplorati, interrogati, proprio come la sentinella che indaga il silenzio della notte vigilando su di essa e sugli uomini che da lei attendono l’annuncio.
Anche Hannah Arendt (L. Piraino, pp. 211/246) ribadisce la necessità di guardare alla storia. Lei, che non ha disdegnato l’isolamento intellettuale e l’ostracismo da parte ebraica, mette al bando l’approccio interpretativo delle scienze sociali e storiche ché pretendono di «normalizzare» l’azione umana, riducendola a mero comportamento, e di trasformare l’uomo moderno in una mera funzione della società. “Il vero pericolo — dice la Arendt — è che, senza accorgercene, tutti noi stiamo per diventare membri di ciò che Marx, ancora con entusiasmo, chiamava una umanità socializzata. «Arendt si scaglia contro ”gli intellettuali di professione“ che hanno confuso la funzione razionale con la capacità ragionativa; e propone, mentre lo incarna, un intellettuale che ricorre alla propria capacità critica e sa distinguere, separare, decidere e giudicare gli uomini e le circostanze storiche in cui essi si muovono. Comprendere non spiegare, è dunque l’attività del fare filosofia, anche quando di fronte all’orrore si comprende che le ragioni di chi ha scelto di agire per il male sono ”il banale». Tuttavia, se con gli occhi di chi pretende dare spiegazioni si rischia di leggere la «banalità del male» come inconsistenza delle cause, errando anche fino alle conseguenze; con gli occhi di chi vuole comprendere invece, si distingue ciò che è banale da ciò che è orrendo, per affermare energicamente quanto ciò che fu banale fu colpevolmente orrendo. È con questa distinzione che Arendt restituisce a ciascuno il proprio carico di responsabilità nella storia.
Forse proprio questo distinguere, e poi tornare a distinguere, infastidisce tanto i pensatori tipici del secolo trascorso quanto quelli di oggi. Del resto il processo pubblico che non è ancora stato fatto agli «Eichmann» della storia è quello alla religiosità umana dei totalitarismi del XX secolo; fatta di dèi e di idoli soddisfatti dai loro «sacerdoti» con riti umani, anzi con un sacrificio umano il cui fumo oscurasse la volta del cielo di Dio. Nel cercare di comprendere i nostri giorni, molti intellettuali, anche tra i più vegliardi, si sono domandati se questo Dio fosse o non fosse sparito dietro quella cortina di fumo. Molti hanno detto che il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, Gesù Cristo, non è onnipotente come aveva lasciato credere. Pochi però, prima della domanda sulla onnipotenza, si interrogano sulla potenza di Dio, che non invade mai il libero arbitrio dell’uomo; e per parte loro non sanno più quali voti elevare per invocarne l’effetto. Mentre da più parti si innalza frequente l’urlo innocente, sempre bambino, di maschi e femmine sacrificati con rituali efferati e cruenti a dèi sconosciuti che l’uomo ancora oggi si ostina a servire. La domanda allora sembra essere non più: «quale Dio?», ma «quali dèi stiamo ancora onorando attraverso i nostri sacrifici umani?» Guai all’Europa che non distingue, nella difficile ricerca di un’identità spirituale, il suo retaggio giudeo cristiano dallo spirito totalitario quando ancora si perpetua nel quotidiano, e non più quieto vivere.
C’è anche un distinguere — per tornare al volume — che è il carattere del fare filosofia di Wittgenstein che disse del suo lavoro, parafrasando Re Lear: «vi insegnerò differenze». Le pagine che lo riguardano (P. Manganaro, pp. 165/195) sono un’eccellente riflessione critica che finalmente disincaglia Wittgenstein dalle secche della filosofia analitica e dai pantani logico-filosofici, e avvia un riesame del suo pensiero «non disgiunto dall’esperienza vissuta, concreta, quotidiana, del fare filosofia.» Un pensiero guidato dalla tensione religiosa che appare, ora ancor più evidente dalle pagine di Denkbewegungen, non come carattere di eccentricità della personalità del pensatore ma il percorso principale in cui si snoda tutta la riflessione di Wittgenstein. Se la filosofia esaurisce il suo esercizio critico nella finitezza della sua Denkform, e deve accettare tutt’al più il compito di mostrare — dice Wittgenstein — «ad una mosca la via d’uscita dalla trappola»; il pensiero ritrova la sua origine di senso nella inesauribile ricchezza di una Lebensform. Nel caso poi del pensatore austriaco, questa a mio avviso, è vita religata, direbbe Zubiri, all’ineffabile, che lo attira fino ai limiti del suo dicibile; dove il linguaggio, stretto tra tautologia e contraddizione, approda al mistero, cioè al fatto dell’esistenza. Un fare dunque non sconnesso dal pensare; che è mettersi continuamente in gioco anzi, in quei «giochi linguistici» di cui egli fu scrupoloso osservatore.
Gesti del pensiero, senso della realtà e stupore «mimato» di fronte alle verità dell’uomo, si ritrovano anche tra le righe dell’opera di Jeanne Hersch, cui il volume dedica tre saggi (R. De Monticelli, R. Guccinelli, S. Tarantino, pp. 61/108). Hersch interpreta così il ruolo dell’intellettuale quando dice che l’opera filosofica diventa un’esperienza, le parole la sua metafora, le immagini un ponte tra il visibile delle nostre azioni quotidiane e l’invisibile delle nostre domande più urgenti di libertà. Le sue domande l’hanno spinta a diventare «una presenza al tempo» prima ancora che l’autrice di un’opera. Una presenza al suo tempo che la rese testimone del processo degenerativo a cui assistettero tutti gli studenti di Heidegger a Friburgo: l’esperienza «lucida, amara e decisiva» di assistere all’implosione nel vuoto, «dell’ethos filosofico» di un maestro idolo che, perduto «l’amore della verità», si trasforma in un dio convinto di poter non «servire il nazismo […] piuttosto far servire [il nazismo] ai suoi disegni profondi». Lapidaria qui l’analisi che Hersch lascia dei corsi e dei seminari di Heidegger da lei seguiti nel ’33: «nel cuore della sua filosofia troviamo questa forza, la più viva del suo pensiero, che non è, come è stato detto, la meraviglia di fronte all’essere, ma il disprezzo per tutto quello che non è questa meraviglia»; una disonestà — Unredlichkeit come la chiama Jaspers — che non crea più alcuna comunicazione; perché, continua Hersch, «nella comunicazione la vostra propria libertà conta su quella dell’altro, voi volete la libertà dell’altro perché la vostra vi ritorni più libera. Ebbene, non era così con Heidegger. Le idee che sviluppava davanti a noi, non le sottoponeva al nostro libero giudizio, secondo l’atteggiamento liberale di un filosofo; le imponeva». Eredità questa, che pesa come un macigno, sotto cui arranca ancora oggi un numero di heideggeriani confusi tra sentieri e interruzioni.
Non è interrotto il sentiero di Wiesel (C. Dobner, pp. 109/129). Spezzato, questo sì, dal dolore; frammentato dalla lotta per la sopravvivenza quotidiana nei campi nazisti, non quelli universitari ma quelli di sterminio. Spezzamento, frattura, frammento che la memoria si impone di tenere uniti. È il «buco nero» della notte da cui Wiesel salva, «nel canto», sia l’uomo che Dio; e come shomer che vigila sul nostro secolo, ci dice e ci ridice l’Amen di Auschwitz. Perché per Wiesel Auschwitz fu anus mundi, «un fenomeno unico, un evento unico, come la rivelazione al Sinai». Ecco perché il ragazzo Elie, che «non viveva […] che per Dio», diventato uomo maturo recupera quella consacrazione adolescenziale all’Eterno che lo rende profeta di una mitzwah, la 614ma: «Non concedere a Hitler vittorie postume». Contro i falsi profeti della storia, Wiesel esamina l’uomo e Dio ad Auschwitz nei successivi dieci lunghi anni di silenzio. Sopravvissuto, sa di non poter tradire la sua sopravvivenza col silenzio; e agisce nell’unico modo che gli appartiene: nell’alveo cioè di quella tradizione in cui è nato, cresciuto e nutrito. Lì ritrova infatti l’insegnamento del maestro che gli insegna come salvare il mondo con poche preghiere, con poche parole; lì si sente come nella casa del rabbì sotto il cui tetto tutti sono uniti dalla «radice dell’anima». Lì Wiesel riannoda questo stesso legame con quell’Israele in esilio sotto i tetti di Auschwitz. E se dallo Zohar egli impara che «quando Israele è in esilio, è in esilio anche la parola», Wiesel sembra caricarsi, nel ritorno, di tutte le parole che sui campi non sono state ancora dette.
Come «freccia» riposta dentro il «turcasso» è dunque il silenzio. Figura di un fallimento? No. È la risposta che la curatrice custodisce nelle pagine del suo ultimo saggio. Con Buber (P. Ricci Sindoni, pp. 277/306), l’ultima «sentinella di Seir», ricorre alla metafora dell’arciere per rivendicare alla forma profetica «l’attualità […] di un paradigma interpretativo della vita intellettuale». Come il profeta «pur caricato della responsabilità di veicolare il messaggio ricevuto, sa di non essere esente dai limiti», si espone alla delusione e al fallimento; e tuttavia «il messaggio — dice Buber — deve essere annunciato sempre. Si può fraintenderlo, misconoscerlo, abusarne, […], il pungolo resterà però vivo sempre, per tutti i tempi». Così il pensatore critico — pur nel rischio dell’«inattualità» o del «fallimento» — dovrà calare nel presente la sua vocazione intellettuale per stare «a sentinella contro le degenerazioni e le violenze del potere.» L’intellettuale che si ispira alla figura profetica, si legge ancora verso la fine del libro, non resta muto di fronte al presente o predica il disastro; abbandonandosi o al cieco destino o alla rivolta della natura se richiesto di una qualche indicazione del futuro. L’intellettuale che si ispira al profeta biblico, pur conservando il carico dei suoi limiti, custodisce la capacità reattiva e la forza innovativa dell’uomo e della storia, incamminandosi «in una direzione dove l’irrequieto andare avanti e indietro diventa un percorso coerente e la colpa viene espiata nell’autenticità dell’esistenza».
Sono dunque queste le coordinate entro cui si muovono le sentinelle di Seir; il percorso entro cui è segnato l’andare avanti e indietro, tanto del profeta quanto dell’intellettuale nel Novecento. Dell’esistenza dunque, l’autenticità oscurata dall’orrore ma mai perduta si fa «rischio, impegno personale, volontà di trasformazione […] che si adopera costantemente a rinnovare le trame sconnesse del vivere personale e sociale.» E allora si comprende come, interrotto il silenzio, tutti gli eloquenti testimoni interrogati nel volume si confrontino con la miseria delle forze umane, mentre i più sentano il carico di responsabilità del messaggio ricevuto ad Auschwitz.
Che non si trovino ancora nello Zohar le lettere per comporre le parole in esilio? Se chi si accanisce a studiare la Torah con devozione e obbedienza è disposto a soggiornare nei pardes della mistica per carpire un segreto di vita da quel «fuoco nero su fuoco bianco» che è la Scrittura; non è forse impegno di autentica esistenza anche quello di un uomo che continui a soggiornare e si interroghi coraggiosamente sui giardini dell’orrore? Non è forse speranza inestinguibile che quelle vite trasformate dalle ciminiere dei forni crematori in «fuoco bianco» e «fuoco nero», siano le lettere di una Torah non ancora devotamente e ubbidientemente studiata?